Copertina
Autore Antonella Agnoli
Titolo Caro sindaco, parliamo di biblioteche
EdizioneBibliografica, Milano, 2011, Conoscere la biblioteca 5 , pag. 138, ill., cop.fle., dim. 10,4x17x0,9 cm , Isbn 978-88-7075-709-5
LettoreCorrado Leonardo, 2012
Classe libri , beni comuni , citta' , informatica: reti , paesi: Italia: 2010
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Indice


Prologo                                                   7

Introduzione                                              9

PARTE I: La biblioteca come bene comune                  14

    Biblioteche per tutti o Google per tutti?            14
    Il signor Palomar di fronte a Google                 25
    Facebook, Twitter e Wikipedia                        31
    Scuole, biblioteche e agnolotti                      39
    Biblioteche e tolleranza                             50

PARTE II: Mattoni, scaffali, e-book                      79

    Non ci sono soldi!                                   79
    Una piazza coperta con tutti i servizi               89
    L'edificio                                           95
    Il progetto                                         103
    Costruire la biblioteca insieme ai cittadini        114
    Volontari? Impossibile!                             118

Conclusioni                                             126

10 punti da non dimenticare                             130

Bibliografia                                            133


 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE


Caro sindaco,

so che quando lei pensa alla "biblioteca" le vengono in mente scaffali interminabili, vetrine polverose e zitelle inacidite che guardano i visitatori con palese ostilità. Sono istituzioni che quasi sempre non meritano questa reputazione, nonostante i tentativi dei governi di negare loro le risorse necessarie a tenere aperti i cancelli senza che i soffitti cadano sulla testa dei frequentatori e i topi esercitino la loro rodente critica sulle collezioni secolari. La Teresiana di Mantova, la Malatestiana di Cesena e l'Archiginnasio di Bologna, solo per citarne tre, sono istituzioni che esistono da centinaia d'anni, efficienti e ben gestite, che il mondo ci invidia. E spesso le bibliotecarie sono anche carine, oltre ad essere molto gentili.

Tuttavia, io voglio parlarle non di queste biblioteche ma di qualcosa che in Italia ha lo stesso nome benché sia un servizio completamente diverso, che ha finalità differenti, obbedisce a regole e promuove attività che hanno poco in comune con quelle delle biblioteche di conservazione: la biblioteca di pubblica lettura.

Per decenni, l'Italia ha avuto scarse tradizioni in materia di public library: ci siamo preoccupati quasi soltanto delle nostre biblioteche di conservazione. L'umanesimo italiano ci aveva dato le biblioteche già 500 anni fa, ma queste non sono mai diventate parte di una strategia coerente, una rotellina di un meccanismo che deve collegarsi ad altri ingranaggi per ottenere un risultato: sono sempre state un oggetto di valore collocato nelle nostre città come un vaso cinese in salotto, che potrebbe esserci oppure non esserci. Solo a partire dal 1972, con il trasferimento alle regioni della competenza sulle biblioteche, si cominciano a fare le prime leggi e a sviluppare (in modo molto disomogeneo tra Nord e Sud) una rete di biblioteche di pubblica lettura dipendenti dagli enti locali.

Queste scelte (o piuttosto non-scelte) hanno permesso di salvaguardare un patrimonio culturale prezioso ma hanno avuto effetti negativi sulla promozione della lettura: si sa che meno di un italiano su due ha letto almeno un libro nell'ultimo anno e che, nel periodo ottobre-dicembre 2010 solo un terzo degli italiani ha comprato almeno un libro; meno del 3% ha acquistato almeno sei libri. Solo il 2% degli italiani legge più di due libri al mese [Ferrari 2011].

Biblioteche di pubblica lettura e biblioteche di conservazione sono servizi diversi. La prima è un'istituzione nata nel XIX secolo, soprattutto nei paesi di tradizione protestante, e rispecchia una certa idea della costruzione dello stato nazionale e della democrazia. È stata creata perché razionalità, libertà e democrazia richiedono che l'educazione sia il più possibile diffusa: ne va delle sorti della comunità politica, non di quelle del singolo individuo. È stata creata per alfabetizzare il 100% della popolazione, condizione necessaria per la costruzione di eserciti moderni e per lo sviluppo economico. In Italia essa non è mai diventata un servizio indispensabile per ogni comune, è rimasta un optional affidato alla buona volontà e alla lungimiranza della singola amministrazione.

