Copertina
Autore Edoardo Albinati
Titolo Svenimenti
EdizioneFandango, Roma, 2010 [2004], Tascabili , pag. 316, cop.fle., dim. 12x16,6x1,6 cm , Isbn 978-88-6044-174-4
LettoreGiovanna Bacci, 2011
Classe narrativa italiana , sensi
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Sul ponte                                    7

Una prova di coraggio                       10

Radiocity                                   42

Respiro                                     63

Bar do                                      86

L'alfabeto                                 119

La gioia della comprensione                139

72.000 fili                                150

Quattro casi di isteria: appunti           180

Un insolito giaciglio                      217

Lacrime                                    243

The beat(en) generation                    281


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Sul ponte


Il fiume che taglia la mia città non è imponente come quello di altre capitali d'Europa. Non si fa in tempo a congelarsi la faccia nell'attraversarlo come mi accadde una volta passando da Buda a Pest sul Ponte delle Catene. In quel punto il Danubio sarà largo almeno quattrocento passi e l'altra sponda coi palazzi disegnati nel pulviscolo di ghiaccio può sembrare irraggiungibile. A Lisbona invece il Tago è già grande come l'Atlantico, ci si confonde, le coordinate si smarriscono al pensiero che la terra finisce. Dolce, salato, continente, oceano, distanza - concetti relativi. E la Senna, il cui letto accoglie una portata d'acqua modesta, si biforca per circondare isole che sono vere e proprie città irte di torri e pinnacoli. Visto da lontano, il Tamigi ai docks è grigio come un lago e di un lago possiede anche la sconfinata immobilità. Nel fiume della mia città non passano le navi, e nemmeno le barche, se eccettuiamo i sottili scafi dei canottieri. Il traffico è ridotto a un esercizio sportivo svolto in mattinate di sole, da rematori solitari e irridenti che filano in mezzo all'acqua avvolti dal silenzio e apparentemente senza sforzo. La sincronia dei loro movimenti inganna. In realtà faticano come matti ma la loro fatica va sprecata, è un lusso che gli altri non possono permettersi.

Guardo fisso i vortici che si formano dietro i pilastri del ponte. Da molti secoli l'acqua si sfrega contro quei pilastri. E il ponte sembra che stia navigando dentro al fiume, lo stia risalendo a fatica. Si lascia dietro una scia che ribolle. L'acqua è fangosa. Guardandola mi dimentico di tutto il resto. Mi concentro su un nome, un nome solo, lo ripeto tra le labbra, poi anche quel nome è scordato. Non so come si possa chiamare questo fiume "biondo". È un'idea poetica e dunque una menzogna. Va abolita. Tonnellate di acqua fangosa passando la cancellano. Non è biondo, ma color terra con riflessi verdi. Mi ipnotizza. Di desideri ne lascia solo uno. Fa venire voglia di morire. Adesso potrei scavalcare il muro e gettarmi. Il desiderio più forte è scomparire. Un piccolo sforzo per scavalcare il parapetto, il resto verrà come un automatismo.

Ecco, sono caduto, con un tonfo, nell'acqua torbida e fredda, vado subito a fondo. Presto cesserò di pensare e di vivere.

Sono ancora sul ponte. Ho le mani in tasca e i piedi sul selciato. Cosa è caduto, allora, nel fiume? Qualcosa è caduto di sicuro, ma non ero io, però ero io, qualcosa si è staccato da me ed è precipitato e non sarà mai più parte di me. Ci sono altre cose, debbono esserci, un po' oltre, sulla superficie scintillante. Il pensiero ora è assorbito nei mulinelli, cerco di seguirne la spirale ma quando mi spingo con lo sguardo all'interno del gorgo si è già dissolto e se ne è formato un altro, e un altro ancora, i miei occhi saltano da un mulinello all'altro ma non fanno in tempo a cogliere il disegno che scompare, talvolta sono sicuro di averlo afferrato, di averlo fermato, e invece guizza e si dissolve in superficie.

