Copertina
Autore Simonetta Agnello Hornby
Titolo La zia marchesa
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2004, I Narratori , pag. 334, dim. 140x220x23 mm , Isbn 978-88-07-01659-2
LettoreAngela Razzini, 2004
Classe narrativa italiana
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Indice


 11 PARTE PRIMA


 13 1. "A vecchi e picciriddi Dio l'aiuta."

    Dicembre 1898. Alla Montagnazza Amalia Cuffaro, balia di
    Costanza Safamita, conversa con la nipote Pinuzza Belice
    mentre le fa la treccia

 18 2. "Amuri, tussi e fumu nun si ponnu teniri cilati."

    Il primo incontro della balia con Costanza Safamita

 21 3. "Auguri e figli masculi."

    La nascita di Costanza Safamita al palazzo di Sarentini
    il 22 maggio 1859

 25 4. "Dinari e santità criditini mità."

    Al castello di Sarentini donna Assunta Safamita prega
    con le sue fimmine mistiche

 27 5. "Cu arrisorvi, nun mori."

    Una conversazione tutta per sottintesi tra i fratelli
    Safamita

 31 6. "Ad arvulu cadutu ognunu curri e fa ligna."

    Sarentini parla dopo la nascita di Costanza Safamita e
    dimentica la morte del re, ma non il passato

 32 7. "Lu trivulu e lu beni, cu l'avi si li teni."

    Amalia Cuffaro ricorda il suo matrimonio e il
    concepimento del figlio grazie agli interventi della
    suocera e di san Giovanni Decollato

 37 8. "Pilu russu, malu pilu."

    Il battesimo di Costanza Safamita e la insaziabile
    curiosità di don Paolo Mercurio

    [...]

314 84. "Doppu cuntintizza veni morti."

    Morte do Costanza Safamita, marchesa Sabbiamena

317 Indice dei personaggi

321 Nota dell'Autrice

322 Ringraziamenti

 

 

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Pagina 13

1.
"A vecchi e picciriddi Dio l'aiuta."
Dicembre 1898. Alla Montagnazza Amalia Cuffaro,
balia di Costanza Safamita,
conversa con la nipote Pinuzza Belice mentre le fa la treccia



Amalia Cuffaro aveva finito di imboccare Pinuzza con la poltiglia di pane duro e latte di capra. Le sollevò un lembo del tovagliolo allacciato al collo e le strofinò bocca e mento, poi lo scotolò energicamente a terra - Pinuzza sbavava e spesso sputava il cibo, anche quello di cui era golosa - e infine, con l'indice, fece cadere a terra il pane che Pinuzza si era sputacchiata sulla spalla. Le formiche erano in agguato: la colonia più folta si era insediata dentro la pietra concava dove era riposta la quartara dell'acqua; da lì uscivano in formazione compatta verso quel ben di Dio che ogni mattina cadeva dall'alto. Amalia meditava scoraggiata: se ne buttava assai di pane e latte, in quella casa dove abbondava soltanto la fame; male formiche erano, di razza guerriera, con il corpo grosso e la testa rossastra, di quelle che pizzicano, sfacciate al punto da arrampicarsi sulla seggiola su cui Pinuzza era legata. Le scorrazzavano addosso, lasciandole la pelle piena di puntini rossi.

Le aveva trovate persino dentro la bocca di quella poveretta che non poteva difendersi e aveva dovuto cacciarle le dita fra i denti per toglierle, quelle ardite bestiacce.

Ancora agile nonostante l'età, Amalia si rizzò nel mezzo della grotta, a gambe larghe, pronta a riprendere la incessante e tenace lotta contro le formiche; si piegò in avanti e si passò il braccio in mezzo alle gambe per afferrare l'orlo della sottana; rialzandosi, lo tirò sul davanti e se lo infilò nella cintura, trasformando la veste in un paio di ampi pantaloni orientaleggianti. Poi prese le corte foglie di giummara che fungevano da scopa e si accovacciò, facendo attenzione che la gonna restasse sollevata da terra e neppure una di quelle formicacce potesse salirle addosso. Spazzava con cura, scompigliando le file di formiche che da tutti gli angoli della grotta convergevano verso la seggiola di Pinuzza.

