Autore Chimamanda Ngozi Adichie
Titolo Quella cosa intorno al collo
EdizioneEinaudi, Torino, 2017, Supercoralli , pag.220, cop.rig.sov., dim. 14x22x2,3 cm , Isbn 978-88-06-20100-5
OriginaleThe Thing Around Your Neck [2009]
TraduttoreAndrea Sirotti
LettoreGiorgia Pezzali, 2017
Classe narrativa nigeriana , narrativa statunitense , paesi: USA , paesi: Nigeria












 

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Indice


  3   Cella Uno

 23   L'imitazione

 43   Un'esperienza privata

 57   Spettri

 75   Il lunedí della settimana prima

 95   Jumping Monkey Hill

113   Quella cosa intorno al collo

127   L'ambasciata americana

141   Il tremito

165   I combinamatrimoni

183   Domani è troppo lontano

193   La storica testarda


215   Ringraziamenti


 

 

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Pagina 3

Cella Uno


La prima volta che ci hanno rubato in casa, è stato il nostro vicino Osita a entrare dalla finestra della sala da pranzo e a far sparire la tv, il videoregistratore e i nastri di Purple Rain e Thriller che mio padre aveva portato dall'America. La seconda volta, è stato mio fratello Nnamabia a fingere un furto con scasso e a rubare i gioielli di mia madre. È successo di domenica. I nostri genitori erano andati a trovare i nonni a Mbaise, la nostra città natale, e Nnamabia e io eravamo andati a messa da soli. Aveva guidato lui la Peugeot 504 di mia madre. In chiesa ci eravamo messi l'uno accanto all'altra, come al solito, ma senza darci di gomito e soffocando le risate se qualcuno aveva un brutto cappello o il caffettano logoro, perché Nnamabia era uscito senza una parola dopo dieci minuti, tornando appena prima che il prete dicesse: «La messa è finita, andate in pace». Ero un po' infastidita. Immaginavo che fosse andato a fumare o a incontrare una ragazza, visto che per una volta aveva la macchina tutta per sé, ma almeno avrebbe potuto dirmelo. Eravamo tornati a casa in silenzio e, dopo che ebbe parcheggiato nel nostro lungo vialetto, ero scesa a raccogliere dei fiori di ixora mentre lui apriva il portone. Entrando, lo avevo trovato impietrito in mezzo al salotto.

— Ci hanno derubato! — aveva detto in inglese.

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Pagina 23

L'imitazione


Nkem sta fissando gli occhi sporgenti e obliqui della maschera del Benin sulla mensola del caminetto in soggiorno mentre la informano che suo marito ha la ragazza.

— È giovanissima: ventun anni o giú di lí, — le dice al telefono l'amica Ijemamaka. — Ha i capelli corti e ricci... hai presente, quei ricciolini fitti. Non usa il lisciante, ma solo un ristrutturante, credo. So che alle giovani piacciono i ristrutturanti. Non te lo direi, sha, so come sono fatti gli uomini, ma ho sentito dire che si è trasferita a casa tua. Cose che capitano, quando sposi uno ricco —. Ijemamaka fa una pausa e Nkem la sente inspirare, un suono deliberato, esagerato. — Intendiamoci, Obiora è certamente un brav'uomo, — prosegue Ijemamaka, — ma portare la sua ragazza a casa tua? Non c'è rispetto. Scorrazza per Lagos coti le macchine di lui. L'ho vista coi miei occhi passare da Awolowo Road al volante della Mazda.

— Grazie per avermelo detto, — dice Nkem. Immagina la bocca di Ijemamaka raggrinzirsi, come uno spicchio d'arancia succhiato, una bocca logorata dal troppo parlare.

— Dovevo dirtelo. A che servono le amiche, sennò? Cos'altro potevo fare? — risponde Ijemamaka, e Nkem si chiede se è allegria, quel tono eccitato nella voce, quel suo soffermarsi sul verbo «fare».

Per il quarto d'ora che segue Ijemamaka parla della sua visita in Nigeria, di come i prezzi siano aumentati dall'ultima volta che ci era tornata, perfino il garri, ormai, è carissimo. Di come sempre piú ragazzini vendano negli ingorghi del traffico, di come l'erosione si sia mangiata pezzi della strada principale che porta alla loro città d'origine nello stato del Delta. Nkem schiocca la lingua e sospira nei momenti giusti. Evita di ricordare a Ijemamaka che anche lei è tornata in Nigeria qualche mese prima, a Natale. Non le dice che ha le dita intorpidite, che preferirebbe che non avesse chiamato. Alla fine, prima di riattaccare, promette di portare i bambini a farle visita nel New Jersey uno di quei fine settimana, promessa che sa non manterrà.

