Copertina
Autore Eraldo Affinati
CoautoreA. Asor Rosa, S. Bartezzaghi, A. Celestini, D. De Silva, P. Di Stefano, M. Fois, R. Loy, M. Murgia, A. Pascale, W. Siti, S. Vassalli
Titolo Questo terribile intricato mondo
SottotitoloRacconti politici
EdizioneEinaudi, Torino, 2008, Supercoralli , pag. 258, cop.ril.sov., dim. 14x22,2x2 cm , Isbn 978-88-06-19272-3
LettoreElisabetta Cavalli, 2008
Classe narrativa italiana
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Indice


  V Nota dell'editore

    Questo terribile intricato mondo

    WALTER SITI
  3 Benvenuta Rachele

    ROSETTA LOY
 27 Hic sunt leones

    ASCANIO CELESTINI
 43 Saluta i morti

    ALBERTO ASOR ROSA
 69 Le formiche

    STEFANO BARTEZZAGHI
115 Variazioni 1954-2017

    ANTONIO PASCALE
127 Porché?

    PAOLO DI STEFANO
165 Il ragazzo che cade

    SEBASTIANO VASSALLI
183 «Guarire il mondo» (Sorrento, agosto 1944)
187 L'ultimo comunista

    ERALDO AFFINATI
191 Papaveri rossi

    MICHELA MURGIA
205 Altre madri

    DIEGO DE SILVA
211 Il mezzo nichilismo dell'homo democraticus

    MARCELLO FOIS
229 Ecco ritorna


 

 

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Pagina 43

Ascanio Celestini

Saluta i morti


1.

In fondo al corridoio c'è il quadro con la perpetua.

Cosí si chiama la lampadina sempre accesa che la luce sembra una fiammella. E nel quadro c'è la foto di un signore con gli occhiali. Tutto intorno ci stanno infilati i ritratti formato tessera in bianco e nero. «Sono i morti della famiglia», diceva mia nonna. Le foto piccole le ha sfilate dalle partecipazioni che si mandavano una volta per comunicare la scomparsa di qualcuno. In genere era la stessa che finiva sulla lapide. Ma quelle facce minute quasi non si vedono, mentre l'uomo con gli occhiali si affaccia imponente anche da lontano con un mezzo sorriso serio.

La montatura grossa, un pezzo di cravatta e il colletto della giacca sopra la camicia bianca mi facevano pensare che era stato fotografato a un matrimonio. Perché i parenti miei li vedevo vestiti bene solo in quelle occasioni. «Chi sono?» chiedevo. «Sono i morti», diceva mia nonna e poi faceva i nomi. Ma non indicava le facce. Cosí le donne potevano essere tutte la signora Ventisini che faceva la portiera, Settimia che era andata pure in galera per gli aborti clandestini o zia Fenizia che levava le fatture. Anzi Fenizia la riconoscevo per i capelli dritti e gli occhi spiritati. Ma gli uomini erano indistintamente zio Pierino dell'Altitalia, nonno Giovanni che faceva il boscaiolo con Primo Carnera o il marito di zia Morina che era stato partigiano. E piú passava il tempo, piú le foto piccole si ammucchiavano invadendo la cornice. «I morti della famiglia», diceva mia nonna e ce li faceva salutare fino al giorno che qualcuno avrebbe infilato pure la sua tra le facce illuminate dalla lampadina fiammeggiante. Fino a quando avremmo salutato pure lei. E io intanto guardavo i conosciuti e gli sconosciuti, tutti parenti miei, tutti ugualmente familiari. Consanguinei.

Ci ho messo vent'anni per capire che il faccione occhialuto era Togliatti.

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Pagina 115

Stefano Bartezzaghi

Variazioni 1954-2017


1954


Il vicesegretario esecutivo del Partito è in piedi, chino sul tavolo dell'usciere. Attraversando a passi lenti un corridoio del palazzo ha notato il verbale dell'ultimo consiglio direttivo, aperto alla pagina dell'intervento conclusivo del presidente e si è fermato a leggere.

