Autore Paolo Albani
Titolo Il complesso di Peeperkorn
SottotitoloScritti sul nulla
EdizioneItalosvevo, Trieste-Roma, 2017, Piccola biblioteca di letteratura inutile 11 , pag. 86, intonso, cop.fle., dim. 12x18,8x0,6 cm , Isbn 978-88-99028-25-1
LettoreFlo Bertelli, 2017
Classe narrativa italiana












 

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Indice


Prologo                                                  9


Quattro movimenti                                       11

    Una guida al Nulla                                  13

    Il complesso di Peeperkorn                          21

    Chi troppo vuole nulla stringe                      33

    Come se niente fosse                                41


Epilogo                                                 51

    La telefonata                                       53

    Dialogo di uno scrittore con la sua pagina bianca   67


Scherzetto finale                                       73

    Metagramma nullista                                 75


Riferimenti bibliografici                               77
Nota sulle fonti                                        81


 

 

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Pagina 9

PROLOGO



Il nulla è uno di quei temi topici che da sempre ha affascinato artisti, poeti e scrittori, per non parlare dei filosofi che pur di speculare su ogni minimo risvolto dell'esistenza umana hanno ripetutamente speculato anche sul nulla (attività che mi guardo bene dal giudicare in modo negativo).

Ricordo che quando lessi negli anni Settanta L'essere e il nulla di Jean-Paul Sartre , nella traduzione italiana di Giuseppe Del Bo, pur sforzandomi – masochisticamente – di entrare nel pensiero sartriano, mettendoci tutta la mia buona volontà: alla fine non ci capii nulla, che potrà apparire un facile giochetto di parole, ma, ahimè, corrisponde alla pura verità.

Lungo le interminabili 753 pagine del libro edito da il Saggiatore, Sartre propina riflessioni caotiche e vertiginose (così almeno apparivano a me) di questo tenore: «Il per-sé è l'in-sé perdentesi come in-sé per fondarsi come coscienza. La coscienza trae dunque da se stessa il suo esser coscienza e non può rinviare che a se stessa, in quanto è la propria nullificazione; ma ciò che si annulla nella coscienza, senza tuttavia potere esser detto fondamento della coscienza, è l'essere in sé contingente».

Un attimo di pausa, riprendo fiato e continuo a citare Sartre sul nulla: «L'in-sé non può fondare nulla. Se fonda se stesso lo può soltanto dandosi la modificazione del per-sé. Č fondamento di se stesso in quanto non è già più in sé: qui incontriamo l'origine di ogni fondamento. Se l'essere in sé non può essere né il proprio fondamento né quello di alcun altro essere, il fondamento in generale viene all'essere in virtù del per-sé. Il per-sé non soltanto fonda se stesso come in sé nullificato, ma con lui fa la sua prima apparizione il fondamento come tale».

Eccetera eccetera. Sartre va avanti, imperterrito, per 753 pagine...

Forse è proprio in conseguenza di questo debilitante smacco conoscitivo che alla fine presi la decisione di occuparmi, a modo mio e in momenti diversi, del nulla.

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Pagina 13

UNA GUIDA AL NULLA



Negli anni Venti del secolo scorso esce per i tipi di un piccolo editore di Praga un'interessante Guida al nulla compilata da Jaroslav Hašek, scrittore praghese classe 1883, autore de Il bravo soldato Švejk, romanzo che racconta le vicende tragicomiche di un umile e grottesco anti-eroe alle prese con grandi avvenimenti storici.

Č da qui, dalle pagine di una Guida, che mi piace iniziare il mio breve viaggio intorno al Nulla, prendendo a personaggio-guida il turista, figura che, in quanto legata all'esplorazione, è sempre in divenire, mai statica, imprevedibile. Non c'è «occupazione» più faticosa di quella del turista, ancor più del minatore o dell'operaio di un altoforno.

Nelle intenzioni di Jaroslav Hašek, fondatore fra l'altro del Partito del progresso moderato nei limiti della legge, dadaplebeo e «padre dei poveri di spirito» (come lui si definisce), l'opera deve riempire una lacuna vistosa nella nostra letteratura di viaggio. I turisti, lamenta Hašek, sbagliano a ricercare i luoghi dove è rimasto qualcosa e dove i dintorni agiscono su di noi con la potente bellezza del paesaggio.

