Autore Bini Adamczak
Titolo Il comunismo raccontato a un bambino (e non solo)
EdizioneSonda, Casale Monferrato, 2018 , pag. 128, ill., cop.rig.sov., dim. 13,5x21,5x1,3 cm , Isbn 978-88-7224-002-1
OriginaleKommunismus. Kleine Geschichte, wie endlich alles anders wird
EdizioneUnrast, Münster, 2004
TraduttoreSimone Buttazzi
LettoreCristina Lupo, 2018
Classe politica , economia politica , movimenti , filosofia , scienze sociali












 

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Indice


  7  Introduzione


            PRIMA PARTE - DAL CAPITALISMO AL COMUNISMO

 11  Cos'è il comunismo?
 14  Cos'è il capitalismo?
 20  Com'è nato il capitalismo?
 26  Cos'è il lavoro?
 34  Cos'è il mercato?
 42  Cos'è la crisi?


            SECONDA PARTE - CHE FARE?

 51  Tentativo numero 1
 55  Tentativo numero 2
 61  Tentativo numero 3
 68  Tentativo numero 4
 72  Tentativo numero 5
 75  Tentativo numero 6


            TERZA PARTE - EPILOGO

 85  Costruire un desiderio comunista
 92  Lotte future, futuro conteso
 98  Critica delle critiche, negazione delle negazioni
111  Sviluppare il negativo su posizioni e prospettive
118  L'inizio


125  Note
126  L'autrice


 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE



Non fatevi ingannare dal titolo: questo libro è per i lettori di tutte le età. Certo, lo possono leggere anche i bambini. Anzi, quando inizieranno a fare domande complicate del tipo «Cos'è il capitalismo?» o «Cos'è la crisi?», gli adulti potranno rispondere leggendo loro i capitoli in cui affronto l'argomento. Ma se lo avessi concepito come un libro specificamente per bambini, lo avrei scritto in maniera differente.

Uso di proposito un «linguaggio infantile» perché è il più diretto e comprensibile, ma non significa che il mio sia un testo per l'infanzia: si rivolge a tutti coloro che sognano ancora di cambiare il mondo, e vogliono spiegarlo a sé stessi e ai loro figli. Ritengo che l'analisi della storia del capitalismo e del comunismo, con le lotte sociali che ne sono scaturite, possa aiutarci a non ripetere gli errori del passato e a trovare la risposta alla domanda fondamentale: «Come vogliamo vivere?».

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Pagina 11

Cos'è il comunismo?



Con questo termine, indichiamo la società capace di cancellare tutti i mali che affliggono le persone nella società di oggi, cioè il capitalismo. Circolano molte idee su come dovrebbe essere: ma se il comunismo è la società in grado di cancellare tutti i mali che affliggono le persone sotto il capitalismo, allora l'idea migliore è quella in grado di cancellarle tutte, queste sofferenze.

È come curare una malattia. Se il capitalismo fosse una malattia - cosa che non è - allora il comunismo sarebbe il farmaco che porta a una guarigione completa, non di un terzo né per metà. Del resto prima di ammalarci siamo sani e il farmaco deve guarirci, riportandoci alla condizione di partenza.

In questo caso non è così. Perché le persone soffrivano anche prima del capitalismo, sebbene a causa di altri mali.

Ecco perché il paragone zoppica un po'. Ciò detto, il comunismo è davvero una buona medicina, ma non una panacea: funziona solo contro i mali del capitalismo. Se, per esempio, hai la tosse e il raffreddore e prendi un farmaco contro la tosse, combatte solo quest'ultima, ma non il raffreddore. Il comunismo non guarisce quindi tutti i mali, solo quelli provocati dal capitalismo.


Per capire cos'è il comunismo e per decidere qual è la migliore tra le sue varie idee, dobbiamo perciò capire cos'è il capitalismo e come mai è dannoso per le persone.

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Pagina 14

Cos'è il capitalismo?