La maturata ponderazione, nella coscienza di tutte le componenti del nostro Partito, dei problemi insiti nella difficile situazione sociale ed economica venuta in essere a seguito della crisi politica sottolinea la necessità di un cambiamento e ci esorta ad accantonare con responsabilità i motivi di divisione, in un grande sforzo congiunto volto a determinare le condizioni per un graduale contenimento del disavanzo pubblico, per aumentare stabilmente l'occupazione e per lenire altresí la miseria, dove presente sul territorio, in un rinnovato spirito di fattività spinto nella direzione piú utile per creare un ambiente favorevole all'essenziale sviluppo economico, sociale e civile della Nazione tutta.

Il vicesegretario mormora un commento a fior di bocca: «Il solito tatticismo esasperato...», mentre toglie la sua penna stilografica dal taschino per prendere un appunto. Pensa alle prossime vacanze a Ostia. Pensa all'approvazione della legge-quadro sul nuovo ordinamento delle commissioni territoriali. Pensa al sorriso del capogruppo di opposizione, preannuncio di ostruzionismi e manovre piú oscure. Non pensa piú a niente.

Dietro a una porta chiusa, un telefono prende a squillare.

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Pagina 120

1989


All'uscita dal carcere, il tesoriere del partito trova ad aspettarlo il suo avvocato e una macchina con autista. Si fa accompagnare all'hotel in cui alloggia abitualmente, e mentre aspetta nella hall che il suo appartamento sia pronto scorre il fax riservato che il portiere gli ha consegnato. È la bozza di un comunicato stampa emesso dalla segreteria.

Il nostro Partito sente la grande responsabilità di proseguire il confronto e assecondare la spinta verso la modernizzazione del Paese, respingendo con unanime spirito democratico le fughe in avanti e gli ipocriti appelli al nuovismo che auspicano un azzeramento dello statu quo.

L'altrui strategia del consenso si porrebbe fuori da un'ottica di confronto e in rotta di collisione con le istanze di rilancio che noi sosteniamo qualora enfatizzasse marginali incidenti di percorso cavalcando la tigre del montante giustizialismo che si sta diffondendo nel territorio. Non si può immaginare che saranno le accuse di giustificazionismo di meschini portaborracce a ostacolare l'essenziale opera riformistica che intende ridare la corretta collocazione alla nostra comunità nazionale, nel momento storico di accelerazione che l'Europa attraversa.

Il tesoriere scuote la testa, si sistema meglio sulla poltrona e il ghiaccio nel suo gin tonic tintinna: «Puro cazzeggio». La rassegna stampa della sua vicenda giudiziaria gli trasmette i pareri, ora cinici ora lunari, dei piú svariati esponenti degli schieramenti: un senatore a vita, una donna ministro, una coppia di ex carcerati ora impegnati nella politica attiva, un presidente di Regione che in passato ha conosciuto una ben diversa carcerazione. Commentano, additano, deplorano, auspicano, usando parole irrimediabilmente consunte dal remoto concatenarsi delle stagioni.

Nel lounge bar attiguo il pianista comincia a suonare.

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Pagina 121

1996


Il coordinatore donna dei circoli cittadini sta lavorando sul vecchio tecnigrafo che a volte ancora usa, per un vezzo vintage che non considera superfluo per la sua professione (il contatto con la materia! la forza del segno!) Dal computer arriva il suono di un'e-mail appena scaricata automaticamente: una lettera aperta dei membri di un comitato di base autonomo.

Democrazia e diritti devono essere non un obiettivo, ma la condizione. Un nuovo spirito percorre i gruppi spontaneamente sorti sul territorio. La nostra richiesta, ferma e responsabile, è che il grande cambiamento che è oramai ineludibile per la rinascita morale della Nazione prenda avvio dall'essenziale recupero dei valori civili che l'hanno fondata. Troppi approfittatori, troppi professionisti della politica, troppi amministratori inerti hanno operato per perpetuare un sistema di potere che è giunto al degrado.

I cittadini onesti richiedono a costoro di fare un passo indietro. Il grande cambiamento non potrà essere fermato.

Inoltrando il messaggio a tutti gli esponenti dei circoli, il coordinatore donna aggiunge un commento: «È una deriva cerchiobottista». Fra le righe ha colto l'insinuarsi di insuperati tatticismi, la perdita di progettualità, il conformismo di ritorno, il cazzeggio vero e proprio, segno di una marginalità mai realmente incrinata. «Come riusciremo mai a convincere a farsi da parte i politici di professione, i trafficoni sopravvissuti e divenuti anche solo per questo padri fondatori, gli ex terroristi che hanno resistito e ormai fanno parte del panorama?» Combatterli, possibilmente vincerli, ineluttabilmente diventare come loro.

