Autore Edoardo Albinati
CoautoreStefano Allovio, Jean-Loup Amselle, John Eskenazi, Adriano Favole, Vittorio Lingiardi, Paola Mastrocola, Marta Mosca
Titolo La cultura ci rende umani
SottotitoloMovimenti, diversità e scambi
EdizioneUtet, Milano, 2018 , pag. 128, cop.fle., dim. 13,5x21x1,1 cm , Isbn 978-88-511-5698-5
LettoreLuca Vita, 2018
Classe antropologia , natura-cultura , ecologia , movimenti , scuola , scienze umane , scienze sociali












 

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Indice


La cultura come riscatto?                        7
    Edoardo Albinati

Plasmare l'umano.
Dalla preistoria ai riti di iniziazione         25
    Stefano Allovio

Il museo come nuova forma
di narrazione culturale                         37
    Jean-Loup Amselle

Il Buddha e Alessandro Magno                    47
    John Eskenazi

Sui limiti della cultura.
Prometeo ai tempi dell'Antropocene              61
    Adriano Favole

Si nasce o si diventa?
Come orientarsi tra generi e identità           83
    Vittorio Lingiardi

Scuola e cultura: sinonimi o contrari?          97
    Paola Mastrocola

Umane mescolanze.
Dopotutto, chi siamo?                          111
    Marta Mosca


Bibliografia                                   121


 

 

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Pagina 7

La cultura come riscatto?
Edoardo Albinati



Chi ha letto un libro, ha visto una mostra, ha ascoltato un concerto è diverso da come era prima? E se è diventato diverso, è necessariamente migliore di prima? Θ una domanda che ciascuno pone a se stesso, soprattutto se appassionato di arti, letteratura, musica, scienza, insomma di tutto ciò che siamo soliti chiamare "cultura". Nel mio caso, se vogliamo, me la pongo più drammaticamente, oppure ironicamente, perché se vi fosse una risposta netta a questa domanda, e la risposta poniamo fosse "no", dovrei forse smettere di fare quello che faccio, cioè leggere e scrivere.

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Pagina 12

[...] Ecco, Dante, e faccio l'esempio massimo ma anche quello più arduo, passa. E se passa in galera, deve passare ovunque, anzi, mi correggo: non deve passare, può passare. Questa è la scoperta in positivo. La scoperta in negativo – ma è un negativo che io vorrei comunicarvi in quanto noi dobbiamo conviverci e coltivarlo e addirittura prosperare in esso, o almeno vivere negli interstizi, nelle fessure di questo negativo – è che in effetti la cultura non salva nessuno. Non salva proprio nessuno. Mi dispiace dirlo a chi è convinto che un uomo che ha letto un libro sia sicuramente migliore di uno che non l'ha letto: be', non è così. Tra i peggiori e i pessimi ci sono tanti uomini colti, uomini che possedevano biblioteche e ascoltavano musica sublime. La cultura non rende migliori le persone. I campi di concentramento non li hanno ideati uomini ignoranti. Noi pensiamo che la barbarie si scateni solo a causa dell'ignoranza, ma questo è un falso storico. Anzi, l'ignoranza pura (sarò forse un po' roussoviano, o ingenuo io stesso), che peraltro nella sua purezza quasi non esiste più, protegge, per esempio, dalla cattiva cultura e dai suoi equivoci. A me nelle interviste chiedono di continuo, come una specie di mantra: «Qual è il libro che ti ha cambiato la vita?». E io rispondo: «Guarda che se un singolo libro ti cambia la vita, vuol dire che sei un idiota... oppure che hai letto solo quello», infatti tendo a pensare che il libro che cambia la vita sia il Mein Kampf, quello sì che te la cambia! Lo leggi, e poi ti radi a zero i capelli, e cominci a urlare slogan, a marcare il passo...

Sono i libri, semmai, che ti cambiano la vita, tanti libri, molto diversi, che te la cambiano e te la fanno cambiare ancora, in un senso e nell'altro. Quindi da questa idea della conversione tramite cultura, della cultura salvifica, io sono spaventato, e irritato, penso che indichi povertà e dogmatismo.

