Copertina
Autore Cecelia Ahern
Titolo Un posto chiamato Qui
EdizioneSonzogno, Milano, 2007, I romanzi , pag. 396, cop.ril.sov., dim. 14x22,5x3 cm , Isbn 978-88-454-1384-1
OriginaleA Place Called Here [2006]
TraduttoreMarcella Maffi
LettoreGiovanna Bacci, 2007
Classe narrativa irlandese
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Jenny-May Butler, la bambina che abitava di fronte a casa mia, scomparve quando ero piccola.

La polizia irlandese aprì il caso e diede inizio a una lunga ricerca. Per mesi ogni sera la storia di Jenny-May era al telegiornale, ogni mattina compariva sulle prime pagine dei quotidiani, ovunque se ne parlava. L'intero Paese si mobilitò; per me che avevo dieci anni era la più grande ricerca di una persona scomparsa che avessi mai visto e in qualche modo sembrava coinvolgere chiunque.

Jenny-May Butler era una bellezza con i capelli biondi e gli occhi azzurri che sorrideva radiosa dallo schermo della TV nei soggiorni delle case; la gente si commuoveva e i genitori abbracciavano i propri figli un po' più forte prima di mandarli a letto. Era nei sogni e nelle preghiere di tutti.

Aveva dieci anni, la mia stessa età, ed eravamo in classe insieme. Ogni giorno fissavo la sua bella fotografia al telegiornale e ascoltavo parlare di lei come se fosse un angelo. Da quello che dicevano, non si sarebbe mai immaginato che tirasse i sassi a Fiona Brady durante l'intervallo, quando la maestra non guardava, oppure che mi chiamasse "vacca con i ricci" davanti a Stephen Spencer perché andasse dietro a lei invece che a me. No, in quei pochi mesi era diventata un essere perfetto, e a me non sembrava giusto rovinare tutto. Dopo un po' dimenticai le cose cattive che aveva fatto, perché non era più semplicemente Jenny-May; era Jenny-May Butler, la dolce bambina scomparsa di quella brava famiglia che piangeva ogni sera al notiziario delle nove.

Non venne mai ritrovata, nemmeno il suo corpo, non una traccia; sembrava essersi volatilizzata. Non furono visti personaggi sospetti aggirarsi nei paraggi, nessuna telecamera a circuito chiuso riprese i suoi ultimi spostamenti, non ci furono testimoni né indiziati. Interrogarono tutti. Gli abitanti della nostra via iniziarono a sospettare l'uno dell'altro; si scambiavano un amichevole buon giorno mentre andavano verso le proprie auto la mattina presto, poi non facevano altro che rimuginare, dubitare e concepire pensieri alquanto distorti sui vicini di casa. Mentre lavavano la macchina, dipingevano le assi degli steccati, strappavano le erbacce dalle aiuole e tosavano il prato il sabato mattina, era un susseguirsi di domande e di occhiate furtive, accompagnate da riflessioni di cui si vergognavano. Erano scioccati di avere simili idee, arrabbiati perché quella storia aveva corrotto le loro menti. Intimamente imbarazzati, lavavano via quei pensieri assieme alla schiuma del cofano. Grattavano e sciacquavano con la canna lo sporco e il sudiciume che immaginavano l'uno dell'altro, finché le auto non tornavano a splendere. Le dita puntate dietro le porte chiuse non potevano fornire alla polizia alcun indizio; non avevano assolutamente nulla su cui lavorare a parte una bella fotografia.

Mi sono sempre domandata dove fosse finita Jenny-May, dove fosse svanita e come una persona potesse volatilizzarsi senza lasciare traccia, senza che nessuno sapesse niente. La notte guardavo fuori dalla finestra della mia camera e fissavo la sua casa, dove la luce del portico era sempre accesa come un faro per indicarle la strada. La signora Butler non riusciva più a dormire e io la vedevo appollaiata sul bordo del divano, quasi fosse un atleta alle linee di partenza, in attesa del via. Sedeva in soggiorno, guardando fuori dalla finestra e aspettando che arrivasse qualcuno a portarle notizie. Ogni tanto la salutavo con un cenno della mano e lei mi rispondeva tristemente, ma la maggior parte delle volte non vedeva oltre le proprie lacrime.