Le nostre classi dirigenti hanno sempre pensato che la biblioteca fosse un deposito di libri necessario per il prestigio della città ma irrilevante ai fini pratici: gli intellettuali italiani hanno sempre preferito tenere i libri a casa propria, a costo di traslocare periodicamente quando lo spazio sulle pareti era finito. Gli intellettuali americani, inglesi, olandesi o tedeschi non hanno libri in casa, se non quelli a cui tengono particolarmente: i classici, o i libri da usare per le proprie ricerche, si trovano nelle biblioteche universitarie. Le nostre biblioteche di conservazione negli ultimi anni hanno finito per essere frequentate quasi esclusivamente dagli studenti con i libri propri e da qualche studioso di cose locali.

La "biblioteca" all'estero è quasi sempre un luogo che non assomiglia a un palazzo rinascimentale pieno di scaffali, tavoli e sedie: è piuttosto un edificio di vetro e cemento, con poltrone e divani, giardini o terrazze, una caffetteria piacevole, molto spazio per i bambini, luoghi di incontro per gruppi di lettura, magari con corsi di scacchi o di ikebana. Le biblioteche di Seattle, Rotterdam, Helsinki, Lione sono istituzioni irrinunciabili per le città che le ospitano, servizi che accolgono ogni giorno migliaia di bambini e di adulti.

Per fortuna, anche in Italia talvolta si fanno cose utili per avvicinare i bambini e gli adolescenti alla lettura, come "Nati per Leggere". Si tratta di un progetto che coinvolge pediatri e bibliotecari per far sì che l'interesse per il libro nasca fin dalla primissima infanzia, e poi si mantenga. Questa iniziativa è particolarmente utile anche per il suo effetto di coinvolgimento delle famiglie, spesso non lettori che attraverso i loro figli capiscono che il libro può essere interessante anche per loro. I romanzi allegati ai quotidiani hanno portato molta della migliore letteratura mondiale nelle case della classe media grazie alla capillare diffusione delle edicole sul territorio; ora dovremmo portare i libri nei parchi, nelle spiagge, negli ospedali, nelle prigioni (sono molte le biblioteche che già lo fanno) creare non solo bibliobus come quello che ha portato i libri nelle tende dei terremotati dell'Aquila ma anche bibliotreni, bibliobarche e bibliobiciclette che inseguano il potenziale utente ovunque. Questo libro vuole spiegare a sindaci, assessori, tecnici comunali e architetti perché è assolutamente necessario farlo e come sia un progetto perfettamente possibile ovunque. Anche in tempo di crisi.

Il punto di partenza di ogni riflessione deve naturalmente essere il rapporto fra le biblioteche e le nuove tecnologie che, apparentemente, mettono ogni genere di contenuti a disposizione di chiunque abbia un telefonino. La prima parte del volume si occupa quindi di Google, dei social network, della funzione della biblioteca nella crisi.

La seconda parte esplora, nei limiti di spazio di questa collana, come sia possibile costruire una nuova biblioteca (o fare un profondo restyling di una esistente) anche in tempi di sacrifici e di tagli di bilanci per gli enti locali. Partecipazione dei cittadini, finanziamenti, caratteristiche dell'edificio, ruolo del personale, reclutamento dei volontari: i temi da approfondire non mancano di certo.

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PER RIASSUMERE

• L'estensione incontrollabile della rete può provocare nell'utente una paralisi da impossibilità di scelta o il ripiegamento su due o tre brand ben conosciuti.

• I computer non sono un sostituto della scuola né della biblioteca, perché all'aumento delle possibilità di accesso non corrisponde una parallela crescita delle capacità di comprensione e uso dei contenuti.

• la moltiplicazione degli accessi individuali non ha in alcun modo fatto scomparire la necessità di luoghi fisici di formazione e di consultazione che permettano di orientarsi nella società dell'informazione.

