Autore José Eduardo Agualusa
Titolo Teoria generale dell'oblio
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2017, Le tavole d'oro , pag. 224, cop.fle., dim. 14x21,5x1,8 cm , Isbn 978-88-545-1416-4
OriginaleTeoria Geral do Esquecimento [2012]
TraduttoreRomana Petri
LettoreGiovanna Bacci, 2017
Classe narrativa angolana , narrativa portoghese , paesi: Angola












 

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Nota preliminare



Ludovica Fernandes Mano è morta a Luanda, nella clinica Sagrada Esperaça, nelle prime ore del 5 ottobre del 2010. Aveva ottantacinque anni. Sabalu Estevão Capitango mi ha fatto dono dei dieci quaderni nei quali Ludo ha scritto il suo diario durante i primi anni, dei ventotto complessivi, nei quali rimase reclusa. Ho avuto accesso anche ai diari posteriori alla sua liberazione, nonché a una vasta collezione di fotografie dell'artista plastico Sacramento Neto (Sakro), e a testi e disegni a carboncino di Ludo sulle pareti dell'appartamento. I diari, le poesie e le riflessioni di Ludo mi hanno aiutato a ricostruire il dramma che ha vissuto. Mi hanno aiutato, credo, a comprenderla. Nelle pagine che seguono ho attinto molto dalle sue testimonianze.

Ciò che leggerete, però, è finzione. Pura finzione.

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Il nostro cielo è la vostra terra





A Ludovica non era mai piaciuto affrontare il cielo. Fin da bambina, già la tormentava il terrore degli spazi aperti. Uscendo di casa, si sentiva fragile e vulnerabile, come una tartaruga alla quale avessero strappato il carapace. Molto piccola, all'età di sei o sette anni, si rifiutava di andare a scuola senza la protezione di un ombrello nero, enorme, con qualsiasi tempo. Non la facevano demordere né l'irritazione dei genitori né le crudeli prese in giro degli altri bambini. Più tardi migliorò. Finché non accadde quello che lei chiamava l'incidente: allora cominciò a vedere quella paura primordiale come una premonizione.

Dopo la morte dei genitori andò a vivere a casa della sorella. Usciva di rado. Guadagnava qualcosa dando lezioni di portoghese ad adolescenti annoiati. A parte questo leggeva, ricamava, suonava il piano, guardava la televisione, cucinava. Quando scendeva la notte, si avvicinava alla finestra e guardava il buio come chi si affaccia su un abisso. Odete scuoteva la testa, infastidita:

Che succede, Ludo? Hai paura di cadere tra le stelle?

Odete insegnava inglese e tedesco al liceo. Amava la sorella ed evitava di viaggiare per non lasciarla sola. Trascorreva le ferie in casa. Alcuni amici elogiavano il suo altruismo, altri le criticavano l'eccessiva indulgenza. Ludo non ci si vedeva a vivere da sola. Allo stesso tempo, però, le dava fastidio essere diventata un peso. Pensava a loro due come a gemelle siamesi legate dall'ombelico. Lei, paralitica, quasi morta, e l'altra, Odete, obbligata ad andarle dietro dappertutto. Si era sentita felice, ma anche terrorizzata, quando la sorella si era innamorata di un ingegnere minerario. Si chiamava Orlando. Vedovo, senza figli. Era andato ad Aveiro per risolvere una complessa questione di eredità. Angolano, nato a Catete, viveva tra la capitale dell'Angola e Dundo, una cittadina gestita dalla società di diamanti per la quale lavorava. Due settimane dopo essersi conosciuti, per caso, in una confetteria, Orlando aveva chiesto a Odete di sposarlo. Subodorando un rifiuto, conoscendo le ragioni di Odete, aveva insistito affinché Ludovica andasse a vivere con loro. Il mese successivo si erano sistemati in un appartamento immenso, all'ultimo piano di uno dei palazzi più lussuosi di Luanda. Quello che veniva chiamato Palazzo degli Invidiati.

Il viaggio era stato difficile per Ludo. Era uscita di casa intontita, sotto l'effetto di calmanti, gemendo e protestando. Aveva dormito per tutta la durata del volo. Il mattino successivo, si era svegliata in una routine simile alla precedente. Orlando possedeva una biblioteca di valore, migliaia di titoli in portoghese, francese, spagnolo, inglese e tedesco, tra i quali quasi tutti i grandi classici della letteratura universale. Ludo si era ritrovata così a disporre di un maggior numero di libri, ma di meno tempo, visto che aveva insistito per esonerare le due domestiche e la cuoca per occuparsi da sola delle faccende domestiche.

Un pomeriggio l'ingegnere si era presentato a casa tenendo con cura una scatola di cartone. La porse alla cognata:

È per te, Ludovica. Per farti compagnia. Passi troppo tempo da sola.

Ludovica aveva aperto la scatola. E dentro, a guardarla con spavento, aveva trovato un cagnolino bianco, nato da poco.

Maschio. Pastore tedesco, aveva spiegato Orlando: Crescono in fretta. Questo è albino. Un po' raro. Non deve prendere troppo sole. Come lo chiamerai?