Va in cucina, si versa un bicchiere d'acqua e poi lo lascia sul tavolo, intatto. Tornata in soggiorno, guarda la maschera del Benin, del colore del rame, con i lineamenti astratti e sproporzionati. I vicini la definiscono «nobile»; e proprio per quella maschera la coppia che abita a due case di distanza si è messa a collezionare arte africana, finendo come loro per accontentarsi di buone imitazioni, sebbene ami parlare di quanto sia difficile trovare degli originali.

Nkem immagina la gente del Benin che quattrocento anni prima aveva scolpito le maschere originali. Obiora le aveva detto che usavano quelle maschere alle cerimonie reali, mettendole da un lato e dall'altro del re per proteggerlo, per tenere lontano il male. Solo individui selezionati potevano custodirle, gli stessi che avevano l'incarico di procurare le teste umane usate per la sepoltura del re. Nkem immagina quegli uomini fieri, muscolosi, con la pelle bruna luccicante di olio di palma e graziosi perizomi intorno ai fianchi. Immagina — e questo lo immagina da sola perché Obiora non aveva suggerito niente del genere — quegli uomini fieri rammaricarsi di dover decapitare degli sconosciuti per seppellire il re, di non poter usare le maschere anche per proteggere se stessi e di non avere voce in capitolo.




Quando era andata per la prima volta in America con Obiora, era incinta. La casa che lui aveva affittato, e in seguito comprato, aveva un odore fresco come di tè verde, e il breve vialetto era ben coperto di ghiaia. Abitiamo in una bella zona residenziale vicino a Philadelphia, spiegava per telefono agli amici di Lagos. Mandava loro fotografie di lei e Obiora vicino alla Liberty Bell, scrivendo orgogliosa sul retro Di grande importanza nella storia americana e includendo dépliant patinati che mostravano la faccia di uno stempiato Benjamin Franklin.

I vicini di Cherrywood Lane, tutti bianchi, magri e dai capelli chiari, erano venuti a presentarsi chiedendo se aveva bisogno di aiuto per qualcosa: prendere la patente, mettere il telefono, trovare qualcuno per piccole manutenzioni. Non le importava se a causa del suo accento, del suo essere straniera, la credevano un'incapace. A lei piacevano loro e la loro vita. Una vita che spesso Obiora chiamava «di plastica». Eppure sapeva che anche lui avrebbe voluto che i suoi figli fossero come quelli dei vicini, il tipo di bambini che schifavano il cibo caduto per terra dicendo che si era «rovinato». Nella sua vita, da piccola, si raccoglieva il cibo, qualunque cosa fosse, e lo si mangiava.

Obiora era rimasto lí per i primi mesi, cosí i vicini avevano cominciato a chiederle di lui soltanto in un secondo tempo. Dov'è tuo marito? Qualcosa non va? Nkem diceva che andava tutto bene, che lui viveva sia in Nigeria sia negli Stati Uniti, che avevano due case. Vedeva il dubbio nei loro occhi, sapeva che pensavano ad altre coppie con seconde case in posti come la Florida o Montreal, coppie che abitavano ora qua e ora là contemporaneamente, insieme.

Obiora scoppiava a ridere quando lei gli raccontava di quanto fossero curiosi i vicini. Diceva che gli oyibo erano cosí. Se facevi qualcosa in modo diverso, pensavano che fossi anormale, come se la loro maniera fosse l'unica possibile. E, anche se conosceva molte coppie nigeriane che vivevano insieme tutto l'anno, Nkem non diceva nulla.




Nkem passa una mano sul metallo arrotondato del naso della maschera del Benin. Una delle migliori imitazioni, aveva detto Obiora quando l'aveva comprata alcuni anni prima. Le aveva spiegato come gli inglesi avessero rubato le maschere originali alla fine dell'Ottocento in quella che chiamavano «spedizione punitiva»; come usassero termini come «spedizione» e «pacificazione» per indicare massacri e ruberie. Le maschere - ce n'erano migliaia, a detta di Obiora - erano considerate «bottino di guerra» e adesso erano in mostra nei musei di tutto il mondo.