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Facebook, Twitter e Wikipedia


Le rivolte popolari dell'anno scorso in Egitto, Tunisia e altri paesi arabi hanno dato fiato ai tecnoentusiasti, come mostrava la copertina della diffusissima rivista "Focus" dell'agosto 2011. Sotto il titolo Lo sciame umano si affermava: "Milioni di persone si collegano sul Web e danno vita a un super-individuo", un'entità "che pensa e comunica alla velocità della luce, può raggiungere nello stesso istante il capo di uno Stato e un operaio appena licenziato e può convincere gli altri con le proprie idee, mostrando loro in diretta ciò che accade in molti posti del mondo".

Non è un'idea nuova. Nel 1880, la popolare rivista "Scientific American" scrisse che "si avvicina l'epoca in cui i membri delle disperse comunità civilizzate saranno uniti dalle comunicazioni telefoniche quanto le varie membra del corpo lo sono dal sistema nervoso". Ottant'anni dopo, Marshall McLuhan avrebbe scritto: "Oggi abbiamo esteso il nostro sistema nervoso centrale in una ragnatela globale, abolendo sia lo spazio che il tempo sul nostro pianeta" [Gleick 2011].

Un altro rappresentante dei tecnoentusiasti, Giuseppe Granieri, ha scritto qualche anno fa: "Nel 2011, si calcola, l'universo digitale sarà dieci volte più grande di quanto fosse nel 2006. (...) Nei network ci saranno sempre più persone, sempre più connesse e in ambienti sempre più strutturati, con interfacce e dispositivi sempre più potenti (e forse più sensoriali). Come raccontano e dimostrano gli studi delle diverse discipline (...) assisteremo a cambiamenti e ricerche di equilibrio in tutti i settori, dalla politica all'economia, alla cultura intesa come prodotto, alla cultura intesa come valori condivisi" [Granieri 2009, p. 140].

Il 2011 è arrivato ma il mondo sembra abbastanza simile a quello del 2006, salvo un netto peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone a causa della crisi iniziata nel 2007. L'ottimismo tecnologico che ignora la pesantezza di strutture, abitudini, rapporti di potere, finisce regolarmente smentito dai fatti.

Gli autori dell'articolo di "Focus" evidentemente non si erano posti il problema di come si aggrega un gruppo di persone e di quando queste aggregazioni sono efficaci. Purtroppo, se gli sms sono utili per convocare una manifestazione, nulla garantisce che la manifestazione sia organizzata per obiettivi giusti, al momento giusto, e che abbia effetto: "Che cosa succede poi?" chiede Zygmunt Bauman, "Egiziani e tunisini hanno forse un'idea del loro futuro?" [Malaguti 2011]. Twitter e Facebook hanno avuto bisogno di sei mesi di bombardamenti della Nato per avere ragione del regime di Gheddafi in Libia e lo "sciame umano" di piazza Tahrir ha enormi difficoltà per fare dei passi avanti sulla strada di una vera democratizzazione dell'Egitto, bloccata dalle resistenze degli apparati del vecchio regime. Tutti gli argomenti complessi hanno bisogno di una sfera pubblica funzionante, alimentata da una cultura politica condivisa. I concetti di libertà o di uguaglianza non si imparano su Wikipedia: è solo ragionando a partire dai classici del pensiero politico e scambiando opinioni formulate nel modo appropriato che si fanno dei passi in avanti.

Inoltre, i social network, al contrario di quanto si crede, sono estremamente vulnerabili: non solo la Cina e l'Iran ma anche la democratica Inghilterra ha pensato seriamente di chiuderli a causa delle rivolte di giovanissimi esplose nell'agosto 2011 e, nello stesso mese, la polizia di Chicago ha semplicemente "staccato la spina" dei cellulari nella metropolitana per impedire manifestazioni di protesta dopo l'uccisione di un giovane da parte della polizia. Contare su Twitter e Facebook per trasformare il mondo sembra quanto meno ingenuo.