Spinse il mucchietto di immondizia brulicante di formiche impazzite sul minuscolo spiazzo davanti all'ingresso e finalmente, con un ultimo colpo di scopa, lo fece cadere nel precipizio: polvere, molliche e formiche.

Dopo la prematura morte della padrona, Amalia aveva rifiutato di raggiungere il figlio Giovannino in America ed era ritornata in famiglia. Il fratello minore, Carmine Belice, se l'era accollata per dovere, di malavoglia, perché dopo la morte dei suoceri e la partenza di Giovannino Amalia aveva sperperato lo stipendio e anche la roba regalatale dai Safamita ed era tornata a casa Belice nuda e cruda come l'aveva lasciata quarant'anni prima per sposare Diego Cuffaro. Posto per Amalia non ce n'era a casa Belice - due catoi in cui dormivano e vivevano ammassati in otto, più galline, capra e asino - e il fratello l'aveva sistemata in quella grotta con Pinuzza, alla Montagnazza, dove non c'era padrone a cui pagare affitto; inoltre, come diceva ai curiosi e alle malelingue, un dottore aveva suggerito che l'aria fresca e il sole avrebbero giovato alla salute della figlia.

Su quel litorale della Sicilia si snodava un candido costone di marna alto circa duecento metri e lungo una decina di chilometri, le cui falde erano ricche di fessure e grotte naturali. A volte si insinuava nel mare penetrandovi a mo' di promontorio, altre volte si curvava ritraendosi nell'entroterra, creando spiaggette e piccole insenature. In una di queste si trovava Riporto, il villaggio di pescatori più vicino a Sarentini, in cui vivevano Carmine Belice e la sua famiglia. Da tempo immemorabile le popolazioni indigene si rifugiavano nelle caverne naturali della Montagnazza - come la gente del luogo chiamava il costone -, ampliandole e scavandone di nuove per sfuggire alle razzie dei pirati barbareschi e dei corsari turchi. L'accesso era impossibile a chi non ne fosse a conoscenza: infatti soltanto i rinnegati riuscivano a raggiungerle e a strappare dalle caverne i cristiani destinati alla schiavitù dei turchi. Poi gli attacchi nemici si erano diradati e dalla metà del Settecento di incursioni barbaresche non ce n'erano più state.

Con la crescente miseria del popolo, le grotte si erano ripopolate ed erano abitate da latitanti, fuggitivi e giovani renitenti alla odiata leva imposta dal governo unitario; ai cosiddetti piani bassi, più accessibili, si era insediata una piccola colonia di poveracci, infermi, emarginati e gente di passaggio. Avevano scavato scalinate ripidissime e insidiose, che la pioggia smussava o addirittura distruggeva con implacabile regolarità trasformandole in pericolosi scivoli. In alcune zone le bocche delle grotte erano state ampliate in apparente simmetria e ci si arrivava per strettissimi corridoi d'accesso a picco sul precipizio. Dal mare, questa parte della Montagnazza appariva di giorno ai naviganti come la candida facciata ondulata di un palazzo lunghissimo; di sera, dopo il tramonto, quando bruciavano le lampade a olio, come un grasso verme fosforescente. Il resto del costone piegava a sud e penetrava a picco sul mare. Indomito, si concedeva come rifugio agli uccelli marini e, in primavera e in autunno, a quelli migratori, come posto di sosta. Battuto dal vento e dalle piogge in inverno, abbagliante e quasi incandescente sotto il sole in estate, era sempre bellissimo. Ad Amalia ricordava una immensa, lucida quagghiata di latte di pecora tremolante e liscia, appena sformata dal pastore.