Come la signora Butler, non ero felice di non avere risposte. Jenny-May Butler mi piaceva molto di più dopo la sua scomparsa rispetto a quando era qui, e anche questo mi interessava. Mi mancava, mi mancava l'idea di lei, e pensavo che magari era lì vicino a tirare sassi dietro a qualcun altro e a ridere ad alta voce, ma noi non eravamo in grado né di trovarla né di sentirla. Da allora presi l'abitudine di cercare qualsiasi cosa. Quando perdevo i miei calzini preferiti ribaltavo la casa, mentre i miei genitori mi osservavano preoccupati senza sapere che fare, ma mettendosi quasi sempre ad aiutarmi.

Mi dava fastidio sapere che delle cose di mia proprietà non si trovavano più; e le rare volte in cui credevo di averle recuperate, ne saltava sempre fuori una soltanto, e questo proprio non lo sopportavo. Allora immaginavo Jenny-May Butler che tirava sassi e rideva con indosso i miei calzini.

Non volevo mai niente di nuovo; dall'età di dieci anni ero convinta che non si potesse rimpiazzare quel che era andato perso.

Mi accanivo nel ritrovare ogni cosa.

Probabilmente mi interrogavo su quei calzini spaiati tanto quanto la signora Butler si preoccupava per la figlia. Entrambe restavamo sveglie la notte a passare in rassegna le nuove domande senza risposta che quella situazione ci poneva. Tutte le volte che le palpebre si facevano pesanti e stavano per chiudersi, un'altra domanda veniva scagliata dalle profondità della mente, costringendole a riaprirsi. Tenevamo a bada il sonno di cui tanto avevamo bisogno e ogni mattina eravamo più stanche, benché non più sagge.

Forse fu per questo che accadde proprio a me. Forse fu perché avevo passato così tanti anni a ribaltare la mia vita e a cercare qualsiasi cosa. Dimenticai di cercare me stessa; a un certo punto dimenticai di domandarmi chi fossi e dove fossi.

Ventiquattro anni dopo Jenny-May Butler, scomparii anch'io.

Questa è la mia storia.

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Avevo quattordici anni quando i miei genitori mi proposero di vedere uno psicologo il lunedì dopo la scuola. Non fu difficile convincermi; non appena mi dissero che avrei potuto fare tutte le domande che volevo e che quella persona era abbastanza qualificata da rispondere, ero praticamente già lì.

Sapevo che pensavano di aver fallito con me. Lo capii dalle loro espressioni quando mi fecero sedere al tavolo della cucina, con il latte e i biscotti al centro e la lavatrice accesa in sottofondo come solita distrazione. La mamma stringeva in mano un fazzoletto appallottolato, che doveva aver usato da poco per asciugarsi le lacrime. Era questo il problema con i miei genitori: non mi mostravano mai le loro debolezze, però si dimenticavano di cancellarne le prove. Non vedevo le sue lacrime, però notavo il fazzoletto. Non sentivo la rabbia di papà per non essere riuscito ad aiutarmi, ma l'avvertivo nei suoi occhi.

"Va tutto bene?" Il mio sguardo si spostava da un viso all'altro; avevano entrambi un'aria forte. Le uniche occasioni in cui due persone possono apparire così sicure di sé e pronte al peggio è quando accade qualcosa di brutto.

"Cos'è successo?"

Papà sorrise. "No, tesoro, non preoccuparti. Non è successo niente di brutto."

A quel punto la mamma sollevò un sopracciglio e io capii che non la pensava così. Anche papà non credeva alle proprie parole, eppure le aveva dette lo stesso. Non c'era niente di sbagliato nel mandarmi da uno psicologo, assolutamente niente, ma sapevo che avrebbero preferito aiutarmi in prima persona. Avrebbero voluto che le loro risposte mi bastassero. Ascoltavo di nascosto le infinite discussioni sulla maniera più corretta di affrontare il mio comportamento. Avevano provato con ogni mezzo possibile e ora erano delusi da se stessi, e io mi detestavo perché li facevo stare così.

