Autore 'Ala al-Aswani
Titolo Sono corso verso il Nilo
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2018, I Narratori , pag. 382, cop.fle., dim. 14x22x2,8 cm , Isbn 978-88-07-03308-7
OriginaleJumhurriya ka-anna
TraduttoreElisabetta Bartuli, Cristina Dozio
LettoreCristina Lupo, 2019
Classe narrativa egiziana , paesi: Egitto , movimenti , storia criminale












 

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Pagina 11

1.



Il generale Ahmed `Alwani non ha bisogno che suoni la sveglia.

Non appena riecheggia il richiamo alla preghiera dell'alba si sveglia per conto suo. Gli occhi aperti, resta a letto a bisbigliare tra sé le parole che sente, poi si alza, va in bagno, compie rapido le abluzioni rituali, si dà una pettinata alla capigliatura accuratamente tinta di nero (fatte salve due sottili strisce simmetriche, una a destra e una a sinistra, che lascia bianche), si infila un'elegante tuta da ginnastica e raggiunge la vicina moschea. Il capo della scorta gli ha chiesto innumerevoli volte di farne costruire una all'interno della villa per poter garantire più facilmente la sua sicurezza, ma il generale `Alwani non ne vuole sapere. Gli è sempre piaciuto pregare in mezzo alla gente, come fanno i comuni mortali. Attraversa la strada a piedi, circondato da quattro uomini della scorta che vigilano sul percorso con le armi spianate, pronti ad aprire il fuoco in ogni momento. Sulla porta della moschea i quattro si separano, due restano fuori e gli altri due si piazzano all'interno, in piedi, per tenerlo d'occhio mentre prega. In quei minuti, fulgidi e benedetti, il generale `Alwani si distacca da questo nostro mondo terreno e ne raggiunge un altro; immerso in una profonda e autentica devozione, non vede le guardie del corpo né i fedeli in preghiera, non tiene conto del proprio ruolo, non pensa ai figli e alla moglie. Le scarpe sotto il braccio come ogni altro orante, si dirige a capo chino verso un angolo lontano, dove compie due prostrazioni in saluto alla moschea e le altre due, quelle canoniche del mattino, senza mai smettere di ripetere le formule dell'esaltazione di Dio e della richiesta di perdono finché non inizia il rito. Malgrado glielo abbiano chiesto con insistenza, il generale `Alwani non ha mai voluto condurre la preghiera, anzi, insiste per mettersi in ultima fila. Se ne sta devotamente a occhi bassi e spesso capita che il volto gli si righi di lacrime mentre l'imam salmodia i versetti del Corano con voce dolce e melodiosa. Pregare lo libera, lo fa sentire un uomo nuovo. Allontana le preoccupazioni, gli purifica l'anima e gli infonde tranquillità, è come se gli venisse offerto un sorso d'acqua fresca mentre muore di sete nella canicola. Il mondo, per lui, diventa risibile, vale quanto un moscerino. Si stupisce di quanto il genere umano lotti per il profitto, quanto si strugga per effimeri piaceri. Perché mai tutta questa avidità, tutta questa competizione? A che servono bugie, invidia e complotti? Non siamo forse tutti di passaggio? Non moriremo tutti, alla fin fine? Non giaceremo per l'eternità nell'umida terra? La nostra anima non salirà al Creatore perché giudichi le nostre azioni?

In quell'ultimo giorno, prestigio o denaro saranno inutili, per salvarci ci sarà soltanto la probità della nostra condotta.

Sua eccellenza il generale `Alwani ha vissuto cinquantotto anni da devoto credente, non si è mai discostato dai precetti e dalla sunna, non ha mai mosso un passo se prima non si era accertato che fosse religiosamente lecito. Non ha mai toccato una goccia di alcol, non ha mai fatto un tiro di spinello. Non ha mai fumato, mai conosciuto donne al di fuori del talamo nuziale (a eccezione di qualche avventuretta non interamente consumata durante l'adolescenza, che il Signore lo perdoni). Ha fatto, sia lode a Dio, il pellegrinaggio alla Mecca: due volte quello completo e tre quello minore. Quanto alla carità per i poveri, è una storia annosa. Ci sono dieci interi nuclei familiari che vivono del sussidio mensile che sborsa di tasca sua. E quando qualcuno di loro lo ringrazia, il generale `Alwani sorride e mormora:

"Che il Signore mi perdoni, figliolo. Non ti ho dato nulla di mio. I soldi sono di Dio, io li custodisco solamente. Sta' tranquillo, fratello, e ricordati di me nelle tue preghiere quando Egli mi chiamerà a sé".

Il generale `Alwani, contrariamente a molti dei pezzi da novanta del nostro paese, preferisce che la gente si rivolga a lui usando l'appellativo religioso "Hagg" piuttosto che "Sua eccellenza il generale" oppure "Basha". Eccolo qui, adesso: è tornato a casa dopo la preghiera, si è seduto come al solito su una comoda poltrona nella grande sala di rappresentanza, e sta leggendo il Corano. Ha cominciato con le ultime due sure per cercare protezione nel Signore, e con alcune delle più corte per proseguire, poi, con il breve passaggio della "Sura della Vacca" di cui fa menzione un detto attribuito al Profeta: "Se lo si legge nella propria casa durante la giornata, in quella casa Satana non entrerà per tre giorni". Dopo le formule dell'esaltazione di Dio e della richiesta di perdono, ha preso l'ascensore ed è salito nei suoi appartamenti al secondo piano, si è fatto un bagno caldo, ha indossato l'accappatoio sul corpo nudo ed è andato nel disimpegno a prepararsi da sé la colazione: due cucchiaioni dello squisito miele di montagna che gli regala - con regolarità - l'ambasciatore yemenita al Cairo, pane da toast con una spessa spalmata del formaggio svizzero che adora e, infine, pancake ricoperti di fragole e cioccolato, da accompagnare imprescindibilmente con un'enorme tazza di tè con il latte; a seguire, un caffè zuccherato il giusto.

E poi? Poi cosa fa sua eccellenza?

Non c'è da vergognarsi a parlare di cose lecite: Sua eccellenza il generale Ahmed `Alwani è uno di quegli uomini cui stuzzica fare sesso di mattina. La predisposizione, probabilmente, gli viene dalle lunghe ore di servizio notturno, che lo hanno assuefatto a pratiche antelucane. Eccolo qui, adesso: si è seduto sul bordo del letto dove Hagga Tahani, la moglie, dorme ancora della grossa. Ha preso il telecomando della tivù satellitare, selezionato un canale porno e regolato il volume così che si senta dentro la stanza ma non fuori. Si è riempito gli occhi delle scene hot che scorrono sullo schermo finché non ha sentito che l'erezione è ben salda e, a quel punto, si è tolto l'accappatoio, lo ha lanciato sul pavimento ed è andato all'assalto di sua moglie baciandola con passione, palpandole le imponenti rotondità e sorprendendosi della sua subitanea e ardente reazione (particolare che lascia supporre che anche lei stesse guardando il film da sotto le coperte). Rettitudine, disdegno dei vizi, educazione militare, costanza nello sport e sana alimentazione: tutti questi fattori hanno permesso al generale `Alwani di mantenere integra la propria prestanza sessuale (senza bisogno di stimolanti) ed è per questo che, con in testa le scene spinte del film, a letto trotta e galoppa come fosse un quarantenne.

[...]

Concluso il rituale mattutino - prima, preghiera e recitazione del Corano, poi colazione e scopatina religiosamente lecita - è ora di cominciare a lavorare. Non appena esce dalla porta della villa, gli uomini della scorta gli fanno il saluto militare e uno di loro si affretta ad aprirgli la portiera della Mercedes nera blindata. Sua eccellenza si accomoda sul sedile posteriore e l'automobile parte, lenta, con intorno altre due vetture per la scorta e quattro motociclette con in sella graduati armati di tutto punto. Il tragitto da casa alla sede dei Servizi non richiederebbe più di mezz'ora, ma il tempo raddoppia perché il capo della scorta vuole cambiare strada ogni giorno per prevenire qualsiasi imboscata o attacco terroristico. Il generale si immerge nei verbali redatti durante la notte e, al telefono, dà le disposizioni più urgenti. Quando l'automobile varca il portone d'ingresso della sede dei Servizi, risuona un grido, "Attenti", cui fa seguito il tonfo del calcio dei fucili sul selciato che accompagna il saluto militare di tutti i presenti. Il generale `Alwani scende agilmente dall'automobile e risponde al saluto dei suoi collaboratori di lunga data, che lo attendono sulla porta dell'immobile; dopo aver tanto lavorato con sua eccellenza, possono leggergli in faccia quel che pensa e, stamattina, si sono accorti subito che è di cattivo umore. Scuro in volto, ha chiesto:

"Ha parlato?"

"Il tenente colonnello Tareq lo sta interrogando, effendi," gli ha risposto uno di loro.