Nkem prende la maschera e se la mette sul viso; è fredda, pesante, senza vita. Eppure quando Obiora ne parla - quando parla delle maschere in genere - le fa sembrare palpitanti, calde. L'anno prima, portando la testa nok di terracotta che sta sul tavolo nel corridoio, le aveva spiegato che gli antichi nok usavano gli originali per il culto degli antenati, mettendoli nei templi, offrendo loro bocconi di cibo. E che gli inglesi li avevano portati via a carrettate, anche quelli, dicendo alla gente (appena cristianizzata e resa stupida e cieca, diceva Obiora) che le sculture erano pagane. Non apprezziamo mai quel che abbiamo, concludeva sempre Obiora prima di ripetere la storia di quello sciocco capo di stato che era andato al museo nazionale di Lagos e aveva costretto il direttore a dargli un busto vecchio di quattrocento anni, che aveva poi regalato alla regina d'Inghilterra. A volte Nkem dubita di quello che le racconta Obiora, ma lo ascolta per il modo appassionato in cui parla, per come i suoi occhi brillano quasi stesse per piangere.

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Pagina 60

Alla fine li ho salutati e mi sono avviato verso la macchina, parcheggiata vicino ai pini sibilanti che dividono l'economato dalla facoltà di Scienze dell'educazione. È stato allora che ho visto Ikenna Okoro.

Mi ha chiamato lui per primo. - James? James Nwoye, sei tu? - Stava a bocca aperta e ho visto che aveva ancora tutti i denti. Io ne avevo perso uno l'anno prima. Mi ero rifiutato di farmi fare quello che Nkiru chiama «il lavoro», ma sono rimasto un po' male per la bella dentatura di Ikenna.

- Ikenna? Ikenna Okoro? - ho chiesto col tono esitante con cui si suggerisce qualcosa di impossibile: il ritorno in vita di un uomo morto da trentasette anni.

- Sí, sí -. Ikenna si è avvicinato, titubante. Ci siamo dati la mano e poi ci siamo stretti in un breve abbraccio. Non che fossimo grandi amici, Ikenna e io; lo conoscevo piuttosto bene, in quei giorni, ma solo perché tutti lo conoscevano piuttosto bene. Era stato lui che, quando il nuovo prorettore, un nigeriano cresciuto in Inghilterra, aveva annunciato che i docenti avrebbero dovuto portare la cravatta a lezione, in segno di sfida aveva continuato a indossare le sue tuniche dai colori vivaci. Era stato lui a salire sul podio al circolo dei dipendenti e a parlare fino a perdere la voce della necessità di presentare una petizione al governo per chiedere migliori condizioni per il personale non accademico. Era un sociologo, e anche se molti di noi delle scienze esatte pensavano che quelli delle scienze sociali fossero vasi vuoti che avevano troppo tempo a disposizione e scrivevano montagne di libri illeggibili, Ikenna lo vedevamo in modo diverso. Gli perdonavamo lo stile perentorio e non disdegnavamo i suoi libelli, anzi, ammiravamo l'erudita asprezza e il tono infiammato con cui affrontava le questioni; la sua audacia ci convinceva. Era, ed è ancora, un uomo rattrappito con gli occhi da rana e la pelle chiara, ormai scolorita e punteggiata da macchie scure dovute all'età. Chi ne sentiva parlare in quei giorni doveva poi sforzarsi di mascherare la grande delusione che provava nel vederlo, giacché la profondità della sua retorica in qualche modo avrebbe richiesto un bell'aspetto. Ma in fondo la mia gente dice che un animale famoso non sempre riempie il canestro del cacciatore.