Ludo non aveva esitato:

Fantasma!

Fantasma?

Sì, sembra un fantasma. Così, tutto bianco.

Orlando si era stretto nelle spalle ossute:

Va bene. Vada per Fantasma!


Un'elegante e anacronistica scala in ferro battuto saliva, in una spirale stretta, dal salotto fino al terrazzo. Da lì lo sguardo abbracciava buona parte della città, la baia, l'Ilha e, in fondo, il lungo collare di spiagge abbandonato tra i merletti delle onde. Orlando aveva approfittato dello spazio per creare un giardino pensile. Un pergolato di buganvillea lasciava scendere fino al suolo, in laterizio grezzo, una profumata ombra lilla. In uno degli angoli crescevano un melograno e vari banani. Le persone si stupivano:

Banane, Orlando? Ma è un giardino o un orto?

L'ingegnere si irritava. I banani gli ricordavano il grande cortile, chiuso tra mura di mattoni, dove aveva giocato da bambino. Fosse stato per lui, avrebbe piantato anche manghi, nespoli e papaie. Quando tornava dall'ufficio era lì che si sedeva, con un bicchiere di whisky a portata di mano, un sigaro scuro tra le labbra, a guardare la notte che conquistava la città. Fantasma lo accompagnava. Anche il cagnolino amava il terrazzo. Ludo, al contrario, si rifiutava di salire. I primi mesi non aveva nemmeno osato avvicinarsi alle finestre.

Il cielo d'Africa è molto più grande del nostro, aveva spiegato alla sorella. Ci schiaccia.

Una soleggiata mattina di aprile, Odete era tornata per pranzo dal liceo eccitata e spaventata. In città era esplosa una grande confusione. Orlando si trovava a Dundo. Tornò quella notte e si chiuse in camera con la moglie. Ludo li sentì discutere. Lei voleva lasciare l'Angola prima possibile:

I terroristi, caro, i terroristi...

Terroristi? Non usare mai più questa parola in casa mia. Orlando non urlava mai, sussurrava in tono aspro. Quel filo di voce si avvicinava come un coltello alla gola dei suoi interlocutori:

Questi terroristi combattono per la libertà del mio paese. Io sono angolano. Non me ne andrò.

Vi furono giorni agitati. Manifestazioni, scioperi, comizi. Ludo chiudeva le vetrate per evitare che l'appartamento si riempisse delle risate della gente in strada, che esplodevano nell'aria come fuochi d'artificio. Orlando, figlio di un commerciante del Minho trasferito a Catete agli inizi del secolo e di una meticcia di Luanda, morta al momento del parto, non aveva mai coltivato legami familiari. Un cugino, Vitorino Gavião, tornò in quei giorni. Aveva vissuto cinque mesi a Parigi, bevendo, amoreggiando, cospirando, scrivendo poesie su tovaglioli di carta nei bistrot frequentati da esuli portoghesi e africani, e si era così guadagnato un'aura di rivoluzionario romantico. Gli era entrato in casa come una tempesta, mettendo in disordine i libri sugli scaffali, i bicchieri nella cristalliera, e innervosendo Fantasma. Il cagnolino lo seguiva, a distanza di sicurezza, abbaiando e ringhiando.

I compagni vogliono parlare con te, amico mio! gridava Vitorino, dando un pugno sulla spalla di Orlando. Stiamo negoziando un governo provvisorio, abbiamo bisogno di quadri. Tu sei un buon quadro.

Forse, ammetteva Orlando, anche se i quadri li abbiamo. Quel che ci manca è il credito.

Esitava. Sì, mormorava, la patria poteva contare sull'esperienza che aveva accumulato. Temeva, però, le correnti estremiste in seno al movimento. Capiva la necessità di una maggiore giustizia sociale, ma i comunisti, minacciando di nazionalizzare tutto, lo spaventavano. Espropriare la proprietà privata. Mandare via i bianchi. Rompere i denti alla piccola borghesia. Lui, Orlando, andava orgoglioso del suo sorriso perfetto, non voleva usare la dentiera. Il cugino rideva, attribuiva quegli eccessi di linguaggio all'euforia del momento, elogiava il whisky e se ne versava fin troppo. Quel cugino dalla capigliatura crespa, rotonda, alla Jimi Hendrix, camicia a fiori aperta sul petto sudato, spaventava le due sorelle.

Parla come un negro! diceva Odete. E poi puzza. Ogni volta che viene qui impesta tutta la casa.

Orlando s'infuriava. Usciva sbattendo la porta. Rientrava nel tardo pomeriggio, più asciutto, più acuto, un uomo che sembrava imparentato con le spine. Saliva in terrazzo in compagnia di Fantasma, di un sigaro e di una bottiglia di whisky, e lì restava. Rientrava che era già notte, carico di oscurità, con un odore forte di alcol e tabacco. Inciampava nei piedi, urtava i mobili, sussurrando aspramente contro quella merda di vita.

I primi spari segnarono l'inizio delle grandi feste di commiato. I giovani morivano per le strade, agitando bandiere, mentre i coloni danzavano. Rita, la vicina dell'appartamento accanto, lasciò Luanda per andare a Rio de Janeiro. L'ultima notte invitò duecento amici a una cena che si prolungò fino all'alba.