L'espressione contrariata in volto, il generale `Alwani li ha congedati. Ma, invece di salire nel suo ufficio al terzo piano, ha ordinato all'addetto all'ascensore di portarlo giù, nella stanza degli interrogatori. L'aria umida e stantia del seminterrato lo ha colpito non appena la porta metallica si è aperta con un deprimente scricchiolio. Rispondendo, uno dopo l'altro, al saluto dei soldati, il generale è avanzato fino a uno stanzone con le finestre su in alto, strette strette e protette da sbarre di ferro. Sparsi ovunque, strumenti metallici dotati di bracci e ruote che, di primo acchito, potevano sembrare attrezzi da ginnastica. C'era un uomo, nella stanza. Bendato, appeso con una corda spessa a un gancio di ferro che pende dal soffitto, completamente nudo tranne per le mutande, il corpo cosparso di bruciature e di ferite, il viso tumefatto, grumi di sangue sulle labbra e attorno agli occhi. Davanti a lui, quattro agenti e, seduto a una scrivania, un ufficiale coi gradi da tenente colonnello. Costui, vedendo entrare il generale `Alwani, è scattato sull'attenti e gli ha fatto il saluto. Il generale gli è andato vicino. Hanno parlottato un poco, poi il generale ha raggiunto l'uomo appeso, il quale, tutto d'un tratto, si era messo a gemere più forte, quasi volesse impietosire il nuovo arrivato. Con voce chioccia, il generale `Alwani gli ha chiesto:

"Come ti chiami, ragazzo?".

"`Arbi el-Sayyed Shusha."

"Alza la voce. Non sento."

"`Arbi el-Sayyed Shusha."

"Più forte."

Ogni volta che il generale diceva all'uomo di alzare la voce, gli agenti gli mollavano una bastonata. Lui ubbidiva, finché, d'improvviso, ha cominciato a piangere. A quel punto, il generale ha fatto un cenno agli agenti, che hanno smesso di picchiarlo, e con il tono rassicurante e competente che userebbe un medico con il suo paziente, gli ha detto:

"Ascolta, `Orabi, se vuoi tornare a casa dai tuoi figli, bisogna che parli. Noi non ti molliamo. Ti pesteremo finché non muori, ti seppelliremo qui e nessuno saprà più niente di te".

"Lo giuro, Basha," gridava l'uomo in lacrime, "non so niente."

"Quanto mi dispiace che tu la metta così," ha ribattuto il generale, con una punta di tenerezza nella voce. "Ragiona, figliolo, sennò per te si mette male."

"Abbia pietà di me, Basha."

"Abbi tu pietà di te stesso, e parla."

"Non so niente, signore."

A quel punto, il tenente colonnello Tareq ha urlato, stizzoso: "Adesso vediamo, eccome se vediamo...".

Era il segnale. Uno degli agenti si è chinato su un grosso marchingegno nero che pareva un condizionatore d'aria, ha afferrato uno spesso cavo che terminava con due tondini di metallo, ha applicato i tondini ai testicoli dell'uomo e ha premuto un tasto. L'uomo è stato scosso da fortissime contrazioni muscolari, ha emesso delle grida acute che sono risuonate per tutto lo stanzone. Dopo che l'operazione è stata ripetuta più volte, il generale `Alwani ha fatto un segno con la mano all'agente per ordinargli di smettere.

"Abbiamo portato qui tua moglie Marwa," ha detto all'uomo appeso, "e ti giuro che se non parli, brutto figlio di puttana, questo soldato se la scoperà sotto i tuoi occhi."

"Vergognatevi, maledetti!" ha urlato l'uomo.

Il generale `Alwani ha guardato gli agenti, i quali sono usciti in gran fretta per tornare subito dopo trattenendo per le braccia una donna con la galabeya tutta strappata. Era scarmigliata, in viso portava i segni delle botte ricevute. Gli agenti hanno cominciato a picchiarla e quando lei si è messa a gridare, l'uomo appeso ha riconosciuto la sua voce.

"Vi supplico..." ha urlato.

"Spogliatela," ha tuonato il generale.

Gli agenti le si sono avventati contro, lei ha coraggiosamente opposto resistenza, ma loro erano più forti e sono riusciti a strapparle via tutta la galabeya. E quando le è rimasta soltanto la biancheria intima, il generale `Alwani è scoppiato a ridere:

"Ma che bellezza! Sei fortunato, `Orabi. Tua moglie porta ancora il reggiseno che andava di moda una volta, con il bustino di cotone. Lo chiamavano corsetto".

La battuta di sua eccellenza il generale ha mandato in visibilio i presenti, che gli hanno fatto eco con qualche battutina sarcastica.

"Toglietele il reggiseno," ha ordinato il generale, tutto allegro. "Come sono i capezzoli di tua moglie, `Orabi? Per dirla tutta, a me piacciono grandi e scuri."

Gli agenti hanno strappato il reggiseno. La donna è rimasta a seno nudo, ha emesso un unico lungo grido. L'uomo, a quel punto, ha avuto un sussulto.

"Basta, Basha, parlerò," ha urlato. "Parlerò."

Il Tenente Colonnello Tareq gli è andato vicino:

"Parlerai, sì, figlio di troia, altrimenti i soldati se la scopano."

"Parlo, lo giuro."

"Fai parte dell'organizzazione?"

"Sì."

"Qual è la tua zona?"

"Shubra el-Kheima."

"Il tuo responsabile?"

"`Abdelrahman Metwalli"

Per un attimo, si è fatto silenzio. Il generale `Alwani ha mosso qualche passo in direzione della porta, ha chiamato il tenente colonnello Tareq e gli ha detto:

"Se avessi portato qui la moglie fin dall'inizio, ti saresti risparmiato la fatica."

"Che Dio la protegga, effendi," ha risposto il tenente colonnello Tareq sorridendo riconoscente. "Vostra Eccellenza ci insegna ogni giorno qualcosa di nuovo."

Il generale `Alwani gli ha rivolto uno sguardo paterno:

"Registra la confessione, audio e video, e scrivi il rapporto. Ti aspetto nel mio ufficio".

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2.



Caro lettore,

non saprai mai chi sono perché firmerò questo libro con uno pseudonimo. Non ho paura. Io, a Dio piacendo, ho coraggio da vendere. Sta di fatto, però, che viviamo in una società arretrata, inaffidabile e infarcita di preconcetti, e io non sono disposto a pagare il conto dell'ignoranza altrui. Ho cinquantacinque anni, vissuti perlopiù osservando con attenzione, e sono arrivato a comprendere un buon numero di verità assolute, che adesso è mio dovere divulgare e documentare. Se fossimo in un paese rispettabile, le teorie che andrò a illustrare in questo libro meriterebbero di essere insegnate all'università ma, purtroppo, siamo in Egitto, dove non si porta alcun rispetto agli intellettuali seri e agli eminenti studiosi mentre, invece, si riservano onori, tutti gli onori, ai millantatori e ai fanfaroni. Inizierò con questa domanda:

Qual è l'essenza del rapporto uomo-donna, qui in Egitto?

A che serve questa profusione di sguardi languidi, di sorrisi accattivanti, smaniose toccatine e appassionati messaggi galanti? Qual è lo scopo delle molte conversazioni sussurrate nottetempo e delle tenere seratine in riva al mare? Perché le donne sono maestre nell'arte di addobbarsi di fronzoli e di cosmetici per esaltare il proprio fascino? Qual è lo scopo dei tacchi alti su cui vacillano per mettere in risalto le proprie forme?

Perché tutta questa quantità di abiti e pantaloni "femminili," di sbuffi e di drappeggi? Perché l'infinita varietà di modelli e di colori? Persino le donne devote e velate: come mai molte di loro indossano abiti stretti e provocanti quasi volessero - non fosse che è un atto biasimevole - attrarre lo sguardo degli uomini sui dettagli del proprio corpo?

Signori miei,

tutta questa gran carnevalata mozzafiato ha un solo e unico scopo: accalappiare un uomo e costringerlo nella gabbia del matrimonio. Fin dalla pubertà, gli uomini soffrono di un'insistente e dolorosa pulsione sessuale che li spinge a mettersi a caccia di donne con cui andare a letto per alleviare la tensione messa in moto dal testosterone. E a latere di tutto ciò, le donne, qui da noi, crescono convinte che la vagina sia il loro tesoro occulto.

Solo e soltanto nel nostro paese, di una ragazza che ha perso la verginità i giornali scrivono "ha perduto il suo bene più prezioso".