- Sei vivo? - gli ho chiesto assai turbato. Io e la mia famiglia lo avevamo visto il giorno in cui morí, il 6 luglio del 1967, il giorno in cui abbandonammo Nsukka in fretta e furia, con il sole di uno strano rosso fuoco nel cielo e accanto il bum-bum-bum delle bombe che segnalava l'avanzata dei soldati federali. Andavamo con la mia Impala. La milizia ci fece segno di uscire dai cancelli del campus urlandoci che non avevamo nulla da temere, che i vandali - cosí chiamavamo i soldati federali - sarebbero stati sconfitti nel giro di pochi giorni e che saremmo potuti tornare a casa. Gli abitanti del locale villaggio, gli stessi che dopo la guerra avrebbero frugato nei bidoni dei professori in cerca di cibo, ci camminavano accanto, a centinaia, le donne con gli scatoloni sulla testa e i bimbi piccoli legati alla schiena, i bambini scalzi che portavano dei fagotti, gli uomini che trascinavano biciclette reggendo patate dolci. Ricordo che Ebere stava consolando nostra figlia Zik, perché nella fretta avevamo dimenticato la sua bambola, quando vedemmo la Kadett verde di Ikenna. Andava in direzione opposta, verso il campus. Suonai il clacson e fermai la macchina. - Non puoi tornare indietro! - gridai. Ma lui fece un cenno con la mano dicendo: - Devo recuperare dei manoscritti -. O forse: - Devo prendere del materiale -. Pensai che fosse abbastanza da scriteriati tornare indietro, poiché le bombe sembravano vicine e comunque, nel giro di una o due settimane, le nostre truppe avrebbero ricacciato i vandali. Ma ero anche tutto preso dal senso della nostra invincibilità collettiva, della giustezza della causa biafrana, e quindi non ci pensai piú finché sentimmo che Nsukka era caduta il giorno stesso della nostra evacuazione e che il campus era occupato. Chi ci portò la notizia, un parente del professor Ezike, aggiunse che erano stati uccisi due insegnanti. Uno di loro prima di essere colpito si era messo a discutere con i soldati federali. Non c'era bisogno che ci dicesse che si trattava di Ikenna.

Ikenna ha riso alla mia domanda. - Sono vivo, sono vivo! - A quanto pare, trovava la sua risposta ancora piú divertente, perché ha riso di nuovo. Persino le sue risate, adesso che ci penso, sembravano scolorite, vuote, diversissime dal suono aggressivo che riverberava per tutto il circolo dei dipendenti in quei giorni, quando si faceva beffe di chi non era d'accordo con lui.

- Ma ti avevamo visto, - ho obiettato. - Non ricordi? Il giorno dell'evacuazione?

- Sí.

- Ci avevano detto che non eri piú uscito.

- Invece sí. Ho lasciato il Biafra il mese dopo.

- Hai lasciato...? - È incredibile come ancora provassi un breve moto di quel profondo disgusto che ci prendeva quando sentivamo di sabotatori (li chiamavamo «sabo») che tradivano i nostri soldati, la nostra giusta causa, la nostra nazione nascente, in cambio di un salvacondotto per la Nigeria, verso il sale e la carne e l'acqua fresca che l'assedio ci impediva di avere.

- No, non è andata cosí. Non è come pensi tu -. Ikenna si è interrotto e ho notato che la camicia grigia gli faceva difetto sulle spalle. - Sono partito per l'estero su un aereo della Croce Rossa. Sono andato in Svezia -. C'era incertezza in lui, una diffidenza che sembrava aliena in quell'uomo che incitava la gente all'«azione». Ricordo come aveva organizzato la prima manifestazione dopo la dichiarazione d'indipendenza del Biafra, quando ci eravamo ritrovati tutti ad affollare Freedom Square mentre lui parlava e noi esultavamo urlando: «Viva l'indipendenza!»

- Sei andato in Svezia?

- Sí.

Non ha aggiunto altro e ho capito che non mi avrebbe detto piú nulla, che non mi avrebbe raccontato come aveva fatto a uscire vivo dal campus o com'era salito su quell'aereo; so di bambini aviotrasportati nel Gabon in una fase successiva della guerra, ma certamente non di persone in fuga sugli aerei della Croce Rossa, oltretutto cosí presto. Il silenzio tra noi si è fatto teso.

- Sei sempre stato in Svezia da allora? - ho chiesto.

- Sí. Tutta la mia famiglia era a Orlu quando l'hanno bombardata. Non è rimasto nessuno, quindi non avevo motivi per tornare indietro -. Si è interrotto per emettere un suono aspro che avrebbe dovuto essere una risata, ma che suonava piú come una serie di colpi di tosse. - Sono rimasto per un po' in contatto col dottor Anya. Mi ha raccontato della ricostruzione del nostro campus e, se non ricordo male, mi ha detto che dopo la guerra sei partito per l'America.