Zia e nipote vivevano in una di queste grotte, l'unica della terza fila, quella immediatamente sotto il pianoro. La monotonia delle loro giornate era interrotta dalla visita settimanale di Carmine Belice o dei fratelli di Pinuzza, che portavano cibo e legna. Era un'esistenza dura, ma Amalia era grata di essere sfuggita al tugurio del fratello, dove non riusciva più ad adattarsi dopo aver vissuto per tanti anni nei palazzi dei nobili. Amalia amava la solitudine e la natura e sulla Montagnazza ne aveva in abbondanza; inoltre Pinuzza era una compagnia costante e anche gradevole. Era riuscita perfino a guadagnare qualcosa rammendando le robe delle fimmine di sotto, che venivano passate su e giù con un paniere attaccato a una corda, e poteva concedersi il suo unico lusso: la Revalenza Arabica, una polvere ricostituente a cui attribuiva tutte le proprietà immaginabili.

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Pagina 53

11.
"Amuri di mamma nun t'inganna."
Caterina Safamita si rivolta contro il suo sangue



Maria Caponetto, balia di Giacomo, e Amalia Cuffaro trascorrevano le giornate con i bambini, che avevano rispettivamente due e tre anni e si facevano buona compagnia. Costanza adorava il fratellino. Caterina Safamita passava parte del pomeriggio con loro, dedicandosi esclusivamente a Giacomo. Costanza cercava le carezze e l'approvazione della madre, da cui veniva rigettata con consapevolezza. La baronessa ordinava alle donne di distrarla con altri giochi. Quelle obbedivano a occhi bassi e facevano del loro meglio, invano. Costanza tornava dalla madre, le si aggrappava alle sottane, le acchiappava le mani e gliele copriva di piccoli baci, le offriva dolcini e giocattoli. Insomma la voleva. Quella cercava di cacciarla, ma non ci riusciva. Costanza la chiamava, le tendeva le braccia: quando tutto questo si rivelava inutile, scoppiava in singhiozzi e rimaneva dritta dritta accanto a sua madre. La balia non era in grado di consolarla.

La semplice presenza della figlia bastava a rendere irascibile e quasi nevrastenica Caterina Safamita. Il senso di colpa e la vergogna che poi la assalivano erano spazzati dal risentimento che le ribolliva dentro appena la rivedeva. Quando Costanza le impediva di godersi Giacomo in pace passava alle maniere forti, incurante della presenza delle donne; le si rivolgeva sgarbatamente, se la scrollava di dosso, la spintonava via con malagrazia. Davanti ai familiari si controllava.

Era un pomeriggio dell'ottobre 1862. Le balie e i bambini erano nella stanza dei giochi. La baronessa li raggiunse. Dopo aver dato un bacio frettoloso a Costanza tolse Giacomo dalle braccia della balia e le disse di andarsene. Seduta su una poltrona, se lo sbaciucchiava tutto e gli canticchiava una filastrocca. Anche Costanza tendeva le braccia per essere presa in grembo. Chiamava dolcemente la madre, le rivolgeva sorrisetti, le si abbarbicava alla veste, le baciava i lembi dei drappeggi, insomma le tentava tutte per ottenere quello che voleva. La baronessa ordinò ad Amalia di togliergliela di torno.

A fatica, Costanza fu persuasa a sedersi al tavolino da lavoro dei bambini per preparare i fiori di carta velina per le ghirlande con cui addobbare la stanza per la festa dei Morti. Lavorava bene con le mani. Piegava i petali, li incollava con una leccata di colla e li attorcigliava al gambo di carta crespa. Ne cavò una bella rosa. "È un regalo per mamà," e corse dalla madre come un fulmine. Amalia non riuscì a trattenerla.

Impettita, Costanza porse alla madre la sua rosa di carta: batteva i piedini in attesa del "brava" che sapeva di meritare. La madre la guardava. E anche Costanza la guardava. Gli occhi opachi di Caterina e quelli scrutanti di Costanza erano fissi gli uni negli altri. Ma non si guardavano. Gli uni chiedevano e gli altri non davano.

La mano di Caterina parve staccarsi e scendere da un'altezza vertiginosa. L'indice e il pollice strinsero i petali del fiore e lo guidarono nell'incavo della mano schiacciandolo, inesorabili. Caterina sbirciò prima il fiore, poi Giacomo assopito: infine volse lo sguardo verso la finestra e più non lo distolse.