Pensaci, caro lettore: il bene più prezioso di una ragazza egiziana non è il suo cervello, o la sua umanità, o addirittura la sua vita. No, il suo bene più prezioso è la verginità! La membrana che ripara la parte interna della vagina e garantisce che non è mai stata usata! Per poter usufruire di quest'organo ancora incontaminato, l'uomo dà la caccia alla donna e la donna fa la leziosa con l'uomo, gli chiede regali, gioielli, la dote, mobili costosi, un appartamento di lusso in un bel quartiere e lui, con l'acquolina in bocca all'idea di gustarsi la perla racchiusa nell'ostrica, capitola su tutto. Poi si sposano e l'uomo, una volta perduto lo slancio dei primi giorni, capisce che il sesso coniugale non è poi quella goduria che si era immaginato. Scopre - di solito - che la moglie, a letto, è un'incapace, oppure che il sesso le fa schifo, che addirittura lo considera una cosa disgustosa tanto quanto fare pipì e andare di corpo, e che, perciò, lo fa solo se è costretta, per una sorta di dovere. E magari - questo è il caso peggiore - al poveretto capita una moglie che usa il sesso come arma di ricatto e gli comunica:

"Se vuoi godere del mio corpo, devi coprirmi di regali, darmi tutti i soldi che ti chiedo e metterti dalla mia parte ogni volta che litigo con tua madre e le tue sorelle".

Lì, a quel punto, il marito capisce quant'è grossa la fregatura che ha preso: ha dilapidato il suo patrimonio fino all'ultimo soldo inseguendo il sogno di possedere una perla per poi scoprire che l'ostrica è vuota. E, prima che possa darsela a gambe, la moglie è gravida. Le egiziane sono le donne più veloci di tutto l'orbe terracqueo a rimanere incinte. Usano i figli come un'arma utile a tenersi stretto il marito, a fargli fare quel che vogliono loro. Questa è la prima verità di cui ogni marito egiziano viene a conoscenza (anche se non lo ammette). Quanto alla seconda, è che la femminilità delle donne egiziane è inversamente proporzionale alla loro classe sociale. Le donne delle classi alte - di solito - non sono altro che bamboline asettiche e false, pseudofemmine, zuccherini senza passione e senz'anima.

Solo le popolane incarnano la naturale femminilità a tutto tondo, una femminilità che non è stata imbrattata dall'affettazione, che non ha mai familiarizzato con le menzogne delle nobildonne, con i giochetti e l'ipocrisia che costoro succhiano assieme al latte materno. Guarda i quadri di Mahmud Sa'id. Quest'immenso artista era cresciuto nel palazzo di suo padre, che all'epoca era Primo ministro, aveva studiato in Francia e ricoperto la carica di giudice fino al 1950 per poi votarsi totalmente alla pittura. Eppure, quando dipingeva, come modello di femminilità aveva davanti a sé unicamente le popolane. La prorompente femminilità che fuoriesce per noi dalla sua tela Banat Bahari non la troverai mai nelle donne delle classi alte. In estrema sintesi, la donna si incarna nella popolana, le altre sono un falso, un prodotto contraffatto, tra lei e loro c'è la stessa differenza che passa tra una rosa vera e la sua copia di plastica.

Verità numero tre: il fascino di una donna del popolo rifulge in tutto il suo splendore quando fa la domestica; in quest'occorrenza, alla sua femminilità fresca e traboccante si aggiunge un delizioso tocco di arrendevolezza che la rende ancora più seducente.

Per favore, rispondimi in tutta sincerità:

Cosa succede se inviti la tua altolocata fidanzata in un elegante e costoso ristorante e poi, tutto d'un tratto, le dici:

"Tesoro, le tue forme mi eccitano. Le chiappe del tuo sedere a mandolino oscillano che è una meraviglia. Il tuo florido seno mi fa venir voglia di succhiarti i capezzoli. Sono arrapato. Mi piacerebbe sbatterti qui e ora"?

Cosa farà la tua fidanzata a questo punto?

Puoi giurare che si incavolerà di brutto. Ti insulterà. Correrà a casa per gettarsi in lacrime tra le braccia della madre, maledirà il destino che le ha propinato un uomo meschino e spregevole come te. E manderà all'aria il fidanzamento, probabilmente. Andrà davvero su tutte le furie perché le hai confessato apertamente le tue fantasie sessuali. Non le passerà neanche per la testa, alla tua fidanzatina, che quando ha scelto il suo bel vestito aderente voleva indubitabilmente attrarre il tuo sguardo sulla rotondità del suo fondoschiena e sulle sue tette in bella mostra. Il ben noto copione di questa farsa impone che la tua fidanzata infiammi la tua passione come se non ne avesse l'intenzione, e che tu, di contrasto, finga di non essere eccitato e parli d'altro. Il motivo vero per cui la tua ragazza si arrabbierà è che tu, con la tua franchezza, hai rovinato la messinscena. Ma se tu facessi a una domestica l'identica avance che ha mandato lei su tutte le furie, è probabile che verrebbe considerata un garbato complimento. La ragazza, adorabilmente sfrontata e piacevolmente divertita, la accoglierà con una risatina. Per chi sa come abbeverarsi alla loro naturale e fresca fonte, non ci piove: le domestiche sono amanti insostituibili.

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Pagina 28

Ashraf Wissa ha smesso di scrivere, ha acceso uno spinello e si è tenuto a lungo il fumo in bocca per potenziare l'effetto dell'hashish. Adesso, ha finalmente chiaro in testa il soggetto del suo libro. Il primo capitolo si intitolerà "Guida ai piaceri della copula con le domestiche," il secondo sarà "Diario di un asino giulivo" e il terzo "Diventare un ruffiano di successo in cinque mosse". Ci sarà un intero capitolo che descrive le farse che vanno in scena nel mondo del cinema. Dirà tutto, in questo libro. Ne stamperà mille copie a sue spese e le distribuirà in gran segreto. Nessuno saprà mai che l'autore è lui. L'originale sarà scritto a computer, mica a mano, e il libro verrà stampato nella tipografia di Ahmed Ma'mun, il suo amico di una vita, il custode dei suoi segreti fin dai tempi in cui studiavano al Lycée Français. Ashraf Wissa si è reso conto che scrivere è molto più difficile che recitare. Dopo mesi di lavoro, è ancora all'inizio del libro e ha dovuto sforzarsi molto per dargli un tono sarcastico e pungente. Non c'è niente di cui voglia convincere i suoi lettori. Gli basta che capiscano in che mare di bugie viviamo. Si divertirà da matti a vedere come reagiranno tutte quelle femmine boriose, artefatte e per niente seduttive, e tutti quei disgustosi maschi tirati a lucido che trasudano pochezza e stupidità:

"Sì, leggete il mio libro, belli miei, e scoprirete chi siete davvero. Io sono Ashraf Nagib Ramzi Wissa, l'attorucolo fallito e strafatto che tanto disprezzate, prendete in giro o, persino, compatite. Più sono i dispiaceri e le frustrazioni che mi avete causato, più sono numerose le vostre menzogne e grande il vostro disprezzo, tanto più il mio libro vi colpirà come una sberla in piena faccia. Ne lascerò una copia nell'ufficio di Lam`i, quel ruffiano del direttore del casting, che mi umilia in continuazione e mi obbliga a dargli la mazzetta per avere dei ruoli da poco, di qualche minuto appena. Ne lascerò una copia sui set perché gli attori famosi, leggendolo, sappiano che io so esattamente come hanno fatto a raggiungere la celebrità. Lo manderò a tutti i miei parenti 'affermati' perché capiscano che avere successo nella società corrotta in cui viviamo non è cosa di cui andare fieri. E ne lascerò una copia sul comò in camera da letto perché lo legga mia moglie Magda. Sarò ben felice di demolire le sue sterili convinzioni, che lei prende per sacrosante verità. Mia moglie Magda è l'aguzzino che mi tortura senza soluzione di continuità da un quarto di secolo. Se fossi musulmano, avrei divorziato nel giro di qualche mese ma noi copti possiamo divorziare soltanto in caso di adulterio conclamato. Di tutte le donne del mondo, Magda era l'ultima che poteva fare al caso mio. L'ho vista per la prima volta in una giornata uggiosa, durante una festa organizzata dalla chiesa, e sono caduto in trappola. La mia povera mamma ha tuonato contro la nostra unione, ma io ero un maschio arrapato e stolto e mi sono rovinato con le mie mani. Signore Gesù, sia benedetto il Tuo nome. Sembra quasi che Magda `Adly Barsum sia stata creata per un unico scopo: rendere la mia vita un inferno, niente di più e niente di meno".

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Pagina 56

6.



Cara Asma',

ti ringrazio per la fiducia. Naturalmente sarò ben lieto di esserti amico. Anch'io ho bisogno di qualcuno che mi capisca. Spesso mi sento in esilio anche se sto in mezzo alla gente. Ci credi se ti dico che stavo aspettando l'occasione di conoscerti? C'è qualcosa in te che mi fa sentire a mio agio. E dopo aver letto la tua email, ti ammiro ancora di più. Una ragazza istruita ed emancipata, che si batte per il cambiamento con il Movimento Kifaya. Che se ne frega di trovare lavoro nel Golfo o di sposare un uomo ricco. Che combatte la corruzione e chiede giustizia e libertà. Per tacere - ovviamente - del fatto che sei un'autentica bellezza egiziana. Con i tuoi capelli neri, gli occhi scuri, il tuo sorriso dolce che fa apparire due splendide fossette. Tutti particolari che ti donano un fascino irresistibile (se le mie parole ti danno fastidio, cancellale e accetta le mie scuse). Sono abituato a dire apertamente tutto quel che penso. Che Guevara aveva una massima eccezionale:

"L'onore è dire sempre quel si pensa e fare sempre quel che si dice".