Lo sconforto dura solo per un momento. Dalla strada un antifurto prende a ululare.

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Pagina 187

Sebastiano Vassalli

L'ultimo comunista


Gli anni Settanta del secolo scorso sono stati anni difficili per l'Italia. Il carattere nazionale è stato messo a dura prova e ha prodotto una varietà di tipi umani, ognuno dei quali, debitamente raccontato, potrebbe essere proposto come rappresentativo per l'intero decennio. Il tipo piú interessante, però, e forse anche piú emblematico di quegli anni, io credo di averlo incontrato un po' di tempo dopo, alla fine del decennio successivo. Forse nel 1987, o nel 1988. Abitavo già in campagna e un giorno mi arriva una lettera di un circolo culturale, che mi invita per un incontro-conferenza in una piccola città a nord di Milano. Ricordo il tema dell'incontro e ricordo anche il titolo complessivo dell'iniziativa, ma naturalmente non lo trascrivo perché l'autore di quel titolo, che poi è anche la persona di cui intendo parlare, deve restare indeterminato. Un italiano degli anni Settanta.

Fin qui, tutto normale. Adesso incomincia la storia.

Allegato alla lettera c'è un biglietto da visita, di un tale che, nel biglietto, si dichiara «comunista», senza altri titoli né qualifiche. Tal dei Tali, comunista. Sul biglietto, o sul retro del biglietto, c'è scritto a mano: «Nei prossimi giorni ti telefonerò e ti verrò a trovare, cosí parleremo di questa iniziativa». Il nome Tal dei Tali mi è ignoto, ma l'uso confidenziale del «tu» anche tra sconosciuti è già largamente diffuso nell'epoca di cui ci stiamo occupando; e, del resto, è il minimo che ci si può aspettare da un comunista. L'ultimo dei comunisti rimasto tenacemente attaccato al «lei», in Italia era Togliatti: che però, all'epoca di questa storia, è morto da piú di vent'anni...

Dopo qualche giorno, il Comunista viene a farmi visita. Arriva su una Mercedes nera con radiotelefono (autentico. In quegli anni che precedettero l'avvento dei telefonini, l'Italia era piena di Fiat Uno con antenne iperboliche che dovevano simulare la presenza a bordo di un radiotelefono, naturalmente assente. Sulla Mercedes del Comunista, invece, il radiotelefono c'era davvero). Il mio primo impulso, quando lo vedo, è quello di mettermi le mani nei capelli: ma riesco a trattenermi. L'uomo ha piú o meno la mia età ed è «griffato» dalla testa ai piedi, cioè dagli occhiali scuri alle scarpe. Ci sediamo in giardino, sotto un grande albero di cachi che è (era) l'elemento piú caratteristico della casa dove abitavo allora e adesso non abito piú. Incominciamo a parlare e il Comunista, pian piano, mi appare sotto un'altra luce. Mi diventa addirittura simpatico.

Scopriamo di essere stati studenti alla Statale di Milano, piú o meno negli stessi anni: Lettere per me e Legge per lui. Finiti gli studi a metà degli anni Sessanta, ognuno imbocca la sua strada. Io, piú povero, devo dedicarmi per qualche anno all'insegnamento; lui, di famiglia medio-borghese e senza particolare urgenza di guadagnarsi da vivere, può prendersela con piú comodo. Si guarda attorno, fa qualche viaggio. Insieme ad alcuni amici d'infanzia, incappa nel Sessantotto: diventa Comunista e vive, per qualche anno, in una specie di delirio che ora mi racconta lucidamente, con il senno del poi. «A quell'epoca, - mi dice per giustificarsi, - le teste volavano».

Io faccio segno di sí perché me la ricordo benissimo, quell'epoca, e il Comunista continua a raccontare la sua storia: una storia che non mi sarei mai aspettato di ascoltare in quel pomeriggio di giugno e da quella persona, poi! Una storia italiana degli anni Settanta. Mi racconta di essersi inoltrato nella pazzia di quegli anni, fino alla soglia della clandestinità e della lotta armata. Di avere capito, fortunatamente, che quella soglia era senza ritorno. Di essersi fermato in tempo.