Liberò l'altra mano e appallottolò la carta come fosse pasta di pane, palmo contro palmo, con moto circolare. Un odore appannante esalava dal calore umido della colla. Il fiore di Costanza era un povero grumo rosa e verde. I brillanti barbagliavano, le mani si toccavano appena. Lento, lento era il loro movimento, come se Caterina fosse in trance. Costanza e Amalia ne erano ipnotizzate, come lei lo era dal cielo, dal cielo senza nuvole e luminoso come quello di Malivinnitti. Malivinnitti.

"Vattene da Amalia," disse la madre, pallidissima: abbassò gli occhi su quello che era rimasto del fiore e lo lasciò scivolare sul pavimento. "Vattene, vattene," ripeteva, "vattene, vattene," a voce sempre più alta e spingendola via. Costanza le si aggrappò alla veste: "Mamà no, no, mamà perché lo facisti?" ripeteva senza lasciare la presa.

Caterina Safamita si alzò bruscamente. Poggiò Giacomo sul braccio sinistro e se lo mise a cavalcioni sul fianco, tenendolo ben saldo. Con l'altra mano spinse Costanza per allontanarla. A forza di scossoni la costrinse ad abbandonare la presa della sottana. Costanza annaspava con le mani tese per riaggrapparsi alla madre. Giacomo, spaventato, scoppiò a piangere e questo fece imbestialire Caterina.

Acchiappò Costanza proprio all'attaccatura del braccio, chiudendovi attorno la mano, a morsa, le dita serrate sotto l'ascella, e la sollevò dal pavimento. Costanza urlava senza ritegno: magra com'era, veniva sbattuta di qua e di là, pareva una bambola di paglia. Le scosse divennero frenetiche.

Attenta a non far scivolare Giacomo, Caterina si torse, piegò leggermente le gambe e lanciò Costanza contro la parete. La bambina si afflosciò a terra.

"Me l'ammazzi, disgraziata! Fermati, pazza sei!" urlò la balia, e si buttò accanto a Costanza. Il sangue sgorgava copioso sull'occhio sinistro e giù giù sino al labbro. "Mamà, mamà, mamà," farfugliava Costanza tra le lagrime, e la cercava dappertutto per la stanza. Caterina Safamita se n'era fuggita.

La testa poggiata sul grembo della balia, Costanza singhiozzava. Amalia le tamponava la ferita, la copriva di baci, le carezzava i capelli diventati una crespa massa umida di sudore, la massaggiava, le sussurrava paroline piene d'amore. Ma Costanza voleva sua madre e sua madre soltanto. La voce si affievoliva, affogava nelle lagrime. Quando non ce la fece più, Costanza perse conoscenza e rimase così, metà a terra e metà fra le braccia costernate della balia.

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Pagina 78

19.
"'Nni la casa di Gesù, zoccu trasi 'un nesci cchiù."
Costanza Safamita visita il monastero della Madonna del Soccorso
e si mangia le ostie stirate



Un giorno a Caterina Safamita venne un'illuminazione: Costanza era portata per la vita monacale. Aveva appena sei anni ed era mite e silenziosa, obbediente agli ordini dei grandi e succube dei capricci del fratellino. Le piacevano le attività domestiche e non amava i libri.

Nonostante fosse ancora piccina, dimostrava già di essere priva di civetteria e di non dar peso a quella femminilità acquisita che insieme a quella innata finisce con l'avere una parte fondamentale nel rapporto fra un uomo e una donna. Caterina Safamita pensava di aver trovato il modo di sbarazzarsi di quell'impaccio della capigliatura di fuoco - tagliata e nascosta dai veli monacali - e della presenza della figlia. Inoltre la dote di monaca era notevolmente inferiore a quella di una figlia da marito e il patrimonio di famiglia sarebbe stato diviso in parti disuguali soltanto tra i figli maschi: la maggior parte a Stefano, mentre Giacomo avrebbe comunque ricevuto abbastanza da vivere più che dignitosamente.