In genere chi legge le Guide dei castelli o delle città, osserva Hašek, si rincretinisce, perde la testa ripetendo meccanicamente le frasi e le espressioni magniloquenti usate dagli estensori di queste guide, frasi convenzionali, stereotipate e banalotte, del tipo: «Il mio occhio scorge con vista rapida l'affascinante panorama...»; «Il mio occhio non riesce a saziarsi alla vista...»; «Il mio occhio si sofferma...»; «L'occhio mio accidentalmente osserva...»; «Attira l'occhio...»; «Lo sguardo s'affretta...»; «Il nostro sguardo vola...»; «Il nostro sguardo incontra...»; «La nostra vista fatica a...»; «E il nostro occhio vedrà nuovamente...»; «Uno sguardo circolare...»; «L'occhio nostro si ferma per riposare, per non vedere guardando...»; «Se prendiamo il sentiero, potremo osservare...»; «Se ci giriamo, non potrà sfuggire al nostro sguardo...»; «Se guardiamo oltre, lo sguardo cadrà involontariamente...»; «Si offre la vista gentile...»; «Fermando lo sguardo su...»; «Spingendo e levando lo sguardo, apparirà...».

Come il titolo stesso suggerisce, la Guida di Hašek si occupa delle bellezze del Nulla, finora trascurate con un odio pari a quello di una matrigna, e mai valorizzate a sufficienza.

Nella Guida, ricca di particolari interessanti, sono raccolti e descritti i luoghi dove non c'è assolutamente nulla, circostanza che, come sottolinea lo stesso Hašek, fa sfumare «ogni possibilità che lo sguardo ricerchi qualcosa e che nasca con ciò per il povero turista il pericolo di torcersi il collo», il che non è per niente piacevole per uno che si trova in vacanza.

La stesura della Guida ha richiesto un lavoro meticoloso, arduo, poiché l'autore, come lui stesso si preoccupa di ricordare, non ha potuto consultare nessuna fonte o testo di riferimento, per il semplice fatto che il luogo che viene descritto non ha nessuna storia alle spalle, nessun monumento storico e nessuna topografia.

In effetti la Guida al nulla scritta da Hašek, pubblicata in un bel volumetto con copertina bianca priva di immagini (le immagini di solito piacciono agli editori per via della loro facoltà di catturare l'attenzione del lettore-consumatore), non ha precedenti. I libri sui cosiddetti «viaggi in nessun luogo», la cui diffusione raggiunge il culmine nel Settecento, sono altra cosa: si tratta di cronache che narrano di esplorazioni in luoghi fuori dalle rotte conosciute, per lo più ameni come l'Isola del Nulla, coperta da alberi da frutta e da pascoli e abitata da contadini e pastori che vestono corte tuniche bordate di ghirlande di foglie, descritta in Le acque delle isole meravigliose (1896) di William Morris. In queste terre di «Nulle part» qualcosa alla fin fine c'è, esiste e si vede in concreto, qualcosa che generalmente si presenta, rispetto ai luoghi abitati del nostro mondo, in forma bizzarra, assurda, insolita dal punto di vista della lingua, delle istituzioni, della cultura, degli usi e costumi, a volte perfino dell'aspetto fisico delle popolazioni aliene visitate che in certi casi fanno mostra di nasi sgraziati, di arti fuori misura e corpi ridicoli.

Il libretto di Hašek è invece una guida in senso stretto, tecnico-turistico, una sorta di Guida Michelin o del Touring Club dedicata al Nulla: ovvero un'opera a stampa per il turista che desidera visitare i luoghi dove non c'è nulla, realmente nulla e dove quindi non è obbligato a quello sport ossessivo tipico dei vacanzieri, ovvero ruotare di continuo il collo seguendo ordini frenetici che invitano a voltarsi — a osservare a destra — a rivolgere lo sguardo — a socchiudere gli occhi — a girare a sinistra — a guardare avanti — a sorvolare rapidamente l'orizzonte fino alla lontananza — a fermarsi e a compiere altre stravaganti contorsioni nel tentativo di accumulare segni e impressioni dello spazio circostante.


Nei ringraziamenti che precedono il testo della Guida, Hašek si rivolge a un vagabondo, uno sconosciuto incontrato in quel luogo dove non c'è traccia di antiche rovine, di rarità archeologiche né di bellezze naturali; il tipo, disteso sull'erba con una bottiglia di acquavite, fece notare allo scrittore praghese che anche lì, nonostante il nulla avvolgente, si stava bene lo stesso. Č stata questa la scintilla che ha spinto Hašek a scrivere la sua Guida.


L'originale Guida di Hašek si apre con alcune considerazioni sullo spaesamento che sorprende il visitatore mentre giunge in quel luogo dove non c'è nulla; il suo occhio cerca invano una vista, scruta dappertutto sperando di scoprire la fisionomia di qualche oggetto, ma senza alcun esito perché quel luogo è il concentrato di un grande nulla, e la sua morfologia è tale da non poter nemmeno affermare che sia una pianura, anzi, a rifletterci bene, non è una pianura.