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Pagina 15

La tremenda ansia prestazionale da cui siamo divorati fa sì che se non viene raggiunta la pienezza di risultato prefissa, allora è la catastrofe. Dall'adolescenza all'età adulta, siamo totalmente prigionieri di questo modello, per cui se un ragazzo prende quattro al compito in classe si butta dalla finestra, se un uomo viene mollato dalla sua donna l'ammazza: la pressione del dover riuscire a ogni costo e la vergogna infinita del proprio fallimento schiacciano l'individuo. Se c'è una malattia sociale diffusa è questa, l'incapacità di reggere le pressioni, le proprie mancanze e debolezze, le cose che non sono andate per il verso voluto.

[...]

Se cominciamo la catena del "vedi, questo ha fallito, quell'altro pure..." allora non ci sarebbero state la Rivoluzione francese né L'uomo senza qualità, cioè tutte le cose che forse sono abortite o rimaste a metà, sono rimaste incomplete, o sono state realizzate nel modo sbagliato... e però non sarebbero esistite se non si avesse avuto il coraggio e l'impudenza di affrontare l'eventualità del fallimento.

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Pagina 25

Plasmare l'umano.
Dalla preistoria ai riti di iniziazione
Stefano Allovio



Quando nella foresta del Congo nord-orientale, più di vent'anni fa, incontrai il vecchio Odruepa non potei fare a meno di notare che il suo cranio presentava la tipica modificazione in uso un tempo fra i Mangbetu, ovvero che era deformato in senso dolicocefalo. Notai altresì che i lobi delle orecchie erano forati, che alcuni denti erano stati volutamente scheggiati e il basso ventre scarificato. Allora, fui preso da un desiderio irrefrenabile di chiedergli il perché di tali interventi modificatori sul corpo. Ero evidentemente alla ricerca di risposte che soddisfacessero i più classici desideri interpretativi dell'etnologo: significati nascosti, simbologie complesse, identità etniche inscritte sulla pelle e quant'altro. La risposta di Odruepa un po' mi deluse per la banalità, un po' mi stupì per l'ovvia rivelazione che conteneva. Odruepa semplicemente mi disse: «Je ne suis pas une chèvre» («Non sono una capra»).

A quanto pare, i segni impressi sul suo corpo rimandano, in primo luogo, non tanto all'appartenenza a un gruppo specifico – volta a soddisfare l'ansia classificatoria ed esplicativa del ricercatore – quanto a una evidente rivendicazione di "umanità". Odruepa, a differenza delle capre, è un essere umano e, come tale, non si è limitato a vivere il suo corpo senza modificarlo. Proprio perché umano, il suo corpo è stato progressivamente modellato e tali interventi modificatori rientrano legittimamente in quella che noi antropologi definiamo "cultura" e che, altrettanto a buon diritto, riteniamo abbia la forza di renderci umani.

Occorre intendersi. Esistono almeno due concezioni diverse di cultura: 1) la prima rimanda a espressioni come "uomo colto, che ha cultura" e si riferisce a un processo formativo individuale che spesso è segno di differenziazione tra individui della stessa società; 2) la seconda concezione di cultura rimanda a espressioni come "cultura tirolese", "cultura di massa" e si riferisce ad abitudini e abilità socialmente condivise (Remotti, Cultura. Dalla complessità all'impoverimento). I segni sul corpo di Odruepa rientrano all'interno di questa seconda concezione di "cultura", la cui etimologia, oltretutto, è strettamente legata all'idea di un intervento modificatore: cultura deriva infatti dal verbo latino colere traducibile con "abitare", "coltivare", "ornare" (un corpo), "venerare" (una divinità), "esercitare" (una facoltà) ovvero avere abilità, attitudini e competenze specifiche.

Appurato che la cultura non è composta solo da libri, opere d'arte e nozioni complicate, ma è costituita pure da abiti, abitudini, forme dell'abitare e abilità è necessario porsi un ulteriore quesito: «Siamo sicuri che una siffatta cultura sia costitutiva degli esseri umani e non sia soltanto funzionale o addirittura ornamentale?». La risposta a questa domanda non dovrebbe risultare dirimente circa l'utilità o meno di uno studio della cultura (delle culture). Anche se essa fosse "solo" utile a qualcosa (gli abiti a coprirci dal freddo, i segni sul corpo ad apparire più belli, ecc.) sarebbe importante continuare a indagare quella che Lévi-Strauss (Tristi tropici, p. 402) definiva come «una fioritura variopinta di istituzioni, usi e costumi» in modo da dare conto della diversità umana.