"Sai, tesoro, a proposito delle tue domande", cominciò mio padre.

Annuii.

"Ecco, la mamma e io..." continuò, guardandola in cerca di appoggio, e gli occhi di lei si addolcirono nell'istante in cui li posò sul marito. "Ecco, la mamma e io abbiamo trovato una persona con la quale potrai parlare di quelle domande."

"Questa persona sarà in grado di rispondermi?" Sentii che gli occhi mi si spalancavano e il cuore accelerava, come se tutti i misteri della vita fossero sul punto di essere svelati.

"Lo spero, tesoro", rispose la mamma. "Spero che, parlandogli, non sarai più assillata da tante domande. Lui saprà molte più cose di noi riguardo tutto quello che ti preoccupa."

Era arrivato il momento del mio interrogatorio a bruciapelo. Dita pronte sul pulsante.

"Come si chiama?"

"Signor Burton." Papà.

"E di nome?"

"Gregory." Mamma.

"Dove lavora?"

"A scuola." Mamma.

"Quando lo vedrò?"

"Il lunedì dopo le lezioni. Per un'ora." Mamma. Era più brava di papà, abituata a questo genere di dialoghi mentre lui era al lavoro.

"È uno psicologo, vero?" Non mi mentivano mai.

"Sì, tesoro." Papà.

Dal modo in cui mi guardò, credo che quella sia stata la prima volta in cui ho odiato la mia immagine riflessa negli occhi dei miei genitori, e sfortunatamente fu anche l'inizio dell'insofferenza verso di loro.


L'ufficio del signor Burton era grande come uno sgabuzzino, appena sufficiente per contenere due poltrone. Scelsi quella sporca ricoperta di velluto verde oliva con i braccioli di legno scuro, invece di quella marrone macchiata. Sembravano entrambe degli anni Quaranta e si sarebbe detto che da allora nessuno le avesse mai lavate né spostate dalla stanza. Sulla parete di fronte a me c'era una finestrella così alta che l'unica cosa che riuscivo a vedere era il cielo. Il giorno in cui conobbi il signor Burton era di un azzurro chiaro. Ogni tanto passava una nuvola, riempiva di bianco tutta la finestra e poi andava via.

I muri erano tappezzati di poster raffiguranti studenti dall'aria felice che dichiaravano all'ufficio vuoto di aver detto no alla droga, di non accettare le prepotenze, di essere riusciti a superare lo stress degli esami, di aver sconfitto i disturbi alimentari, di aver reagito al dolore e di essere abbastanza furbi da evitare una gravidanza in età adolescenziale non facendo sesso; in un altro poster rivolto a quelli che invece lo facevano, la stessa coppia di ragazzi annunciava che usava il preservativo. Dei santi. Quella stanza era così positiva che mi aspettavo di venire espulsa dalla poltrona come un razzo. Il signor Burton il Magnifico li aveva aiutati tutti.

Mi immaginavo un vecchietto saggio con i capelli grigi spettinati, il monocolo a un occhio, il panciotto con un orologio da taschino attaccato a una catenella e il cervello strapieno di conoscenze, dopo anni di approfondite ricerche sulla mente umana. Mi figuravo un maestro Yoda occidentale che trasudava sapienza, parlava per enigmi e tentava di convincermi che dentro di me avevo una forza immensa.

Quando il vero signor Burton entrò nella stanza, provai un miscuglio di sensazioni. La mia parte indagatrice era delusa, ma la quattordicenne in me era decisamente deliziata. Era più un Gregory che un signor Burton. Giovane e bello, sexy e attraente. Sembrava uscito dall'università quel giorno stesso, con i jeans, la maglietta e un taglio di capelli alla moda. Feci i miei soliti calcoli: suppergiù il doppio della mia età. Nel giro di qualche anno sarebbe stato legale e per allora avrei finito la scuola. Ancora prima che chiudesse la porta alle sue spalle, avevo già pianificato tutta la mia vita.