Fece cucire da Annuzza la Cirara degli abiti da monaca per le bambole di Costanza e glieli regalò. Raccontò alla zia Assunta che la bambina amava vestire le bambole da monache, esagerando la sua embrionale vocazione religiosa. Ottenuta l'approvazione della zia, parlò con il marito e il padre. Né l'uno né l'altro vollero sbilanciarsi: bisognava aspettare che crescesse e inoltre il governo intendeva abolire i conventi.

Ma Caterina non demordeva e, come si faceva, ordinò alle donne di Costanza di incoraggiarla a giocare con quelle bamboline vestite da monache; giunse perfino a toglierle le altre. Quelle, temendo le ire della baronessa e ulteriori maltrattamenti per la bambina, non osavano dirle che, nonostante Costanza giocasse ligia con le sue monachelle, appioppava loro tranquillamente mariti e figli.

Nel frattempo, la zia Assunta si era presa il compito di introdurre Costanza ai conventi. Lei vi andava contenta, il che confermava a madre e zia la sua vocazione; parlava poco e soltanto quando gli adulti le rivolgevano la parola, così il vero motivo del suo entusiasmo per quelle visite non fu rivelato. Zia e nipote uscivano nell'austera carrozza tappezzata di velluto blu scuro, con un crocifisso appeso al posto dell'orologio, assieme alla nuova cameriera della zia, Peppinella Radica, anche lei monaca di casa e sua inseparabile compagna.

Venivano ricevute con tutti gli onori. La badessa offriva dolci squisiti, preparati secondo antiche ricette segrete: conchiglie di pasta di mandorle ripiene di pistacchi e zuccata e coperte da una sottile velata di zucchero da cui si sprigionava uno squisito profumo di vaniglia; montagne di cuscus dolce - frammisto a pistacchi tritati, zucchero e cioccolato - odoroso di chiodi di garofano e cannella; biscotti di mandorle croccanti all'esterno ma dentro morbidi e crudigni. Le monache non gustavano quelle leccornie, nonostante la zia le invitasse ad assaggiarne almeno qualcuna, per farle compagnia. Con un gesto sacrale della mano indicavano la rinuncia al peccato della gola, immancabilmente ricompensata al momento del commiato, quando il cocchiere scaricava dalla carrozza pacchi di zucchero e sacchi di frumento e frutta secca destinati a indurre in tentazione e riconfermare il sacrificio delle monache cuciniere.


Ma la vera prelibatezza, e il motivo dell'entusiasmo di Costanza, erano le ostie con lo zucchero, preparate espressamente per lei al monastero della Madonna del Soccorso, dove un'antenata Lattuca era stata monaca. Pur di gustarle, Costanza vinceva la timidezza e, quando non le venivano offerte dalle sollecite monachelle, le chiedeva. Veniva accompagnata nella stireria del convento, dove le giovani monacande - vestite di grigie uniformi, la testa rasata coperta da una semplice cuffia - stiravano silenziose gli abiti scuri delle monache e i loro accessori bianchi e inamidati: pettorine, collari, bande di lino. I ferri da stiro, neri, grandi, pesanti, pieni di brace accesa, sprigionavano un vapore denso e odoroso di carbone e amido, fragrante di pulito. La monaca bisbigliava all'orecchio di una giovanetta; quella lasciava la stanza quasi senza far rumore e poi ritornava con un cesto di vimini colmo di ostie rotte.

Quindi sceglieva con cura pezzi d'ostia di grandezza simile, li appattava a due a due e li metteva da parte. Poi stendeva sullo stiratore una pezza pulita e ve li disponeva su due file. Cospargeva la prima fila di zucchero granuloso misto a polvere di cannella e poi copriva le ostie con gli altri pezzi, pronti per la stirata. Infine attizzava la brace soffiandovi sopra; sollevava il ferro rovente e, sotto gli occhi frementi di Costanza, lo calava sulle due ostie premendole. Come d'incanto la stireria si riempiva del profumo di zucchero bruciato e cannella: l'ostia si era trasformata in cialda leggerissima, calda e croccante, lo zucchero appena appena caramellato. Le novizie, a testa bassa, continuavano i loro lavori, obbedienti alla regola del silenzio. Uno sguardo fugace pieno di desiderio, un inspirare lungo e sommesso, una impercettibile pausa nello stirare dicevano che anche per loro quello era il vero profumo del paradiso: almeno così la pensava Costanza.