Nonostante ciò, rilevare che la cultura sia costitutiva dell'essere umano significherebbe affermare che essa non si sovrappone a qualcosa che è già dato, ma penetra in profondità trasformando, plasmando, rendendoci davvero umani. Gli antropologi culturali sono fermamente convinti di ciò: benché la cultura (in senso antropologico) si manifesti attraverso specifiche esteriorità non è riducibile alla strumentazione materiale (che si può deporre) e ai costumi (che si possono dismettere). La cultura non si può mettere da parte con facilità e disinvoltura come un utensile o un abito, basti pensare alla lingua appresa durante la socializzazione primaria, alle concettualizzazioni di genere, alle visioni del mondo che rimandano a schemi ordinatori dell'esperienza ( Descola , Oltre natura e cultura). Tuttavia, affermarne l'importanza non significa attestarne l'indispensabilità ed è per tale motivo che bisogna volgere lo sguardo ad altre discipline. Per esempio, che la cultura sia costitutiva e plasmatrice della nostra "umanità" lo sostengono paleoantropologi e neuroscienziati, in quanto è all'interno dei processi evolutivi (filogenesi e ontogenesi) che la cultura agisce come "materiale da costruzione" indispensabile dell'essere umano.

I paleoantropologi hanno appurato la lunga interazione fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale nella filogenesi umana contribuendo a smontare la concezione stratigrafica secondo la quale gli orminidi si sarebbero dapprima evoluti attraverso il meccanismo che prevede mutazioni genetiche e selezione naturale; solo successivamente l'evoluzione culturale si sarebbe messa in moto andando a sovrapporsi (a "riempire un vuoto") in un organismo anatomicamente già molto simile a noi.

A quanto pare, l'evoluzione degli ominidi ha seguito un percorso molto differente. La cultura, lungi dal sovrapporsi in seguito, ha contribuito per alcuni milioni di anni all'evoluzione biologica di Homo. Come scrive in modo efficace Clifford Geertz (Interpretazione di culture, p. 89): «La cultura, invece di essere aggiunta, per così dire, a un animale ormai completato, fu un ingrediente, e il più importante, nella produzione di questo stesso animale».

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Pagina 30

Sono state in particolare le neuroscienze a mostrare come i "materiali da costruzione" di ordine culturale intervengono processualmente a completare la biologia dell'individuo. Θ sufficiente pensare al riguardo come la proliferazione sinaptica, che prosegue per lungo tempo dopo la nascita, consente «una impregnazione progressiva del tessuto cerebrale da parte dell'ambiente fisico e sociale»: si tratta di una vera e propria «impronta culturale» ( Changeux , L'uomo neuronale, p. 281). Per comprendere di che si tratta è sufficiente pensare ai sistemi neuronali preposti ad accogliere una lingua madre, oppure ai sempre più numerosi esperimenti che mostrano i correlati cerebrali di specifiche attività e attitudini.

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Pagina 33

Eppure penso che parte di quella cultura che ci rende umani, ci suggerisce al contempo di esercitare sempre il senso critico e soprattutto vigilare sulle piccole e grandi conquiste faticosamente ottenute. Vorrei forse lasciare intendere che il controllo del fuoco e la capacità di conservarlo non debbano essere pensate al pari conquiste irreversibili? Probabilmente gli umani continueranno ad accendere fuochi ma, qualche volta, i fuochi che servono a scaldare e a cuocere i cibi si spengono. Succede quando qualcuno con l'idea di fabbricare uomini nuovi non fa altro che "disfare" l'umanità. Θ sufficiente pensare ai molteplici e tragici tentativi di dare forma all'umanità verificatisi nel corso del Novecento: dal nazismo di Adolf Hitler al regime khmer di Pol Pot ad altri catastrofici esperimenti sociali e politici.

Gli umani hanno dato prova — e ahimè continuano a darla — di essere abili spegnitori dei fuochi, reali e metaforici, che stanno alla base della vita in società. Nonostante ciò, come è riscontrabile guardando alla storia, consumata la tragedia, i fuochi tornano ad accendersi e quasi come per magia, si torna semplicemente umani. Questo lo racconta molto meglio di me Primo Levi (Se questo è un uomo, [...]