In realtà Ebere e io eravamo tornati a Nsukka subito dopo la fine della guerra, nel 1970, ma solo per pochi giorni. Era troppo per noi. I nostri libri stavano in giardino, in una pila carbonizzata sotto l'albero ombrello. Le feci calcificate nella vasca da bagno erano coperte dalle pagine dei miei Annali di matematica usate come carta igienica, e le schifezze incrostate imbrattavano le formule che avevo studiato e insegnato. Il nostro pianoforte, quello di Ebere, non c'era piú. La toga della laurea, che avevo indossato per ricevere il mio primo diploma all'università di Ibadan, era stata usata per pulire qualcosa e stava là tutta piena di formiche indaffarate e indifferenti al mio sguardo. Le nostre fotografie erano state strappate, le cornici spezzate. Cosí eravamo partiti per gli Stati Uniti per non tornare fino al 1976. Ci assegnarono una casa diversa, su Ezenweze Street, e per un bel pezzo evitammo di passare da Imoke Street, perché non volevamo vedere la vecchia casa; abbiamo poi sentito che i nuovi inquilini avevano abbattuto l'albero ombrello. Ho raccontato tutto questo a Ikenna, pur senza dire nulla del nostro periodo a Berkeley, dove il mio amico afroamericano, Chuck Bell, si era prodigato per trovarmi un incarico da insegnante. Ikenna è rimasto zitto per un po', poi ha chiesto: - Come sta tua figlia, Zik? Sarà una donna fatta, ormai.

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Pagina 113

Quella cosa intorno al collo


Pensavi che in America avessero tutti la macchina e la pistola; anche i tuoi zii e cugini lo credevano. Avevi appena vinto la lotteria per il visto americano e ti dicevano: Tra un mese avrai il macchinone. E presto una casa grande. Ma non comprarti la pistola come gli americani.

Sono arrivati a frotte nella stanza di Lagos dove vivevi con tuo padre, tua madre e tre fratelli. Appoggiati alle pareti senza intonaco perché non c'erano abbastanza sedie per tutti, ti hanno salutato a voce alta aggiungendo, sottovoce, quello che volevano che gli mandassi. Se paragonate alla macchina e alla casa (e magari alla pistola), erano tutte cose di minore importanza: borse, scarpe, profumi e vestiti. Hai risposto che non c'erano problemi.

Il tuo zio d'America, che aveva inserito i nomi di tutti i membri della tua famiglia nella lotteria per il visto, aveva detto che potevi stare da lui finché non te la fossi cavata da sola. Ti è venuto a prendere all'aeroporto e ti ha comprato un grosso hot dog con la senape gialla che ti ha fatto venire il voltastomaco. Ecco gli Stati Uniti, ha esclamato ridendo. Viveva in una cittadina di bianchi nel Maine, in una casa di trent'anni vicino a un lago. Ti ha spiegato che la ditta per cui lavorava gli aveva offerto alcune migliaia di dollari in piú l'anno rispetto al salario medio, piú le stock option, perché volevano disperatamente darsi un'immagine diversa. Avevano messo la sua foto su tutti gli opuscoli, anche quelli che non avevano nulla a che vedere con il suo reparto. Ha riso dicendo che il lavoro era buono e che valeva la pena vivere in una città di bianchi, anche se la moglie doveva farsi un'ora di macchina per trovare una parrucchiera che facesse i capelli africani. Il trucco era capire l'America, sapere che era tutto un dare per avere. Dovevi rinunciare a tante cose, ma ne ricevevi tante altre in cambio.

Ti ha mostrato come fare domanda per un lavoro da cassiera alla stazione di servizio sulla Main Street e ti ha iscritto a un community college, dove le ragazze avevano le cosce grosse, si davano lo smalto rosso acceso alle unghie e si mettevano delle creme abbronzanti che le facevano diventare arancioni. Ti chiedevano dove avessi imparato a parlare inglese e se in Africa c'erano case vere e se avevi mai visto un'automobile prima di andare negli Stati Uniti. E ti fissavano i capelli. Stanno dritti o si afflosciano quando disfi le trecce? Volevano sapere. Rimangono tutti dritti? Come? Perché? Ma il pettine lo usi? Ti sforzavi di sorridere quando facevano quelle domande. Tuo zio ti aveva avvertita: «Un misto di ignoranza e arroganza», aveva spiegato. Ti ha raccontato che, alcuni mesi dopo che si erano trasferiti li, i vicini avevano detto che gli scoiattoli non si facevano piú vedere. Avevano sentito dire che gli africani mangiavano ogni tipo di animale selvatico.