È il mio obiettivo. Perciò lascia che mi presenti.


Sono l'unico figlio maschio di casa, e ho una sorella, Maryam, che studia Giurisprudenza. Non vivo più con i miei ad `Abbasseya e sto in un appartamentino in via Sharifein, a Wast al-Balad, vicino alla vecchia sede della radiotelevisione. Certo, vado a trovare la mia famiglia ogni settimana e telefono tutti i giorni per sapere come stanno, ma il fatto che me ne sia andato di casa per loro resta una gran pena per via del mio attivismo politico. Il mio povero papà, Gamal al-Saqqa, era avvocato e militava per il socialismo. Io mi sono laureato in Ingegneria chimica all'università del Cairo e faccio l'ingegnere al cementificio Pellini. In origine, il cementificio si chiamava al-Sharq ed era la fabbrica di cemento più grande e più antica di tutto il Medio Oriente. Fatturava più di un miliardo di ghinee l'anno. Il governo egiziano, a un certo punto, ha ceduto il 65% della al-Sharq alla Pellini, un'azienda italiana che ha la piena proprietà di altri tre cementifici egiziani. La società italiana ha deliberatamente trascurato la nostra fabbrica fino a portarla a chiudere in perdita e, a quel punto, ha trasferito tutti i macchinari nuovi negli altri cementifici, dei cui ricavi gode integralmente. Mi ritengo fortunato rispetto ai miei compagni di corso perché, dopo la laurea, ho trovato lavoro nel mio campo, e di questo devo ringraziare il direttore della fabbrica, 'Issam Sha'lan, che era amico nonché compagno di militanza del mio povero papà. A proposito della tua battaglia a scuola, sappi che io ne combatto quotidianamente una simile. In qualità di membro della commissione sindacale difendo i diritti degli operai contro la dirigenza italiana che li deruba senza ritegno e ricorre alla Sicurezza dí Stato per tenerli a freno. Sono d'accordo con te: viviamo davvero in un pantano. Ma non bisogna mai arrendersi, mai gettare la spugna. Cambieremo questo paese, Asma', ti giuro che lo cambieremo. Cambiare, però, non sarà semplice. Incontreremo molte difficoltà, ma alla fine ce la faremo. Ti racconto l'episodio che, a me, ha cambiato la vita.

Una sera, stavo tornando in minibus da casa di un amico a Imbaba. Arrivati a un posto di blocco, ci hanno fermati. L'ufficiale di polizia ha fatto scendere tutti e ci ha chiesto i documenti. Davanti a me c'era un ragazzo che, quando l'ufficiale lo ha strattonato per la camicia, ha protestato dicendo qualcosa che non ho sentito. L'ufficiale è andato su tutte le furie e lo ha preso a schiaffoni, talmente forte da fargli sanguinare il viso. Non sono riuscito a trattenermi e gli ho urlato:

"Non ha il diritto di picchiarlo".

Girandosi verso di me, l'ufficiale è sbottato:

"Cosa vuoi, disgraziato?".

Sono andato verso di lui mostrandogli il tesserino del sindacato degli ingegneri.

"Per cortesia," gli ho detto, "mi parli con il dovuto rispetto. Le sto dicendo che non ha il diritto di picchiarlo. Se ha violato la legge, lo arresti e lo porti da un magistrato. Ma non lo picchi".

L'ufficiale mi ha guardato fisso per un momento, poi mi ha strappato di mano il tesserino, lo ha fatto a pezzi e l'ha buttato per terra. Io ho lanciato un grido di protesta e gli agenti mi sono piombati addosso, mi hanno pestato finché non sono caduto, mi hanno afferrato e buttato dentro la loro automobile; anche lì, non hanno mai smesso di picchiarmi e di offendermi pesantemente; finché siamo arrivati al distretto dove, nella stanza degli interrogatori, mi è toccata un'altra passata di botte e umiliazioni. Ho trascorso la notte in guardina. Al mattino, quando mi hanno portato dal procuratore, ho chiesto che fossero messe a verbale le lesioni che avevo subito. E il pubblico ministero, sorridendo, mi ha detto:

"Mi ascolti bene, Mazen. Lei è un ingegnere e ha l'aria del bravo ragazzo. Potrei anche verbalizzare le sue lesioni, è un suo diritto. Ma preferisco parlarle da fratello maggiore. Se si scaglia contro il ministero degli Interni, ha già perso in partenza. Non potrebbero sanzionare uno dei loro, neanche se ammazzasse qualcuno. Se accusa l'ufficiale, lui negherà tutto, la querelerà per diffamazione e porterà dei testimoni a suo carico. Io sarò costretto a spiccare un mandato di arresto preventivo, e lei rimarrà in carcere fino al processo, da cui potrebbe anche uscire con una condanna. Le consiglio di accettare le scuse dell'ufficiale e di chiudere qui la questione. Non complichi le cose".

Ho accettato la conciliazione. Allora mi hanno portato nell'ufficio dell'ufficiale che, vedendomi, ha sorriso:

"Basta così, Mazen. Questa volta te la sei cavata, ma che ti serva da lezione. Bisogna riflettere prima di sfidare un ufficiale di polizia. L'hai capito, adesso?".


Eccole lì, le scuse del signor ufficiale. Pensa un po', Asma', sono stato picchiato, umiliato, sbattuto in cella assieme ai criminali comuni solo perché ho difeso l'onore di un cittadino. E, alla fine, vado dall'ufficiale e lui, invece di scusarsi, mi fa la morale. Mi sono sentito terribilmente umiliato, ho avuto l'impressione di non valere niente, di non avere diritti. Sono rimasto chiuso in casa per una settimana intera. Ho pensato e ripensato. Davanti a me avevo due alternative: o emigravo in un paese che rispetta i diritti umani delle persone, oppure mi battevo per il cambiamento. Ho scelto di unirmi al Movimento Kifaya, e lì ho trovato un gruppo di egiziani tra i più coraggiosi e i più nobili del paese, che la pensano tutti come me. Qualche tempo dopo c'è stata la tragedia di Khaled Sàid, a ribadire che la repressione può colpire chiunque, a prescindere dall'estrazione sociale. Capisco bene, ovviamente, che tu sia arrabbiata per quel che è successo nella tua scuola ma, in tutta sincerità, non vedo perché dovresti scoraggiarti. Siamo d'accordo su tre punti:

1) non stiamo combattendo contro quell'ufficiale di polizia, quel preside o quell'azienda italiana, ma contro un regime dispotico e corrotto che da lungo tempo asservisce la mente degli egiziani, un regime che dobbiamo imperativamente abbattere per poi edificare un paese pulito e degno di essere rispettato;

2) gli egiziani vivono da molti anni sotto un regime dittatoriale e, di conseguenza, hanno perso la speranza di ottenere giustizia; non si può biasimarli se rifuggono da qualsiasi scontro con l'autorità per non mettere a rischio la propria sicurezza;

3) tu, Asma', di fondo, fai bene il tuo lavoro per seguire la tua coscienza, perciò non devi aspettarti che venga apprezzato.

A dire il vero, queste non sono idee mie ma, piuttosto, il frutto degli insegnamenti di mio padre, un attivista che, pur essendo stato arrestato, allontanato dal lavoro e gettato sul lastrico, non si è mai pentito, nemmeno per un secondo, delle sue prese di posizione. Una volta, sciocco e inflessibile com'ero, gli ho chiesto:

"Hai búttato dieci anni della tua vita dentro una prigione, eppure in Egitto non è cambiato niente. Non sei pentito?".

"Ho fatto il mio dovere," mi ha risposto sorridendo, "e per questo ho rispetto di me stesso. E poi chi ti ha detto che non è cambiato niente? Giorno dopo giorno, nel nostro popolo cresce la consapevolezza, la verità gli appare sempre più palese. Un giorno o l'altro, la rabbia della gente romperà gli argini e porterà alla rivoluzione. E se anche non la vedrò, la rivoluzione, io morirò con la coscienza a posto perché ho fatto tutto quel che potevo per servire la causa".

La causa, nel vocabolario di mio padre, significa lottare per uno stato democratico e una società socialista. Non prendertela, Asma', per come hanno reagito le famiglie delle tue allieve. Sanno molto bene che stai difendendo i loro diritti, però hanno paura del preside, ecco tutto. Porta pazienza con loro. Poco a poco, si fideranno di te e smetteranno di aver paura. Mio padre diceva:

"La gente ti ama solo se si fida di te, e si fida di te solo se le stai accanto, se ti metti nei suoi panni".