Il capitalismo è diffuso in tutto il mondo e si chiama così perché è la supremazia del capitale. È qualcosa di diverso dalla supremazia dei capitalisti o dalla supremazia della classe capitalista. Sotto di esso ci sono sì persone che hanno più voce in capitolo di altre, ma manca la regina o il re, che altrimenti siederebbe in cima alla società e darebbe ordini a tutti.

Ma se non ci sono più le persone che comandano le altre, chi c'è? Ci sono le cose.

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Pagina 24

Soprattutto, non riuscivano più ad arrivare a fine mese. Visto che non sapevano dove andare, si trasferirono nelle grandi città, dove abitavano già tantissimi ex contadini, anch'essi scacciati dalle proprie terre. E senza terra non potevano coltivare né vendere alcunché, dato che non possedevano nulla. Non potevano nemmeno rubare, altrimenti la polizia li avrebbe puniti. L'unica cosa che gli restava erano loro stessi. Per cui chi non voleva finire in prigione iniziò a presentarsi nelle tante fabbriche che stavano aprendo i battenti, e vendette sé stesso.

Da quel momento, tutti gli esseri umani sotto il capitalismo - con l'eccezione di quelli che si ritrovano a possedere una fabbrica - sono costretti a vendersi. Se non lo fanno, restano senza soldi e non possono comprarsi da mangiare.

Tutti vogliono mangiare, ecco perché devono andare a lavorare, piaccia loro o meno. E devono produrre cose, per esempio pistole, che lo trovino sciocco o meno. Così gli esseri umani finiscono per venire dominati dalle cose. E non c'è neanche bisogno dell'intervento dei soldati o della polizia.

Decisivo, sotto il capitalismo, è quindi il lavoro. Tutto gli ruota attorno. Chi non ce l'ha, non mangia. Anzi, la gente prende per scemo chi non ce l'ha, perché pensa che questa persona mangi a sbafo ciò che hanno prodotto gli altri.


Per capire meglio come funziona il capitalismo, ora dobbiamo osservare più da vicino cos'è questo lavoro.

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Pagina 30

Dov'eravamo rimasti? Oh sì, le fabbriche. Visto che gli esseri umani le hanno costruite molto grandi e in grosse quantità, le devono ascoltare parecchio. E le fabbriche, come gli uffici, dicono sempre le stesse tre cose:

1. Come

2. Cosa

3. Quanto devi produrre.

Quindi, per esempio, la fabbrica dice alle operaie e agli operai di sedersi ogni sera intorno a un tavolo e parlare tutta la notte; oppure di passarsi delle cose l'un l'altro. Altri operai devono restare a casa tutto il giorno a stirare. Magari la fabbrica dice a qualcuno di martellare dei chiodi e a qualcun altro di accendere e spegnere il computer e scrivere intere pagine su un tema che la fabbrica stessa si è inventato. A una terza persona può dire di costruire delle pistole.

Poi dice anche quanto produrre di ogni cosa. Per esempio, battere cento chiodi in un'ora, stirare la biancheria di casa o scrivere cinque pagine al computer ogni giorno.

Inoltre decide quanto si guadagna per questi lavori: un biglietto del cinema per battere i chiodi, zero biglietti del cinema per fare il bucato e cento biglietti del cinema per giocare a fare il capo.

Però un operaio non vorrebbe martellare chiodi tutto il giorno, anzi preferirebbe scrivere qualche pagina al computer e magari quattro, non cinque. E l'altro operaio non vorrebbe solo starsene lì a stirare, ma sedersi ogni tanto insieme ai compagni o, ancora meglio, fare di tutto un po': un po' stirare a casa, un po' sedersi attorno a un tavolo e la sera scrivere dei testi. E il terzo operaio, per intenderci, non vorrebbe avere niente a che fare con le pistole vere.