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Pagina 61

Sui limiti della cultura.
Prometeo ai tempi dell'Antropocene
Adriano Favole



Il clima politico

«Piove, governo ladro!» Questo modo di dire, divenuto di uso corrente, venne creato a quanto pare nel 1861 da un caricaturista, tale Casimiro Teja, direttore del giornale "Il Pasquino". Come riporta l'Istituto Treccani, «l'espressione si ripete per satireggiare l'abitudine diffusa di dare la colpa di ogni cosa al governo, talora anche come espressione di sfogo polemico. Θ stata creata [...] a commento del fallimento, causato dalla pioggia, di una dimostrazione di mazziniani a Torino. La vignetta raffigurava tre dimostranti che si riparavano dalla pioggia sotto un ombrello e uno di loro esclamava "Piove, governo ladro!"».

Succede che espressioni metaforiche diventino letterali; fenomeni che, si credeva, non sono legati da relazioni causali – cosa c'entra il governo con il clima? – rivelano impreviste connessioni. Ladri o meno, i governi, di questi tempi, sembrano avere una certa influenza sui climi. Il presidente americano Donald Trump, subito dopo la sua elezione, si è impegnato in una tournée internazionale per tentare di smontare (o quantomeno smorzare) gli accordi di Parigi voluti dal suo predecessore Barak Obama. Siglati nel dicembre 2015, gli accordi recitano: «Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta», e prevedono serie misure per limitare l'immissione di CO2 nell'atmosfera e per arginare l'aumento delle temperature. Proprio nel corso del 2015 è stata superata la soglia di 400 parti di CO2 per milione, considerata da molti scienziati come il limite oltre il quale possono scatenarsi cambiamenti ambientali e climatici irreversibili. Quattro delle cinque grandi estinzioni avvenute nel pianeta Terra sono state causate dai cambiamenti climatici prodotti dai gas serra. Circa 250 milioni di anni fa, l'aumento di carbonio nell'atmosfera causò infatti un aumento di temperatura di cinque gradi, innescando una serie di reazioni a catena come il rilascio del metano contenuto nel permafrost artico (fenomeno già in corso di questi tempi) e si concluse con la morte del 97 per cento delle forme di vita. La comunità scientifica è pressoché concorde nell'identificare in attività umane (la deforestazione, l'uso di combustibili fossili) la causa principale dell'aumento di CO2 nell'atmosfera, un fenomeno che sta avvenendo in tempo rapidissimi, se confrontati con ciò che avvenne 250 milioni di anni fa.

Stiamo scoprendo che il carbonio presente nell'aria che respiriamo, il grado di acidità degli oceani in cui nuotiamo, la densità dell'ozono presente nell'atmosfera che filtra le radiazioni pericolose per la vita, tutti questi fenomeni non sono affatto estranei agli stili di vita e alle scelte politiche ed economiche degli esseri umani e dei loro governi. Tanto che i geologi – non gli antropologi, i filosofi o qualche eccentrico umanista – stanno valutando di dichiarare ufficialmente nata una nuova era geologica: l'Antropocene, l'era dell' anthropos (letteralmente "l'uomo nuovo, recente"), che succederebbe all'Olocene (undicimila anni fa, la fine delle glaciazioni, la nascita dell'agricoltura) e al Pleistocene (due milioni di anni fa). L'analisi della composizione stratigrafica del suolo terrestre e quella dell'atmosfera rivelano infatti che: le grandi dighe hanno mutato la deposizione dei sedimenti dei fiumi; l'acidità degli oceani sta crescendo; il ciclo dell'azoto subisce cambiamenti repentini; l'anidride carbonica presente nell'atmosfera continua a crescere e ha raggiunto livelli mai documentati nella storia della terra delle ultime centinaia di migliaia di anni. Questi e altri segni – per esempio il peso delle tecnologie e dei manufatti – fa dire ai geologi che siamo entrati nell'era dell' anthropos, un'era in cui – con i suoi comportamenti e le sue scelte politiche – l'essere umano ha il potere di cambiare il volto di Gaia, la Terra. Cambiarlo e inciderlo a tal punto da mettere in serio pericolo la possibilità stessa della vita. Discutono, geologi e climatologi, di quale sia la data di nascita dell'Antropocene: la scoperta dell'agricoltura, con il potenziarsi delle capacità umane di intervento e incisione dell'ambiente? L'industrializzazione del XIX secolo, con la crescita esponenziale del consumo di combustibili fossili? L'era atomica inaugurata dagli esperimenti nucleari di metà Novecento, che ha dotato l'essere umano di strumenti potenti quanto i vulcani e i terremoti? Decidere quando ha avuto inizio l'Antropocene ha importanti conseguenze per stabilire responsabilità e per mettere a punto politiche capaci di ridurre (quanto meno) i danni.