Quando ho cominciato a lavorare in fabbrica ho scoperto che gli operai non si fidavano degli impiegati e degli ingegneri perché si schierano sempre dalla parte della dirigenza. Io sono stato accanto agli operai per un anno intero e, alla fine, ho ottenuto la loro fiducia. Mi hanno eletto in commissione sindacale, impedendo con la forza che la dirigenza manipolasse i risultati del voto. Se li giudichi affrettatamente, gli operai non ti piaceranno affatto. Sì, certo, hanno modi grezzi, talvolta addirittura ostili, ma se vivi assieme a loro, ti renderai conto che sono dei veri e propri eroi. Se la corruzione opprime noi, loro li ammazza. Un operaio del cementificio sta in piedi otto ore al giorno davanti agli altoforni, dove io e te non resisteremmo nemmeno un minuto. Un operaio del cementificio si ammala di fibrosi polmonare e di cancro ai polmoni provocati dall'inalazione di polveri di cemento, e questo perché la dirigenza spesso e volentieri non acquista i filtri per i fumi, e, se anche li compra, non sempre li installa perché riducono la capacità di rendimento. Questo semplice operaio, che affronta quotidianamente la morte combattendo una nobile battaglia per riuscire a tirar su i suoi figli, a mio modo di vedere è più degno di rispetto dei professori universitari che si sono venduti al potere come fossero tante prostitute. La fabbrica dava lavoro a seimila operai. Figurati che la dirigenza italiana ne ha costretti duemila al pensionamento anticipato. Anche se `Issam Shàlan era un amico di mio padre ed è grazie a lui che sono stato assunto, devo dire che, purtroppo, nella questione del prepensionamento ha avuto un ruolo ignominioso. Convocava gli operai e li minacciava per costringerli a chiedere la pensione. Diceva:

"Osi opporti al governo? Il governo vuole che tu vada in pensione. E se dici di no, ti manderanno comunque via, e senza indennizzi. Potrebbero anche arrestarti e sbatterti in galera".

Pensa un po', Asma', operai quarantenni, con famiglia e figli, che si ritrovano in mezzo a una strada, con in mano una sommetta ridicola che si volatilizza in pochi mesi. Cosa può fare un lavoratore, a quel punto? O chiede l'elemosina o si mette a rubare. Una tragedia fatta e finita. Succede una cosa strana, qui da noi in fabbrica: molti degli operai che sono stati obbligati al pensionamento vengono ogni mattina a sedersi davanti ai cancelli e ci rimangono fino alla fine del turno. La dirigenza ha cercato in ogni modo di farli sloggiare. `Issam Shàlan prima ci ha parlato con garbo, poi si è rivolto alla Sicurezza per intimidirli, ma niente da fare. Ho creduto, all'inizio, che star seduti davanti alla fabbrica fosse un modo per attirare l'attenzione sulla loro tragedia. Ho creduto che stessero aspettando che la dirigenza avesse di nuovo bisogno di loro. Quando sono andato a chiedere perché si comportassero così, uno di loro mi ha risposto con grande semplicità:

"L'azienda ci schifa. Ma noi siamo stati qui tutta la vita".

"Questa è la nostra fabbrica," ha aggiunto un altro. "Noi siamo qui da prima di `Issam Shàlan e di tutta la dirigenza italiana. Ci hanno cacciati e noi ora riprendiamo il posto che ci spetta davanti alla nostra fabbrica".

Ecco come sono gli operai. Porta pazienza con le persone, Asma'. Non giudicarle troppo in fretta. Perdonale, stacci accanto, e vedrai il loro meraviglioso potenziale umano. Sono fiero di te, amica mia. Presentati all'udienza a testa alta perché stai ergendoti, solitaria, contro l'intero istituto della corruzione. Tu sei più forte di loro perché stai difendendo quel che è giusto. Non vacillare, non smarrire la fiducia nemmeno per un attimo. Ti prego, fammi sapere come va. E promettimi, saggia signora, di non perdere la calma. Potresti farmi un sorriso, per favore? Vorrei vedere le tue fossette. Ecco, così. Un saluto, bella mia,

Mazen


PS.: Ti chiedo scusa se c'è qualche svista di carattere linguistico. Non sono un letterato come te. Faccio l'ingegnere e a scuola prendevo giusto la sufficienza in arabo.

P.S.S. (più importante): Se vuoi chiamarmi, questo è il mio numero: 01273344288.

Il telefono, ovviamente, è controllato, perciò non parlare troppo e non dare informazioni di sorta. Scrivimi quando vuoi a questo indirizzo email, che è più sicuro.

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'Issam è scattato in piedi e, facendo un cenno perché lo seguissero, è tornato sul terrazzino con il megafono in mano:

"Ascoltatemi tutti, capisco le vostre richieste e le riferirò al responsabile, il signor Fabio".

Tra le fila degli operai c'è stata agitazione, le voci si sono accavallate ma, alla fine, sono tornate a scandire sempre più forte:

"Vogliamo quel che ci spetta! Vogliamo quel che ci spetta!".

'Issam ha urlato con più fiato:

"Ritengo che quando il vostro messaggio arriverà a destinazione potrete interrompere lo sciopero e tornare al lavoro".

Le voci degli operai si sono unite in un unico grido:

"Sciopero! Sciopero!".

Sorridendo, 'Islam ha urlato:

"Se insistete con lo sciopero, ovviamente avete il diritto di farlo. Ma vi prego di proteggere la fabbrica perché è la vostra fabbrica. Ho dato istruzioni in cucina perché vi preparino un pasto caldo".

Si sono levate grida di giubilo che, però, hanno subito ripreso a gran voce:

"Vogliamo quel che ci spetta!".

'Issam si è affabilmente rivolto a Shirbini:

"Grazie, Shirbini. Buona nottata. La passerai qui in fabbrica?".

"Non posso lasciare soli gli operai."

'Issam ha annuito con fare comprensivo, poi si è rivolto a Mazen:

"Devi venire con me, Mazen. È per una questione importante. Giusto un'oretta, poi `amm Madani, il mio autista, ti riporterà qui in fabbrica."

Senza aspettare che rispondesse, lo ha preso sottobraccio e si è diretto verso l'automobile. E non appena si è seduto al suo fianco, gli ha sorriso e amichevolmente gli ha detto:

"Di sicuro non hai cenato. Devi mangiare. Lottare richiede energia".

Sono andati all'Hotel Four Seasons, a Garden City, dove l'ingegner 'Issam, a quanto ha potuto notare Mazen, era una faccia nota. Entrati in ascensore, gli ha chiesto:

"Hai voglia di mangiare italiano?".

E, prima che rispondesse, ha schiacciato il tasto per il secondo piano. Aveva sempre fatto così, con lui. Gli faceva una domanda e, senza ascoltare la risposta, decideva di testa sua. Ha ordinato da mangiare, un bicchiere di whisky per sé e una birra per Mazen, che ha cercato di rifiutare. 'Issam, però, gli ha detto scherzoso:

"Silenzio, figliolo. Devi bere. È un ordine. Ah, quante belle bevute mi sono fatto con il tuo povero papà, pace all'anima sua!".

Dopo un bel sorso di whisky, è parso rinfrancato. Ha detto a Mazen:

"Sai bene che tuo padre era il mio migliore amico. Scordiamoci che sono il direttore della fabbrica. Per me sei come un figlio".

"Gliene sono grato."

"I ringraziamenti tra noi non sono necessari. Vorrei dirti una cosa, potresti ascoltarmi?"

"Sentiamo."

"Vedi, Mazen, io prendo uno stipendio consistente e faccio una bella vita. Della lotta degli operai contro la società italiana non mi importa granché. A me importa solo di te. Capito?"

"Capito."

"Tutto ciò che stai facendo per gli operai è inutile."

"Faccio il mio dovere."

"Il tuo dovere è fare l'ingegnere."

"Gli operai mi hanno eletto nel comitato sindacale perché difenda i loro diritti."

"Ah, sei in modalità slogan..."

"Mi sta prendendo in giro?" ha risposto Mazen, piccato.

'Issam è tornato serio:

"Non potrei, Mazen. Io ho rispetto per il tuo entusiasmo e per come difendi gli operai. È una presa di posizione nobilissima, che io assieme a tuo padre ho mantenuto per molti anni, prima di accorgermi alla fine della fiera che è una pia illusione".

Mazen scuoteva il capo, ma 'Issam ha proseguito:

"Ci siamo accordati di ascoltarci a vicenda".

Mazen è rimasto in silenzio. 'Issam ha continuato:

"Credi davvero che scioperando gli operai otterranno qualcosa? Credi davvero che l'azienda italiana agisca da sola? Ha l'appoggio dei vertici dello Stato. E qui in Egitto la volontà dello Stato è legge, nessuno può contestarla. Ti consiglio di lasciare perdere il tuo malcontento e di pensare al futuro".