Ridevi, con tuo zio, e da lui ti sentivi a casa; sua moglie ti chiamava nwanne, sorella, e i suoi due figli in età scolare ti chiamavano zia. Parlavano igbo e mangiavano garri a pranzo ed era come essere in famiglia. Finché lo zio è sceso nello stretto scantinato dove dormivi in mezzo a vecchie scatole e cartoni e ti ha tirato con forza a sé, palpandoti le natiche e mugolando. Non era proprio tuo zio; era il fratello del marito della sorella di tuo padre, non avevate legami di sangue. Dopo che lo hai respinto si è seduto sul tuo letto — era casa sua, in fondo — e con un sorriso ti ha detto che a ventidue anni non eri piú una bambina. Se lo avessi lasciato continuare, avrebbe fatto tante cose per te. Le donne sveglie lo facevano sempre. Come pensavi che ce l'avessero fatta, le donne di Lagos con quegli impieghi ben pagati? E quelle di New York?

Ti sei chiusa in bagno finché non è tornato di sopra e la mattina seguente te ne sei andata, a piedi lungo la strada tortuosa, sentendoti nelle narici l'odore degli avannotti del lago. Lo hai visto passare in macchina — ti aveva sempre accompagnato alla Main Street — ma lui non ha nemmeno suonato il clacson. Ti sei chiesta cosa avrebbe raccontato alla moglie, sul perché te ne eri andata. E ti sei ricordata ciò che ti aveva detto, che l'America era dare per avere.

Sei finita nel Connecticut, in un'altra piccola città, perché era l'ultima fermata del Greyhound su cui eri salita. Sei entrata nel ristorante con la tenda chiara e pulita e hai detto che avresti lavorato per due dollari meno delle altre cameriere. Il manager, Juan, aveva i capelli neri come l'inchiostro e nel sorridere mostrava un dente d'oro. Non aveva mai avuto una dipendente nigeriana, ma diceva che tutti gli immigrati lavorano sodo. Lo sapeva bene, lo era stato anche lui. Ti avrebbe pagata solo un dollaro in meno, ma in nero: non gli andava di versare tutte quelle tasse.

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Pagina 193

La storica testarda


Molti anni dopo la morte del marito, Nwamgba chiudeva ancora gli occhi, di tanto in tanto, per rivivere le sue visite notturne alla capanna, e la mattina dopo, mentre andava al torrente canticchiando, pensava a lui, al suo profumo di affumicato e alla saldezza del suo corpo, a tutti i segreti che conosceva solo lei, e si sentiva circondata da luce. Altri ricordi di Obierika le rimanevano chiari in mente: le dita tozze attorno al flauto quando suonava la sera, la faccia deliziata quando gli metteva davanti un piatto col cibo, la schiena sudata quando tornava portandole ceste piene di argilla per le sue ceramiche. Dal primo momento in cui lo vide a un incontro di lotta, quando rimasero imbambolati a fissarsi, entrambi troppo giovani, tanto che lei ancora non portava alla cintura il panno per le mestruazioni, aveva creduto con quieta testardaggine che i loro rispettivi chi avessero stabilito che si dovevano sposare, perciò quando alcuni anni dopo lui andò da suo padre portando vasi di vino di palma, accompagnato dai suoi parenti, lei disse a sua madre che quello era l'uomo che avrebbe sposato.

[...]




Nwamgba si vergognava di suo figlio, era irritata con sua moglie e contrariata per la loro vita rarefatta in cui trattavano i non cristiani come se avessero il vaiolo, ma si aggrappò alla speranza di un nipote; pregò e fece sacrifici affinché Mgbeke avesse un figlio, perché sarebbe stato come se tornasse Obierika, riportando nel suo mondo una parvenza di senso. Non sapeva che Mgbeke aveva già avuto due aborti, fu solo dopo il terzo che lei, piagnucolando e soffiandosi il naso, glielo confessò. Dovevano consultare l'oracolo, dato che si trattava di una sventura di famiglia, disse Nwamgba, ma gli occhi di Mgbeke si spalancarono per la paura. Michael si sarebbe arrabbiato tantissimo se avesse saputo di quella proposta. Nwamgba, che ancora trovava difficile ricordare che Michael e Anikwenwa erano la stessa persona, andò dall'oracolo da sola e tornando a casa pensò che era ridicolo che perfino gli dèi avessero cambiato e non chiedessero piú vino di palma, bensí gin. Si erano forse convertiti anche loro?