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Pagina 64

La cultura come intervento modificatore


Anche se il programma informatico con cui scrivo questo articolo si ostina a evidenziare come un errore la parola "Antropocene", neologismo da poco entrato nel lessico degli scienziati e ancora poco diffuso nel linguaggio pubblico, è ben probabile che "Antropocene" e forse "Gaia" saranno in futuro indicate come le cifre simboliche di questo inizio millennio. Si tratta di due termini che esprimono bene le inquietudini contemporanee sul futuro dell'essere umano e della vita e che si intrecciano profondamente con il tema della "cultura" di cui tratta questo volume. La cultura infatti ci rende umani sì, ma a prezzo di rischi non indifferenti e a condizione di rispettare dei limiti su cui da tempo gli uomini si sono interrogati.

Il termine "cultura" rimanda a due ordini di significati: il primo è quello più comune e si può cogliere da espressioni quali "una donna" o "un uomo di cultura", un "evento culturale". Libri, concerti, scuole, dialoghi, musei sono espressioni di "cultura". «Cultura animi philosophia est», scriveva Cicerone nelle Tusculanae disputationes: la filosofia ben definisce la "cultura dell'animo", perché, nella visione di Cicerone, essa è tra le più profonde delle discipline che "costruiscono" l'essere umano e il cittadino. Il secondo ordine di significati è quello che usiamo in espressioni quali "le culture asiatiche", "le culture popolari", la "cultura" dell' homo habilis. Si tratta del frutto di una grande rivoluzione, purtroppo ben poco percepita e celebrata. A fine Ottocento, innestandosi su tradizioni filosofiche minoritarie che risalivano all'illuminismo e al romanticismo tedesco (ma anche a fonti antiche come Erodoto o moderne come Michel de Montaigne ), studiosi che si sarebbero definiti "antropologi sociali o culturali" cominciarono a dire che la "cultura" non è privilegio di una piccola élite di una civiltà particolare (quella che si usa definire "occidentale"), bensì una caratteristica universalmente condivisa tra gli esseri umani. Come scrisse Edward Burnett Tylor , nella più citata delle definizioni antropologiche: «Cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società».

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Pagina 75

Oltre natura e cultura


Cosa c'è di profondamente nuovo in questa visione? Perché l'avvento dell'Antropocene cambia radicalmente il nostro modo di vedere il mondo, al punto che è tutto l'impianto teorico e paradigmatico della modernità a uscirne sconvolto?" Ciò che entra (definitivamente?) in crisi è la vecchia opposizione tra natura e cultura , tra l'ambiente inteso come un dato e la vita. Viene meno una dicotomia ( natura/cultura ) che ha costituito un tratto fondamentale della modernità. L'ambiente, almeno in questa parte di mondo che è Gaia, non è un già dato, ma piuttosto un co-costruito. Gaia, come aveva intuito Lovelock , è il pianeta blu, il pianeta degli oceani e del cielo atmosferico, anche perché c'è la vita. La vita mantiene Gaia in questo equilibrio precario, ma vitale, e viceversa Gaia offre l'ambiente di vita.

Antropocene, il tempo dell'uomo nuovo, non va inteso come una ulteriore forma di esaltazione antropocentrica. L'accento sull' anthropos mette piuttosto in evidenza il fatto che, negli ultimi undicimila anni, anthropos si è ricavato un posto così predominante e predante, che il sistema Gaia rischia di saltare completamente. Così potente è diventata la tecnologia, la cultura – intesa come intervento che incide e modifica – che Gaia rischia la fine. L'uomo è diventato letteralmente una forza della natura, e questa forza è potente come i vulcani e i cicloni, e rischia di far saltare tutto, come in una gigantesca esplosione suicida.

Antropocene non è l'esaltazione dell' anthropos, ma tutto il contrario. Θ l'epoca in cui Prometeo ritiene di non poter più essere punito ed esercita, indisturbato, la sua incontenibile arroganza, la hybris. Antropocene non è l'ennesima teoria antropocentrista, ma la critica di tutte le teorie antropocentriche, che essenzializzano l'uomo, e lo considerando un κtre à part, un'eccezione assoluta: immagine di dio, per il pensiero cristiano e per altre religioni; razionale, evoluto, cosciente ecc. per la scienza e per molte humanities. E invece no! Possiamo considerarci superiori quanto vogliamo, ma non possiamo prescindere dalle interdipendenze con gli altri esseri viventi che nutrono Gaia. Se lo facciamo, rischiamo di perdere l'ambiente che ci nutre e che noi nutriamo.