Quello che non riusciremo a bere lo lasciamo a voi, disse a Orlando, mostrandogli una dispensa dove casse del miglior vino portoghese erano accatastate l'una sull'altra. Bevetele. L'importante è che non ne rimanga nessuna per i festeggiamenti dei comunisti.

Tre mesi dopo il palazzo era quasi vuoto. In compenso, Ludo non sapeva dove mettere tutte quelle bottiglie di vino, cassette di birra, cibo in scatola, prosciutti, tranci di baccalà, chili di sale, di zucchero e di farina, oltre ai prodotti per la pulizia e l'igiene. Orlando ricevette da un amico, collezionista di auto sportive, una Chevrolet Corvette e un'Alfa Romeo GTA. Un altro gli diede le chiavi dell'appartamento.

Non ho mai avuto fortuna, si lamentava Orlando con le due sorelle, e non si capiva se parlasse sul serio o in tono ironico. Proprio adesso che ho cominciato a collezionare automobili e appartamenti arrivano i comunisti che vogliono portarmi via tutto.

Ludo accendeva la radio e la rivoluzione entrava in casa: Il potere popolare è la causa di questa confusione, ripeteva uno dei cantanti più famosi del momento. Eh, fratello, cantava un altro: ama tuo fratello / non guardare il suo colore / pensa solo che è angolano. / Con il popolo angolano unito / l'Indipendenza arriverà. Alcune melodie non coincidevano con le parole, sembravano rubate a canzoni di un'altra epoca, ballate tristi come la luce di un crepuscolo antico. Spiando dalle finestre, seminascosta dalle tende, Ludo vedeva passare camion carichi di uomini. Alcuni portavano le bandiere; altri, striscioni con le parole d'ordine.

Indipendenza totale!

Basta con i 500 anni di oppressione coloniale!

Vogliamo il futuro!

Le rivendicazioni terminavano con un punto esclamativo. I punti esclamativi si confondevano con i machete che i manifestanti portavano. I machete brillavano anche sulle bandiere e sugli striscioni. Alcuni uomini ne portavano uno in ogni mano. Li sollevavano. Battevano le lame l'una contro l'altra, in un clamore lugubre.

Una notte, Ludo sognò che sotto le strade della città, sotto i rispettabili palazzetti del centro, si allungava un'interminabile rete di tunnel. Le radici degli alberi scendevano, libere, attraverso le volte. Nei sotterranei vivevano migliaia di persone, immerse nel fango e nell'oscurità, e si nutrivano di quello che la borghesia buttava nelle fogne. Ludo camminava tra la folla. Gli uomini agitavano i machete. Battevano le lame una contro l'altra e il rumore riecheggiava nei tunnel. Uno di loro le si avvicinò, incollò il suo volto sporco a quello della portoghese e sorrise. Con voce grave e dolce le sussurrò all'orecchio:

Il nostro cielo è la vostra terra.

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La seconda vita di Jeremias Carrasco





Nel corso di una vita, tutti possiamo conoscere varie esistenze. Magari anche desistenze. Cosa, del resto, più probabile. Ciononostante, pochi hanno la possibilità di indossare un'altra pelle. A Jeremias Carrasco è quasi successo. Dopo una fucilazione negligente, si svegliò in un letto troppo corto per il suo metro e ottantacinque, e tanto stretto che, se avesse disincrociato le braccia, con le dita avrebbe toccato il suolo di cemento su entrambi i lati. Sentiva forti dolori in bocca, sul collo e sul petto, e una tremenda difficoltà a respirare. Aprendo gli occhi vide un tetto basso, scolorito e crepato. Un piccolo geco, appeso sul soffitto proprio sopra di lui, lo studiava con curiosità. L'alba scendeva, ondulata e profumata, attraverso una minuscola finestra nella parete di fronte, vicino al tetto.

Sono morto, pensò Jeremias, e quel geco è Dio.

Pensando che il geco fosse Dio, gli parve esitante sul suo destino. A Jeremias tale indecisione sembrava più strana del trovarsi faccia a faccia con il Creatore, e che avesse assunto la forma di un rettile. Jeremias sapeva ormai da molto tempo di essere destinato a bruciare per l'eternità nelle fiamme dell'Inferno. Aveva ucciso, torturato. E se all'inizio l'aveva fatto per dovere, obbedendo agli ordini, poi ci aveva preso gusto. Si sentiva sveglio, intero, solo quando attraversava la notte per dare la caccia ad altri uomini.

Deciditi, disse Jeremias al geco. O meglio, cercò di dire, perché ciò che gli uscì dalla bocca fu solo un sordo dedalo di suoni. Provò di nuovo e, come in un incubo, ripeté quell'oscuro borbottio.

Non cercare di parlare. Altrimenti non parlerai mai più.

Per qualche istante, Jeremias pensò fosse Dio che lo condannava al silenzio eterno. Poi voltò gli occhi verso destra e vide una donna molto grassa accanto alla porta. Le mani, dalle dita piccole e fragili, le ballavano davanti mentre parlava:

Ieri è uscita la notizia della tua morte sui giornali. Hanno pubblicato una fotografia un po' vecchia, quasi non ti riconoscevo. Dicevano che eri stato un diavolo. Sei morto, sei resuscitato, hai una nuova opportunità. Approfittane.