Ma quando vanno in fabbrica e vogliono avanzarle, queste proposte, ecco che la fabbrica fa finta di non sentire e di non capire nulla. Del resto, non è altro che un edificio di mattoni, macchinari e plastica, quindi non ha mica le orecchie.

Allora la gente sospira, torna alla propria postazione di lavoro e le tocca constatare che la fabbrica è stata sì costruita dagli esseri umani, ma non ha alcun interesse per loro: non le interessa se sono felici, se sanno quello che producono e perché. L'unica cosa che le interessa è produrre e vendere il più possibile.

Ecco perché vuole che le persone siano felici: perché così si vende di più. Quindi però le persone dovrebbero essere felici anche quando non lo sono affatto. E ciò non le rende esattamente felici. Ma si vende di più, che è l'unica cosa che interessa alla fabbrica. Perché se vende molto, può comprare altri operai e altri macchinari. Che possono produrre sempre più ferri da stiro, testi o pistole. Così la fabbrica può vendere ancora di più.

Se la fabbrica non s'interessa agli esseri umani, e se gli esseri umani devono interessarsi a ciò che interessa alla fabbrica, cioè solo a comprare e a vendere, allora, be', questa cosa ha l'aria di essere molto importante.

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Pagina 85

Costruire un desiderio comunista



La fine della Storia è finita. Francis Fukuyama l'ha detto nel 1992, intendendo che non vi sono alternative al capitalismo liberale - per sempre. Non c'è voluta un'eternità prima che questa narrazione venisse messa in discussione in quanto ideologia borghese - nel 1994 dagli zapatisti in Chiapas, nel 1999 dai movimenti no global a Seattle, nel 2001 a Genova - ma allo stesso tempo era fuori di dubbio che quella affermazione descrivesse una realtà. Confermata proprio dai suoi detrattori.

Perché in nessun altro momento storico lo slogan «Un altro mondo è possibile» avrebbe fatto scendere in piazza tante persone. Mentre le domande impellenti delle epoche precedenti vertevano su quale fosse il più desiderabile tra i mondi possibili, e quando sarebbe finalmente arrivato, di punto in bianco ci si è domandati se esista un'alternativa allo status quo.

La fine della Storia ha rappresentato inoltre una realtà storica a livello globale, emersa col crollo dell'Unione Sovietica e confermata dieci anni più tardi dall'11 settembre 2001. Ha cambiato i motivi centrali con cui le diverse visioni politiche cercano di legittimarsi: la paura di un peggioramento del presente ha preso il posto della speranza in un futuro migliore. E questo presente, che continuava a far peggiorare la vita della maggioranza delle persone, sembrava durare all'infinito.


Com'è potuto accadere che, nel presente segnato dalla fine della Storia, si potesse scrivere qualcosa sulla fine della Preistoria, cioè sul comunismo? Ed è possibile scrivere ancora di comunismo nell'era postcomunista, senza cedere a un pathos stucchevole e inappropriato? Me lo sono chiesta nel 2004, quando in Germania è uscita la prima edizione del libro. La Storia sembrava - da un pezzo, ormai - non essere più dalla parte dei comunisti. L'oggettivo grido di trionfo del vincitore, che guarda alle leggi della Storia manco fossero leggi di natura, proprio per questo motivo era diventato anacronistico, così com'erano diventati patetici i precetti morali dei manifesti impegnati e delle canzoni rivoluzionarie.

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Pagina 92

Lotte future, futuro conteso



Cos'è il comunismo? Una società in cui tutti ricevono il medesimo salario, in cui la promessa borghese dell'uguaglianza si esaudisce in chiave materiale? Una società che, come sostengono i suoi detrattori, rende tutti uguali, ugualmente poveri e ugualmente scadenti, che ricompensa i «pigri» e frena i «laboriosi», considerato che soffoca gli stimoli a fare di più ( vedi Tentativo numero 1)?

Oppure una società in cui i mezzi di produzione vengono equamente distribuiti e sono quindi proprietà di coloro che li usano, una società in cui tutti producono in autonomia e vige uno scambio equo, dal momento che il denaro è stato abolito ( vedi Tentativo numero 2)?