D'altro canto, nulla sembra dimostrare chiaramente la superiorità della rete nel promuovere la cooperazione di migliaia di persone quanto il successo di Wikipedia. Nata il 10 gennaio 2001, in febbraio aveva 1.000 articoli, in settembre 10.000 e nell'agosto 2002, 40.000. Nel 2011, dieci anni dopo l'enciclopedia creata esclusivamente da volontari vantava circa 19 milioni di voci, di cui 3,7 milioni in inglese, 800.000 in italiano e quasi 15 milioni in altre 280 lingue. È il sesto sito web più frequentato al mondo (dietro Facebook, Google, YouTube, Yahoo e Live, il portale di Microsoft) e viene aggiornato centinaia di volte ogni ora anche grazie al fatto che, cercando un'informazione attraverso Google, quasi sempre la prima delle pagine che compaiono è proprio quella di Wikipedia. Se una persona diventa importante per qualsiasi motivo è probabile che Wikipedia abbia un articolo in merito quasi immediatamente. Spesso dettagliato, quasi sempre discretamente informativo.

Soprattutto, Wikipedia ha creato il modello di documento aperto alle rielaborazioni di chiunque, che è stato adottato da molte aziende per sfruttare al meglio le conoscenze e l'entusiasmo dei dipendenti, spesso soffocati dalle strutture gerarchiche dell'azienda. Fare progetti, immaginare nuovi prodotti, studiare strategie attraverso una piattaforma wiki si è rivelato estremamente fruttuoso e molti preconizzano un avvenire interamente basato sulla cooperazione volontaria e l'economia del dono (benché nelle aziende il "dono" sia piuttosto a senso unico: dai dipendenti al vertice aziendale che trae beneficio dal loro impegno non retribuito).

Insieme al sistema operativo gratuito Linux, Wikipedia ha dimostrato per dieci anni le straordinarie possibilità della cooperazione tra persone, diventando il simbolo di quello che Chris Anderson definisce uno straordinario fenomeno, l'intreccio fra volontariato e hobbysmo di massa: "Stiamo assistendo all'alba di una nuova era, in cui la maggior parte dei produttori, qualsiasi sia il loro settore, non viene pagata, e la principale differenza tra loro e le loro controparti professionali è soltanto il divario (decrescente) di risorse disponibili per ampliare le ambizioni del loro lavoro. Quando gli strumenti di produzione sono disponibili per tutti, tutti diventano produttori" [Anderson 2008, p. 66].

La "nuova era", in cui la maggior parte dei produttori non viene pagata sembra però aver incontrato recentemente alcune difficoltà, di cui la prima è che Wikipedia non è mai stata un fenomeno veramente di massa. Lungi dal coinvolgere la "maggior parte dei produttori", qualche anno fa l'enciclopedia si reggeva su un gran numero di simpatizzanti ma anche su un numero straordinariamente piccolo di veri appassionati: il 90% degli interventi sull'edizione spagnola veniva effettuato da appena l'8% degli utenti attivi. Il 75% degli interventi sull'edizione inglese, di gran lunga la più importante, veniva effettuato dal 2% degli utenti attivi, cioè circa 1.500 persone. Metà degli interventi erano opera dello 0,7% degli utenti, cioè 524 persone [Sunstein 2006, p. 151].

Questo significa che fin dall'inizio Wikipedia ha funzionato come una piramide rovesciata: ha saputo appassionare e coinvolgere un grandissimo numero di persone in tutto il mondo ma si reggeva su una base molto piccola, quindi estremamente fragile. Nel 2011 si è scoperto che anche i giovani smanettoni crescono, devono trovarsi un lavoro che permetta di pagare l'affitto, magari mettono su famiglia e il volontariato informatico passa in secondo piano. Lo ha annunciato lo stesso Jimmy Wales nel corso di Wikimania, la conferenza dei soci attivi tenutasi ad Haifa nell'agosto 2011, dove ha ammesso la crisi: Wikipedia non viene più aggiornata a sufficienza perché il nucleo duro dei suoi collaboratori sta scomparendo.