Passano i minuti, sono passate delle ore, il sole sta calando, da una riva l'ombra è scesa sul fiume e lo ha coperto fino alla riva opposta. Non saprei dire quale sentimento provochi questa attesa, potrebbe anche trattarsi di gioia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 10

Una prova di coraggio


All'inizio dell'estate mi è successa una cosa spiacevole. Il mio braccio destro ha smesso di funzionare. Sono subentrati problemi. Quali? Quando sono cominciati veramente? Non saprei rispondere con precisione. Probabilmente una notte, mentre dormivo in cima a un letto a castello, e ho aperto gli occhi all'improvviso sentendo che il braccio destro non rispondeva, era come addormentato, non si svegliava, era insensibile, la mano morta. La scuotevo. Provavo a aprire e serrare il pugno. Ma poteva essere la suggestione di un sogno, o averci dormito sopra, voglio dire, sopra al braccio, impedendo l'afflusso del sangue. Incerto se preoccuparmi (per un istante avevo anche pensato: "Ecco, è una paralisi, mi è venuto un ictus, sono morto, sto per morire, debbo dire addio, presto, debbo chiamare aiuto, debbo pronunciare la parola "aiuto", a-i-u-t-o, strillarla, ma la voce non esce, la lingua... la lingua è legata... ci siamo, resterò su una sedia a rotelle con un plaid sulle ginocchia, farò piangere e innervosire gli altri finché non mi sopporteranno più, dovrò lasciarmi crescere la barba per mascherare la bocca piegata all'ingiù... "), mi girai dall'altra parte e ripiombai nel sonno. Qualche giorno dopo, il fastidio si era stabilizzato: la nuca e la spalla mi facevano male come per un normale torcicollo, lungo la parte posteriore del braccio sentivo correre scariche elettriche che andavano a smorzarsi nelle dita della mano, pollice e indice, perennemente formicolanti, al punto che avevo l'impressione di sentire un brusio, bzzz... bzzzzz... bzzt..., come fa una lampadina male avvitata, quando sfregavo le dita tra loro. E le sfregavo di continuo, perché tanto erano ferventi quanto insensibili: il pollice e l'indice privi di tatto, e anche il dorso fino alle nocche. Di conseguenza non riuscivo a tenere una penna in mano e gli oggetti sfuggivano alla mia presa, avevo difficoltà persino a sollevare dal tavolo la tazza col caffellatte o a tuffarci dentro un pavesino, e il volante della macchina dovevo arrangiarmi a reggerlo solo con la sinistra, come gli automobilisti disinvolti.

Se ci poggiavo su anche la destra cominciavano le scariche elettriche.

Mancanza di forza nel braccio, e poi quelle scosse ogni dieci secondi; la mano fredda...

Chiudendola mi restavano due o tre dita semiaperte, l'indice teso a metà come in un dipinto.

Tre settimane dopo: piena estate incendiaria, mi trovo nello studio di un neurologo che deve sottopormi a una elettromiografia. L'esame mi è stato prescritto da un altro neurologo, il quale a sua volta mi è stato consigliato da un medico, a cui sono arrivato... Le inchieste sulla propria salute hanno un andamento telescopico, si allungano, protrudono nuove parti di sé, nuove fasi e scoperte e parcelle da pagare...

... parcheggi, sale d'attesa, ricette, tabulati di analisi...

... ci vogliono sempre nuovi esami, ulteriori approfondimenti, che servono a confermare quello che già si sa eppure non si è sicuri di sapere.

Fa caldo, sono esasperato dal fastidio al braccio, ma il dottore e la sua infermiera sono gentili. Mi fanno mettere a torso nudo su uno sgabello. La stanza è spoglia e l'apparecchiatura si riduce a una valigetta con derivazioni elettriche simili a quelle per l'elettrocardiogramma.

"È stato avvertito sulle modalità dell'esame..." mi chiese cortesemente il dottore prima di iniziare.

"No... cosa dovevano dirmi?"

Il dottore sorrise per mascherare l'imbarazzo.

Era la mia disinformazione a farlo sorridere bonariamente, o c'era dell'altro?

"Oh no, niente di particolare", rispose.