Mi racconta di un suo amico d'infanzia che è ancora in carcere nel momento in cui ne parliamo. E poi, di un altro amico che una notte d'estate si presenta a casa del Comunista, con una cassetta piena di armi. Gli dice: «Tienile tu, perché io devo scappare».

«Quella notte - mi confida il Comunista - è stata il momento centrale della mia vita. Sono andato a Cremona, sul ponte del Po, e ho buttato la cassetta giú dal ponte. Poi sono risalito in macchina e ho continuato a guidare, a caso senza sapere dove andassi. Seguivo il corso dei miei pensieri. Ero diventato una persona adulta e, a mio modo, normale».

«Però, sono rimasto comunista». Mi dà l'altro suo biglietto da visita, quello ufficiale con il titolo di avvocato e la qualifica, in inglese, del ruolo che svolge presso non so piú quale azienda o società finanziaria. Ha fatto carriera e, ora che mi ha raccontato la sua storia, sente il bisogno di scusarsi per i vestiti griffati e per il radiotelefono: «Sono la mia tenuta da lavoro». Mi spiega che la parola comunista sul biglietto da visita significa disponibilità per gli altri esseri umani, e che la politica non c'entra piú. Lui, attualmente, dedica una parte dei suoi soldi e del suo tempo libero a un'organizzazione che assiste, in tutto il mondo, le persone piú disgraziate e piú povere; e ha fondato, nella sua città, un circolo culturale, per dare vita a delle iniziative che altrimenti non esisterebbero.

Il comunismo, mi dice, è anche questo: «È aiutare la gente a pensare con la sua testa, anziché con la televisione».

La storia dell'ultimo comunista finisce qui. Da allora, sono trascorsi vent'anni e io non ho piú avuto occasione di rivedere il mio personaggio. Non so piú niente di lui.

Non so se ha ancora i due biglietti da visita o se ha conservato soltanto quello ufficiale, dell'avvocato e della qualifica in inglese. Non so se si dichiara ancora comunista. Non so nemmeno se è ancora vivo. Forse è morto.

Ogni volta che penso agli anni Settanta penso a lui. Nella mia memoria, lui è l'Italiano di quegli anni.

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Pagina 191

Eraldo Affinati

Papaveri rossi


Roma, 18 giugno 2007

Apprendo ora sul sito dell'Ansa del primo giorno di lavoro di Erich Priebke. Dove? In via Panisperna. Un ex generale delle SS accusato di genocidio che timbra il cartellino nel luogo in cui un gruppo di studenti scompose l'atomo, prologo all'atomica di Hiroshima. Immagino un incontro fortuito in strada con Priebke. Che fare? Esprimere la rabbia che mio nonno tenne dentro di sé dopo aver visto il massacro delle Ardeatine (era li con suo padre a pescare ranocchie), o rispettare il vecchio nazista come parte della storia che ormai ci appartiene? Lei cosa farebbe?

Ciao

SIMONE


Tu non sei mai stato un ragazzo ordinario. Simulavi la spensieratezza. Mimavi l'allegria. Quasi tutti i tuoi amici non se ne rendevano conto: avrebbero voluto trascinarti nella frenesia senza tempo da cui loro stessi si lasciavano consumare. Forse soltanto Giorgio Coccia, imprevedibilmente, intuiva la battaglia interiore che sostenevi ogni giorno per liberarti da un macigno nascosto. Il teppistello, cosí sfrontato, con te pareva indifeso, non sapeva come trattarti. Si limitava a prenderti in giro, quasi volesse svegliarti dall'incantesimo. Quando esibiva la croce uncinata, lo smontavi con un sorriso. Vincevi sempre di rimessa, col tocco fatato, tre a zero e palla al centro.

Fra noi l'intesa fu spontanea. Bastava un dettaglio per coinvolgerti: l'elmetto bucato dentro la grotta di Corviale; le manette ai polsi di Ravil, nel penitenziario sul Lago Bianco; i polacchi a Cassino; le cattedrali annerite di Dresda.

