Autore Ilaria Agostini
CoautoreEnzo Scandurra
Titolo Miserie e splendori dell'urbanistica
EdizioneDeriveApprodi, Roma, 2018, n. 142 , pag. 192, cop.fle., dim. 14x23x1,2 cm , Isbn 978-88-6548-235-3
PrefazionePiero Bevilacqua
LettoreElisabetta Cavalli, 2018
Classe urbanistica , citta' , beni comuni












 

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Indice


Prefazione
Piero Bevilacqua                                      5


Prima parte
Da disciplina del welfare a complice del neoliberismo
Enzo Scandurra

1.  Una disciplina orfana                            21
    Senza padri                                      25
    L'abbandono delle grandi passioni originarie     27
    L'intervento è riuscito,
        peccato il paziente sia morto                29
    La questione dei "Sassi" di Matera,
        un glorioso insuccesso dell'urbanistica      30
    La responsabilità degli urbanisti                34

2.  La svolta liberista                              37

    L'asservimento al mercato                        37
    L'urbanistica liberista                          42
    Roma: prove urbanistiche di neoliberismo         44
    L'urbanistica contrattata                        47
    La retorica della competizione                   47
    L'ideologia affascinante del consumo
        e la gentrificazione                         49
    Privatizzazione dello spazio pubblico            52
    Fare cassa con l'urbanistica                     53
    Le compensazioni urbanistiche
        e i famigerati "diritti acquisiti"           54
    Stadio della Roma                                54
    L'Urbanistica perde la sua visione utopica
        per trasformarsi in tecnica                  60
    L'algoritmo                                      62

3.  Questioni aperte                                 64

    L'urbanistica e la bellezza delle città          64
    Bellezza come virtù civica                       70

    Città in emergenza  148
    La felicità pubblica come
        componente della bellezza                    71
    Il divorzio tra urbs e civitas                   73
    Ricostituire la bellezza delle virtù civiche     73
    L'urbanistica non ha mai capito la bellezza      74
    E le periferie?                                  75
    La benedetta partecipazione                      80
    Resilienza e rigenerazione urbana:
        l'uso ambiguo della metafora in urbanistica  83


Seconda parte
Tentativi di rinascita e forme di resistenza
Ilaria Agostini

4.  Urbanistica ed ecologia.
        Urbanistica versus ecologia                  89

    Avanguardie ecologiste                           90
    L'esempio delle sperimentazioni                  93
    L'autonomia della comunità                       95
    Non uccidere il suolo                           100
    La regione di vita                              104
    Il tradimento del pensiero ecologista           107

5.  La resistenza civile allo spreco dell'habitat   112

    L'insensato spreco                              114
    Fame di grandi spazi                            116
    Neoambientalismo                                123
    Dalla parte del territorio                      127
    Ipotesi per un cambio di rotta                  132
    La svolta regressista. Abusivismo di Regione    136
    Superare l'affanno turbocapitalista             139

6.  Contro la dissoluzione della città pubblica     142

    Lo spazio comune e pubblico                     142
    Spaesamento e decoro nella città dei recinti    145
    Città in emergenza                              148
    Riqualificazione urbana e questione sociale     152
    L'alienazione del patrimonio pubblico.
        O l'urbanistica mestiere da contabili       155
    Firenze in vendita                              158
    Il riuso, il rione, la forza viva dei migranti  162
    Territori urbani in fermento                    166
    Resistenza progettante:
        città e territori in germe                  169


Conclusioni
Che fare?                                           174
Ilaria Agostini, Enzo Scandurra

Indice dei nomi di persone, enti,
    associazioni e comitati                         182



 

 

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Pagina 21

1.
Una disciplina orfana



C'è uno scarto grande tra il fascino misterioso e profondo di ogni città, la sua sacralità e bellezza, l'armonia delle sue forme stratificate nel tempo, il loro indistricabile rapporto con le comunità viventi, e il compendio modesto, fatto di norme, tecniche e specialismi, di quella disciplina - l'urbanistica -, cui è demandato il compito di studiare la città, di organizzarne lo sviluppo, di stabilirne la forma. Se le città non sono cumuli occasionali di pietra, ma affascinanti quanto misteriose abitazioni di uomini, al confronto l'urbanistica è una disciplina piuttosto arida, piatta, «poco attraente e alquanto screditata». Perfino noiosa quando si prefigge di pianificare astrattamente ogni singola azione e la libertà dell'individuo all'interno di spazi rigidi e funzionalmente separati, rimanendo «in un ambito che è preda degli esperti di proiezioni statistiche». E pericolosa, quando essa di adegua al dogma economico neoliberista, rinunciando al progettp del futuro e compiendo, con ciò, un atto di sottomissione allo "spirito dei tempi", al cosiddetto realismo.