Madalena lavorava da cinque anni all'Ospedale Maria Pia. Prima era stata suora. Una vicina aveva assistito da lontano alla fucilazione dei mercenari e l'aveva chiamata. L'infermiera si era recata in auto sul posto. Uno degli uomini era ancora vivo. Una pallottola gli aveva attraversato il petto facendo un percorso miracoloso, perfetto, senza toccare nessun organo vitale. Un secondo proiettile gli era entrato in bocca, frantumandogli i due incisivi e perforandogli poi la gola.

Non ho capito cos'è successo. Hai cercato di prendere la pallottola con i denti? Rise agitando il corpo. La luce sembrava ridere con lei. Ottimi riflessi, sissignore. E non è stata una cattiva idea. Se la pallottola non avesse incontrato i denti, la traiettoria sarebbe stata un'altra. Ti avrebbe ucciso o paralizzato. Ho creduto opportuno non portarti in ospedale. Ti avrebbero curato e, una volta guarito, ti avrebbero fucilato un'altra volta. E così, pazienza, ti ho curato io con le poche risorse disponibili. Non mi resta che portarti via da Luanda. Non so per quanto tempo riuscirei a nasconderti. Se i compagni ti trovano, fucilano anche me. Appena possibile ce ne andremo verso sud.

Lo tenne nascosto per quasi cinque mesi. Attraverso la radio, Jeremias seguì i difficili progressi delle truppe governative, aiutate dai cubani, contro l'improvvisa e volatile alleanza tra l'UNITA, il FNLA, l'esercito sudafricano e i mercenari portoghesi, inglesi e nordamericani.


Jeremias stava danzando sulla spiaggia, a Cascais, con una bionda platinata, non era mai stato in guerra, non aveva mai ucciso, mai torturato nessuno, quando Madalena lo scosse.

Andiamo, capitano! Oggi o mai più.

Il mercenario si sollevò sul letto a fatica. La pioggia crepitava nel buio, attutendo il poco traffico che circolava a quell'ora. Viaggiarono in una vecchia macchina, una Citroën 2 cavalli, con la carrozzeria gialla molto rovinata, mangiata dalla ruggine, ma con il motore in perfetto stato. Jeremias era disteso dietro, nascosto da molte scatole di libri.

I libri infondono rispetto, spiegò l'infermiera. Se trasportassi scatoloni di birra, i soldati ispezionerebbero la macchina da cima a fondo. A parte questo, arriverei a Mossâmedes senza nemmeno una bottiglia.

Lo stratagemma funzionò. Nei numerosi posti di blocco per i quali passarono, i militari si mettevano sull'attenti vedendo i libri, chiedevano scusa a Madalena e la lasciavano proseguire. Arrivarono a Mossâmedes in una mattina senza un filo d'aria. Spiando da un minuscolo buco aperto nella lamiera arrugginita dell'auto, Jeremias vide la piccola città che girava intorno a se stessa, lenta e stordita come un ubriaco a un funerale. Mesi prima, le truppe sudafricane erano passate di lì, in cammino verso Luanda, distruggendo facilmente una truppa formata da pionieri e mucubais.

Madalena parcheggiò l'auto davanti a un solido caseggiato azzurro. Scese, lasciando Jeremias a cuocere lì dentro. Il mercenario sudava molto e respirava male. Gli parve preferibile scendere e rischiare di essere arrestato, piuttosto che morire così. Non riusciva ad allontanare gli scatoloni. Allora cominciò a dare calci contro la lamiera. Accorse un vecchio.

Chi c'è lì dentro?

Sentì allora la voce dolce di Madalena:

Porto un capretto a Virei.

Un capretto a Virei? Ah ah ah! Un capretto a Virei!

Con l'auto in marcia entrava un po' d'aria fresca e Jeremias si calmò. Andarono avanti per più di un'ora, a sobbalzi, per strade segrete, attraverso un paesaggio che a Jeremias sembrava fatto interamente di duro vento, pietra, polvere e filo spinato. Finalmente si fermarono. Uno schiamazzo di voci circondò l'auto. Lo sportello posteriore venne aperto e qualcuno tolse gli scatoloni. Apparvero decine di volti curiosi. Donne con il corpo dipinto di rosso. Alcune già mature, altre ancora adolescenti, con i seni turgidi e all'insù. Ragazzi alti, molto eleganti, con un ciuffo di capelli in cima alla testa.

Il mio povero padre è nato nel deserto. È stato sepolto qui. Questa gente gli è molto devota, spiegò Madalena. Ti accoglieranno e ti nasconderanno per il tempo che sarà necessario.

Il mercenario si sedette a terra allargando le spalle, come un re che sfila nudo, l'ombra spinosa di un mutiati. Un gruppo di bambini lo circondò, lo toccò, gli tirò i capelli. I ragazzi ridevano rumorosamente. Li incuriosiva l'aspro silenzio dell'uomo, lo sguardo distante, lo spettro di un passato che intuivano violento e agitato. Madalena si congedò da lui con un lieve cenno della testa.