La rabbia di tuo nonno, nata quel giorno alle Fosse Ardeatine, a distanza di tanti anni alimentava in te l'ansia di conoscenza. Cosa avrebbe dovuto fare? Niente, era un bambino! Ma i colpi provenienti dalla cava, costanti, secchi, ultimativi, e le grida conseguenti, rauche, disarticolate, estreme, giunsero fino a lui. Gli restarono dentro. Come semi fecondi passarono a tuo padre che però, sarà stato il caso, l'incuria o la cattiva volontà, vallo a sapere, non ascoltò quelli, né decifrò queste.

Conservo la tua domanda, alla medesima stregua di un amuleto, davanti alla casa della vecchia partigiana, a Ronchi, nei pressi dell'aeroporto di Forlí. La palazzina in cui abita è una delle tante ai margini del piazzale erboso, spelacchiato, con vecchie giostre in disuso. Appena arrivo, vedo due signore che si stanno facendo compagnia sul balcone: una di loro, dico a me stesso, dev'essere lei.

Parcheggio sotto casa. Il tempo di premere sul citofono al cancelletto e sento la sua voce cordiale che m'invita a salire. La cadenza romagnola accelera il battito del cuore. Le biciclette appoggiate lungo i muri del cortile assomigliano a scheletrini. L'albero di fico, in giardino, richiama lontanissime estati trascorse a giocare nell'orto. Alcune immagini passano davanti a me come schegge di saldatrice elettrica: la moto Guzzi rossa dal sellone triangolare, sulle molle d'acciaio; i pensionati nel campo di bocce, coi volti sfregiati dagli anni.

La primavera continua a presentare un fantastico poker d'assi: erbe, cieli, piante e luci. Non c'è speranza, ma quanta forza nella sua coda di lucertola spezzata; quanta potenza di fuoco!

Faccio gli scalini a due a due. Sento di essere uno spartitore di traffico memoriale: dirigo il movimento, inquadro le scene, scrivo le didascalie. Ricordi quando invitammo Giulia Spizzichino a raccontarci la deportazione degli ebrei romani al Portico d'Ottavia?

Il silenzio era formidabile. Anche Matteo Saluzzo e Damiano Frinolli, di solito scalmanati, stavano zitti. L'anziana signora, seduta al posto mio, non seppe trattenere l'emozione. Tu, il piú timido, il meno appariscente, ti alzasti in piedi e dall'ultimo banco attraversasti l'aula diretto alla cattedra. Ti guardammo stupiti senza capire quali fossero le tue intenzioni. Volevi consegnare alla preziosa testimone un fazzolettino di carta perché si asciugasse le lacrime. In quel momento compresi che eri speciale.

Antonia Laghi, nome di battaglia Jonina, claudicante ma sempre indomita, mi accoglie con il fiore dell'antica bellezza celato dietro gli occhiali. Sebben che siamo donne, paura non abbiamo. Una camera spoglia, qualche libro, la cyclette, il tavolino. Non si è mai sposata, nonostante gli amori. Ha conservato la propria giovinezza come una nave in bottiglia. Sai perché sono venuto a trovarla, vero?

È la stessa ragione che mi spinse da Venezia ad Auschwitz, seguendo le tracce di mia madre, fuggita dal treno alla stazione ferroviaria di Udine; a Varsavia, sotto le targhe di pietra del ghetto raso al suolo, fra Chopin e gli Stukas; a Volgograd, nel punto in cui la belva nazista morí con l'osso in bocca e le cartilagini strappate; nei bunker sforacchiati di Omaha Beach, che i ragazzi adesso usano per darsi i primi baci; sulle rive del Don, a bagnarmi le mani nel fiume dove Mario Rigoni Stern vide la Medusa ma non restò impietrito.

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Pagina 229

Marcello Fois

Ecco ritorna


UNO. TUTTO ACCADE.

Nuoro, 22 dicembre 1911, corridoio del tribunale.

Lo guardai malissimo, e Pietro, a sua volta, guardò male me. - Non è che mi fai paura, io quello sguardo da matto lo conosco bene.

Continuai a fissarlo: - No, è che a volte mi sembra incredibile che tu faccia certi discorsi, quasi quasi mi viene il sospetto di avere a che fare con un estraneo.

- E che tu vuoi sentire solo quello che ti pare e piace, Bustià!