Alcuni mesi dopo, Mgbeke andò a trovarla, sorridente, portando una pentola coperta con dentro uno di quegli intrugli che Nwamgba trovava immangiabili, e Nwamgba capi che il suo chi aveva ancora gli occhi bene aperti e che sua nuora era incinta. Anikwenwa aveva deciso che Mgbeke avrebbe partorito alla missione di Onicha, ma gli dèi avevano progetti diversi e lei, in un pomeriggio di pioggia, andò in travaglio prematuro; qualcuno arrivò di corsa sotto l'acqua scrosciante alla capanna di Nwamgba per chiamarla. Era un maschio. Padre O'Donnell lo battezzò col nome di Peter, ma Nwamgba lo chiamò Nnamdi, perché pensava che fosse Obierika. Gli cantava canzoni e, quando piangeva, gli spingeva il capezzolo rinsecchito in bocca, ma per quanto si desse da fare, non notava in lui lo spirito del suo magnifico marito. Mgbeke ebbe altri tre aborti e Nwamgba andò molte volte dall'oracolo finché una gravidanza attecchí e nacque il secondogenito, stavolta alla missione di Onicha. Era una femmina. Dal momento in cui Nwamgba la prese in braccio, gli occhi accesi della bimba concentrati deliziosamente su di lei, capi che lo spirito di Obierika era tornato: strano che si presentasse in una ragazza, ma chi può prevedere i disegni degli antenati? Padre O'Donnell la battezzò Grace, ma Nwamgba la chiamò Afamefuna, «il mio nome non sarà perduto», e gioí per il solenne interesse della bambina per le sue poesie e le sue storie, o per l'assorta attenzione dell'adolescente mentre lei lottava per creare le sue ceramiche con mani ormai tremanti. Ma non gioí del fatto che Afamefuna dovette partire per andare alle superiori (Peter viveva già con i preti a Onicha), perché temeva che, in collegio, le nuove abitudini ne avrebbero soffocato lo spirito combattivo, rimpiazzandolo con una rigidezza senza curiosità, come quella di Anikwenwa, o con una flaccida inettitudine, come quella di Mgbeke.


L'anno in cui Afamefuna parti per fare le superiori a Onicha, per Nwamgba fu come se si fosse spenta una lampada in una notte senza luna. Fu un anno strano, l'anno in cui il buio scese all'improvviso sulla terra a metà pomeriggio, e quando Nwamgba senti un dolore profondo nelle giunture, capi che la fine era vicina. Si mise a letto con l'affanno, mentre Anikwenwa la implorava di battezzarsi e di prendere l'estrema unzione cosí da permettergli di farle un funerale cristiano, visto che lui non poteva partecipare a una cerimonia pagana. Nwamgba gli rispose che se osava portare qualcuno a metterle addosso dell'olio schifoso, lo avrebbe preso a schiaffi con le ultime energie che le rimanevano. Voleva solo vedere Afamefuna prima di riunirsi agli antenati, ma Anikwenwa disse che Grace aveva gli esami a scuola e non poteva tornare a casa. Ma lei tornò lo stesso. Nwamgba senti i cardini della porta cigolare, ed era lei, Afamefuna, la nipote arrivata da sola da Onicha perché erano giorni che non riusciva a dormire e avvertiva l'inquieto bisogno di rientrare. Grace appoggiò per terra lo zaino, in cui c'era un libro di testo con un capitolo intitolato La pacificazione delle tribú primitive della Nigeria meridionale, scritto da un amministratore del Worcestershire vissuto là per sette anni.