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Pagina 96

Caterina Safamita era gelosa delle sue tartarughe. Le teneva nella terrazza della camera da letto e non gradiva che i figli le disturbassero.

Un giorno mostrò delle tartarughine appena scovate a Costanza, che ne fu affascinata. Presto la bambina imparò a maneggiarle con attenzione: le riconosceva a una a una, dimostrandosi simile alla madre nella istintiva affinità con quei rettili silenziosi. Erano tantissimi: bisognava sfoltire la colonia della terrazza regolarmente e portarne alcuni nel giardino del castello. Costanza aiutava la madre nella scelta e, assieme, sistemavano le tartarughe nella nuova dimora. Nonostante questa inconsueta dimestichezza non parlarono mai dei loro sentimenti, come se ne avessero paura. Costanza non conosceva nessuno che amasse le tartarughe come la madre e avrebbe voluto saperne di più, ma non chiedeva: si limitava ad aiutarla a dar loro da mangiare. Talvolta la mamma aveva le lagrime agli occhi. Costanza non osava avvicinarsi in quei momenti - un retaggio del passato -, né Caterina cercava conforto in lei.

Un giorno, mentre rammendava con le sue donne, chiese a Maria Teccapiglia: "Perché a mamà piacciono tanto le tartarughe?".

"È un cuntu lungo assai, cominciò quando era carusa. Suo padre le diede una canuzza, bianca e nera, una bellezza. Quella se la abbracciava, come se fosse una pupa. Poi alla canuzza ci venne una malattia e morì. Il barone gliene diede un'altra. Quella pure dopo pochi mesi le morì. Insomma, tutti gli armaluzzi che aveva le morivano. Io dicevo: se le dessero un gattino sarebbe meglio assai. I gatti sono diversi, hanno sette vite, ma a quella i gatti non ci piacevano.

"Poi capitò quello che capitò e la buonanima della baronessa Maria Stella morì. Erano disperati, padre e figlia, stavano appiccicati come due babbaluci. Poi arrivò il baronello e disse che così non andava bene. Si prese la picciridda e le chiese se voleva un canuzzo, o magari due palummelle. Quella diceva no a tutto. Poi gli venne in testa di spiarle il perché e quella gli disse, papale papale, che di animali non ne voleva perché le morivano tutti. Ne voleva soltanto uno che non le moriva.

"'Va bene,' le disse suo zio, 'fammici pinsari.' Pensa oggi, pensa domani, un giorno al baronello ci venne un'idea e s'arricampò con una scatola grande. Dentro c'erano due tartarughe. 'Queste non muoiono fino a che i tuoi figli sono vecchi,' le disse. E la baronessina accettò il regalo.

"La gente cominciò a cercare tartarughe e gliele portava. Così ce ne arrivarono assai al castello. Lei le capiva, le tartarughe. E quelle la riconoscevano. Certe volte la trovavo in piedi, nel giardino, con tutte le tartarughe intorno. Le guardava a una a una, come se ci parlasse. Una volta le chiesi: 'Che ti piace in queste bestie?'. 'Quando vogliono essere lasciate in pace si ritirano nel guscio e non c'è persona che ci può fare male,' mi rispose. 'E poi non parlano, ci puoi dire quello che vuoi, a nessuno lo ripetono.' Così avvenne che mamà tua ha tante tartarughe."

E Costanza credette di capire meglio la madre.


