Copertina
Autore Mumia Abu-Jamal
Titolo In diretta dal braccio della morte
SottotitoloScritti dal carcere
EdizioneFandango, Roma, 2007, Documenti 28 , pag. 192, cop.fle., dim. 17x21x1 cm , Isbn 978-88-6044-037-2
OriginaleLive from Death Row [1995]
TraduttoreAnna Ongaro
LettoreGiorgia Pezzali, 2008
Classe paesi: USA
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Indice


Prefazione                                           7
Introduzione di John Edgar Wideman                  10

VITA NEL BRACCIO DELLA MORTE                        20

In bilico tra la vita e la morte                    21
Discesa all'inferno                                 33
La visita                                           36
"In tilt" su ideazione dello Stato                  38
Braccio della morte a tinte nere                    41
Da un eco nell'oscurità, un passo nella luce        46
I cavalieri della notte incontrano la rabbia        49
La vita come una partita di baseball                52
Fuorilegge legalizzati:
    la battaglia di Bobby per la giustizia          55
Il tentato omicidio di Manny                        58
Uno shock tossico                                   61
La morte dello spirito                              64
Ritorno alla morte                                  66
Giorni di dolore, notte di morte                    69
I familiari denunciano "l'inferno da campo"         72
Giorni da incubo nel Blocco B                       75

DELITTO E PENA                                      80

Campi di rifiuti umani                              81
La nera marcia della morte                          84
Stordimento schiavista II                           86
La baia degli scheletri                             89
Né legge, né diritti                                92
Due morsi di mela nel cuore di Dixie                95
Blackmun si tira fuori dal gioco della morte        99
Una giuria di pari?                                102
La testimonianza dell'esperto venuto dall'inferno  105
Chiedere di morire                                 107
Già fuori dal gioco                                109
Un disegno di legge pari al crimine                112

MEDITAZIONI, RICORDI E PROFEZIE                    114

Meditazioni su Malcolm                             115
Un mortale dejà vu                                 118
Rodney non fu l'unico                              121
L.A. fuorilegge                                    124
Assenza di potere                                  127
Clinton ghigliottina Guinier                       129
L'altro lato della Gloria                          131
Che cos'è, per un prigioniero, il 4 luglio?        134
Abitare non è sentirsi a casa                      137
Generazione perduta?                               140
Blues per Huey                                     143
Lo stordimento di Philly: memorie impressioniste   146

Postfazione                                        161
Biografia dell'autore                              176
Note                                               179
Ringraziamenti                                     186
 

 

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Pagina 7

Prefazione


Non venite a parlarmi della valle delle tenebre della morte. Io ci vivo. Nella contea di Huntingdon, centro-sud della Pennsylvania, si trova una prigione vecchia di cent'anni, le cui torri gotiche, proiettando nell'aria una sorta di presagio, evocano una tetra sensazione, da Alto Medioevo. Io, e altri settantotto uomini, trascorriamo all'incirca ventidue ore al giorno in celle di due metri per tre. Le altre due ore possono essere trascorse all'aperto, in un box recintato collegato alle catene, circondato da un reticolato a gabbioni tagliente come un rasoio, sotto l'occhio vigile delle mitragliatrici delle torrette.

Benvenuti nel braccio della morte della Pennsylvania.

Sono un po' stupito. Diversi anni fa, la Corte Suprema della Pennsylvania pronunciò la mia condanna e sentenza di morte, con il voto di sei giudici (tre non vi presero parte). In qualità di giornalista nero e attivista (ancora adolescente facevo parte delle Pantere Nere), mi ero più volte trovato a studiare la lunga storia dei linciaggi ai danni degli africani in America. Ricordo una prima pagina del giornale Black Panteer, che riportava la citazione: "Un uomo nero non ha diritti che un uomo bianco sia tenuto a rispettare", attribuita al presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti Roger Taney, in relazione allo scandaloso caso Dred Scott, in cui la più alta corte d'America aveva ritenuto che né agli africani né ai loro cosiddetti "liberi" discendenti spettavano i diritti sanciti dalla Costituzione. Forte, eh? È tutto vero.