Aspetta qui. Verranno a prenderti. Quando le cose si calmeranno, potrai passare la frontiera per l'Africa Sud-orientale. Immagino che avrai buoni amici tra gli arabi.

Trascorsero anni. Decadi. Jeremias non passò mai la frontiera.

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Sugli slittamenti della ragione





A Monte non piacevano le domande. Ancora oggi si rifiuta di parlare dell'argomento. Evita anche di ricordare gli anni Settanta, quando per preservare la rivoluzione socialista si erano permessi, utilizzando un eufemismo gradito agli agenti della polizia politica, certi eccessi. Confessava agli amici di aver imparato molto sulla natura umana quando interrogava i frazionisti e i giovani legati all'estrema sinistra, negli anni terribili che seguirono l'Indipendenza. Le persone con un'infanzia felice, diceva, sono difficili da piegare.

Forse pensava a Piccolo Soba.

A Piccolo Soba, vero nome Arnaldo Cruz, non piace parlare del periodo in cui è stato prigioniero. Orfano fin dalla tenera età, allevato dalla nonna paterna, la vecchia Dulcinea, di professione pasticciera, non gli mancò mai nulla. Terminato il liceo, quando tutti si aspettavano di vederlo fare il suo ingresso alla facoltà di medicina per diventare un dottore, si ritrovò in un guaio politico e venne arrestato. Stava da quattro mesi al Campo di San Nicolau, a poco più di cento chilometri da Mossâmedes, quando in Portogallo scoppiò la Rivoluzione dei Garofani. Rientrò a Luanda come un eroe. La vecchia Dulcinea era convinta che il nipote sarebbe stato nominato ministro, ma Piccolo Soba aveva più estro che talento per le trame politiche e, trascorsi pochi mesi dall'Indipendenza, all'epoca studente di diritto, venne di nuovo incarcerato. La nonna non sopportò il dolore. Morì di un attacco cardiaco pochi giorni dopo.

Piccolo Soba riuscì a evadere dal carcere nascondendosi in una bara, episodio talmente burlesco da meritare, più tardi, una narrazione più ampia. Una volta fuori passò alla clandestinità. Tuttavia, invece di rifugiarsi in qualche stanza buia, o in casa di una vecchia zia, come certi suoi compagni, fece la scelta opposta. Quello che tutti vedono cessa di essere visto, filosofeggiava. Si mise così a circolare per le strade, cencioso, con i capelli raccolti in lunghe trecce spettinate, coperto di fango e catrame. Per scomparire meglio, per sfuggire alle retate dei militari che percorrevano la città notte e giorno a caccia di carne per i cannoni, si fingeva pazzo. Una persona riesce a fingersi alienata, a far sì che gli altri ci credano, solo se in questo processo impazzisce anche un po'.

Immaginate di dormire a metà, spiega Piccolo Soba. Una parte vigila, l'altra vaga. E quella che vaga è la parte pubblica.

Fu in questo stato di quasi invisibilità sociale e semidemenza, con la lucidità che viaggiava come una passeggera clandestina, che Piccolo Soba vide il piccione.

Giorni di fame. Mi tenevo a malapena in piedi, un soffio di vento mi portava via. Mi ero costruito una fionda con un ramo e una fascia di gomma, stavo cercando di cacciare qualche topo, lì, nel quartiere Catambor, quando è sceso un piccione, illuminato, d'un biancore che rischiarava tutto. Ho pensato, è lo Spirito Santo. Ho cercato una pietra, ho mirato e tirato. L'ho preso in pieno. È morto prima di toccare terra. Ho notato subito il piccolo cilindro di plastica attaccato all'anello. L'ho aperto e preso il foglietto. E ho letto:

Domani. Alle sei, solito posto. Fa' molta attenzione. Ti amo.

È stato togliendo le trippe al piccione, per grigliarlo, che ho trovato i diamanti.

Piccolo Soba non aveva capito subito cosa era successo.

Nella mia ignoranza ho pensato fosse Dio a darmi quelle pietre. Ho pensato addirittura che Dio avesse scritto quel messaggio per me. Il mio solito posto era davanti alla Libreria Lello. Il giorno dopo, alle sei, ero lì, aspettavo che Dio si manifestasse.

E Dio si manifestò, per vie traverse, sotto forma di una donna molto grassa, con il viso liscio, come di cera, e un'espressione di perpetuo incanto. La donna scese da una vecchia auto, una Citroën 2 cavalli, e andò verso Piccolo Soba, che la guardava mezzo nascosto dietro un bidone della spazzatura.

Ehi, bello! gridò Madalena. Ho bisogno del tuo aiuto.

Piccolo Soba si avvicinò spaventato. La donna gli disse che aveva l'abitudine di osservarlo. La irritava vedere un uomo in ottimo stato, anzi, in perfetto stato, passare l'intero giorno steso in strada a fare il matto. L'ex presidiario si alzò, incapace di reprimere l'indignazione:

Io sono tremendamente pazzo!

Non abbastanza, lo interruppe l'infermiera. Un vero matto cercherebbe di sembrare un po' più circospetto.