Wales ha detto che la generazione di giovani che aveva decretato il successo di Wikipedia è maturata, passata ad altre attività o ad altri interessi, ed è quindi necessario che il testimone passi ad una nuova generazione di militanti, in particolare donne perché fino ad oggi Wikipedia è stata una riserva di caccia maschile (età media: 26 anni). Un'interessante iniziativa della Toscana è stata quella di stimolare i bibliotecari della regione a collaborare, aprendo la strada a un possibile miglioramento qualitativo delle voci e a forme di partecipazione qualificata più stabili. È troppo presto, tuttavia, per dire se ci saranno sviluppi significativi.

Può essere che Wikipedia abbia ancora un futuro di successi ma è altrettanto possibile che il fascino della novità si sia esaurito e che la moda di collaborare sia superata. Se così fosse, entrerebbe in crisi non soltanto il caso specifico ma la stessa filosofia del lavoro gratuito per il piacere di stare in una comunità che realizza esperienze innovative: la pesantezza delle strutture sociali che impongono a tutti di cercarsi un lavoro retribuito (cosa sempre più ardua) mostrerebbe nei fatti quanto sia difficile conciliare capitalismo ed economia della gratuità.

Se il declino di Wikipedia fosse confermato, sarebbe un'importante lezione: solo organizzazioni istituzionalizzate sopravvivono nel lungo periodo. Gli esperimenti basati sull'entusiasmo, le mode, il volontariato hanno un ciclo di vita piuttosto breve. Da questo punto di vista, le biblioteche sembrano tanto necessarie oggi quanto lo erano 280 anni fa, nel 1731, quando Benjamin Franklin fondò a Filadelfia la Library Company of Philadelphia, la prima biblioteca di prestito del mondo. Il motivo sta nelle considerazioni che lo stesso Franklin fece qualche decennio più tardi, riflettendo su questa esperienza: "Queste Biblioteche hanno migliorato il dibattito pubblico tra gli americani, reso i commercianti e i contadini qualsiasi intelligenti quanto la maggioranza dei gentiluomini negli altri paesi e forse hanno contribuito in una certa misura alla decisa e generale presa di posizione delle colonie in difesa dei loro diritti" [Singer 2011].

In altre parole, la rivoluzione americana non ci sarebbe mai stata se la grande maggioranza della popolazione delle colonie non avesse raggiunto livelli di alfabetizzazione allora impensabili in Europa. Fu la capacità di leggere e di discutere insieme, nelle taverne, nelle piazze, nelle chiese, a trasformare la situazione politica e a costringere la Gran Bretagna ad accettare l'indipendenza degli Stati Uniti. Cent'anni dopo, Andrew Carnegie spese la sua fortuna personale per costruire biblioteche ovunque e, ancora oggi, la public library di Pittsburgh esibisce con orgoglio la grande scritta incisa nel marmo: Free to the People.



PER RIASSUMERE

• I social network sono un pallido surrogato di una sfera pubblica robusta e di sedi appropriate di discussione politica. Sono, inoltre, molto vulnerabili alla censura.

• Wikipedia ha dimostrato per dieci anni le straordinarie possibilità della cooperazione nel creare nuovi prodotti culturali; ha saputo appassionare e coinvolgere un grandissimo numero di persone ma il suo continuo sviluppo si reggeva su una base ristretta di fedelissimi. Oggi, molti dei suoi collaboratori più attivi stanno abbandonando l'impresa.

• Le istituzioni sopravvivono nel lungo periodo: gli esperimenti basati sul solo entusiasmo hanno vita breve.

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Una ragione in più per considerare le biblioteche di pubblica lettura come un indispensabile presidio del territorio, l'equivalente del pronto soccorso o della caserma dei pompieri: un paese che laurea dei giovani incapaci di trovare la Libia su un atlante, o di decifrare l'estratto conto della banca, non ha luminose prospettive di crescita davanti a sé. Gli altri grandi paesi europei lo hanno capito da un pezzo.