Forse sono un ingenuo, forse soltanto uno stupido, ma pensavo che nel mio caso la legge avrebbe fatto il suo corso e che la condanna sarebbe stata revocata. Davvero.

Anche di fronte al brutale massacro contro il MOVE di Philadelphia del 13 maggio 1985, che portò all'arresto di Ramona Africa, ai casi di Eleanor Bumpurs, Michael Stewart, Clement Lloyd, Allan Blanchard e alle innumerevoli altre carneficine di neri compiute impunemente dalla polizia da New York a Miami, la mia fiducia resisteva. Anche di fronte all'implacabile ondata di terrore di Stato contro i neri, "pensavo che i miei appelli sarebbero stati accolti". Continuavo a credere fermamente nella legge degli Stati Uniti, e quando mi resi conto che il mio appello sarebbe stato respinto, ne rimasi scioccato. Potevo comprendere con l'intelletto che le corti americane sono serbatoi di sentimenti razzisti e sono storicamente ostili nei confronti degli imputati neri, ma è duro scrollarsi di dosso una propaganda lunga una vita circa la "giustizia" americana.

Non mi resta che guardare all'intera nazione, dove, alla data di dicembre 1994, i neri costituivano circa il 40 per cento degli uomini nel braccio della morte, o alla Pennsylvania, dove, alla data del dicembre 1994, 111 dei 184 uomini nel braccio della morte — vale a dire oltre il 60 per cento — sono neri. La verità nascosta sotto mentite spoglie fatte di promesse di parità di diritti è che i neri costituiscono oltre il 9 per cento della popolazione carceraria della Pennsylvania e appena l'11 per cento dell'intera America.

Come ho già detto, è dura scrollarsela di dosso, ma forse possiamo farlo insieme. Come? Provate con questa citazione, che ho trovato in un libro di diritto del 1982, di un eminente avvocato di Philadelphia, David Kairys: "La legge è semplicemente politica fatta con altri mezzi". Una linea come questa non spiega affatto come funziona veramente una corte, oggi come 138 anni fa nel caso Scott. Non riguarda "la legge", ma "la politica" attraverso "altri mezzi". Ora, non è forse questa la verità?

Continuo a combattere contro quest'ingiusta sentenza e condanna. Forse possiamo scrollarceli di dosso e fare a pezzi alcuni dei pericolosi miti inculcati nelle nostre teste come una seconda pelle – come il "diritto" a un'equa e imparziale giuria composta da nostri pari, il "diritto" a rappresentare se stessi; il "diritto" a un equo processo, pure. Questi non sono diritti – sono privilegi dei potenti e dei ricchi. Per chi non ha potere e per i poveri, queste sono solo chimere che svaniscono nel momento in cui qualcuno rivendica come qualcosa di reale o concreto. Non aspettatevi che i canali d'informazione ve lo dicano, non possono farlo, a causa dell'incestuoso rapporto tra i media e il governo e i grandi interessi economici, che entrambi asservono.

Io posso.

Anche se devo farlo dalla valle delle tenebre della morte, lo farò.

Dal braccio della morte, vi ha parlato Mumia Abu-Jamal.

Dicembre 1994

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Pagina 21

In bilico tra la vita e la morte


Affinché possa esistere una corrispondenza, la pena di morte dovrebbe punire un criminale che avesse avvertito la propria vittima della data in cui le avrebbe inflitto un'orribile fine e che, a partire da quel momento, avesse relegato la stessa alla propria mercé per mesi. Non ci si imbatte in un mostro simile nella vita privata.

ALBERT CAMUS


"In cella!'

L'ultima ora d'aria del giorno viene finalmente chiamata. "Condannati! Quarto, quinto e sesto raggio – IN CORTILE!", barrisce il corpulento secondino dall'accento rurale tanto estraneo all'orecchio urbano.