- Guarda che non ci metto niente a mandarti a quel paese, intesi?

Pietro Mastino fece di spalle: - E allora? Cosa ti credi che c'ho paura?

- Senti Piè, mi arrendo, va bene? La guerra è una bella cosa, anzi troppo poche ce ne sono... Una noia... Volevo vedere se ce l'avevi in casa cosa ne dicevi... Perché non lo chiediamo ai libici com'è la guerra.

- Fai lo spiritoso, lo ribadisco: non ho detto che la guerra è una bella cosa, io questo non l'ho mai detto! Semmai l'ha detto il tuo collega Giovanni Pascoli: «la grande proletaria s'è mossa!»

Pietro quando non vuoi capire non c'è nulla da fare: - Io continuo a pensare che questa, come tutte le guerre, è roba per ricchi pagata da straccioni. Noi ci rimettiamo la vita e loro sistemano le economie.

- Bustià, parli come un ragazzino e nemmeno tanto intelligente: noi chi? loro chi? Noi e loro siamo la stessa cosa...

- Se potessimo avere voce in capitolo magari, adesso viene pure fuori che siamo in una democrazia.

- Non come la intendi tu.

- E come la intendo io? Avanti sentiamo...

- Eh, non ti rispondo, va bene? Ho discusso tre cause stamattina, e me ne mancano altre due. E tu c'hai il brutto vizio che quando sei in torto provochi, Bustià, uno di questi giorni mi dimentico che sono tuo amico... Per questo adesso ti auguro di passare le feste al caldo e in compagnia di chi ti vuole bene...

Pietro Mastino fece per andarsene. Lo fermai: - Sono preoccupato per Gaetano... E poi noi e loro non siamo la stessa cosa...

- Gaetano tuo cognato?

Feci cenno di sí: - Aveva una licenza premio poi revocata, pare che sia stato spostato sul fronte caldo.

- Clorinda che dice? - Il tono di Pietro era ritornato amabile.

- Clorinda figurati, non ne sa niente, lei si aspetta che il fratello ritorni almeno per l'Epifania...

- Vabbé Bustià, non fasciamoci la testa prima di cadere... Lasciami sentire un paio di persone e poi ti dico... Dov'è arruolato tuo cognato?

- Nell'11° Bersaglieri... Lo sai anche tu che le cose da quelle parti stanno andando male...

- Non stanno andando male, Bustià, ma non stanno andando bene come dicono i giornali.

- Tanto per cambiare...


Nuoro, 22 dicembre 1911, caffè Tettamanzi.

Cielo da neve. Dentro al locale c'era una condensa di aliti e bibite calde. E c'era il brusio compatto delle tarde mattinate gelide, quelle in cui viene voglia di starsene a letto magari abbracciati a chi si vuol bene.

Bustianu intercettò il fratello intento a scaldarsi le mani con una tazza bollente.

- Da molto stai aspettando? - Il fratello fece cenno di no. E sorseggiò con la punta delle labbra la sua bevanda fumante. Bustianu sorrise appena. - Che cosa stai bevendo?

- Ho chiesto un tè caldo, stanotte non sono stato bene con lo stomaco... E da un po' che non ci vediamo...

- Lo so, dal 4 ottobre per la precisione...

- Già... Tu come stai?

- Tutto a posto...

- Si, ti trovo bene...

- Bene -. Poi silenzio.

Ecco, Bustianu quel silenzio lo conosce da sempre. È un silenzio tra persone che nutrono dell'affetto, ma non sanno come dirselo. Fin da bambini era stato chiaro che uno avrebbe per sempre fatto la parte di quello che agisce e l'altro di quello che subisce.


Raimonda li chiamava acqua e olio, bianco e nero, due cose che non si mescolano nemmeno con la pazienza dei secoli. Come Giacobbe ed Esaú, ma non come Caino e Abele, graziaddio! A Raimonda era stato chiaro da subito quello che aveva combinato mettendo al mondo quei due. Che avesse partorito contrasti lo sapeva, ma non sapeva come raccontarlo. Poi un giorno sognò o vide. O ricordò di quando aveva appena scoperto di essere incinta, dalla finestra entrava un vento balenteddu, cosí Raimonda si sporse dal davanzale per chiudere le imposte e vide, dove finiva il campo di Basilio Boneddu, contemporaneamente, Giorno e Notte. Ma non fusi come nella malinconia del pomeriggio, o nel congedo della sera. No, vide con precisione quanto sarebbe impossibile da vedere: li dove muore il salice c'era la luce impudica del mezzogiorno, li invece, dove comincia il poggio, ecco la notte scurissima del sonno profondo. E niente nuvole, racconta, il cielo diurno è terso come il piú terso dei cieli; e quello notturno è stellato, straziato di luci vibranti.