Il capitale umano dell'Italia non solo non cresce ma stagna e forse diminuisce mentre l'unico settore dove potremmo avere successo, la cultura, viene regolarmente maltrattato: tra il 2004 e il 2009, il numero di scrittori e artisti è cresciuto in Spagna da 77.600 a 101.500, in Francia da 150.500 a 180.200, in Gran Bretagna da 140.500 a 195.000, in Germania da 235.000 a 327.800. E in Italia? Stagnazione anche in questo campo: i nostri scrittori e artisti erano 118.000 nel 2004 e appena 119.000 nel 2009 [Eurostat 2011]. Eppure, abbiamo politici che decretano: "Con la cultura non si mangia" o sbruffoneggiano così: "Noi non leggiamo libri, mangiamo agnolotti" [Turnaturi 2011, p. 226].

"Tagliare la cultura" risponde Ugo Olivieri "significa ipotizzare un modello di sviluppo a bassissima innovazione scientifica e tecnica, centrato sul predominio del capitale finanziario e parassitario e su una composizione sociale di netta separazione fra le classi sociali e di distruzione delle istituzioni educative pubbliche" [Olivieri 2011].

Guardiamo alle statistiche europee: in tutti i paesi scandinavi la percentuale di lavoratori che hanno un'occupazione nei settori della cultura è superiore al 2%, con in testa la Norvegia (2,6%) seguita da Svezia, Danimarca, Finlandia e da grandi paesi come Germania (2,2%) e Gran Bretagna (2,1%). Ora, poiché i norvegesi non possiedono né Raffaello, né Michelangelo, evidentemente hanno trovato altri modi di attivare l'economia della cultura e creare occupazione. L'Italia ha censito circa 2 milioni di beni artistici sul proprio territorio, ma ha una percentuale di lavoratori della cultura e della comunicazione che è metà di quella della Germania: l'1,1%.

Purtroppo, il poco interesse che manifestiamo per la cultura viene di frequente indirizzato verso la realizzazione di convegni dai titoli roboanti, nei quali politici indifferenti e relatori frettolosi fanno a gara nel magnificare le bellezze del territorio dove si svolge l'incontro e nel proclamare che "La cultura è il petrolio dell'Italia" prima di precipitarsi sul buffet. Christian Caliandro e Pier Luigi Sacco rispondono così: "La cultura, in realtà, non potrebbe essere, dal punto di vista economico più diversa dal petrolio. Richiede investimenti consistenti e rischiosi, ha un enorme valore intrinseco e produce economie soltanto se è inserita in un contesto sociale caratterizzato da alti livelli di sviluppo umano e da una elevata propensione alla partecipazione dell'intera società civile. La cultura ha un bisogno vitale di infrastrutture intangibili: la dimensione dello spazio mentale delle persone, la loro capacità di accedere e di dare valore a contesti di esperienza ricchi e complessi. La cultura ha bisogno di una società che pensa e che ama pensare. Nulla di più lontano, dunque, dall'Italia di questi anni" [Caliandro-Sacco 2011, p. 98, corsivo mio].

Sono precisamente quelle infrastrutture intangibili che scuole e biblioteche dovrebbero costruire, permettendo ai cittadini di fare esperienze diverse, originali, profonde. Senza queste esperienze che formino dei cittadini per cui l'arte ha un senso, è inutile parlare di economia della cultura; rischiamo di accorgerci ben presto che souvenir di plastica, alberghi cari e ristoranti pessimi non sono un grande incentivo a visitare le nostre città d'arte.

Forse sarebbe venuto il momento di capire che la rinuncia a leggere libri ha un prezzo: mette in pericolo anche la capacità di portare in tavola gli agnolotti.



PER RIASSUMERE

• La crescita economica è impossibile in assenza di una solida base di capitale umano.

• L'Italia non progredisce nell'istruzione: le capacità di lettura dei ragazzi continuano a scendere mentre salgono, di poco, quelle delle ragazze. Il 29% dei ragazzi di 15 anni sostanzialmente non sa leggere qualcosa di diverso dagli sms ricevuti sul telefonino.

• Le nostre scuole sono oggi in condizioni molto diseguali: l'Italia è uno dei paesi che registrano le maggiori differenze nei risultati di apprendimento degli alunni delle scuole rurali e delle scuole cittadine.

• Il rapporto delle famiglie con la lettura ha una profonda influenza sulla formazione degli adolescenti e anche il crescere in un ambiente politicamente stimolante ha effetti positivi.