A meno che non ci si riallacci alle sue passioni originarie, quando. con la nascita della città moderna, nell'era dell'accumulazione originaria (una città quasi sempre sorta di necessità accanto a una miniera di carbone, o a qualche grande fabbrica), essa contribuiva, insieme alle lotte operaie - anzi parte stessa di quelle lotte -, a dare la speranza che il mondo migliore avrebbe potuto avere anche una forma fisica a esso adeguata, una forma urbis più consona alle prerogative e alle aspettative di una classe subalterna costretta a vivere in condizioni fisiche, oltreché sociali, miserabili. Quella era la sua vocazione: una disciplina del welfare, una disciplina che si proponeva di attenuare, e anzi invertire di segno, quel modello di vita in comune devastato da un impetuoso quanto feroce sviluppo industriale - che avrebbe segnato la seconda metà dell'Ottocento e poi la prima metà del Novecento - e che aveva definitivamente dissolto ogni altra forma di insediamento umano precedente. Una disciplina, dunque, a forte vocazione riformista.

La città, quella che fino a qualche anno fa abbiamo continuato a chiamare "moderna", costituiva un mondo nuovo di sensazioni fisiche e psichiche fino ad allora sconosciute (choc di Baudelaire), un luogo attraversato dalle prime folle (l'uomo della folla di Poe), dove gli incontri tra persone costituivano eventi mai prima provati, un luogo di spaesamento (il flâneur di Benjamin, confuso dallo sfavillio delle merci) e dove osservatori acuti come Benjamin intravedevano le prime forme di mall (i passages di Parigi). L'illuminazione elettrica fu la prima grande innovazione urbana che diede inizio alla vita notturna, agli incontri in luoghi in precedenza evitati per la loro pericolosità. Marx riprese il vecchio detto medievale: "L'aria della città rende liberi" poiché vedeva nella nascita della città moderna, un'occasione di emancipazione collettiva, la nascita del proletariato industriale che avrebbe spazzato via, nel successivo corso della storia, la borghesia al potere.

E poi ancora nel dopoguerra essa ebbe i suoi momenti gloriosi nel produrre norme di rispetto (gli standard urbanistici) nella realizzazione dei nuovi quartieri; nella redazione dei primi piani urbanistici che avrebbero dovuto mettere ordine all'espansione incontrollata della città e anche in quella (unica nella storia dell'urbanistica) battaglia portata avanti dal ministro Fiorentino Sullo, nei confronti della rendita fondiaria.

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Pagina 25

Senza padri


Franco La Cecla nel suo libro, Contro l'urbanistica, sostiene che, alla base della crisi dell'urbanistica, c'è stata una rottura trà gli ideali dei padri fondatori: Pëtr Kropotkin, Patrick Geddes, Lewis Mumford, e gli attuali urban planners «abituati a rincorrere soluzioni più o meno drastiche legate a una strumentazione che si è ben poco rinnovata negli ultimi cinquarianni». A tal punto si è consumata la rottura che si chiede: «Come è possibile che una storia nata così bene sia finita così male?».

Qui sostengo una tesi diversa, praticamente rovesciata. In altri termini quella originaria e nobile tradizione di ideali e valori, inaugurata da figure come Kropotkin, Geddes e Mumford, si esaurisce con loro stessi che, più che padri fondatori rappresentano riferimenti teorici (tanto abusati nelle citazioni, quanto ignorati nella pratica) non accolti nella sostanza, o "traditi", prendendo - l'urbanistica - una strada diversa da quella da loro inaugurata. Nel momento in cui essa si fa disciplina è l'aspetto tecnico a condizionarne la natura e il verso mumfordiano: la città è la gente, fa posto all'attenzione sulla città di pietra: incasati, infrastrutture, servizi.

Così che questa disciplina risulta, tra tutte le discipline nate con la modernità, sostanzialmente "orfana". Perché tra le discipline moderne a essa vicine, la sociologia, ad esempio, annovera tra i suoi padri fondativi, personaggi come Comte, Durkheim, Weber, e poi la Scuola di Francoforte, Marcuse, fino ai giorni nostri con Ferrarotti e Bauman. Altrettanto vanta l'antropologia con personaggi come Lévi-Strauss e De Martino. In economia, poi, non mancano certo nomi illustri, da Smith a Ricardo, a Marx. Kropotkin, Mumford, Geddes sono invece padri impropri non tanto (e solo) per la loro origine disciplinare (Kropotkin era un filosofo e zoologo, Mumford era un sociologo, così come Geddes era un biologo), quanto piuttosto perché con l'avvento della Modernità, i loro messaggi e i loro lasciti vengono rapidamente abbandonati e, in certo senso, deformati e rinnegati.

E, infatti, l'urbanistica moderna ha a che fare, purtroppo, assai poco con quegli ideali di convivenza umana, salvo qualche eccezione rapidamente esauritasi (in Italia: Adriano Olivetti e l'esperienza di Ivrea, Carlo Doglio, Giancarlo De Carlo, Federico Gorio e pochissimi altri). L'urbanistica moderna, l'urbanistica come disciplina autonoma, nasce con la rivoluzione industriale con la vocazione di inseguire e semmai correggere lo sviluppo industriale e i danni causati dal capitalismo. E questo segna, sin dall'inizio il suo destino di guardare alla città come a una macchina funzionale, tralasciando l'altra metà del problema: la città come oikos, accoglienza, luogo di convivenza tra diversi.

Così che l'"assenza" di padri fondatori rimanda alla questione del suo apparato teorico. Possiamo dire che l'urbanistica è un sapere umanistico? (Definirla scienza sarebbe del tutto inappropriato). E quali sarebbero allora i suoi fondamentali? In molti sostengono che essa è un insieme di pratiche, al più un sapere pragmatico, o un sapere esperto, organizzato per mettere ordine al caos crescente provocato dalla nascita delle prime città moderne, che poi erano insediamenti urbani quasi sempre a ridosso delle prime grandi fabbriche: miniere, impianti industriali.