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Pagina 83

Si nasce o si diventa?
Come orientarsi tra generi e identità
Vittorio Lingiardi



                             La vita fisiologica non è, naturalmente, la "Vita".
                             E nemmeno lo è la vita psicologica.
                             La Vita è il mondo.
                                            L. Wittgenstein, Quaderni, 1914-1916



La nostra identità sessuale, il modo in cui la percepiamo e la rappresentiamo, è il risultato di un dialogo psicobiologico e culturale in buona parte ancora sconosciuto. Fantasie, comportamenti e desideri sono così personali da rendere arduo il compito di creare categorie generali e sufficientemente esplicative. Per questo ogni "categoria" sessuale e di genere andrebbe sempre declinata al plurale: gli uomini, le donne, i maschi, le femmine, le eterosessualità, le omosessualità, le bisessualità, le transessualità e così via. Nel pensare, nello scrivere, nell'agire politico, sarà il contesto a suggerirci di volta in volta se preferire l'uso del singolare o del plurale, dell'acronimo inclusivo LGBT (vedi nota 2) o di riferimenti più individuali e specifici. Questa avvertenza non deve scoraggiare il tentativo scientifico di costruire mappe per orientarsi in territori impervi, ben sapendo che mappa e territorio raramente coincidono. Prima di metterci in cammino è necessario ricordare che questi territori sono battuti da tre venti che si chiamano eteronormatività, eterocentrismo, eterosessismo e hanno sempre condizionato il viaggio di chi ha voluto esplorare le regioni dell'identità sessuale. I primi due definiscono quegli approcci e quegli atteggiamenti che promuovono l'eterosessualità a principio regolatore e dimensione fondativa delle dinamiche sociali; il terzo caratterizza un atteggiamento di negazione o squalifica nei confronti di ciò che non rientra nel "canone" eterosessuale.




Sesso, genere, orientamento sessuale


Molti tendono a confondere o sovrapporre i concetti dí sesso, genere e orientamento sessuale, che vanno invece distinti. Il sesso designa l'individuo dal punto di vista della sua anatomia e biologia sessuale: femmina, maschio, intersessuale. Il genere corrisponde all'esperienza psicologica, culturale e inevitabilmente sociale delle categorie di maschile e femminile: l' identità di genere indica il sentimento soggettivo di appartenenza alle categorie di maschio e femmina, la percezione di sé come maschio o femmina; il ruolo di genere si riferisce all'espressione esteriore, sociale e culturale, dell'identità di genere: ciò che "viene considerato" maschile o femminile. L' orientamento sessuale, infine, riguarda il sesso della persona da cui ci sentiamo attratti sul piano erotico e affettivo; parleremo di orientamento eterosessuale se l'attrazione sessuale e affettiva si rivolge verso persone di sesso diverso, omosessuale se verso persone dello stesso sesso, bisessuale se verso persone di entrambi i sessi. Sinteticamente, potremmo dire che il sesso risponde alla domanda "come sono?", il genere alla domanda "chi sono?" e l'orientamento alla domanda "chi mi piace?".

La concezione della propria e dell'altrui identità sessuale varia a seconda delle epoche e delle culture.

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Pagina 91

[...] Congedarsi dall'"eterosessualità obbligatoria" non implica un inevitabile sovvertimento dei ruoli di genere?

Molte persone omosessuali possono esprimere o sperimentare il genere in modi più fluidi e meno stereotipati, mostrando come l'omosessualità possa far schiudere le categorie fino a "mettere in crisi" le costruzioni e costrizioni dicotomiche di genere tradizionalmente associate all'eterosessualità. Del resto, direbbe Judith Butler , cos'altro è il genere se non «un'imitazione di cui manca l'originale»?

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Pagina 93

Omosessuali: si nasce o si diventa?