"Ciao, Sandy." Aveva una voce vivace e allegra. Mi strinse la mano e io giurai a me stessa di leccarla una volta a casa e di non lavarla mai più. Si sedette sulla poltrona di velluto marrone davanti a me. Tutte le ragazze di quei poster dovevano essersi inventate dei problemi soltanto per poter entrare nel suo ufficio, ci avrei scommesso.

"Spero che tu stia comoda su questo articolo di alto design." Arricciò il naso in segno di disgusto, mentre si sistemava sulla poltrona dai cui fianchi fuoriusciva la gommapiuma.

Scoppiai a ridere. Era proprio un figo. "Sì, grazie. Mi stavo domandando che cosa significa secondo lei il fatto che abbia scelto questa poltrona."

"Be", rispose con un sorriso, "può voler dire una di queste due cose."

Lo ascoltai attentamente.

"Che non ti piace il marrone oppure che ti piace il verde."

"Nessuna delle due", sorrisi. "Volevo solo poter guardare la finestra."

"A-ah!" esclamò ridacchiando. "Sei una di quelle che in laboratorio definiamo 'guardatrici di finestre'."

"Proprio così."

Mi osservò divertito per un secondo, poi prese una penna e un blocco per gli appunti e appoggiò un registratore sul bracciolo. "Ti dispiace se registro?"

"Perché?"

"Perché così mi posso ricordare tutto quello che dici. A volte certe cose non le afferro finché non riascolto il nastro."

"Ah! E allora la penna e il blocco a cosa servono?"

"Per scarabocchiare. Nel caso mi annoi mentre ti ascolto." Premette il tasto record e disse il giorno e l'ora.

"Mi sembra di essere a un interrogatorio della polizia."

"Ti è mai successo per davvero?"

Feci di sì con la testa. "Quando Jenny-May Butler scomparve, a scuola ci chiesero di dare tutte le informazioni che avevamo." Come aveva fatto in fretta la conversazione a spostarsi su di lei. Sarebbe stata lusingata da tanta attenzione.

"Mmh", annuì. "Jenny-May era una tua amica, vero?"

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Martedì mattina, esattamente due giorni dopo il mancato appuntamento con Sandy, Jack uscì nella fresca aria mattutina di luglio e chiuse piano la porta di casa alle sue spalle. Foynes fremeva di preparativi per l'imminente festival dell'Irish coffee; gli striscioni arrotolati accanto ai pali del telegrafo erano pronti per essere appesi e il retro di un camion era stato spalancato per ospitare le esibizioni all'aperto delle bande tradizionali. Ora però c'era silenzio, tutti erano ancora sprofondati nella comodità dei propri letti a sognare altri mondi. Jack girò la chiave e il rumore del motore rimbombò così forte nella piazza tranquilla che avrebbe potuto svegliare l'intera cittadina; quindi si mise in marcia verso Limerick, dove sperava di incontrare Sandy a casa di Alan, l'amico di Donal. Prima però aveva intenzione di passare a trovare sua sorella Judith.

Tra i suoi fratelli, Judith era la più vicina a lui di età. Sposata con cinque figli, fu madre dal momento stesso in cui arrivò scalciando e strillando in questo mondo. Di otto anni più grande di Jack, fin da piccola faceva pratica con le bambole e i bambini del vicinato su come farsi obbedire e come dare la pappa. La battuta che girava su di lei diceva che tutte le bambole della città si sedevano composte e smettevano di parlare quando c'era in giro Judith. Non appena era nato Jack, Judith aveva rivolto a lui la propria attenzione, un bambino in carne e ossa che, da quel giorno, aveva potuto accudire e, come spesso era accaduto, soffocare. Era da lei che Jack andava quando aveva bisogno di un consiglio, e lei trovava sempre il tempo, tra una corsa a scuola, un cambio di pannolino e una poppata, di dargli ascolto.

Appena Jack arrivò davanti alla villetta a schiera, la porta d'ingresso si aprì e i lamenti di mille spiritelli gli sfrecciarono accanto all'orecchio, quasi spostandogli i capelli.

"Paaa-pààà", strillò uno di loro.