[...]

Quando non riusciamo a dare un nome a una disciplina, a definirla univocamente, significa che essa possiede un debole statuto epistemologico, e si presta, di volta in volta, a operazioni di dubbia interpretazione soggettiva. Così, questa disciplina orfana nata nella modernità senza uno statuto disciplinare definito, continua a essere evocata con nomi diversi: da arte, a scienza, a disciplina, a un sapere, a insieme di tecniche, fino (qualcuno ha detto) a una cassetta degli attrezzi per mettere mano alla città e al territorio.

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Pagina 29

L'intervento è riuscito, peccato il paziente sia morto


E veniamo a una delle più frequenti controversie sull'operato degli urbanisti e l'efficacia dei loro piani: la questione del fallimento, o comunque dell'insuccesso, di interi quartieri di edilizia pubblica residenziale, come Le Vele di Scampia a Napoli; Tor Bella Monaca, Laurentino 38 e Corviale, a Roma; lo Zen di Palermo, solo per citare i casi più eclatanti. Di quale fallimento, o insuccesso, si parla e di chi la colpa di tale presunto fallimento?

Gli urbanisti, in questi casi, ci spiegano che quel fallimento è dovuto a varie circostanze, tra le quali: l'assenza di infrastrutture e servizi, che pure erano previsti nel progetto e che, invece, non sono mai stati realizzati dall'amministrazione pubblica; dal mancato controllo delle istituzioni preposte (Ater) nella fase di assegnazione degli alloggi (diversamente da quanto era avvenuto nella passata esperienza dell'Ina-Casa), per cui gli alloggi venivano occupati da persone che non ne avevano il diritto innescando un commercio illegale e finendo col concentrare in questi nuovi quartieri persone disagiate, senza lavoro, spesso con precedenti penali alle loro spalle. Gli urbanisti, però, anche nei casi sopra citati di evidenti insuccessi, sostengono che il progetto, o i progetti, erano buoni, e taluni si spingono ancora più oltre affermando che lo rifarebbero di nuovo. Dunque di quale insuccesso o fallimento parliamo?

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Pagina 34

La responsabilità degli urbanisti


I successivi casi d'insuccesso saranno meno illustri e meno d'avanguardia; puntualmente l'errore progettuale de La Martella si ripete in tante altre circostanze dove si pone il problema di trasferire in maniera coatta in un unico luogo parti di comunità o comunque gruppi di persone disagiate, sia pure per soddisfare le loro legittime esigenze di avere una casa e un quartiere per loro appositamente progettati.

C'è allora da chiedersi se non sarebbe compito degli urbanisti, prima di accettare l'incarico di progettare insediamenti residenziali pubblici, entrare nel merito di alcune questioni che, poi, immancabilmente diventano esplosive, quali: chi saranno gli assegnatari di quegli alloggi e quale la loro provenienza, se ci sono garanzie certe che i servizi progettati saranno realizzati, come evitare il rischio di ghettizzazione causato da una eccessiva distanza dal centro o comunque di una difficile accessibilità a esso, e così via.

Perché queste domande non dovrebbero far parte del loro bagaglio culturale?

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Pagina 60

L'Urbanistica perde la sua visione utopica per trasformarsi in tecnica


Se si depotenzia l'urbanistica sottraendole la sua visione utopica, essa rimane una pura tecnica al servizio del potere costituito. Olivetti e, dopo di lui, La Pira e poi ancora De Carlo, così come tanti altri urbanisti, concepivano l'urbanistica come una passione a cui affidavano il compito di attenuare le disuguaglianze, prodotte dallo sviluppo, con progetti che esaltavano la bellezza della città e l'armonia di vita collettiva.

A questa particolare visione si è da tempo rinunciato (salvo qualche raro caso), così che essa ha finito con l'essere asservita a interessi di parte di potentati economici. L'intero suo corpo disciplinare, nato con la legge 1150 del 1942, e poi via via aggiornato con le successive leggi, esiti di lotte e conquiste operaie per il diritto alla casa, all'ambiente, alla città, è stato, a partire dagli anni Ottanta (con il primo condono edilizio del 1985), snaturato con leggine e provvedimenti ad hoc, tesi a favorire l'iniziativa privata nelle sue varie forme.

Questo processo di deregolazione ha avuto come esito quello di una progressiva tecnicizzazione dell'impianto originale. Di volta in volta che la disciplina manifestava una resistenza nei confronti di azioni volte al consumo di suolo, o di pratiche illegali diffuse da parte dell'impresa privata, essa veniva indebolita con l'introduzione di norme (o leggi) particolari che depotenziavano la sua originaria carica riformista. Molti urbanisti hanno avuto un ruolo attivo o di fiancheggiamento in questa mutazione genetica. Altri, una volta finiti nell'ingranaggio delle amministrazioni, ne hanno accettato le regole, convinti (in alcuni casi) di riuscire comunque a strappare qualche vantaggio per l'interesse pubblico, pagando un caro prezzo alla speculazione immobiliare.