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Conclusioni


Caro sindaco, siamo bombardati da informazioni e prodotti di intrattenimento ovunque e in qualsiasi momento. Il carattere effimero e fragile di questi messaggi facilmente accessibili è arrivato a sembrarci perfettamente naturale in una società liquida, un mondo nel quale "le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure", come ha scritto con grande acutezza Zygmunt Bauman [Bauman 2006, p. VII]. Ma questa situazione nasconde anche pericoli su cui è bene riflettere.

L'informazione onnipresente è una delle caratteristiche di un mondo dominato dal senso di incertezza e di spaesamento che viene dal trionfo dell'economia finanziaria e dall'impotenza degli stati nazionali ad affrontare fenomeni come la volatilità delle borse, l'effetto serra, il terrorismo, la delocalizzazione dei posti di lavoro. È la sensazione, come ha scritto Marc Augé , che "non ci sia futuro" [Augé 2009].

Mentre ieri i cittadini traevano un senso di sicurezza e di stabilità dall'esistenza dello Stato, con le sue articolazioni di sistemi postali, pensionistici e di trasporto, oggi gli stessi leader politici ci dicono che ogni mese dobbiamo attenderci cambiamenti epocali, che tutto deve cambiare da un momento all'altro: il nostro lavoro, i nostri diritti, le nostre aspettative.

Molti sottovalutano l'attaccamento popolare alle certezze della vita quotidiana, sia pure la semplice visita del postino o l'esistenza della biblioteca. La memoria di istituzioni apparentemente impersonali, ma in realtà percepite come produttrici di solidarietà e di certezza, permane fortissima anche a secoli di distanza: io vengo dal Cadore, dove ancora oggi è vivo il mito del "buon governo" asburgico. I vecchi parlano volentieri di ciò che i loro nonni raccontavano sulla puntualità della consegna della pensioni da parte dell'amministrazione austriaca, che lasciò la valle nel 1866, un secolo e mezzo fa.

Quando si mette in dubbio il futuro del sistema pensionistico in nome del debito pubblico o della promozione di pensioni integrative private si danneggia gravemente il legame sociale perché si riducono le aree di certezza e di stabilità nella vita quotidiana. Quando si deplora il senso del provvisorio o l'incapacità di fare progetti dei giovani, non si comprende che è stata proprio l'insistenza delle élite e dei mass media sulla "flessibilità" a togliere loro quel minimo di stabilità che derivava dal funzionamento regolare e durevole delle istituzioni.

La televisione ci fa vivere in un eterno presente, dove si mescolano in un flusso continuo immagini del terremoto in Giappone, dibattiti sul campionato e serie poliziesche. Ma la perdita di senso del passato ha un prezzo elevatissimo: ci condanna a rifare sempre gli stessi errori, a scivolare senza accorgercene nella barbarie. Una società che non è in grado di riflettere su se stessa, di produrre nuova cultura, non può nemmeno conservare ciò che esiste.

Abbiamo più che mai bisogno di punti di riferimento e la biblioteca ci àncora al passato nello stesso momento in cui ci promette il futuro: è una garanzia di continuità di cui abbiamo un tremendo bisogno. La biblioteca, indipendentemente dai contenuti, ci rassicura perché con le sue procedure dimostra che la realtà confusa, mutevole, angosciante del mondo esterno può essere messa sotto controllo. La cultura come bene comune non può essere affidata a tecnologie sempre mutevoli mescolate a interessi commerciali: la sua permanenza e la sua condivisione non potranno fare a meno delle biblioteche.

Come scriveva Eleanor Jo Rodger in un saggio recente, le biblioteche sono una irrinunciabile "infrastruttura democratica" e questo è il motivo per cui sono necessarie [Rodger 2009]. Il problema non è se i cittadini ci vadano o no: è che devono avere la possibilità di andarci. Non c'è teoria moderna della democrazia che ammetta un cittadino disinformato e ignorante. Una biblioteca arricchisce il tessuto democratico rendendo possibile a ognuno di informarsi, e di formarsi, in un confronto con gli altri.