Una dopo l'altra, le serrature delle celle vengono aperte per la gita quotidiana da cella a gabbia. Ogni uomo viene perquisito da guardie armate di manganello e quindi passato al metal detector.

Non appena i detenuti sono rinchiusi nella gabbia, il cielo di mezza estate comincia a brontolare, scure nubi si addensano, gravide di elettricità e di pioggia. Un'occhialuta camicia bianca alza il suo pallido viso verso il cielo, osservando attentamente quel prodigio della natura che si avvicina veloce. I brontolii si fanno più forti mentre gocce di pioggia navigano verso terra, schizzando su acciaio, mattoni e umani.

"In cella!", urla la camicia bianca, suscitando mormorii di risentimento tra gli uomini.

"In cella?! Merda, accidenti, siamo appena usciti!"

Più che ricorrere alle minacce, le guardie decidono di adottare un atteggiamento persuasivo: "Andiamo, gente — in cella, in cella. Lo sapete che non possiamo lasciarvi qui fuori con i tuoni e i fulmini".

"Oh, e perché no? Non avrete mica paura che restiamo fulminati?", chiede un prigioniero.

"Non è una stronzata?", aggiunge un altro. "Mi sa che hanno paura che se prendiamo la scossa, perderanno lavoro e salario!"

Alcuni sghignazzano e la fila da gabbia a cella si compatta.

Sebbene solitamente sia di due ore, l'aria di oggi dura sì e no dieci minuti, per paura che quelli condannati a morte dallo Stato possano, invece, perire per colpa della fatalità.


Per circa 2400 persone rinchiuse in carceri statali e federali, la vita è diversa da qualsiasi altro istituto. Sono i condannati d'America, contrassegnati da uno stigma ben peggiore di semplice "prigioniero". Sono gli abitanti del braccio della morte d'America: uomini e donne che camminano sul filo del rasoio tra quella che è una vita a metà e la morte certa, in 34 Stati o territori sotto la giurisdizione degli Stati Uniti. Il braccio della morte più grande si trova in Texas (324 persone, di cui 120 afroamericani, 144 bianchi, 52 ispanici, 4 nativi americani e 4 asiatico-americani); quelli più piccoli sono in Connecticut (2 bianchi), New Mexico (un nativo americano e un bianco) e Wyoming (2 bianchi).

Nel braccio della morte troverete un concentrato di neri più che in qualsiasi altro ambiente. Gli afroamericani, appena l'11 per cento della popolazione nazionale, costituiscono circa il 40 per cento della popolazione del braccio della morte. Là troverete anche me.

È dal più grande braccio della morte della Pennsylvania nell'Istituto correzionale di Stato di Huntingdon, situato in una zona rurale nel centro-sud della Pennsylvania, che vi scrivo. Non sono che una delle 123 persone in attesa di morte. Vivo in questo arido dominio della morte dall'estate del 1983. Da diversi anni ormai sono assegnato al regime di CD (custodia disciplinare) per aver osato osservare la mia fede, gli insegnamenti di John Africa, e, in particolare, per essermi rifiutato di tagliare i capelli. Per questo motivo mi vengono negate le telefonate della mia famiglia, e ogni tanto vengo incatenato perché mi rifiuto di trasgredire al mio credo.

Qui la vita oscilla tra il banale e il bizzarro.

A differenza degli altri prigionieri, i detenuti del braccio della morte non "scontano una pena". Alla fine del tunnel non splende la libertà. Al contrario, la fine del tunnel porta all'estinzione. Pertanto, per molti qui, non c'è speranza.