"Grazie del consiglio, ma non posso seguirlo."

"Cerca di capire, figliolo. Gli operai per i quali ti batti sarebbero disposti a venderti in qualsiasi momento in cambio di un aumento o di un bonus. Migliaia di comunisti sono stati arrestati e torturati per aver difeso i diritti degli operai. E gli operai cos'hanno fatto per loro? Niente. Non ci hanno sprecato neanche un pensiero.

"Sono davvero stupito che queste parole escano dalla sua bocca."

'Issam ha abbozzato un sorriso amaro.

"Al contrario, queste parole escono dalla mia bocca proprio perché non voglio che tu ripeta i nostri errori. Per correre dietro alle illusioni, io e tuo padre abbiamo mandato all'aria la nostra vita. A Ingegneria, io ero tra i migliori. Avrei potuto puntare tutto sul lavoro, guadagnare milioni, farmi una famiglia e vivere felice. Il tuo povero papà era un astro nascente della giurisprudenza. Non fosse stato per la politica, sarebbe potuto diventare il più importante avvocato d'Egitto. E invece è finito sul lastrico, è stato arrestato e torturato e, alla fine, è morto giovane per gli strascichi di malattie che aveva preso in prigione. L'unica sacrosanta verità è che in Egitto non cambierà mai niente. Prendine atto e pensa al tuo futuro prima che sia troppo tardi."

Mazen continuava a fissarlo. `Issam ha aggiunto:

"Una volta ero romantico quanto te. Ero un ingenuo, vedevo solo la superficie della realtà. Vuoi sapere com'è? Il popolo egiziano non si ribella, e se anche si ribellasse, la sua rivoluzione fallirebbe perché gli egiziani sono dei codardi, sottomessi per natura all'autorità. Siamo l'unico popolo nella storia del mondo che ha elevato i suoi re al rango di divinità e li ha resi oggetto di culto. La cultura che abbiamo ereditato dai faraoni è una cultura di totale obbedienza al sovrano. Fino al diciannovesimo secolo, i contadini egiziani andavano fieri della loro capacità di sopportare la frusta se non pagavano le tasse. Senza contare che la cultura musulmana predispone ad accettare il dispotismo. L'islam prescrive obbedienza verso il governante musulmano anche se ti prende a frustate o ti deruba dei tuoi beni. Il popolo egiziano adora i dittatori, assoggettarsi a un despota lo fa sentire al sicuro. In Egitto, la tua lotta non porterà da nessuna parte tranne, per quel che ti riguarda, a perderti".

"Con tutto il rispetto," lo ha interrotto Mazen infervorato, "quel che dice non è vero. L'islam, in origine, nasce come ribellione contro l'ingiustizia ed è più tardi che diventa un'istituzione i cui interessi si legano al regime di governo. La dittatura c'è stata in Spagna, in Germania, in Italia, in Portogallo e in Argentina, tutti paesi che non sono islamici né hanno un passato faraonico. Non si può giudicare il popolo egiziano in base a come si comportava cinquemila anni fa. La sua lettura, `Issam, è ingiusta."

`Issam è scoppiato a ridere.

"Mi sembra di sentire tuo papà buonanima. Per lui, il popolo era sacro, mai che ne abbia parlato male una volta. Va bene, Mazen, segnati queste domande e troverai la risposta nei libri di storia. Prendi, per esempio...

... il Wafd, che era il partito di maggioranza e riusciva a portare in piazza milioni di egiziani nel giro di poche ore. Perché il Wafd ha accettato che la Costituente del '23 fosse scelta per nomina governativa e non per elezione popolare? Perché non si è opposto a quel tiranno di re Fu'ad? Perché gli egiziani, quando Sàad Zaghlul, che era il massimo dirigente del partito e il leader della nazione, ha rassegnato le dimissioni da primo ministro, non si sono sollevati contro il re e contro gli inglesi? Perché gli uomini del partito Wafd hanno lasciato che Nasser nel 1954 sopprimesse la democrazia quando, invece, potevano chiamare a raccolta il popolo e costringere i militari a rientrare nelle caserme? Perché gli egiziani hanno permesso che nel 1954 venisse arrestato il loro amato leader, Muhammad Naguib, e perché poi, nel 1967, si sono abbarbicati a Nasser che era stato la causa principale dell'ignominiosa disfatta e della susseguente occupazione dell'Egitto? Dopo l'assassinio di Sadat, Mubarak ha liberato i prigionieri politici, tra i quali figuravano i migliori intellettuali del paese. Perché si sono limitati a ringraziarlo invece di chiedergli almeno qualche riforma democratica? Potrei continuare a snocciolarti domande, ma tutte le risposte portano alla medesima conclusione: il nostro popolo non si ribella mai, e se anche facesse una rivoluzione, la abbandonerebbe subito. Il nostro popolo non è pronto a pagare il prezzo della libertà."

`Issam ha mandato giù l'ultimo sorso di whisky e, con un cenno al cameriere, ne ha ordinato un altro.

"Agli esempi che ha citato per dimostrare la passività degli egiziani," ha detto Mazen, "potrei aggiungerne molti altri che provano, invece, il loro coraggio."

`Issam ha cancellato l'obiezione di Mazen con un gesto della mano, poi ha concluso:

"Basta così. Sei testardo come un mulo. Fa' come vuoi".

È calato il silenzio. `Issam ha bevuto un sorso di whisky.

"Ho un'ultima domanda, giusto per mettermi in pace la coscienza."

"Prego."

"Se ti facessi avere un lavoro ben retribuito nel Golfo, lo accetteresti?"

"Non posso abbandonare l'Egitto."

"Sei libero, ma tengo a dirti che ho faticato per impedire che ti arrestassero.»

"Arrestassero me?"

"Certo. Cosa credi, che la Sicurezza di Stato chiuda un occhio sul tuo attivismo? Sei membro del Movimento Kifaya e inciti gli operai a scioperare. Sarebbe estremamente facile intentarti una causa che ti costerebbe come minimo dieci anni di prigione."

"Con quale accusa?"

"Questa domanda non ha alcun senso, qui in Egitto. Con quale accusa io e tuo padre siamo stati anni in prigione? Lo stato egiziano prima di tutto ti sbatte in galera e poi si ingegna a trovare un'accusa che faccia al caso tuo."

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20.



Quel mattino, il generale `Alwani ha svegliato sua moglie dicendole:

"Buongiorno. Preparami una borsa con dei cambi e delle camicie, a mezzogiorno manderò un soldato a prenderla".

A Hagga Tahani c'è voluto qualche secondo per raccapezzarsi e uscire dal mondo dei sogni. E quando ha visto che il marito era già vestito, si è sorpresa. Scendendo dal letto con molta cautela perché le ginocchia non le facessero male, gli ha chiesto:

"Stai partendo?".

"Starò in ufficio per qualche giorno," è stata la concisa risposta.

Gli ha lanciato un'occhiata preoccupata.

"Va tutto bene?"

"Tutto bene, a Dio piacendo."

Con un tono femmineamente melenso che mal si armonizzava con la sua stazza, ha sussurrato:

"Ahmed, vita mia, tranquillizzami".

Le ha posato un rapido bacetto sulla guancia e, sforzandosi di trattenere l'agitazione, le ha detto:

"Non potrò scendere nei dettagli. L'Egitto sta affrontando una cospirazione. Prega Nostro Signore perché ci conceda di uscirne salvi e vittoriosi".

Hagga Tahaní ha pregato con fervore. Poi ha preso tra le sue mani grassocce la mano del marito e ha mormorato una formula contro il malocchio prima di esclamare con trasporto:

"Non c'è altro dio all'infuori di Dio».

"E Muhammad è il Suo Profeta," ha chiosato il generale.

Poi è uscito in gran fretta dalla stanza. Ha pensato di andare a salutare Dania e, dopo aver aperto con delicatezza la porta della sua camera, ha visto che dormiva. Le è andato vicino per contemplare il suo bel visino. È identica a quand'era bambina. Quando dorme, con le labbra un po' socchiuse e l'aria innocente, è bella come un angelo. Ha richiuso la porta senza fare rumore. E pochi minuti più tardi era a bordo della sua automobile blindata, serissimo e già sul pezzo. Lungo la strada, ha ricevuto il rapporto di tutti i governatorati e impartito gli ordini con calma, scandendo bene ogni singola lettera, proprio come se stesse sparando dei colpi che dovevano assolutamente centrare il bersaglio. L'automobile non si è diretta alla sede dei Servizi. Seguendo un altro percorso, è arrivata nel quartiere di Zamalek e si è fermata davanti a una grande villa affacciata sul Nilo.