Il padre dello spiritello apparve sulla porta indossando una camicia sgualcita di un bianco sporco con il bottone in alto aperto e il nodo della cravatta storto e allentato. In una mano teneva una tazza, aggrappandovisi come se fosse la cosa più importante del mondo, da cui trangugiò un sorso con gli occhi sgranati. Nell'altra mano stringeva una valigetta mezzo distrutta, mentre lo spiritello con i capelli biondi, il pigiama dei Power Rangers e le ciabatte di Kermit la rana gli si attaccava a una gamba.

"Non andaaaaare", gridava, attorcigliandosi con gambe e braccia attorno allo stinco del padre, come se da quello dipendesse tutta la sua vita.

"Devo andare, tesoro. Papà deve lavorare."

"Nooooooo."

Un braccio apparve da dietro la porta, allungando una fetta di pane tostato in direzione di Willie. "Mangia", disse la voce di Judith sopra i lamenti provenienti da un'altra fonte.

Willie diede un morso, buttò giù un altro po' di caffè e scosse gentilmente Katie dalla gamba. La sua testa scomparve un momento, diede un bacio alla proprietaria del braccio e gridò: "Ciao, bambini!" sbattendosi la porta alle spalle. Le grida erano ancora udibili, ma Willie continuava a sorridere. Erano soltanto le otto e aveva già sopportato un'ora o due di quella che Jack considerava una vera tortura. Eppure sorrideva.

"Ehilà, Jack", lo salutò radiosa la sua faccia tonda come una luna piena.

"Buon giorno, Willie", rispose Jack, notando i bottoni della camicia che gli tiravano all'altezza della pancia, una macchia di caffè sul taschino e uno schizzo di dentifricio sulla cravatta a disegni cachemire.

"Scusa. Non posso fermarmi a chiacchierare. Devo scappare", ridacchiò il cognato, dandogli una pacca sulla schiena e infilandosi in macchina. Un rumore violento uscì dal tubo di scappamento e poi l'auto partì veloce. Jack guardò il quartiere di villette grigie attaccate l'una all'altra e vide che una scena simile si stava ripetendo sulla soglia di ogni casa.

Aprì la porta, sperando timidamente che quel manicomio non lo inghiottisse. Entrò nell'ingresso e vide Nathan, quindici mesi, che correva con un biberon appeso alle labbra, nudo, fatta eccezione per un protuberante pannolone. Jack lo seguì. Katie, quattro anni, che qualche secondo prima si era aggrappata al padre come se il mondo stesse per crollarle addosso, era seduta a gambe incrociate sul pavimento, a trenta centimetri dal televisore, con una ciotola di cereali che faceva cadere sul tappeto già macchiato, completamente rapita da un gruppo di insetti che ballavano e cantavano nella foresta.

"Nathan!" chiamò Judith in tono allegro dalla cucina. "Ti devo cambiare il pannolino. Torna qui, per favore!"

Aveva la pazienza di una santa, mentre attorno a lei dilagava il caos. I giocattoli ingombravano ogni superficie, scarabocchi e disegni erano appesi alle pareti o fatti direttamente su di esse. C'erano ceste di vestiti sporchi, ceste di vestiti puliti e stendibiancheria carichi di indumenti bagnati allineati lungo i muri. La Tv era a tutto volume, un bambino piangeva e un altro picchiava su delle pentole. Era uno zoo umano; tre femmine e due maschi dell'età di dieci, otto e quattro anni, quindici e tre mesi, tutti scatenati e desiderosi di attenzione. Judith era seduta al tavolo della cucina, circondata da oggetti sparsi praticamente ovunque, con la vestaglia macchiata, i capelli scompigliati e sporchi, e un'espressione che era il ritratto della serenità.

"Ciao, Jack", disse alzando lo sguardo sorpresa. "Come sei entrato?"

"Era aperto e così ho seguito il portiere", rispose lui indicando Nathan che si era sistemato sul pavimento con il suo pannolino puzzolente e aveva ricominciato a picchiare un cucchiaio di legno su una pentola. Rachel, di tre mesi, era ammutolita dallo spavento e aveva gli occhi spalancati e le labbra socchiuse, pronte a emettere bolle. "Non ti alzare." Jack si sporse oltre Rachel per dare un bacio a Judith.