Tramontate le ideologie (salvo quella del consumismo e della libertà individuale senza limiti), la nuova tendenza degli urbanisti è quella di affidarsi alla tecnica, alle tecniche, così da oscurare la crisi di idee su ciò che dovrebbe essere la città contemporanea. Da una parte, dunque, l'affidamento delle scelte alle tecniche, dall'altra, all'opposto, il laissez faire dell'informale, dell'abusivismo, dello scatenamento dello spirito animale del nuovo capitalismo finanziario.

E questo drammatico bipolarismo non fa che svelare l'incapacità e l'inadeguatezza culturale della disciplina che, sempre più, perde la propria capacità critica di saper leggere, saper interpretare e prospettare nuovi orizzonti per la città contemporanea. A dare prospettive e soluzioni o ci pensano le tecniche o ci pensa il mercato, che poi, in sostanza, è pressoché la stessa cosa. Perché le tecniche utilizzate sono tutte originate e modellate sull'esempio del libero mercato: il bene ultimo è la città e non i suoi abitanti. E le due cose non coincidono, tanto più oggi, perché una città può essere, o diventare, ricca mentre i suoi abitanti si impoveriscono. Non è un'affermazione paradossale e neppure provocatoria.

La città, in quanto vetrina, in quanto essa stessa merce nel grande mercato della globalizzazione, può accrescere il proprio valore economico (per esempio, il costo delle sue abitazioni, il valore dei suoi centri commerciali o dei suoi uffici di rappresentanza), mentre la maggior parte dei suoi abitanti non riceve alcun beneficio da questa crescita. Semmai può accadere il contrario, per esempio, l'aumento dei valori immobiliari e delle abitazioni, spinge i vecchi abitanti fuori dalla città in aree sempre più periferiche e sempre più degradate. Le disuguaglianze aumentano mano a mano che la città dei ricchi riscuote più successo per le sue infrastrutture privilegiate, per la presenza di uffici internazionali di compagnie globali, per la ricchezza dei suoi monumenti, dei suoi musei, dei suoi aeroporti e stazioni ferroviarie trasformate in giganteschi luoghi di consumo.

Da un lato la città tende a inserirsi in quella competizione internazionale scalando le classifiche mondiali, dall'altro cerca di evitare che le sue immense periferie (che si accrescono con la povertà, le disuguaglianze e la marginalizzazione), possano esplodere, elargendo per esse una minima parte dei suoi profitti in futili e contingenti programmi di spesa. Un riformismo caritatevole realizzato attraverso provvedimenti insufficienti che si rivelerano fallimentari e forse anche controproducenti.

Affermare, come fanno alcuni, che l'urbanistica è un sapere tecnico, può forse tranquillizzare le coscienze inquiete, ma non esimerci dall'assumerci tutte le responsabilità derivanti dalle scelte che facciamo e che non sono mai neutrali. Utilizzare, ad esempio, una tecnica di valutazione d'impatto ambientale per prendere la decisione di realizzare un progetto può aiutarci nella scelta e nella conseguente decisione, ma affidarci completamente a essa, ai suoi risultati, è fare falsa ideologia, ingannare noi stessi e gli altri.

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Pagina 89

4.
Urbanistica ed ecologia,
urbanistica versus ecologia



L'habitat umano - territorio e città, ambiente urbano e rurale - è il campo di applicazione dell'urbanistica. Disciplina transcalare che spazia dalla dimensione geografica e corografica fino all'architettura, al particolare architettonico, fino all'uno a uno, essa implica una riflessione ad ampio spettro sugli ambienti della vita collettiva, sulle forme dell'abitare, sullo spazio pubblico, sullo spazio comune e su quello privato. L'urbanistica ricompone perciò il contributo proveniente da altri saperi scientifici, dalla giurisprudenza all'estetica, dalla medicina all'antropologia. Tra questi saperi, l'ecologia, in quanto scienza delle relazioni tra ambiente e popolazioni insediate, umane e non umane, le offre fondamenti teorici ineludibili.

L'ecologia, «scienza delle relazioni», chiama l'urbanista a progettare ambienti di vita atti a esaltare le capacità di autonomia e autorganizzazione delle popolazioni che vi risiedono, in equilibrio stabile con il contesto naturale. Chiama l'urbanista a pianificare città e territori secondo principi improntati all'accudimento dell'habitat per il suo integro e migliorato tramando, alla costruzione di fertili relazioni tra individuo, società e il loro comune ambiente, alla ricerca di un rapporto virtuoso tra produzione di materie necessarie alla vita e riproduzione del vivente.

Il pensiero ecologico ha svelato infatti che non è possibile occultare la centralità dell'aspetto generativo, che annientare la vitalità dell'ambiente in nome della "produttività" è parte dell'illusione fallace di una crescita senza limiti in un mondo di dimensioni finite. «Produzione e riproduzione devono essere nuovamente interconnesse», afferma Vandana Shiva che, in proposito, aggiunge:

Il contributo creativo offerto dalle donne, dai contadini e dai nativi, consiste prima di tutto nel rigenerare la vita, e nel conservare le capacità di rigenerarla. Nella visione patriarcale capitalista - che considera l'impegno di donne e contadini come un'attività biologica ripetitiva e priva di pensiero - rigenerare non corrisponde a creare, bensì a ripetere. Ma ciò è falso. E anche l'idea che la creazione si riduca alla novità è falsa.