Come in qualsiasi massiccia organizzazione semi-militare, la realtà del braccio è disciplinata da gerarchie e regolamenti. Come in qualsiasi regime che sia imposto a degli esseri umani, vi si oppone una resistenza, ma in misura molto minore di quanto si potrebbe immaginare. Per la gran parte, i prigionieri del braccio della morte sono quelli che tra tutti i detenuti si comportano meglio e creano meno problemi. È anche vero, tuttavia, che abbiamo poche opportunità di comportarci altrimenti, dal momento che in molte unità vige il sistema "22+2": ovvero 22 ore chiusi in cella e 2 ore di ricreazione fuori della cella. La ricreazione all'aperto ha luogo in una gabbia, circondata da un doppio giro di filo spinato tagliente come il rasoio: il "canile".

Tutti i bracci della morte hanno in comune un obiettivo centrale: "immagazzinare umani" in "un mondo austero in cui i prigionieri condannati sono trattati come corpi mantenuti in vita per essere uccisi". Il regime del braccio della morte della Pennsylvania è tra i più restrittivi d'America, tanto da far concorrenza all'ignobile unità della morte di San Quintino per intensità e durata della restrizione. Qualche Stato consente quattro, sei o anche otto ore fuori dalla cella, un'occupazione all'interno del carcere, o persino l'accesso a programmi educativi. Non nello Stato di Keystone.

Qui si ha poca o nessuna vita psicologica. Qui molti fuggono dall'onnipresente spettro della morte soltanto attraverso diversivi comuni come la televisione, la radio o lo sport. Sono permessi i televisori, ma non le macchine da scrivere: si possono impiegare liberamente le proprie energie nell'intrattenimento, ma uno strumento essenziale per la liberazione tramite procedure giudiziarie è considerato una minaccia alla sicurezza.

Un recluso, più interessato alla propria vita che al proprio intrattenimento, discusse animatamente con l'amministrazione carceraria per ottenere il permesso di acquistare una macchina da scrivere a non impatto, non metallica, a pile. Com'era prevedibile, il permesso gli fu negato per motivi di sicurezza. "Be', come considerereste un pezzo di vetro di 30 centimetri?", chiese il prigioniero. "Non sarebbe una minaccia alla sicurezza?"

"E dove pensi di riuscire a procurartelo?", domandò il funzionario del carcere.

"Dal mio televisore!"

Richiesta per macchina da scrivere negata.

La tivù è più che un potente diversivo da un terribile destini. È una mazza psicologica usata per minacciare coloro che osano resistere all'isolamento disumanizzante della vita nel braccio. Essere giudicato colpevole di un'infrazione istituzionale significa che si deve rinunciare alla tivù.

Dopo mesi o anni di visite prive di contatto fisico, poche telefonate, e sempre più rare possibilità di comunicare con la propria famiglia o con l'esterno, molti reclusi usano la tivù come un cordone ombelicale, un legame psicologico con il mondo che hanno perduto. Essi vi dipendono, come le persone sole accendono la tivù illudendosi di avere un po' di compagnia, e si sentono atterrite al solo pensiero di separarsene. Per molti, la perdita della tivù è un prezzo troppo alto da pagare per qualsiasi tipo di resistenza.


Umiliazione

Le visite sono un esercizio di umiliazione.

In Pennsylvania, così come in molti altri Stati, le visite prive di contatto fisico sono la norma. Non è una norma di sicurezza; è una prassi consolidata che persegue l'intento di tagliare i legami affettivi attraverso la negazione del contatto fisico tra il visitatore e il recluso. Le visite hanno luogo in una stanza chiusa, sì e no dell'ampiezza di 25 metri quadrati. Il prigioniero è ammanettato e separato da un divisorio di vetro antisfondamento, in finitura d'acciaio e sottile rete metallica.

Quello che il visitatore non può vedere, prima della visita, è uno spettacolo orripilante: la perquisizione delle cavità corporali. Una volta denudato, il prigioniero viene visitato nell'apposita stanza da un secondino con una cadenza divenuta ormai familiare:

"Apri la bocca.

Tira fuori la lingua.

Qualche protesi dentaria?

Fa' un po' vedere palmo e dorso delle mani.

Tira indietro il prepuzio.

Alza i testicoli.

Girati.

Piegati in avanti.