"Nathan, tesoro, lo sai che non devi aprire la porta, se non te lo dice la mamma", lo riprese con calma. "Gioca sempre con la serratura", spiegò a Jack.

Il bambino smise di picchiare sulla pentola e alzò su di lei i suoi grandi occhi azzurri, mentre sul doppio mento gli colava un filo di bava. "Papi", gorgogliò in risposta.

"Sì, assomigli al tuo papà", gli confermò Judith alzandosi in piedi. "Posso offrirti qualcosa? Una tazza di tè, caffè, pane tostato, tappi per le orecchie?"

"Tè e pane tostato, grazie. Di caffè ne ho già bevuto abbastanza", rispose Jack, sfregandosi la faccia con aria stanca, mentre il rumore della pentola diventava quasi insopportabile.

"Nathan, smettila", ordinò Judith con fermezza, accendendo il fuoco sotto il bollitore. "Forza, cambiamo il pannolino."

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Ho scoperto che i tanti squilibri delle nostre singole vite formano un generale equilibrio a un livello superiore. Intendo dire che, per quanto trovi ingiusto qualcosa, mi basta allargare lo sguardo per vedere che ha un suo perché. Mio padre aveva ragione a dire che niente è gratis; tutto ha un prezzo per qualcuno, e nella maggior parte dei casi per noi stessi. Ogni volta che qualcosa entra nelle nostre tasche è perché è stata sottratta altrove. Ogni volta che qualcosa sparisce da un luogo, arriva in un altro. E poi ci sono le solite domande filosofiche, tipo: perché le cose brutte succedono alle persone buone? In tutto ciò che è brutto vedo del bello e, viceversa, in tutto ciò che è bello vedo del brutto, per quanto possa essere difficile capirlo o accorgersene al momento. In quanto umani, siamo il compendio della vita, e nella vita c'è sempre equilibrio. Vita e morte, maschio e femmina, buono e cattivo, bello e brutto, vincere e perdere, amare e odiare. Perdere e ritrovare.

A parte il tacchino di Natale che ricevette in premio al quiz del pub Leitrim Arms quando avevo cinque anni, mio padre non aveva mai vinto niente. Il giorno in cui Jenny-May Butler scomparve, vinse cinquecento sterline con il gratta e vinci. Forse era in credito di una cosa bella.

Era estate. La scuola era chiusa per le vacanze e, come al solito, avevo perso il conto dei giorni. Mancava una settimana all'inizio delle lezioni e io ero terrorizzata al solo pensiero, ma fatta eccezione per l'ansia all'idea di quello che mi aspettava, avevo perso il senso del tempo: ormai era un bel pezzo che non mi alzavo ogni mattina alla solita ora. I giorni della settimana erano uguali ai weekend. Per qualche mese all'anno, le tanto temute domeniche sera erano uguali ai venerdì e ai sabato. Quella era una domenica sera e, nonostante fossimo ancora in vacanza, la temevo. Erano le sei e quaranta e c'era luce; la nostra strada senza uscita era affollata di bambini come me che giocavano senza ricordare che giorno fosse, ma sapendo che era di certo un gran giorno perché quello dopo sarebbe stato esattamente uguale. La mamma era nel giardino davanti con la nonna e il nonno a godere degli ultimi caldi raggi di sole. Io ero seduta al tavolo della cucina e aspettavo trepidante che suonassero alla porta. Bevevo un bicchiere di latte e guardavo i panni nella lavatrice che giravano e giravano, cercando di riconoscere ogni indumento che passava, tanto per tenere la mente occupata.

Mio padre mi lanciava occhiate prudenti, mentre andava e veniva dalla stanza della TV alla cucina, dove arraffava quello che trovava da sgranocchiare, anche se la nuova dieta non lo prevedeva affatto. Non sapevo se stava cercando di intuire quello che mi passava per la testa o di capire se avevo notato che stava rubando del cibo. Comunque mi aveva chiesto già tre volte se qualcosa non andava e io avevo risposto di no con un'alzata di spalle. Era una di quelle occasioni in cui parlare non avrebbe migliorato la situazione. Mi teneva d'occhio e aveva notato il salto che avevo fatto quando avevano suonato alla porta (era solo la mamma che aveva dimenticato di mettere il chiavistello). Mi fece delle smorfie che volevano essere divertenti e si infilò in bocca una manciata di biscotti, come se lo scopo fosse intrattenere me, invece che il suo stomaco. Sorrisi per fargli piacere, lui sembrò soddisfatto e tornò nella stanza della TV, stavolta con una tortina al cioccolato.