Al paradigma generativo-riproduttivo, che consente di superare la concezione del territorio come tabula rasa, strumentale all'industrialismo e allo "sviluppismo", l'ecologia aggiunge l'urgenza di adottare una logica non proprietaria, rappresentata paradigmaticamente dall'arcaico sistema dei beni collettivi gestiti con usi civici. In tale assetto, la virtù incrementale del bene è connaturata alle qualità di inusucapibilità, indivisibilità e inalienabilità che consentono la trasmissione del bene, integro e "migliorato", alle generazioni future.




Avanguardie ecologiste


Tra gli anni di piombo e l'avvio della "grande trasformazione neoliberista", anche in Italia prende forza la riflessione ecologista, stimolata da una situazione ambientale che si stava facendo critica. Nel 1976, a Seveso in Brianza, una nube di fumi tossici costringe un'intera popolazione all'evacuazione; nel 1979 esplode a Cengio un reparto dell'Acna; nel 1984, a Bhopal in India, tremila persone muoiono in una notte a seguito della perdita dai serbatoi di uno stabilimento di prodotti chimici per l'agricoltura. Ma risale al 1986 l'incidente al reattore di Chernobyl che coinvolge l'Europa intera. L'incidente nucleare fa acquisire globalmente la consapevolezza che gli effetti dell'inquinamento non sono contenibili localmente, che a fronte del «problema ecologico» non esiste salvezza individuale, né generazionale.

«Inquiete avanguardie» avvertono in quegli anni la necessità di costruire un «nuovo paradigma» teorico. Sono i tempi in cui - in piena espansione del potere umano sulla natura, della monetarizzazione e della mercificazione di ogni settore della vita - il principio legittimante del sistema industrialista, secondo il quale il progresso tecnico avrebbe coinciso con il progresso sociale, è messo definitivamente in crisi: nel 1972, in corrispondenza con la Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente umano tenutasi a Stoccolma; sono pubblicati i fondamentali Blueprint for Survival e Limits to Growth (I limiti dello sviluppo). Ivan Illich enuclea l'esigenza del trapasso dall'economia di mercato a un'economia di «sussistenza di tipo moderno», nella quale la produzione di valori di scambio cede il passo alla produzione di valori d'uso, la competizione alla convivialità, la carenza al dono, l'«espertocrazia» all'auto-organizzazione. L'altoatesino Alexander Langer mette a punto un programma di «conversione ecologica» improntato sulla «rinuncia volontaria» e giocato su «virtù verdi».

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Pagina 92

Nei suoi scritti, Gregory Bateson , teorico della scienza della complessità, afferma che, per raggiungere un obbiettivo ecologico, i mezzi dovranno essere ecologici anch'essi: che tra sfera del pensiero e sfera dell'azione non può esservi contraddizione. L'urbanistica, se avvertita della riflessione ecologista, deve perciò accantonare concetti come competizione, efficienza, innovazione, riduzione, meccanicismo. Attraverso questa metamorfosi essa potrà verosimilmente assumere uno statuto disciplinare che: favorendo pratiche di accudimento del territorio e forme di democrazia diretta; che, rivedendo profondamente l'assolutezza del diritto di proprietà e conferendo nuova dignità alla gestione collettiva dei beni comuni basata sulla solidarietà e sulla creazione di valore d'uso; e che, rigettando la logica estrattiva e facendo propri i principi dell'economia circolare, «non interferisca con l'abilità intrinseca della natura di sostenere la vita, ma ne agevoli la forza generativa».

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Pagina 158

Firenze in vendita


Per comprendere la trasmutazione dell'ente locale in liquidatore dei beni patrimoniali, e dell'urbanista in ragioniere, è opportuno riferirsi a un esempio concreto. Scegliamo Firenze, dove si assiste forse al caso più luminoso di messa in scena di detto trapasso.

Nel 2014 il Comune pubblica un fascicolo che illustra, a mo' di catalogo commerciale, una serie di edifici in vendita nella «city of the opportunities» (sic): dei cinquantanove edifici presentati, ben quarantadue sono privati o di enti pubblici diversi dal Comune (Ferrovie dello Stato, Cnr, Poste ecc.). Il catalogo fiorentino è presentato dal sindaco in persona alle fiere della speculazione immobiliare. Qualcosa di simile avviene in Regione Toscana: nell'apposito sito Invest in Tuscany (dove il lusso è pervasivo sia nel messaggio che nel vettore comunicativo) si possono sfogliare i beni in vendita, tutti invero di proprietà regionale: gli «historical buildings and prestigious assets» che l'assessore regionale promuove al Mipim di Cannes, facendo leva sul «famous tuscan charm».

A dispetto della trasparenza ostentata nella promozione delle vendite, il destino degli edifici pubblici non può dirsi inscritto nella glasnost: offerte e proposte di acquisto sono ricostruibili solo attraverso le indiscrezioni raccolte dalla stampa. Neanche il consiglio comunale ne è messo al corrente. Al cospetto di questo stato di cose, che si ripresenta con caratteri simili lungo la penisola, la resistenza cittadina si organizza e produce documentazione che sopperisce alla mancanza di informazioni ufficiali, fornendo al tempo stesso ipotesi di riuso e di riconnessioni urbane possibili grazie proprio al sapiente reimpiego di tali edifici.