Apri le chiappe.

Giù sui piedi.

Vestiti".

Diversi prigionieri hanno protestato presso l'amministrazione in quanto questo tipo di perquisizioni delle cavità corporali, prima e dopo le visite prive di contatto fisico, sono ingiustificate. O permettete le visite con contatto fisico, sostengono, oppure sospendete le perquisizioni delle cavità corporali. Ma le autorità carcerarie hanno risposto a questa proposta come avevano già fatto con le ripetute richieste da parte del condannato per ottenere una macchina da scrivere: respinta, per motivi di sicurezza.

Anche per il visitatore, questo tipo di visite sono alquanto sconvolgenti. Nel caso Rhem vs Malcolm, spesso citato quale esempio delle condizioni carcerarie nello Stato di New York, il giudice Lasker ricorda la testimonianza dell'esperto Karl Menninger, ex psichiatra, il quale descriveva le visite prive di contatto fisico come "il momento più sgradevole e sconvolgente dell'intera esperienza del cartere", e una pratica che costituisce "una violazione dei più comuni principi di umanità". Il dottor Menninger ha dichiarato: "È una tal pena che di regola non rimango più di un minuto o due [...] Mi dispiace così tanto per loro, e provo vergogna di me stesso tanto da uscire dalla stanza".

L'effetto ultimo delle visite prive di contatto fisico è di indebolire, e in definitiva di tagliare, i legami familiari. Attraverso quest'indirizzo e modo di procedere, lo Stato nega consapevolmente e intenzionalmente a quanti ha condannato un elemento fondamentale, espressione di umanità: la privazione del tatto e del contatto fisico erode i legami familiari già resi flebili dalla distanza tra l'ambiente familiare e il carcere. In tal modo i prigionieri sono isolati psicologicamente così come lo sono sul piano del tempo e dello spazio. Per mano dello Stato essi diventano "morti" per quanti li conoscono e li amano e, di conseguenza, morti a se stessi. Di fatto, cosa sarebbero le persone, se non fosse per i loro cari e i loro affetti?

Scaraventati per decreto giudiziario in quest'inferno di disperazione, separati con la forza da ogni relazione, travolti dalla duplice vergogna della loro posizione e delle circostanze del crimine che ha aperto loro la porta della morte, alcuni soccombono all'oscura soluzione del suicidio. Altri combattono contro i mulini a vento, cercando disperatamente di provare la loro innocenza e di ribaltare condanne ingiuste. Altri ancora vivono così come vengono trattati: "ombre di quei [loro] stessi che erano un tempo, come in una farsa della vita, larve umane".

Per questi uomini e queste donne, l'esecuzione è un fatto già compiuto, una formalità già raggiunta nello spirito, in cui lo Stato conclude la sua messinscena premeditata mandando a morte una seconda volta il "morto".

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Pagina 115

Meditazioni su Malcolm


Grazie agli sforzi di Spike Lee, regista di primo piano, il nome di Malcolm X è tornato su milioni di labbra. Basato ampiamente sull' Autobiografia di Malcolm X, nata dalla penna del compianto Alex Haley, il film narra l'epica storia di un uomo che fu davvero più grande della vita stessa.

Questa non è, e non può esserlo, una recensione cinematogratica, dal momento che non ho mai visto il film, per motivi che appaiono ovvi. Piuttosto, vuole essere una meditazione sulla vita che ispirò sia la penna di Haley che la fantasia di Lee.

Pochi sono i neri che hanno vissuto una vita così piena di gloria e tragedia come la sua, probabilmente Martin Luther King jr., e in modo minore anche Marcus Garvey, così come il compianto cofondatore delle Pantere Nere, il dottor Huey P. Newton. Come King e Newton, anche Malcolm X fu assassinato, ma forse la similitudine si ferma qui. In quanto se l'America ha celebrato, lodato e innalzato King (più per la sua filosofia sulla non-violenza che per la sua persona), ha invece ignorato e denigrato Malcolm (così come fece per il dottor Newton, un malcolmiano, come lo erano gran parte delle Pantere Nere), i cui necrologi furono relegati in un angolo, trascurando lo splendore della sua vita, una forza che continua ad ardere nei cuori dei neri a trent'anni dal suo assassinio a New York City.