Torniamo al tema dell'orientamento sessuale. Allen Ginsberg diceva: «Scrivo poesia perché i miei geni e cromosomi si innamorano di ragazzi e non di ragazze». Molti invece chiedono e si chiedono se omosessuali «si nasce o si diventa». L'orientamento sessuale è figlio dell'educazione e delle interazioni sociali, il risultato di peculiari relazioni familiari, conseguenza di un'esperienza traumatica, oppure è "soltanto" una faccenda di geni e di ormoni? Domanda inevitabile, ma sbagliata. Perché determinata da due pregiudizi. Che tutti nasciamo come tabulae rasae, pronte a essere plasmate dall'esterno, oppure che nasciamo già programmati per specifici gusti, desideri, comportamenti. L'errore è nel pensare che a questa domanda si possa rispondere in modo binario e univoco. La vita è fatta di sfumature (e certo non tutte di grigio). Il dibattito che contrappone il ruolo della natura a quello della cultura dovrebbe essere lasciato cadere. Abbiamo geni che codificano alcune nostre attitudini, ma lo sviluppo del loro potenziale potrebbe richiedere determinate condizioni esterne. Nel caso dell'orientamento sessuale, anche qualora fosse dimostrata una sua determinante genetica, saremmo probabilmente di fronte a una regolazione multigenica e comunque mediata da più fattori. Se paragonato a una tabula rasa il nostro patrimonio ereditario è molto ricco, ma altrettanto ricca è la storia psicologica e relazionale che ci attende (e anche quella che ci precede, per esempio nelle aspettative dei nostri genitori).

[...]

Il dibattito natura vs cultura perde consistenza, perché la scienza oggi propende per un'influenza reciproca e continua tra espressività genetica e contesto ambientale, anche se nessuno è (ancora?) riuscito a individuare l'effetto specifico di ciascun fattore. Ogni orientamento sessuale, omo o etero che sia, è così complesso che nessun fattore può esserne completamente responsabile. Tra ambiente, esperienza, struttura e funzionamento cerebrale esiste un circuito di interdipendenza capace di promuovere modifiche in entrambe le direzioni.

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Pagina 97

Scuola e cultura: sinonimi o contrari?
Paola Mastrocola



Scuola e cultura, due parole che vanno insieme, hanno oggi una qualche parentela sinonimica?

Prima di tutto, cosa vogliamo intendere per cultura? Dobbiamo decidere. Attualmente è una delle parole più usate, e abusate. Ho il sospetto che sia anche una delle parole che ci danno più fastidio. Ci fa problema, ci urta. Un po' come intelligenza: ci sembrano parole discriminanti, poco democratiche. Quindi le aggiriamo e, piegandole a un uso che ci sembra più "corretto", forse le snaturiamo un po'. Per esempio, le decliniamo al plurale. Le "intelligenze multiple" di Howard Gardner. "Le culture". Così tutto diventa cultura. Anche la salsiccia di Bra. Θ cultura tanto il sapere quanto il fare esperienza, leggere libri e produrre vini, frequentare biblioteche e chattare sui social. Cultura classica e cultura digital-tecnologica.

Eppure, quando diciamo che una persona è colta, non abbiamo dubbi: intendiamo qualcuno che sa chi è Torquato Accetto, conosce i dipinti del Tintoretto, ha letto i sonetti di Shakespeare e legge abitualmente le pagine culturali dei quotidiani. Pare che il concetto di cultura sopravviva solo nell'espressione "persona colta". Lì abbiamo tutti chiaro cosa voglia dire cultura, e la intendiamo tn senso proprio, in un senso molto preciso e ristretto che, oggi, mi pare molto aborrito, vilipeso, rifiutato (qualcuno ammira ancora le persone colte? O desidera essere considerato una persona colta?).

Mi sembrerebbe bene tornare a un'idea ristretta, puntiforme e non nebulosa, di cultura. Proprio per non creare confusione. In questo senso ristretto, cultura non è accedere alla rete e usufruire dei "dati" al bisogno, ma è un sapere che deriva dai nostri studi, letture e riflessioni e che si è, col tempo, depositato in noi. In noi, e col tempo. Esiste il tempo, in questa accezione di cultura, mi sembra il dato più importante. Un sapere radicato e affondato, ma ben ancorato sui fondali del nostro essere. Quel che resta, dopo aver studiato e dimenticato, insomma, e che ci consente di collocare nel tempo e nello spazio (per esempio Shakespeare prima della Rivoluzione francese) e collegare (per esempio Petrarca a Ungaretti).