I migliori edifici del catalogo immobiliare edito dal Comune - quelli situati nel centro storico - sono stati effettivamente venduti grazie al richiamo turistico della città. Residenze per ferrovieri saranno trasformate in studentato di lusso, un collegio religioso in hotel «sette stelle extralusso»" (parola del sindaco), caserme in resort esclusivi. Tra gli investitori si trova di tutto, dai magnati argentini alle companies statunitensi.

Nell'intermediazione, la parte del leone la fa però la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). L'istituto, trasformato in società per azioni nel 2003, ha assunto finalità di profitto tradendo il mandato originario: di Banca di Stato nata per raccogliere e garantire il risparmio postale ai cittadini e utilizzare questa enorme massa di liquidità per finanziare a tassi agevolati gli investimenti degli enti locali. Oggi la Cdp finanzia invece la svendita del patrimonio pubblico dei comuni: nel capoluogo toscano se ne trova ampia conferma. La cessione di tre importanti edifici di proprietà comunale è avvenuta seguendo per tre volte il medesimo copione. Il Teatro Comunale viene comprato dalla Cdp pochi giorni prima della chiusura del bilancio municipale: siamo nel dicembre 2013, Renzi - sindaco - è in ascesa verso palazzo Chigi e non gli avrebbe giovato chiudere il bilancio in perdita. Cdp lo salva con l'acquisto, avvenuto poche ore prima della fine dell'anno, che porta alle casse comunali 23 milioni di euro, utili a evitare lo sforamento del patto di stabilità. Il medesimo salvataggio avviene l'anno successivo con l'acquisto di palazzo Vivarelli Colonna, sede dell'assessorato alla Cultura, ancora da parte della banca di Stato. E nel 2015 con palazzo Gerini.

Anche le concessioni a lungo termine, che potrebbero costituire un'alternativa alla vendita, costringono grandi edifici pubblici centrali a usi certo non rivolti alla popolazione residente: alla Fondazione Franco Zeffirelli andrebbero i 10.800 mq dell'ex Tribunale che da pochi anni ha lasciato, per occupare una sede periferica, il secentesco convento dei Filippini alle spalle di Palazzo Vecchio; e - ma siamo ancora in fase di ipotesi - alla Andrea Bocelli Foundation andrebbe il convento di Sant'Orsola (17.500 mq) nel quartiere di San Lorenzo estremamente povero di sale assembleari e di attrezzature di servizio, e dove anche il Mercato centrale è stato quasi interamente degradato a ristorante per turisti.

Il piano comunale delle alienazioni 2017 offre in pasto al libero mercato -- oltre alla rinascimentale villa di Rusciano, sede dell'assessorato all'Ambiente; oltre alle gualchiere di Rèmole, documento di archeologia industriale medievale - sessanta appartamenti situati in pieno centro storico. Di proprietà comunale, le case sono «storicamente» utilizzate con finalità sociali proprie dell'edilizia residenziale pubblica. Gli immobili - scrive su un volantino il Movimento di Lotta per la Casa, schierato contro l'«eugenetica urbana» - sarebbero «alienabili solo con i piani di vendita dell'edilizia residenziale pubblica che ne vincola i proventi a reinvestimenti per le stesse finalità». Ne nasce un dibattito. Le case all'incanto «non hanno i requisiti per divenire case popolari» risponde sibillino il Comune, prontamente contraddetto dalla Regione che sull'Erp ha competenza esclusiva. Viene il sospetto che non siano tanto le case a essere inadeguate a ospitare classi popolari, quanto le classi popolari inadeguate per il quadro urbano che il nuovo colonialismo economico-finanziario ha prefigurato.

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Che fare?



Ilaria Agostini ed Enzo Scandurra



Esattamente cinquecento anni fa fu pubblicato Utopia, il nome dato alla città ideale concepita da Tommaso Moro , considerato, in Occidente, il padre "moderno" del concetto di utopia, nel senso di «u-topos», non luogo, quindi, di una "città" (comunità umana, società) inesistente, del tutto immaginaria. La "modernità" del lavoro di Moro sta nel fatto che la sua proposta utopica aveva intenzionalmente una funzione pedagogica al servizio di una finalità politico-culturale: "ricordare" al monarca di cui era consigliere e pubblico dipendente, che lo scopo ultimo del governo, del potere pubblico, era quello di promuovere il vivere insieme, un "abitare la città" nella giustizia, nell'uguaglianza, e nel rispetto al diritto alla vita, nella democrazia. Un richiamo rimasto di grande attualità, come si può constatare ogni giorno attraverso il mondo. Il che spiega come ancora dopo cinquecento anni un semplice libro sia diventato una icona maggiore del pensiero e della cultura deI mondo occidentale.

Perché le conclusioni di un libro partono da questo richiamo storico?

Perché la citta è sempre stata il luogo privilegiato del pensare e dell'agire utopici perché è stata vista, in quasi tutte le civiltà, come la forma più avanzata e organizzata della comunità umana nel territorio.