La famiglia non ritornò a Palermo, tranne che per brevi visite. Con il tempo Costanza riacquistò una certa sicurezza in se stessa, ma soltanto nel grembo protettivo del palazzo di Sarentini. Non leggeva per diletto: cresceva isolata dai suoi pari e dalla sua classe sociale, il suo italiano era impacciato. Non si trovava a proprio agio con i parenti che non vedeva regolarmente; sentiva diversi da lei i cugini palermitani e non aveva amici della sua età: si rifiutava di far visita ad altre bambine e non gradiva visite al palazzo.

Il padre era preoccupato: continuando così da adulta si sarebbe ritrovata sola, e se ne dispiaceva. Ne parlò con la moglie, che non condivideva le sue ansie: anzi gli fece notare che gli altri genitori non erano così assillanti. Caterina divenne gelosa e questo sentimento bloccò il riavvicinamento tra madre e figlia. Lui fece quello che considerava giusto: stabilì che Costanza dovesse trascorrere più tempo con Madame e la voleva accanto a sé quando c'erano visite o quando riceveva gente del paese o dipendenti delle proprietà che un giorno le sarebbero appartenute. Costanza non si ribellava, ligia ai desideri del padre, ma non vedeva l'ora di tornare nella stireria; era diventata taciturna e inappetente.

Il baronello dovette convenire che era rischioso imporle un cambiamento, che a quel punto per lei sarebbe stato devastante - Costanza aveva bisogno di mantenere le abitudini radicate e i legami affettivi più intensi, stretti con persone profondamente incolte e quasi analfabete - e diede ragione alla moglie: non era necessario impuntarsi nel trasformare la figlia in una signora, né imporle una cultura che non le sarebbe servita. Costanza era di natura tenera e obbediente, suonava bene e aveva una bella voce, parlava correntemente il francese e si comportava con dignità. In più era ricca: avrebbe trovato un buon partito e tutto faceva pensare che avrebbe avuto una vita felice.

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Pagina 150

38.
"Iddiu 'nni scansa di mali vicini, e di livata d'omini dabbeni."
La misteriosa malattia di Caterina Safamita.
La presentazione a palazzo di Guglielmo Safamita
e la morte di Caterina



Durante l'estate del 1873 Domenico Safamita e la moglie avevano sostenuto interminabili discussioni sul figlio maggiore. Alla fine, esausta e affranta, Caterina Safamita accettò e condivise la decisione del marito: Stefano doveva rimanere escluso dalla famiglia.

Spiegarono a Giacomo e Costanza che il fratello aveva disobbedito al padre e tradito la famiglia. Le peripezie di Stefano e la sua dabbenaggine erano spezie che rendevano i pettegolezzi ancora più succulenti; la gente da ora in avanti li avrebbe cercati, avrebbe fatto domande, teso tranelli per saperne di più, e poi sparlare. Era dovere dei Safamita sopportare stoicamente quella umiliazione: dovevano trincerarsi nel loro silenzio orgoglioso e non dare sazio a nessuno.

Giacomo, tredicenne, si era dispiaciuto ben poco per la disgrazia abbattutasi su Stefano: improvvisamente aveva dinanzi a sé un futuro che sino ad allora aveva considerato irrealizzabile: sarebbe diventato erede e padrone, l'invidia di un tempo era soppiantata dall'astio per la vergogna ricaduta sul loro nome.

Costanza comprendeva e compativa. Memore delle parole di Pepi Tignuso, non era sorpresa della decisione dei genitori; ma Stefano le mancava, e soffriva per lui.


Sin dall'infanzia grandi e dolorose perdite avevano segnato Caterina Safamita. Figlia unica e isolata dai suoi pari, aveva sofferto moltissimo per la lunga malattia e la successiva morte della madre. Nel lutto, padre e figlia si erano appoggiati l'uno all'altra; tragicamente quell'affetto era degenerato. La balia che aveva assunto le veci della madre era morta poco dopo.