La scorta è schizzata fuori dalle auto per mettere in sicurezza la zona, poi sono rimasti tutti fuori dalla villa con le armi spianate mentre lui, appena varcata la soglia, veniva affiancato da due ufficiali. Ha raggiunto il giardino sul retro, dove si è incontrato con alcuni ufficiali armati fino ai denti. Dopo il saluto militare, si sono brevemente consultati scambiandosi ripetute formule di incoraggiamento. Poi è salito sul tetto a terrazza, dove ha incontrato altri ufficiali armati di pistole e fucili automatici e, di rinforzo, sette cecchini che spianavano i loro fucili d'ultimo modello in tutte le direzioni. Dopo averli salutati uno per uno è sceso al primo piano, nella stanza che gli è stata riservata come ufficio e dove sono appesi degli schermi che trasmettono in diretta le manifestazioni del Cairo, di Alessandria, di Suez e delle altre città egiziane. Ha chiesto un caffè zuccherato il giusto, che ha sorseggiato con calma mentre seguiva gli eventi. Dopo una mezz'oretta, è arrivato il ministro degli Interni. Il generale `Alwani gli ha stretto la mano, il ministro lo ha abbracciato con trasporto. Il generale `Alwani ha sorriso e ha detto a mo' di battuta:

"Insomma, perché io riesca a vederla deve andare a rotoli il paese".

"Per lei ci sono sempre, signore."

"Cosa ne dice se andiamo a parlare all'aria aperta?"

Non ha aspettato la risposta. Ha posato il cellulare sulla scrivania, subito imitato dal ministro, che poi ha preso sottobraccio. Insieme, hanno raggiunto un angolo appartato del giardino dove c'erano un tavolo e due sedie. Si sono seduti. Intuendo la volontà del generale, gli uomini della scorta si sono allontanati di quel tanto che permetteva di sorvegliare il sito senza sentire la conversazione.

"Considerate le circostanze," ha esordito con serietà il generale `Alwani, "ho deciso in via precauzionale di spostare le nostre attività fuori dalla sede dei Servizi. Le consiglio di fare altrettanto."

"Stiamo allestendo sedi alternative, signore, dove trasferire gli uffici più importanti già oggi o, al più tardi, domani".

Il generale `Alwani ha fatto cenno a un soldato, che è corso da lui. Ha ordinato un altro caffè e una bottiglia d'acqua, il ministro ha chiesto un bicchiere di tè. Dopo aver atteso che il soldato si allontanasse, il generale `Alwani ha ripreso:

"Non intendo parlare degli sviluppi della situazione. Lei è sicuramente aggiornato. Purtroppo stiamo pagando i ritardi delle decisioni politiche. I Servizi, di cui sono orgogliosamente a capo, hanno inviato due rapporti a sua eccellenza il presidente, uno due mesi fa e uno la settimana scorsa. Prevedendo gli eventi che stanno avendo luogo oggi, suggerivamo una serie di misure per contrastarli. Purtroppo, però, non ne è stata messa in atto nemmeno una".

Il ministro, mostrando rammarico, ha annuito. Il generale `Alwani ha proseguito:

"Gli elementi agitatori che oggi guidano la gente nelle piazze non sono più di cinquecento. Vi avevamo fornito i nomi e tutti i dettagli del caso, suggerendo di arrestarli immediatamente. Purtroppo, però, nulla è stato fatto".

"Come mai, signore?"

Il generale `Alwani ha guardato il ministro con una punta di afflizione.

"I miei poteri, politicamente parlando, mi concedono, al più, di fare rapporto e di dare indicazioni. Le decisioni le prende solo sua eccellenza il presidente, in base alle sue personali considerazioni."

"Sarebbe stato meglio se sua eccellenza il presidente avesse seguito i suggerimenti di vossignoria."

"Quel che è stato è stato," ha replicato il generale `Alwani. "Andiamo al sodo. Mi dica."

Il soldato ha portato le bevande. Dopo un sorso di tè, il ministro ha detto:

"Vorrei sapere come vossignoria giudica la posizione delle forze politiche."

"Quale, per esempio?"

"I Fratelli Musulmani?"

"I Fratelli hanno emesso un comunicato che condanna le manifestazioni. Non si sognano neanche di partecipare alla rivolta perché il prezzo da pagare sarebbe troppo alto. Trovano essenziale che la loro organizzazione non subisca danni. Ma se, Dio non voglia, a noi sfugge il controllo della situazione, i Fratelli scenderanno sicuramente in piazza per sfruttare il caos che verrà a crearsi. Avete sott'occhio qualcuno dei loro leader?"

Il ministro ha annuito. Il generale `Alwani ha proseguito:

"Teneteli in prigione. Potrebbero essere una buona carta da giocare".

"E gli altri partiti?"

"I partiti collaborano tutti. Hanno tutti emesso un comunicato di condanna delle proteste."

Il ministro ha annuito.

"Ho inviato a vossignoria il piano numero 2000."

"L'ho letto. Ottima idea inviarlo dall'email criptata e senza il logo del ministero. Stiamo vivendo circostanze eccezionali, non possiamo permetterci di lasciare tracce."

"Ho preso alcuni provvedimenti che esulano dal piano. Vorrei illustrarglieli.»

"Prego."

Il ministro ha tirato fuori un foglietto e ha cominciato a leggere in tono ufficiale:

"Rafforzare la vigilanza delle istituzioni vitali e dei personaggi pubblici pro regime. Mettere in sicurezza fabbriche e stabilimenti produttivi, invitando i nostri informatori a denunciare qualsiasi tentativo di sobillare gli operai, così da poter intervenire prontamente. Riguardo a scuole e università, che saranno praticamente chiuse per la pausa semestrale, è comunque possibile rafforzare la sorveglianza e arrestare ogni studente che fomenti la ribellione dei compagni. Abbiamo infiltrato decine di elementi tra i manifestanti per monitorarne le mosse passo dopo passo, e per cercare di portare i leader delle proteste lontano dai luoghi delle manifestazioni così da poterli arrestare".

Annuendo, il generale `Alwani ha commentato:

"Tutti provvedimenti validi".

"Grazie, signore. Vossignoria ha delle osservazioni sul piano? Considero vossignoria il mio maestro."

È parso che il Generale stesse riflettendo, poi ha annuito, con lentezza.

"Il piano va bene. Per eseguirlo, il tempo è un fattore chiave. Ogni ora fa la differenza."

"Perfetto, signore."

"Mi preme che la filosofia del piano sia chiara a tutti coloro che lo metteranno in esecuzione. Ogni singolo ufficiale deve sentirsi parte di una vera e propria battaglia in difesa dell'Egitto. Bisogna che tutti gli ufficiali e tutte le unità ricevano un comunicato del ministero da cui evincano che i ragazzi di piazza Tahrir sono una banda di cospiratori e di traditori il cui unico scopo è mandare in rovina il paese."

Mentre il ministro annuiva, il generale `Alwani ha proseguito con slancio:

"Ribellarsi e scendere in piazza è un comportamento estraneo alla natura degli egiziani. Noi siamo un popolo ubbidiente, che ha sempre rispettato i propri leader anche se ci indispongono. Quel che succede in piazza Tahrir è un'anomalia, non rientra nella mentalità egiziana. Il nostro obiettivo è far arrivare agli egiziani il messaggio che le proteste porteranno soltanto al caos. Il nostro obiettivo è dire al cittadino comune: o stai con le manifestazioni e rinunci alla sicurezza, o stai con lo Stato e sarai protetto."

"Ricevuto, signore," ha detto il ministro con un filo di voce.

Il generale `Alwani, dalla sua sedia, guardava lontano come se stesse riordinando le idee. Ha chiesto al ministro:

"Taglierà le linee di comunicazione?".

"Ho dato istruzione di tagliarle giovedì, prima delle manifestazioni di venerdì. Senza cellulari e senza Internet, quei sovversivi non avranno più modo di comunicare. Le linee del ministero, invece, saranno criptate ma continueranno a funzionare."

Il generale `Alwani sembrava soddisfatto, si è sporto verso il ministro per dirgli in un sussurro:

"Ci sono alcune azioni nel piano che violano la legge. Io le approvo, ovviamente. Il fine giustifica i mezzi. Ma bisogna assolutamente tutelare gli ufficiali da qualsivoglia ricaduta penale".

"Gli ufficiali," ha risposto il ministro, "sanno di poter ricorrere alle munizioni per reprimere i manifestanti, gli è stato comunicato a voce. Non c'è nemmeno una parola scritta riguardo alle armi. I registri comprovano che hanno in dotazione unicamente proiettili di gomma e gas."

"Stando al piano, vi è consentito aprire le prigioni?"

"Solo se, Dio non voglia, perdessimo il controllo dei manifestanti."

"Ho capito. Quante prigioni aprirete, e quanti detenuti lascerete evadere?"

"Apriremo all'incirca cinque prigioni, evaderanno tra i venticinque e i trentamila detenuti. Esattamente com'è scritto nel piano. L'obiettivo è seminare il panico tra la popolazione perché si schieri con lo Stato contro i sovversivi."