Madalena aveva ereditato un fazzoletto di terra vicino a Viana, dove produceva frutta e verdura, tanto difficili da trovare nella capitale, e cercava qualcuno che sorvegliasse la proprietà. Piccolo Soba accettò. Non per l'ovvia ragione che moriva di fame e lì avrebbe mangiato ogni giorno. Il fatto era che lì sarebbe stato in salvo dai militari, dalla polizia e da altri predatori. Annuì, convinto che quella fosse la volontà di Dio.

Dopo cinque mesi, ben nutrito, ben riposato, recuperò completamente la lucidità. Nel suo caso, sfortunatamente, la lucidità si rivelò nemica del buon senso. Avrebbe fatto meglio a restare matto per altri cinque o sei mesi. Una volta lucido, tornò l'inquietudine. Gli doleva l'anima, come fosse un organo nel quale circolava il sangue, la perdita dei genitori. Lo feriva ancora di più il destino dei compagni che aveva lasciato dietro le sbarre. Riallacciò, a poco a poco, vecchie conoscenze. Insieme a un giovane calciatore, Maciel Lucamba, che aveva conosciuto al Campo di San Nicolau, architettò un fantasioso piano che prevedeva il riscatto di un gruppo di prigionieri e la loro fuga, su un piccolo peschereccio, verso il Portogallo. Non parlò mai a nessuno dei diamanti. Nemmeno a Maciel. Voleva vendere le pietre per pagare parte dell'operazione. Non sapeva a chi venderle, e non gli diedero nemmeno il tempo per pensarci su. Un pomeriggio di domenica, mentre riposava steso su una stuoia, due tipi apparvero all'improvviso e lo arrestarono. Gli dispiacque scoprire che anche Madalena era stata presa.

Monte lo interrogò. Voleva comprovare la partecipazione dell'infermiera nella congiura. Promise di liberare entrambi se il giovane avesse rivelato l'indirizzo di un mercenario portoghese che Madalena aveva soccorso. Piccolo Soba avrebbe detto la verità affermando di non aver mai sentito parlare del mercenario. Tuttavia pensò che qualsiasi parola scambiata con l'agente sarebbe valsa a legittimarlo, e così si limitò a sputare in terra. La testardaggine gli lasciò parecchie cicatrici sul corpo.

Per tutto il tempo in cui rimase in carcere, tenne con sé i diamanti. Né le guardie, né i prigionieri sospettarono mai che quel giovane umile e sempre preoccupato per gli altri nascondesse una piccola fortuna. La mattina del 27 maggio 1977 venne svegliato da una brutale esplosione. Poi spari. Uno sconosciuto gli aprì la porta della cella e gli gridò che se voleva poteva uscire. Un gruppo di ribelli aveva occupato la prigione. Il ragazzo attraversò il tumulto con la placidità di un fantasma, sentendosi molto più invisibile di quando vagava per la città fingendosi matto. Nel patio, seduta all'ombra di un frangipani, incontrò una poetessa molto rispettata, riferimento storico del movimento nazionalista, che, come lui, era stata imprigionata pochi giorni dopo l'Indipendenza, con l'accusa di appoggiare una corrente di intellettuali che criticava le direttive del partito. Piccolo Soba chiese di Madalena. Era stata liberata qualche settimana prima. La polizia non era riuscita a provare nulla sul suo conto. Donna straordinaria! aggiunse la poetessa, e consigliò a Piccolo Soba di non abbandonare la prigione. Secondo lei la rivolta sarebbe stata rapidamente soffocata e i fuggitivi riacciuffati, torturati e fucilati:

Sarà un bagno di sangue.

Lui si disse d'accordo, la strinse in un lungo abbraccio e uscì, abbagliato dall'abbondante luce delle strade. Pensò di andare in cerca di Madalena. Voleva chiederle scusa, anche se sapeva che così poteva causarle ulteriori problemi. La polizia l'avrebbe cercato prima di tutto a casa sua. Girò dunque per la città, stordito, angustiato, seguendo da lontano un po' i gruppi di manifestanti, un po' i movimenti delle forze fedeli al presidente. Vagava qua e là, sempre più sperso, quando un militare lo riconobbe. L'uomo cominciò a inseguirlo gridando: Frazionista! Frazionista! e in pochi secondi una moltitudine prese a dargli la caccia. Piccolo Soba era alto un metro e ottantacinque, le gambe lunghe. Da adolescente aveva fatto atletica. Ma i mesi passati in una cella stretta gli avevano tolto il fiato. Per i primi cinquecento metri riuscì a distanziare gli inseguitori. Pensò di averli addirittura seminati. Sfortunatamente, il tumulto attirò altra gente. Sentiva il petto che gli scoppiava. Il sudore gli colava sugli occhi, appannandogli la vista. Una bicicletta, all'improvviso, gli comparve davanti. Non riuscì a schivarla e le finì addosso. Si alzò, la prese e tornò a guadagnare terreno. Curvò a destra. Un vicolo cieco. Lasciò la bicicletta e provò a saltare il muro. Un sasso lo prese sulla nuca, sentì in bocca il sapore del sangue, un capogiro. Un attimo dopo era in un'auto, ammanettato tra due militari, e tutti gridavano.