Caterina evitava di affezionarsi a individui, animali, luoghi e oggetti e si era chiusa in un mondo che riteneva a prova di affetti ma dove le emozioni filtravano attraverso la musica e le disordinate ma avide letture: rifuggiva l'amore perché si sentiva indegna ed era sicura che ne avrebbe sofferto e che avrebbe perduto l'oggetto del suo amore. D'altro canto smaniava e manifestava una precoce sensualità. Da quella situazione era stata salvata dallo zio, che alla fine aveva sposato; amava il marito e Stefano, il figlio preferito, ed era da loro riamata. Se non avesse incontrato immense difficoltà, che altre donne avrebbero considerato insormontabili, nell'assicurare ai Safamita due eredi maschi, Caterina avrebbe potuto descrivere la sua vita da adulta come soddisfacente e persino felice: ma le cose erano andate diversamente. I ricordi oscuri del passato non la abbandonavano e i figli minori, Costanza - la fimmina non voluta - e Giacomo - il maschio desiderato ma così diverso da Stefano -, le rimasero sgraditi.

La perdita di Stefano l'aveva resa infelicissima. Madre e figlia si consolavano, ognuna per contro proprio, con la musica. Mai si era sentito tanto suonare di pianoforte a palazzo Safamita: capitava che i sarentinesi si fermassero ad ascoltare a bocca aperta. Le note della baronessa uscivano dai balconi del piano nobile ed erano riprese da Costanza, esitante, al piano di sopra. Ma non era sempre così. Costanza cantava anche canzoni d'amore con tutto il sentimento, pensando a Stefano e alla sua firrara, convinta che il fratello vivesse una storia d'amore meravigliosa per la quale aveva sacrificato i doveri verso la famiglia.

La madre era cambiata: dura con i figli, arcigna e altezzosa con il personale. Madame decise di trasferirsi a Vienna, ospite della nipote, con sollievo generale. Era anziana e beveva molto. Costanza non l'aveva mai avuta in simpatia, nonostante negli ultimi tempi si fosse presa cura di lei.

Quando nella primavera successiva Caterina apprese della nuova gravidanza di Filomena - da chi non si sa, ma in qualche modo tutto arrivava alle sue orecchie -, parve piombare in una profonda depressione. Deperiva e accusava frequenti dolori all'addome. Le malelingue dicevano che più cresceva il ventre della firrara, più la baronessa si sciupava.

Costanza la vedeva sofferente e provava pena per lei. Ne sopportava gli sbalzi d'umore e la freddezza, compatendola e sapendo oltretutto che la madre dipendeva da lei per mantenere l'esile filo che ancora la legava a Stefano: mandavano regali per la piccola tramite Rosa Vinciguerra e intensificarono le passeggiate alla Crocca. La baronessa seguiva con il pensiero la gravidanza di Filomena, convinta che sarebbe nato un maschio. Sperava, irrazionalmente, che in qualche modo marito e figlio si sarebbero riappacificati.

In quel periodo il barone Safamita ricevette a palazzo una visita del prefetto Calloni e di altri notabili, incluso il senatore Baldo Bentivoglio.

Avevano uno scopo preciso: convincerlo ad accettare la nomina a senatore del regno. Lei, normalmente restia a lasciare Sarentini e simpatizzante come il resto della famiglia del partito clericale-borbonico - e per nulla amante, oltretutto, della vita di società -, ne fu entusiasta e incoraggiò il marito ad accettare: era un segno del destino. Si era convinta che i Safamita si sarebbero trasferiti a Roma, inclusi Stefano e la sua famiglia, e lì avrebbero vissuto in armonia, lontano dai Carcarazzo. Domenico le promise di pensarci. Alla fine le comunicò che era anziano e non desiderava partecipare alla vita politica del regno sabaudo. La notizia ebbe un effetto devastante su Caterina, era la fine delle speranze di una riconciliazione con il figlio prediletto. Le sue condizioni di salute precipitarono: le si era gonfiato lo stomaco, come se anche lei fosse incinta, e lamentava disturbi simili a quelli della gravidanza. Pina Pissuta la visitò e rimase di stucco, aveva palpato un malloppo dentro la baronessa, ma non era un figlio: era una massa dura, fatale. A quel punto Caterina Safamita rifiutò di farsi visitare da un medico e dichiarò che il malessere era dovuto all'inizio della menopausa.

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