Dunque, prima di tutto, avere rapporti col "prima di noi", ristabilire quel "dialogo con gli antichi", quel colloquio interiore profondo cui non vedeva l'ora di dedicarsi Machiavelli la sera quando tornava a casa, quando smetteva la «veste cotidiana piena di fango e di loto» e metteva «panni reali e curiali» per entrare nelle «antique corti delli antiqui huomini». Θ questo dialogo che oggi mi sembra perduto. Noi non parliamo più con gli autori che ci hanno preceduto, il rapporto col pensiero altrui è caduto. Non facciamo più i conti con i grandi del passato, al massimo li citiamo en passant, nei nostri copia-incolla. Nell'era del dialogo abbiamo rotto ogni dialogo col flusso di coloro che sono stati prima di noi. Oggi, appiattiti sul nostro presente, siamo soli e unici. Sempre i primi a dire, scrivere, pensare una certa cosa; iniziatori assoluti, superstiti che ricominciano da zero, in un deserto di macerie. Avant moi le déluge! Fine della trasmissione-tradizione: il sapere sta altrove, non in me, non prima di me. Dunque, io non lo passo più a nessuno, non sono più il tramite. Il sapere esiste fuori di me, accessibile e usufruibile. Ma non più mio...


Bene, rifacciamoci ora la domanda: cultura (in questo senso stretto) ha a che fare con scuola? Siccome abbiamo una scuola ibrida (come le auto), cioè sospesa tra passato e futuro, la risposta è duplice: sì e no.

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Dunque, noi stiamo spostando la scuola sul mondo del lavoro... in un momento storico in cui a breve il lavoro sparirà dalle nostre vite! Notevole!

Però potrebbe non essere un male! Proprio la sparizione del lavoro potrebbe aiutare la scuola a ritornare scuola di cultura. Imprevedibilmente. Paradossalmente.

Se ci pensiamo bene, la mancanza di prospettive lavorative libererebbe la scuola dal fine utilitaristico, da questa compulsione al concreto che ci è presa, da questa corsa al pratico, utile, spendibile. Felicemente e inaspettatamente si aprirebbe la possibilità di un tempo libero di massa. Dal "pastore" bucolico di Virgilio, sogno delle élite antiche e moderne, di filosofi e poeti, scrittori, intellettuali, l' otium degli antichi finalmente si realizza.

Ma, perché l'incubo del "tempo libero di cui non saper che fare" .cor non si avveri, che fare della scuola?

Meravigliosa chance che ci viene incontro! Se non deve più preparare al lavoro, la scuola potrebbe ritornare a essere il luogo della cultura, proprio nel senso ristretto che ci preme qui, di patrimonio di conoscenze perlopiù astratte e inutili che servono solo a migliorare la persona, nutrire l'anima, elevare lo spirito. Scuola come luogo dell' otium creativo, distesa di prati, pascoli, orizzonti. Contemplazione e studio. Riflessione, ritorno all'interiorità. Scholé! Scuola che si riappropria del suo significato originario: tempo libero, Scholé.

In che modo?

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Cultura è libertà, innanzitutto. La cultura deve potersi fruire liberamente. In una scuola libera, dev'essere una libera scelta, non certo imposta. Gli studenti decidano se studiare o passeggiare in cortile chiacchierando coi compagni; se studiare in modo strutturato (con lezioni e libri, per dire, e seguendo vere lezioni dalla cattedra) o assistere a film, proiezioni, recite, spettacoli; se leggere libri nel chiuso di una biblioteca oppure assistere-orecchiare-vedere. Ognuno sceglierà come impiegare il suo tempo, la sua vita, la sua mente; cosa fare del suo otium, come intendere e come vivere la sua scholé.

Certo, aboliti i voti, i compiti, le interrogazioni, il titolo di studio. Abolite anche le classi, gli edifici scolastici e gli insegnanti. Prove finali per accertare il livello cui si è giunti, questo sì, per trovare poi lavoro: alcuni, quei pochi che lavoreranno. Gli altri no. Gli altri però avranno comunque letto, visto, studiato, passeggiato, chiacchierato: avranno goduto di una cultura, anzi, di più culture, di una soffusa e generalizzata "aura culturale", che soffia in questi nuovi modi post-culturali e che, in ogni caso, li aiuterà a vivere la loro vita "oziosa" in senso più alto, meno banale, meno superficiale.

Θ quel che vogliamo, no?

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