O ancora è una società in cui le differenze sociali risultano livellate in seguito all'abolizione del possesso dei mezzi di produzione, una società in cui ognuno riceve l'ammontare di ricchezza sociale pari a quanto ha prodotto, gli interi «proventi del lavoro» senza trattenute, senza sfruttamento ( vedi Tentativo numero 3)?

[...]

Nel comunismo l'umanità in quanto soggetto collettivo diventa finalmente sé stessa appropriandosi di un mondo che comunque le appartiene, considerato che l'ha fatto lei? O la comunità comunista non può produrre né presentare alcun lavoro comune, in quanto priva di un'essenza umana da realizzare o rappresentare? Una comunità o una società comunista che impara a dare il benvenuto all'indisponibilità del sociale, e non a controllarla? Quindi un comunismo non dell'appropriazione ma della «exappropriazione», senza centro e unità - community without unity - in cui le cose, le persone, gli animali e altro ancora si uniscono in maniera nuova?

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Pagina 118

L'inizio



Eppure sulla possibilità del desiderio comunista non grava solo la fine della Storia, ma soprattutto la fine della rivoluzione. Il 1989, ma anche e a maggior ragione il 1939, il 1938, via via fino al 1921 e al 1917.

Alla luce dei tentativi fallimentari del XX secolo di realizzare una società comunista, la domanda su come dovrebbe essere il comunismo e cosa dovrebbe diventare ha forse come risposta il silenzio? Può esistere un riferimento al comunismo capace di bypassare la Storia, i muri delle generazioni, di lasciarsi motivare dall'illusione di accedere a un testo marxista originario e incontaminato? Oggi può chiamarsi comunista chi si rifiuta, in preda alla vergogna, di assumersi la responsabilità per l'eredità dello stalinismo e delle sue vittime?

Alla richiesta di un'assicurazione che ci protegga dal rischio rivoluzionario, si risponde però altrettanto in fretta con la promessa da quattro soldi che la prossima volta andrà in maniera più democratica, o con l'affermazione solo all'apparenza più radicale che non è possibile descrivere a parole il comunismo. Questo divieto di concepire immagini, contrapposto alla possibilità di sognare una ripetizione del presente, diventa una bugia che cela l'incubo della reale possibilità di una ripetizione del passato.

[...]

Mentre i movimenti rivoluzionari, come tutti gli altri che li hanno preceduti, sono minacciati dalla loro stessa corruzione (a volte anche antisemita), in tutto il mondo vi sono movimenti reazionari, fascisti, islamisti pronti all'azione. Dall'Ungheria alla Grecia fino alla Siria, all'Ucraina. Le strategie reazionarie per superare la crisi consistono nella segregazione sessista, nell'esclusione razzista e - un successo, guardando alla Storia - nel nazionalismo, nel riarmo keynesiano, nell'eliminazione della concorrenza, nella distruzione «produttiva» del capitale. In altre parole, nella guerra.

Le rivoluzioni democratiche devono mettere fine al peggio e allo stesso tempo evitare il peggio. In questo frangente, il celebre motto della rivoluzionaria Rosa Luxemburg sembra di nuovo affacciarsi al balcone della Storia: socialismo o barbarie. E dire che il socialismo storico è a sua volta sfociato in nuove forme di barbarie: nel tentativo di abolire la schiavitù, si è coperto di ridicolo in modo imbarazzante e duraturo.

Oggi tuttavia, a causa della crisi mondiale e delle ribellioni globali, anche il modello liberaldemocratico del capitalismo sta perdendo molto del fascino che negli anni Novanta ha potuto esercitare sui Paesi del Patto di Varsavia. L'«etemo presente» del capitale è, al momento, finito. Per la prima volta dopo tanto tempo, l'orizzonte della Storia è aperto.

Fatevi avanti.

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