Ma soprattutto perché oggi l'idea mantenuta dai gruppi dominanti definisce utopica (ovvero impossibile) ogni proposta di cambiamento che va nel senso di una maggiore giustizia, democrazia, uguaglianza, pace, fraternità, libertà condivisa, e considera invece realiste (nel senso delle "sole possibili") le proposte e le scelte operate dai dominanti.

Dunque un discorso sulla città, inteso come discorso sulla costruzione di comunità umana e poi come costituzionalizzazione dei diritti dei cittadini (quello che Henri Levefbre chiamava «diritto alla città»), può essere riaperto a fronte di quanto ogni giorno ci viene propinato dai media e dalla classe dei dominanti. Ovvero che non si possono inventare spazi per l'accoglienza, che cambiare la vita non è possibile e che a noi restano soltanto le utopie negative come gli spettacoli desolanti delle città plurimilionarie di Mexico City, Tokyo, Shangai, Lagos, San Paulo, Dakar, oppure le gated cities (le città private), o le smart cities, le virtual cities, le creative cities, le resilient cities, le open source cities, le tecnopoli, le vegetal towers, o - ancora - le utopie tecnologiche come Neom, la città del futuro, abitata da robot e quotata in borsa, o, infine, le città cosiddette sostenibili, dimostrazioni, quest'ultime, di come i gruppi sociali dominanti sono riusciti a svuotare di senso il concetto di "sostenibilità" per asservirlo all'obiettivo di una nuova crescita economica produttivista e finanziaria con minore impatto sull'ambiente; occasioni di un nuovo grande affare, parallelo e non alternativo alla produzione industriale di rapina.

È oggi possibile riportare alla luce - far rivivere - quella passione originaria che orientava la disciplina urbanistica nel secondo dopoguerra allorché essa si proponeva di contrastare, con i suoi strumenti, logiche perverse di assoggettamento della natura e della vita umana alle dinamiche del capitale?

Ovvero riappropriarsi di quel contenuto critico e creativo che animava il modo di pensare e i progetti di molti architetti e urbanisti che, nel clima di lotte operaie e sottrazione di spazi di potere alle forze dominanti, si opponevano, in alcuni casi efficacemente, ai processi in corso di distruzione del nostro paesaggio e della civiltà urbana?

È ancora possibile ai tempi nostri contrastare quell'idea di città e di urbanizzazione che rinforza l'ineguaglianza, l'esclusione e la sofferenza sociale e la distruzione ecologica?

Molti cambiamenti sono avvenuti da allora.

Erano quelli gli anni - il periodo che va dal Dopoguerra all'inizio degli anni Ottanta - in cui si credeva (e si lottava) convinti che esistessero le premesse per il superamento del capitalismo. Racconta Paolo Favilli che nel 1983 - anno di celebrazione del centenario della morte di Marx - il filosofo di Treviri era ancora un pensatore centrale nelle analisi del capitalismo. Sono gli anni in cui le socialdemocrazie europee (in Danimarca, e in tutti i paesi scandinavi) raggiungono il massimo livello nello sviluppo dello Stato del Benessere (l'utopia dei diritti sociali per tutti e di una società senza classi) e di radicale trasformazione di quei sistemi che se si fosse realizzata avrebbe preso in contropiede la "controrivoluzione liberale" degli anni Settanta.

Poi più niente.

Pochissimi anni dopo, Alberto Asor Rosa così commenterà la mossa di Achille Occhetto di cambiare nome al Partito Comunista: «Tutti i laboratori, tutti i luoghi di elaborazione vengono azzerati. È ormai del tutto mutato il rapporto tra cultura e politica. È impressionante la disinvoltura suicida con cui questo veniva fatto». Non è «rimasto un briciolo dell'enorme mole di passioni, illusione disillusioni e dolori che la politica ha messo in moto, alimentato, consumato, distrutto [...]. Ci sono state perdite gigantesche sul piano degli affetti, degli ideali delle passioni».

Da allora, e con la caduta del Muro di Berlino del 1989, si è avviata la fase della liberazione dall'ideologia, e così Marx, insieme a Gramsci e a tutti i padri teorici del socialismo, è stato messo nel cassetto delle cose inutili.

L'89 marca uno spartiacque epocale.

La cosiddetta "fine dell'ideologia" è una rinuncia fatta in nome di una libertà personale che mal tollerava che fosse posto un qualsiasi ostacolo al suo dispiegarsi. La controrivoluzione thatcheriana (con la sua variante reaganiana) ha avuto successo anche perché ha utilizzato un'aggressiva ed esplicita offensiva ideologica con pochissimi precedenti e che aveva lavorato in profondità negli animi dei cittadini già a partire da molti anni prima. Screditato il valore di "società" (che non esiste) a favore di quello di "individuo", che resta a fondamento del nuovo pensiero neoliberale.

L'equilibrio storico che aveva contrassegnato l'Europa e il mondo occidentale, quello tra i valori dell'individuo (capitalismo) e del collettivismo (comunismo), viene meno con la caduta del Muro.

Tutto a favore del primo termine che non incontrerà più nessuna resistenza.