Sarebbe stata Grace a studiare quei selvaggi, stuzzicata dalle loro abitudini bizzarre e insensate, senza associarli a se stessa finché sorella Maureen, la sua insegnante, non le disse che non poteva definire «poesia» le filastrocche a domanda e risposta che aveva imparato dalla nonna, perché le tribú primitive non conoscevano la poesia. Sarebbe stata Grace a ridere di gusto finché sorella Maureen non la mise in castigo mandando poi a chiamare il padre, che la schiaffeggiò davanti agli insegnanti per dimostrare loro che sapeva educare bene i propri figli. Sarebbe stata Grace a nutrire per anni un profondo disprezzo per suo padre, passando le vacanze a fare la cameriera a Onicha per evitare le ipocrisie e le rigide convinzioni dei genitori e del fratello. Sarebbe stata Grace, dopo il diploma delle superiori, a insegnare in una scuola elementare ad Agueke, dove la gente raccontava di come, anni prima, le armi dei bianchi avessero distrutto i loro villaggi, storie a cui lei non sapeva se credere perché la stessa gente raccontava anche di sirene che affioravano dal Niger tenendo in mano mazzette di banconote. Sarebbe stata Grace, una delle poche donne iscritte allo University College di Ibadan nel 1950, a passare dal corso di laurea in chimica a quello in storia dopo aver sentito, prendendo un tè a casa di un'amica, la vicenda del signor Gboyega, un eminente nigeriano dalla pelle color cioccolato laureatosi a Londra, illustre studioso di storia dell'Impero britannico, che si era dimesso disgustato quando nel West African Examinations Council avevano iniziato a parlare di aggiungere la storia dell'Africa ai programmi di studio, inorridito all'idea che la storia africana venisse considerata una materia. Grace avrebbe meditato a lungo su quell'episodio, con grande mestizia, arrivando a riconoscere un forte legame fra istruzione e dignità, fra le cose solide e chiare che stanno nei libri e quelle eteree e sottili che albergano nell'anima. Sarebbe stata Grace a ripensare alla sua stessa istruzione, all'ardore con cui aveva cantato, nel giorno dell'Impero: «Dio benedica il nostro nobile Re. Lo renda vittorioso, felice e glorioso. Lo faccia regnare a lungo su di noi»; a com'era rimasta perplessa davanti a parole quali «carta da parati» e «denti di leone» nei libri di testo, incapace di immaginarsi quelle cose; a come aveva faticato con i problemi di aritmetica che prevedevano miscele di cose diverse, perché cos'era il caffè e cosa la cicoria e perché andavano mescolati? Sarebbe stata Grace a ripensare all'istruzione di suo padre per poi correre a casa a trovarlo e, vedendone gli occhi acquosi per l'età, fargli credere di non aver ricevuto le lettere che in realtà aveva ignorato, rispondendo amen alle sue preghiere e premendogli le labbra sulla fronte. Sarebbe stata Grace, passando per Agueke in macchina al ritorno, a rimanere impressionata dall'immagine di un villaggio distrutto e ad andare a Londra, Parigi e Onicha a scartabellare tra faldoni ammuffiti negli archivi, immaginando le vite e gli odori del mondo di sua nonna, per il libro che avrebbe scritto e che si sarebbe intitolato Pacificare coi proiettili: la storia rivendicata della Nigeria meridionale. Sarebbe stata Grace, parlando della prima stesura con il suo fidanzato, George Chikadibia - elegante laureato del King's College di Lagos, futuro ingegnere ed esperto ballerino che indossava completi col panciotto e diceva spesso che una scuola senza il latino era come una tazza di tè senza zucchero -, a rendersi conto che il matrimonio non sarebbe durato quando lui le disse che era un errore scrivere di culture primitive anziché di un argomento di tutto rispetto come le alleanze africane nella tensione fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Avrebbero divorziato nel 1972, non a causa dei quattro aborti spontanei subiti da Grace ma perché una notte lei si sarebbe svegliata madida di sudore con la certezza che se avesse sentito ancora una volta il suo estasiato monologo sui giorni di Cambridge lo avrebbe strangolato. Sarebbe stata Grace, ricevendo premi in facoltà, parlando a gente dalla faccia solenne a conferenze sulle popolazioni ijaw e ibibio e igbo ed efik della Nigeria meridionale, scrivendo per organizzazioni internazionali relazioni di puro buonsenso per cui tuttavia riceveva compensi generosi, a immaginare la nonna che la guardava ridacchiando divertita. Sarebbe stata Grace, sentendo uno strano sradicamento negli ultimi anni della sua vita, circondata dai riconoscimenti, dagli amici, dal giardino di rose dalla bellezza ineguagliabile, ad andare a Lagos dal giudice per farsi cambiare ufficialmente il nome in Afamefuna.

Ma quel giorno, seduta accanto al letto della nonna alla fioca luce della sera, Grace non poteva immaginarsi il futuro. Si limitò a prendere la nonna per la mano sentendone il palmo indurito dai tanti anni passati a fare ceramiche.

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