Ma quelle sono solo storie: qui conta che Angelo è delicato, di pasta buona, mentre Bustianu è venuto fuori rustico... Loro si vogliono bene soltanto se stanno lontani perché tutto li separa, solo Raimonda, per quanto possibile, li riunisce.


- Quello che ho da dirti lo sai...

- Lo so infatti...

- Vorrei solo capire che cosa ti costa.

- Lo chiedi ogni anno, ogni anno lo chiedi! Mi costa che a me queste cose di cenoni e riunioni non mi sono mai interessate.

- Una volta all'anno non mi sembra un sacrificio, Bustià!

- E infatti non sto parlando di sacrifici. Ma mi dico: con tutta la fame che c'è in giro e la crociata in corso, quelli che frequentano la chiesa come voi dovrebbero stare attenti a non sprecare il cibo.

- Come faremmo se non ci fossi tu a custodire le nostre coscienze, Bustià.

- Vabbé ascolta, mi spiace che non sei stato bene, ma c'ho altro per la testa...

Per alzarsi Bustianu fece oscillare pericolosamente il tavolino del bar.

- Non hai nemmeno ordinato.

- Non voglio niente...

- Quindi che le dico a mamma?

- A mamma le parlo io.


Tornando verso il tribunale Bustianu capi qualcosa che gli era sfuggito fino a quel momento, o che, fino a quel momento, aveva cercato bene di non capire: lui ce l'aveva col fratello. Comunque la si mettesse ce l'aveva col fratello. Da quella volta della scampagnata.


Podere Tanca Manna, nei pressi di Nuoro, 29 agosto 1911.

Clorinda teneva un cesto colmo di pesche fra le braccia. Gaetano scaricava dal carro gli altri viveri per la gita. Raimonda e mia cognata badavano a tenere sotto controllo i bambini di mio fratello. Angelo e io cercavamo un posto all'ombra.

- E perché? - stavo dicendo io...

Mio fratello mi guardò come quando ci bisticciavamo da bambini. - Per non farci prendere per i fondelli da quella gente lí, Bustià.

- Quella gente li quale?

- Turchi e marocchini, per esempio...

- E perché?

- E vabbé, sei irritante... Come perché? Perché ci stanno fregando la Libia.

- Che è nostra?

- Sí.. ci sono i nostri soldi!

- No, i miei no. Lí ci sono i soldi delle banche cattoliche...

- Guarda che parli come un deficiente, Bustià, io qualche volta faccio fatica a sopportarti.

- Ah, deficiente, ma non abbastanza da non capire che quella che voi chiamate guerra di civiltà è solo una partita di giro...

- Eh certo, solo i relativisti come te non capiscono quanto siano importanti per una società le basi comuni...

- Che sarebbero? La Chiesa?

- No! I valori che incarna!

- E cioè: amore, povertà... pace?

- Io non lo so se voglio continuare questa discussione, Bustià...

- Eh, magari se devi dirmi che andare in guerra contro i turchi significa salvare i nostri valori «spirituali», forse è meglio che la smettiamo qua.

- Che cosa vuoi Bustià? Eh?

- Innanzitutto che abbassi la voce e poi che ammetta che questa guerra la vogliamo fare per il denaro dei tuoi amici casa e chiesa.

Fu allora che Gaetano intervenne alle nostre spalle: - La vogliamo fare per riscattare il prestigio nazionale. E per vendicare Dogali e Adua... per questo.

Angelo si fermò in mezzo al sentiero per sorridere al mio giovane cognato. Ed è possibile che io abbia guardato Gaetano come Cesare guardò Bruto. Quel che è certo è che guardai mio fratello come Esaú, con la pancia piena di lenticchie, guardò Giacobbe con indosso una pelle di capra.

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