Il sistema si è servito della filosofia di vita di Martin Luther King dedicata alla non-violenza per supportare una strategia volta a proteggere i propri interessi – immaginate la nazione più violenta della terra, l'erede del genocidio indiano e africano, l'unica nazione ad aver mai sganciato una bomba nucleare sulla popolazione civile, il più grande mercante di armi del mondo, il paese che ha lanciato napalm su oltre dieci milioni di persone in Vietnam (per "salvarle" dal comunismo), il più grande carceriere del mondo che agita la salmi di King, invocando la non-violenza!

Gli appartenenti al Partito delle Pantere Nere si consideravano Figli di Malcolm (almeno molti uomini delle Pantere) per i figli maschi che non ebbe mai (Malcolm e sua moglie, la dottoressa Betty Shabazz, ebbero un sorprendente stuolo di figlie), ed ereditarono, dai suoi insegnamenti, uno dei loro principi basilari, l'autodifesa nera.

Mentre l'eloquente ed elevata capacità oratoria del dottor King toccava, commuoveva e spronava la chiesa nera del sud, le classi medio-alte e l'intellighenzia liberale bianca a predominanza ebraica, il suo messaggio non riuscì a mettere radici nella classe lavoratrice nera e urbana del nord, un aspetto osservato da un suo brillante assistente sul campo, il reverendo Ralph Abernathy, il quale nella sua autobiografia scrisse che, a Chicago, King incontrò il glaciale odio dei bianchi, l'indifferenza dei neri e fu un disastro.

I neri cresciuti nel nord preferivano un messaggio più provocatorio, di militante contrapposizione piuttosto che "porgere l'altra guancia", e Malcolm X lo fornì in termini chiari privi di compromessi. Il suo messaggio relativo all'autodifesa nera e all'autodeterminazione afroamericana colpì sia musulmani che non musulmani in modo logico e comprensibile, dato il comportamento decisamente non cristiano dimostrato dall'America nei confronti del mondo nero, meticcio, rosso e giallo.

I media, come previsto da Malcolm, avrebbero cercato di omologare, imbianchire e distorcere il suo messaggio. Molti avranno recentemente letto di lui descritto in un quotidiano come un leader dei "diritti civili" – ma questa definizione era da lui detestata! Si narra della sua "morbidezza" nei confronti dei bianchi all'indomani del suo soggiorno alla Mecca, evitando di sottolineare opportunamente che Malcolm continuava comunque a insultare gli americani bianchi, immobili nella stretta di un sistema razzista che stritola la vita dei neri – immobili! Il Malik post-Mecca trovò tra gli arabi di pelle bianca e gli europei convertiti all'Islam una unicità che riscontrò mancare negli americani. Il razzismo degli americani bianchi era talmente radicato che Malcolm/Malik percepiva l'intrinseca differenza nel modo in cui i due popoli vedevano e descrivevano se stessi. Gli arabi, che si definivano bianchi, si riferivano semplicemente alla tonalità della pelle; gli americani intendevano nel complesso qualcosa di differente: "Voi sapete ciò che egli intende quando dice 'Sono bianco', intende dire che è il boss!", tuonava Malcolm.

Malcolm, e l'uomo tornato dalla Mecca, Hajji Maliz Shabazz, erano entrambi fustigatori del razzismo americano che vedevano come un male per l'umanità assieme al Dio che aveva dato loro forma. Egli lottò – e morì – per i diritti umani all'autodifesa e all'autodeterminazione del popolo, e non per i "diritti civili", che, come ha di fatto dimostrato la Corte Suprema, cambiano da un giorno all'altro, caso per caso, amministrazione dopo amministrazione.

Dicembre 1902

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