Vedete, stavo aspettando che Jenny-May venisse a chiamarmi.

Mi aveva sfidato a re e regina. Era un gioco che si faceva per strada con una pallina da tennis. Ognuno stava dentro un quadrato disegnato per terra con il gesso e doveva far rimbalzare la pallina prima nel proprio quadrato e poi in quello di qualcun altro. L'altro doveva fare lo stesso e, se sbagliava perché la pallina non rimbalzava prima nel suo quadrato oppure finiva fuori dalle righe, veniva eliminato. Lo scopo era raggiungere il quadrato in cima che era quello del re, dove Jenny-May rimaneva dall'inizio alla fine della partita. Tutti dicevano sempre che era bravissima a quel gioco, sorprendente, fantastica, dotata, veloce, precisa e tante altre scemenze che mi facevano venire il voltastomaco. La mia amica Emer e io guardavamo le partite dal nostro muretto. Non giocavamo mai perché Jenny-May non ce lo permetteva. Un giorno dissi semplicemente a Emer che uno dei motivi per cui Jenny-May vinceva sempre era perché iniziava dal quadrato in alto, quindi non doveva farsi tutta la strada come gli altri.

Qualcuno mi sentì, andò a riferirlo a Jenny-May e il giorno dopo, mentre io ed Emer eravamo sedute sul muretto a picchiare i talloni contro i mattoni e a lanciare le coccinelle dalle colonnine per vedere quanto andavano lontano, venne da noi con le mani sui fianchi, circondata dalla sua banda, e mi domandò spiegazioni. Gliele diedi. Rossa in faccia e indignata perché avevo osato risponderle, mi sfidò a una partita di re e regina. Come ho detto, non ci avevo mai giocato e sapevo fin troppo bene che Jenny-May era brava; quello che intendevo era soltanto che non era tanto brava quanto sostenevano gli altri. Per qualche motivo, la gente vedeva in lei qualcosa di più di quello che era veramente. Ho incontrato alcune persone così nella mia vita e mi hanno sempre fatto venire in mente Jenny-May.

Era piuttosto furba. Disse a tutti che, se non mi fossi presentata, avrebbe vinto automaticamente, e io subito sperai che la mia tanto temuta visita dalla zia Lila fosse un giorno prima.

Si diffuse la voce che Jenny-May mi aveva lanciato la sfida. Sarebbero venuti tutti e si sarebbero seduti sul marciapiede a guardare, compreso Colin Fitzpatrick che di solito era troppo figo per farsi vedere nella nostra via. Andava in skateboard con i tizi che stavano oltre l'angolo, con i quali nessun altro aveva il privilegio di bazzicare. Si diceva che perfino la gang degli skateboard sarebbe venuta a vederci.

La sera prima non chiusi quasi occhio. Scesi dal letto, mi infilai le scarpe da ginnastica sotto la camicia da notte e andai fuori in giardino ad allenarmi a re e regina. Non fu molto utile perché il muro sul retro era pieno di spuntoni e la pallina rimbalzava sempre nella direzione sbagliata. E poi era così buio che non riuscivo quasi a vederla. Dopo un po' la signora Smith, la nostra vicina di casa, aprì la finestra della camera da letto, tirò fuori la testa coperta di bigodini, il che mi sembrò strano perché la mattina dopo aveva i capelli lisci, e mi chiese con voce assonnata di smetterla. Tornai a letto, ma non dormii molto; ogni volta che mi assopivo, sognavo Jenny-May Butler con una corona in testa che veniva presa in spalla da tutti mentre Stephen Spencer a bordo di uno skateboard, mi puntava contro un dito con l'unghia smaltata e rideva. Ah, e in più ero nuda.

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