"Avete una copertura legale?"

"Si presenteranno gli episodi come dei tentativi di sommossa nelle carceri. Si dirà che i militari hanno resistito ma che forze esterne hanno favorito le evasioni."

"Ottimo. Ancora un punto chiave. Gli ufficiali che hanno sempre coscienziosamente fatto la guardia alle prigioni. Come pensate di convincerli a lasciare improvvisamente evadere i detenuti?"

Sorridendo, il ministro ha mormorato:

"Ho costituito all'interno del ministero un corpo speciale formato da ufficiali particolarmente leali. Questo corpo, che prende ordini direttamente da me, è dislocato ovunque, all'insaputa dei propri colleghi. Saranno gli ufficiali del corpo speciale ad aprire le prigioni. Chi sarà di servizio con loro crederà che si tratti di una rivolta come le altre".

"Bene, ipotizziamo che un ufficiale non del corpo si opponga davvero e cerchi di impedire che vengano aperte."

"Se saremo costretti ad aprire le prigioni, signore, bisogna che le prigioni vengano aperte. Il corpo speciale riceverà istruzioni chiare e non permetterà che il piano fallisca, costi quel che costi."

Il generale `Alwani ha fatto una pausa, come per soppesare le parole del ministro. Il quale ha aggiunto:

"Signore, siamo impegnati nella difesa dello Stato egiziano. Siamo in guerra. Se ci saranno delle vittime da un lato o dall'altro, sarà il prezzo da pagare per la sopravvivenza dello Stato".

"L'ultimo punto sono i media."

"Ho dato istruzioni precise ai mezzi di informazione pubblici e privati. Devono spiegare al popolo la portata della cospirazione. Ho collocato un ufficiale operativo nella sede di ogni canale televisivo, con piena autorità di chiudere qualsiasi programma e di arrestare chiunque ritenga opportuno arrestare."

Una breve pausa di silenzio, poi il ministro degli Interni ha chiesto:

"Vossignoria ha altre osservazioni?".

Il generale `Alwani ha scosso la testa.

"No. La ringrazio."

"Allora mi congedo, signore. Devo tornare al ministero."

Il generale `Alwani si è alzato, ha stretto energicamente la mano al ministro e ha concluso:

"Restiamo in contatto. Che Dio sia con lei".

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Ashraf Wissa ha aperto la porta di casa e ha imboccato le scale. Ikram lo ha chiamato ma poi ha chiuso la porta e gli è corsa dietro. Dopo qualche minuto, Ashraf e Ikram erano al centro di piazza Tahrir. Avevano davanti uno spettacolo epico, talmente maestose da far paura, proprio come capita con certi riti religiosi che riuniscono migliaia di credenti. C'erano manifestanti dappertutto, correvano e gridavano, la morte alle calcagna. Sopra al palazzo dell'Università Americana e sui tetti dei condomini che affacciano sulla piazza erano disseminati gruppi di cecchini in borghese, ogni gruppo composto di militari armati di fucili di precisione di ultima generazione e di un ufficiale di comando. Avevano tutti un fazzoletto bianco legato attorno alla testa, forse per schermare la luce del sole quando prendevano la mira oppure, chissà, magari per poter nascondere il viso se qualcuno li fotografava. Un cecchino uccide con calma e precisione chirurgica. Guarda attraverso il mirino e sceglie la sua preda. E, in quel momento, sul volto gli si disegna un amalgama di determinazione e di odio. Poi preme il grilletto e parte il colpo che si conficcherà nella testa della vittima designata. Un unico proiettile, decisivo e risolutivo, mette fine ai ricordi d'infanzia, alle cure della famiglia, alla stanchezza di notti passate sui libri e alla gioia per i successi scolastici, al sogno di amarsi e di sposarsi. Con quell'unica pressione sul grilletto finisce tutto. Le morti si susseguivano, i martiri cadevano uno dopo l'altro. I manifestanti non scappavano dalla morte, era come se la sfidassero; non correvano lontano dal punto di fuoco, gli andavano incontro. Nessuno aveva più paura della morte, era come se si fossero tutti fusi in una gigantesca creatura che non si sarebbe placata se prima non raggiungeva gli obiettivi per cui era scesa in piazza. Ogni volta che un martire cadeva, sollevavano in alto il suo cadavere scandendo slogan, avvicinandosi di più al ministero degli Interni e invocando la grandezza di Dio ripetendo Allahu akbar. Un ragazzo è morto accanto a Ashraf. Stava scandendo gli slogan al suo fianco quando, di colpo, si è zittito, si è piegato in avanti come se cercasse qualcosa per terra e, infine, è caduto. I manifestanti lo hanno portato via, Ashraf li ha seguiti tra la folla con Ikram che lo tirava per un braccio e urlava anche se la sua voce si perdeva nel frastuono. Ashraf è andato sempre più avanti finché ha raggiunto il martire che i suoi compagni portavano a spalla. Lo ha guardato in faccia. Sembrava sereno, al punto che Ashraf ha avuto l'impressione che stesse per sorridere. Indossava le scarpe da tennis, i jeans e un maglione nero da quattro soldi tutto consunto. Ashraf, invaso da un desiderio astruso e oscuro, si è fatto largo tra la folla fino ad arrivare accanto al corpo del ragazzo, ha teso la mano e ha stretto la sua per qualche secondo prima di essere allontanato dal flusso dei manifestanti. La mano del ragazzo era fredda e, in un certo senso, familiare. È stato un po' come stringere la mano di un amico in una mattina di gelo. Ashraf si è allontanato dai manifestanti e, con Ikram, si è incamminato lentamente verso íl muro di cinta dell'università. E di punto in bianco si è inginocchiato sul selciato e si è preso la testa tra le mani. Ansimava.

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All'improvviso ho sentito una raffica di spari e delle donne che gridavano, è successo un putiferio. Il ragazzo mi ha trascinato verso il marciapiede perché tutti si erano messi a correre in preda al panico. Io non capivo cosa succedeva. Ero terrorizzato perché il rumore degli spari era dappertutto. Poi, di colpo, mi sono sentito tirare la mano verso il basso, ho guardato il ragazzo e ho visto che gli cedevano le gambe. Una pallottola lo aveva colpito in testa, a destra, e quasi quasi gli era uscita dall'altra parte. Ha barcollato e poi è caduto. Mi guardava, da là sotto, mi guardava come se non riuscisse a credere a cosa stava succedendo, come se mi dicesse: "Sto davvero morendo? Perché? Come?". Come se non riuscisse a credere alla morte. All'inizio ho creduto che guardasse me, ma poi ho cambiato idea e ho capito che guardava più in alto, verso Nostro Signore. Io, semplicemente, mi trovavo in mezzo. Non c'era rabbia nel suo sguardo, c'erano soltanto incredulità, stupore, un punto di domanda e l'accenno di un sorriso. Giuro, non lo so se era cristiano o musulmano, non ho avuto modo di chiederglielo, non portava il crocifisso, non ho neanche visto se aveva la croce tatuata sul polso oppure no. Non ci ho fatto caso. So solo che mi aveva preso la mano. E che poi piano piano aveva mollato la presa e si era accasciato. Che aveva gli occhi aperti. Spaventato, mi sono accucciato vicino a lui, lo scuotevo e gli dicevo: "Alzati! Alzati!". Poi qualcuno mi ha detto: "Ma come vuoi che faccia ad alzarsi? Portiamolo via". Mentre lo posavamo sul selciato, ho visto, sulla sinistra del palazzo della televisione, un mucchio di persone che andavano avanti e indietro come tante formiche e poi si disperdevano. Perché? Perché c'era un'autoblindo che correva da matti, come se la guidasse un ubriaco che non riusciva ad andare dritto. Ci stava venendo addosso. E allora abbiamo lasciato cadere il ragazzo che stavamo sollevando da terra e d'istinto ci siamo messi a correre. Secondo voi, esiste un'umiliazione peggiore di questa? Avete idea di come ci si può sentire quando si scappa e si abbandona un morto o un ferito? Ti metti a correre per salvarti la pelle, hai paura per la tua vita... e questo è umiliante. Chi è uomo può capire.

Sono corso verso il Nilo. I gas lacrimogeni ammorbavano l'aria e io piangevo. Non so se per il gas, per il ragazzo morto, per me stesso, o per tutte queste cose insieme. Mentre mi allontanavo, ho visto con i miei occhi dei corpi maciullati dal passaggio dell'autoblindo. Budella, cervella, gambe, persone tagliate a metà. Ecco cosa ho visto. Ma il peggio è stato vedere la gente che correva in preda al panico e calpestava tutti quei brandelli. Nessuno ci pensava, a tutti interessava solo mettersi in salvo. Avete idea di cosa vuoi dire avere davanti il corpo di un martire, vedere che tutti gli passano sopra, che lo calpestano, che lo spostano senza neanche guardare giù?

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