Un successo di questo genere non può essere spiegato certamente sul piano della sola dimensione culturale sia pure sorretta da un'imponente struttura mediatica. L'aspetto discorsivo dell'ideologia ha difficoltà a diventare davvero pervasivo se non ha alle spalle condizioni materiali di cui l'ideologia non si limita a rappresentare l'elemento retorico e falsamente enunciativo. L'ideologia risulta efficace se ha anche un importante contenuto davvero enunciativo; se, insieme alla primaria funzione di legittimazione non si accompagnano momenti di verità. E questo vale tanto per le ideologie che legittimano il potere che per quelle che intendono legittimare l'opposizione al potere. Sia per le ideologie legittimanti le classi dominanti ego dirigenti che per quelle legittimanti le classi subalterne. Per questo, sostenere la fine delle ideologie è esattamente come sostenere la fine della storia, proprio nella maniera con cui l'ha argomentata Francis Fukuyama.

Allora questo è il punto: il progetto politico del partito neoriformista prevede una logica di convergenza tra le forze che si disputano il mercato politico cercando di influire soltanto ai «margini» di quel mercato. Ciò implica che non vi debba essere nessun conflitto «centrale», e la lettura della storia può diventarlo. Di qui la necessità che il programma politico neoriformista includa anche un programma di riscrittura-rilettura della storia.

In sintesi, afferma Favilli, il riformismo di oggi non ha alcun elemento di continuità con il riformismo storico della tradizione socialista. Ne è invece l'esatto rovescio. E questo vale anche per l'urbanistica che del riformismo aveva fatto il suo tema centrale.

È all'interno di questa cornice storica che occorre valutare quella che abbiamo chiamato la mutazione genetica dell'urbanistica.

Così come la tesi di La Cecla che essa «riveli sempre più la sua povertà concettuale di fronte a questi grandi cambiamenti», in realtà sottovaluta la portata proprio di questi «grandi cambiamenti» che privano l'urbanistica di tutti i suoi contenuti innovatori. Viene meno la sua originaria vocazione riformatrice che consentiva

di mitigare - attraverso le scelte urbanistiche, i servizi, l'organizzazione dello spazio, la dotazione di attrezzature - la condizione di uomini e donne che meno riescono a ottenere nel quadro dei meccanismi economico-sociali contemporanei che regolano la vita delle città.


Se oggi ci troviamo nella situazione che ben conosciamo, le colpe non sono dello Stato del welfare o della società dei diritti, ovvero l'aver vissuto (l'Occidente) al di sopra delle proprie possibilità (anche se questo livello di vita era basato sul capitalismo estrattivo che rapinava le risorse ad altri paesi), come recitano alcuni, sussunti dal pensiero dominante.

Le colpe sono semmai dell'attacco frontale, duro, scatenato dalle forze regressive, conservatrici, anti-uguaglianza, elitiste e anti-democratiche che, a partire dagli anni Settanta hanno lavorato contro la società dei diritti e del welfare. Queste forze hanno vinto imponendo una "società globale" fondata sulle macerie dello Stato del welfare e sulle briciole della società dei diritti.

Forze potenti e conservatrici che hanno demolito i principi che ispirarono le idee di Lefebvre sul diritto alla città e con esse le idee e i progetti di quanti ritenevano che una "buona urbanistica" avrebbe contribuito a realizzare il pensiero di Moro.

Ora è di nuovo tempo di rivolta contro la barbarie moderna, contro la guerra che è la prima barbarie, il non-senso, la cifra di questa civiltà. È tempo di "sentirsi a casa", di "ri-cominciare a mettersi in cammino", di ritrovare un "luogo buono" dove gli esseri umani mantengono la capacità di sognare e di progettare la vita.

Ma l'utopia moderna non va cercata in un altrove mitico mentre il mondo si avvia verso l'autodistruzione. L'utopia moderna è fatta di buone pratiche quotidiane che già avvengono nella nostra società in mutamento (episodi di solidarietà, nuovi sistemi energetici, partecipazione dei cittadini, pratiche virtuose, nuove forme di finanza, microcredito, monete locali, ecc.).

Come è ben noto, la storia - come l'evoluzione delle specie - non procede linearmente, ma "per salti" attraverso ritorni, frenate e bruschi avanzamenti, con continue biforcazioni. Questo per dire che nelle contraddizioni del neoliberismo, e nelle pieghe della disciplina, si possono trovare spazi e margini antagonisti per difendere le nostre città che abbiamo ereditato.

Lo abbiamo ampiamente dimostrato, nella seconda parte di questo libro dedicata a quella che abbiamo chiamato "urbanistica resistente", testimone e protagonista di mille pratiche di antagonismo, e a quelle esperienze che pensiamo come "rinascite", germe e fermento. A partire dalle resistenze progettanti è forse possibile prefigurare la via d'uscita per una disciplina che si è involuta nella spirale del neocapitalismo.

Riguarda gli urbanisti indicare percorsi e prefigurare i «cambiamenti normativamente auspicabili» per riconfigurare ambienti di vita in senso "sociale", dove l'umano si relaziona virtuosamente col vivente.

Un'urbanistica «almeno riformista» farà ricorso alle soggiacenti "qualità" disciplinari, riformiste appunto (ma riformiste nell'originario significato sociale indicato da Favilli), e connaturate a una materia che, attraverso il classico strumentario del Piano, mediava interessi generali e particolari, alla ricerca di un equilibrio convincente, ragionevole, desiderabile. I buoni esempi non mancano, li abbiamo citati nelle pagine di questo libro.

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