I segnali dell'imbarbarimento, della perdita di coscienza civile e di coesione sociale sono troppi, e troppo evidenti, per discuterne qui. Non pensiamo che la democrazia e la qualità della vita possano sopravvivere a lungo senza istituzioni che si oppongano alla marea nera, senza luoghi dove i cittadini possano riscoprire il valore della razionalità, della saggezza, della fiducia gli uni negli altri. Costruire questi luoghi e farli funzionare è un compito più urgente di qualsiasi altro: la rinascita dell'Italia non può che avvenire dal basso, dalla creatività e dagli sforzi di cento città.

Le biblioteche italiane non possono limitarsi a difendere i servizi esistenti, sempre più minacciati da tagli ripetuti dei loro bilanci: occorre ripensare il ruolo della biblioteca, cercare forme di organizzazione e di finanziamento differenti. Questa sarà la sfida dei prossimi anni.

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10 punti da non dimenticare


1 In una società complessa e globalizzata, dove ogni aspetto della vita quotidiana è influenzato da ciò che accade a migliaia di chilometri da noi, il diritto all'informazione è un diritto umano fondamentale e spetta al potere pubblico offrire strutture gratuite e capillarmente distribuite, come le biblioteche sociali, che garantiscano l'accesso a internet.

2 I motori di ricerca non sono un sostituto delle biblioteche perché non potranno mai garantire la certezza e la stabilità delle collezioni, oltre a essere facilmente manipolabili per interessi commerciali o politici.

3 La cultura ha bisogno di infrastrutture che allarghino lo spazio mentale dei cittadini, la loro capacità di accedere a esperienze ricche e complesse, favorendo la partecipazione culturale e politica. Si sfugge alla rovina economica e sociale solo costruendo una società che pensa e che ama pensare. Occorre riorientare le scelte culturali pubbliche e private verso il futuro, se vogliamo evitare la disgregazione sociale e la marginalizzazione economica del Paese.

4 Fare biblioteche belle, accoglienti, ricche di materiali non solo è possibile ma è necessario. Ovunque si è andati in questa direzione, il consenso verso l'amministrazione è stato enorme. Tra i servizi comunali, la biblioteca è sempre il più apprezzato dai cittadini.

5 Nella crisi, la biblioteca è un'àncora di salvezza per i ceti più deboli, i giovani che non riescono a trovare un lavoro, i bambini che hanno bisogno di crescere in un ambiente stimolante e di fare esperienze culturali che in famiglia non potrebbero avere.

6 I sindaci hanno la responsabilità di lavorare per il futuro del loro territorio, quindi devono non solo evitarne il degrado ma arricchirne la dotazione di infrastrutture. Dobbiamo costruire opere culturalmente durevoli e dimenticare i festival, le sagre, gli spettacoli televisivi in piazza che lasciano soltanto spazzatura da raccogliere dietro di sé.

7 La biblioteca è un servizio di base, trasversale, che offre qualcosa a tutte le categorie di cittadini: vecchi e giovani, professionisti e disoccupati, casalinghe e immigrati. Copre un arco di interessi vastissimo e quindi è un sostegno vitale anche per altre strutture culturali come i musei, i teatri, i cinema. Occorre promuovere il coordinamento e l'integrazione fra tutti questi servizi.

8 Costruire una biblioteca è un processo che deve coinvolgere numerose professionalità e può durare molti anni: è quindi necessario concepire il servizio in modo flessibile ed essere pronti a recepire ogni novità per renderlo più efficiente.

9 La biblioteca sociale è un punto di riferimento per milioni di persone che hanno perso il posto, dove trovano gli strumenti per ottenere servizi essenziali, come l'indennità di disoccupazione o le offerte di lavoro, o magari possono cercare le informazioni necessarie a intraprendere una seconda carriera.

10 La biblioteca ha bisogno di coinvolgere la città nella propria vita, di dimostrare ogni giorno la propria utilità: stimolare la partecipazione di gruppi e associazioni è fondamentale; ancora di più lo è il coinvolgere dei volontari che amplino lo spettro delle attività socioculturali da offrire.

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