Morirai, verme! gridò quello che guidava. Abbiamo ricevuto l'ordine di ammazzarvi tutti. Prima ti strappo le unghie, una a una, finché non parli e dici tutto quello che sai. Voglio i nomi dei frazionisti.

Ma non gli strappò nemmeno un'unghia. Un camion gli finì addosso all'incrocio seguente, sbattendo l'auto sul marciapiedi. La porta sul lato opposto all'impatto si aprì, e Piccolo Soba si vide catapultare fuori insieme a uno dei due militari. Si rimise in piedi a fatica, scrollandosi di dosso il sangue, suo e di altri, e le schegge di vetro. Non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa stesse succedendo. Un tipo robusto, con un sorriso nel quale sembravano brillare sessantaquattro denti, gli si avvicinò, gli mise addosso una giacca per coprire le manette e lo trascinò via. Quindici minuti dopo entravano in un palazzo elegante, sebbene molto degradato, e salirono undici piani a piedi, Piccolo Soba zoppicando parecchio, perché si era quasi rotto la gamba destra.

Gli ascensori non funzionano, si scusò l'uomo dal sorriso splendente. Quelli che vengono dalla campagna lanciano la spazzatura nell'ascensore, è pieno quasi fino al soffitto.

Lo invitò a entrare. Sulla parete del soggiorno, dipinta in rosa shocking, spiccava una tela a olio che riproduceva, con tratti ingenui, il felice proprietario. Due donne erano sedute a terra, accanto a una piccola radio a pile. Una di loro, molto giovane, allattava un bambino. Nessuna delle due gli prestò attenzione. L'uomo dal sorriso splendente trascinò una sedia. Fece un cenno a Piccolo Soba affinché si sedesse. Tirò fuori dalla tasca un filo di rame, lo raddrizzò e si chinò sulle manette. Infilò il rame nella chiusura, contò fino a tre e l'aprì. Gridò qualcosa in lingala. La donna più anziana si alzò senza dire una parola e scomparve all'interno dell'appartamento. Tornò qualche minuto dopo, con due bottiglie di birra Cuca. Una voce rabbiosa vociferava alla radio:

Bisogna trovarli, legarli e fucilarli!

L'uomo dal sorriso splendente scosse la testa:

Non è per questo che abbiamo fatto l'Indipendenza. Non perché gli angolani si ammazzassero l'un l'altro come cani rabbiosi. Sospirò. Adesso dobbiamo curarti le ferite. E dopo, riposo. Abbiamo una stanza in più. Resterai qui finché si calmeranno le acque.

Può volerci molto tempo.

Passerà, compagno. Anche la cattiveria ha bisogno di riposo.

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I giorni scivolano come fossero liquidi





I giorni scivolano come fossero liquidi. Non ho più quaderni su cui scrivere. Non ho neanche più penne. Scrivo sulle pareti, con pezzi di carbone, versi succinti.


Risparmio sul cibo, sull'acqua, sul fuoco e sugli aggettivi.


Penso a Orlando. All'inizio l'odiavo. Poi ho cominciato ad apprezzarlo. Riusciva a essere molto seducente. Un uomo e due donne sotto lo stesso tetto — combinazione pericolosa.

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Piccolo Soba non uscì di casa per molti mesi. Dopo la morte del primo presidente, il regime tentò una timida apertura. I prigionieri politici, quelli non legati all'opposizione armata, vennero liberati. Alcuni ricevettero l'offerta di occupare posti di rilievo nell'apparato statale. Uscendo in strada, spaventato e curioso, Piccolo Soba scoprì che quasi tutti lo credevano morto. Qualche amico assicurava addirittura di aver assistito ai suoi funerali. Alcuni compagni di lotta sembravano perfino un po' delusi nel rivederlo vivo. Madalena, lei, lo ricevette con gioia. Negli ultimi anni aveva creato un'organizzazione non governativa, la Minestra di Pietra, con il proposito di migliorare la dieta delle popolazioni delle periferie di Luanda. Percorreva i quartieri più poveri della capitale insegnando alle madri a nutrire al meglio i loro figli con il poco che avevano.

Si può mangiare meglio senza spendere di più, spiegò a Piccolo Soba. Tu e i tuoi amici vi riempite la bocca con paroloni come Giustizia sociale, Libertà, Rivoluzione, e intanto le persone dimagriscono, si ammalano, molte muoiono. I discorsi non nutrono. Ciò di cui il popolo ha bisogno sono verdure fresche e un buon muzonguê almeno una volta alla settimana. Mi interessano solo le rivoluzioni che cominciano con il mettere seduta la gente a tavola.

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La cecità (e gli occhi del cuore)





Sto perdendo la vista. Chiudo l'occhio destro e distinguo solo ombre. Tutto mi confonde. Cammino attaccata alle pareti. Leggo a fatica, e solo sotto la luce del sole, usando lenti d'ingrandimento sempre più forti. Rileggo gli ultimi libri, quelli che mi rifiuto di bruciare. Ho bruciato le belle voci che mi hanno accompagnato lungo tutti questi anni.