Dobbiamo rassegnarci: la geografia fisica, avverte Hašek, non conosce un termine per questo luogo. Il visitatore si accorge subito che non c'è nulla davanti a lui, né dietro a lui, né sopra o sotto di lui.

A questo punto Hašek invita il visitatore a mettersi l'anima in pace perché gli oggetti che non troverà all'interno del luogo visitato, e dei quali perciò l'occhio non potrà meravigliarsi, sono numerosi.

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Pagina 41

COME SE NIENTE FOSSE



Il modo di dire, l'espressione idiomatica – non so bene se sia corretto definirla così – «come se niente fosse» ha un fascino che mi ha sempre incuriosito e allo stesso tempo lasciato perplesso, dubbioso, nel tentativo di afferrarne il senso (e qui, per empatia, a proposito di modi di dire, mi piace ricordare il racconto Chi va piano, va sano di Hašek il cui titolo lo scrittore praghese scrisse in italiano).

Cosa significa questa espressione? Č una domanda che mi sono posto molte volte, una specie di rompicapo che ancora non sono riuscito a sciogliere in modo esauriente.

In una prima accezione (vedremo più avanti che ce ne sono altre) l'espressione «come se niente fosse» significa letteralmente «con la massima facilità». Ho fatto quella cosa lì, quella particolare impresa «come se niente fosse», cioè l'ho fatta senza troppo sforzo, impegno, mi è riuscita facile, mi è venuta spontanea, insomma nel farla non ho incontrato alcuna difficoltà. Ecco, l'uso dell'espressione «come se niente fosse» rimanda a questo fattore che secondo me, sebbene sembri innocuo e quasi banale, una volta accostato al niente, ha invece qualcosa d'imponderabile, di non ben definibile e sfuggevole come la facilità, l'essere facile, fattibile, realizzabile in maniera semplice, disinvolta.

Se in prima istanza traduciamo «come se niente fosse» nella frase omonima «con la massima facilità», francamente non riesco a capire bene quale sia il rapporto tra la facilità (nell'eseguire o nell'elaborare un qualcosa) e il niente. In altre parole ciò che non mi convince in questo abbinamento è il fatto che si lasci intendere che il niente sia facilmente accessibile, ovvero che sia una cosa (un'entità, una condizione, un attributo, una proprietà o quello che vi pare) — se mi passate il giochetto di parole — da nulla, una bazzecola.

In realtà non è così, e lo sbandierato buon senso delle frasi fatte (cui appartiene l'espressione «come se niente fosse» al pari di altre tipo «culo e camicia», «menar il can per l'aia», «troppa grazia, Sant'Antonio!», «il gioco non vale la candela» e tante altre) qui prende un abbaglio, a mio avviso. E spiego il perché.

Il niente è un affare complicato. Pensate per esempio alle pratiche zen e alla ricerca di quel tipo di «conoscenza assoluta», come la chiamano i buddisti, che trascende non solo il pensiero intellettuale, ma anche la percezione dei sensi e permette — semplifico al massimo — di raggiungere un'esperienza diretta dell'essenza assoluta, indifferenziata, indivisa, indeterminata della vita. Ma approdare a questa esperienza di «pacificazione nullista» («Cosa fa un Buddha sotto l'albero del Bodhi? Non fa nulla. Si limita a essere») comporta anni e anni di studio, di meditazione, di assimilazione di tecniche ascetiche che sono tutto tranne che facili.

A questo punto potremmo metterla sul piano della logica che, com'è noto, definisce il niente uno pseudo-concetto e razionalmente bandisce la sua pensabilità tagliando così la testa al toro. Che senso ha alludere a qualcosa, come se fosse qualcosa, mentre risulta invece che tale non è? Dal punto di vista strettamente logico ne consegue perciò che la frase «come se niente fosse» appare priva di senso, dato che il niente, per la logica, è un fenomeno che non esiste in quanto impensabile, ovvero non è racchiudibile e formulabile in un pensiero.

In definitiva, comunque la mettiamo, in senso razionale o intuitivo-religioso, il niente resta un qualcosa di non facile comprensione; al contrario è una figura del pensiero contraddittoria in quanto non si può concepire se non attribuendole una consistenza che non ha (anche l'etimologia della parola, tra cui quella di non ente adottata da Heidegger, è incerta e complessa) e l'espressione «come se niente fosse», nell'accezione di «con la massima facilità», risulta fuorviante e soprattutto non veritiera.

Ho detto all'inizio che l'espressione «come se niente fosse» si presta a altre sfumature interpretative. Vediamone alcune attraverso degli esempi concreti.

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