A volte penso: sono diventata pazza.


Dal terrazzo ho visto un ippopotamo ballare nella veranda del piano accanto. Un'illusione ottica, certo, ma lo vedo ancora. Può essere la fame. Mi sono nutrita molto male.


La debolezza, la vista che se ne va, fanno sì che inciampi nelle parole mentre leggo. Leggo pagine ormai lette tante volte, ma sono già altre. A leggere sbaglio, e negli errori, ogni tanto, trovo cose incredibilmente sensate.

Mi ritrovo molto nell'errore.


Alcune pagine vengono migliorate dagli equivoci.


Un fulgore di lucciole brilla nelle stanze. Mi muovo come una medusa in questa bruma illuminata. Affondo nei miei stessi sogni. Forse questa è la morte.


Sono stata felice in questa casa, quando il sole, il pomeriggio, mi visitava in cucina. Mi sedevo al tavolo. Fantasma veniva e appoggiava la testa sul mio grembo.


Se ancora ci fosse spazio, carbone e pareti disponibili, potrei scrivere una teoria generale dell'oblio.


Mi rendo conto di aver trasformato l'intero appartamento in un immenso libro. Dopo aver bruciato la biblioteca, dopo la mia morte, resterà solo la mia voce.


In questa casa tutte le pareti hanno la mia bocca.

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Sabalu si mise lo zaino sulle spalle e scomparve. Ludo fece un respiro profondo. Si accostò alla parete. Il dolore si era calmato. Forse avrebbe dovuto lasciare che quel bambino chiamasse un medico. Poi pensò che con il medico sarebbero arrivati la polizia, i giornalisti, e lei aveva uno scheletro in terrazzo. Preferiva morire lì, prigioniera ma libera, come aveva vissuto negli ultimi trent'anni.

Libera?

Molto spesso, guardando la moltitudine che si accaniva di fronte al palazzo, quel vasto clamore di clacson e fischi, grida e suppliche e imprecazioni, provava un terrore profondo, un senso di assedio e di minaccia. Ogni volta che le veniva voglia di uscire, cercava un libro nella biblioteca. E sentiva, mentre bruciava i libri, dopo aver bruciato tutti i mobili, le porte, il parquet, che perdeva un po' di libertà. Era come se stesse appiccando fuoco al pianeta. Bruciando Jorge Amado svaniva la possibilità di visitare Ilhéus e São Salvador. Bruciando l' Ulisse di Joyce, perdeva Dublino. Liberandosi delle Tre tristi tigri vedeva bruciare la vecchia Avana. Restavano meno di cento libri. Li conservava più per testardaggine che per usarli. Ci vedeva così male che anche con l'aiuto di un'enorme lente d'ingrandimento, anche mettendo il libro sotto il sole, sudando come facesse la sauna, impiegava un intero pomeriggio a decifrare una pagina. Negli ultimi mesi aveva cominciato a scrivere le frasi preferite dei libri che le restavano, a lettere grandi, sulle pareti ancora libere dell'appartamento. Manca poco, pensò, e sarò veramente prigioniera. Non voglio vivere in una prigione. Si addormentò. La svegliò una lieve risata. Il bambino era di nuovo di fronte a lei, una sagoma esile, ritagliata contro il tumultuoso fuoco del tramonto.

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La morte di Monte





Magno Moreira Monte fu ucciso da un'antenna parabolica. Cadde dal tetto mentre stava fissando l'antenna, che subito dopo gli cadde sulla testa. Ci fu chi vide nell'accaduto un'allegoria ironica dei tempi nuovi. L'ex agente della sicurezza dello Stato, ultimo rappresentante di un passato che in Angola pochi amano ricordare, era stato abbattuto dal futuro; la libera comunicazione aveva trionfato sull'oscurantismo, il silenzio e la censura; il cosmopolitismo aveva schiacciato il provincialismo.

Maria Clara amava guardare le telenovele brasiliane. Il marito, al contrario, prestava poca attenzione alla televisione. La futilità dei programmi lo mandava su tutte le furie. I telegiornali lo facevano imbestialire ancora di più. Guardava le partite di calcio, facendo il tifo per il Primeiro de Agosto e per il Benfica. Di tanto in tanto si metteva seduto, in pigiama e infradito, a rivedere qualche vecchio film in bianco e nero. Preferiva i libri. Aveva accumulato parecchie centinaia di titoli. Aveva deciso di passare gli ultimi anni della sua vita a rileggere Jorge Amado, Machado de Assis, Clarice Lispector, Luandino Vieira, Ruy Duarte de Carvalho, Julio Cortázar, Gabriel García Márquez.

Quando si trasferirono, lasciandosi alle spalle l'aria sporca e rumorosa della capitale, Monte tentò in ogni modo di convincere la moglie a fare a meno della televisione. Maria Clara si disse d'accordo, era abituata a concordare con lui. Le prime settimane lessero molto. Tutto sembrava andare bene. Però Maria Clara s'intristiva. Se ne stava ore al telefono con le amiche. Monte decise allora di comprare e installare un'antenna parabolica.

Alla fin fine, morì per amore.

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