"Dica pure." La stanchezza e il fastidio continuo mi avevano reso irritabile ma al tempo stesso indifferente. Mi sentivo mansueto, come alla visita di leva, un animale trascinato su un nastro di scorrimento. Non importa dove, basta fare presto, anche perché l'infermiera aveva spento l'aria condizionata per non aggravare la mia contrattura e ero a torso nudo e tutto quanto sudato.

Particolare (posso dirlo? ma sì): sono peloso. Non sanno mai dove attaccare le ventose. Si dice che gli uomini col torace peloso sono fuori moda, debbo averlo letto oppure è un'idea che mi sono fatto da me vedendo nelle pubblicità sempre ragazzi glabri.

Ma qui non c'erano elettrodi, bensì fasce metalliche e aghi lunghi una decina di centimetri.

Aghi belli grossi, spessi, praticamente chiodi.

Il dottore fece un risolino: "Ma niente, dovremo un po' torturarla...". Il che doveva contenere una sfumatura ironica.

"Ah, ah", risi anch'io, nervosamente.

In fin dei conti, che bisogno avrebbe avuto il dottore di spaventarmi?

Quindi un po' farmi male doveva.

Prepararsi. Il dolore è un fenomeno variabile. Ho letto libri sul dolore, sulla sua funzione, intensità, durata, sul suo significato, ed erano libri interessanti ma credo che i libri letti e gli esercizi di pazienza e le riflessioni svolte sul dolore non aiutino un granché a sopportarlo, quando è il momento, mentre cala la staffilata.

Non s'impara mai niente, che veramente serva, almeno io non ho affatto imparato a soffrire, un modo decente di soffrire. Il dolore fisico non mi sembra nemmeno un'esperienza (nel senso classico, cioè qualcosa che viene acquisito e si deposita), dato che ne conservo scarsa memoria e ogni volta è come se fosse la prima. Si dice delle donne che scordano il travaglio altrimenti mai e poi mai metterebbero al mondo un secondo figlio - il che per altro fanno sempre più di rado. Io, nel mio piccolo, cioè nel modesto universo delle martellate sulle dita, tendo a abolire il dolore appena cessa; e il trapano del dentista è sempre lì che vortica davanti al mio naso di bambino, scende nella bocca spalancata...

Da ragazzi pensavamo di diventare eroi e non ci mancavano idee, sventatezza, sprezzo della morte. L'unico problema poteva essere rappresentato appunto dal dolore. Se i nazisti ci arrestano, quanto a lungo resisteremo alle torture prima di rivelare i nomi dei compagni? Una volta in balia della polizia segreta, come non spifferare tutto? Io ammettevo: avrei parlato subito. Prima che mi spegnessero addosso la prima sigaretta. Nel mio corredo di eroe c'era questa falla. Ringrazio di non essere mai stato costretto a verificare. E trovo una regola sensata che nei gruppi clandestini il singolo militante sappia il meno possibile dei compagni.

Mi preparo allora a questa elettromiografia. Sono snervato e tranquillo. Dentro la testa vagano stanche imprecazioni indirizzate a nessuno, un amor fati di basso profilo. L'infermiera applica le fasce metalliche sul mio braccio appena sotto l'ascella e il dottore, oppure lei stessa ubbidendo a un ordine del dottore (questo non me lo ricordo), preme un pulsante e rilascia una scossa elettrica che mi fa saltare sullo sgabello. Poi il dottore legge sull'apparecchio alcuni dati che la ragazza si appunta su un foglio a quadretti in un modo che mi appare singolarmente sciatto. Credo le stia comunicando in cifra l'intensità della scossa (?) e la reazione dei miei nervi (?). Fatto ciò spostano la fascia in basso, calandola tra il muscolo bicipite e il gomito, e via un'altra scarica più forte, più lunga della precedente. Io scatto come la rana di Galvani e stavolta non riesco a trattenere un mugolio, e una mezza imprecazione, come se mi avessero fatto male apposta. Me ne vergogno, "scusi... ma sa... non credevo", a sua volta cerimoniosamente il dottore si scusa con me: "È fastidioso, vero?" e comunica i dati all'infermiera. Questa scrive e poi fa scivolare il laccio metallico un po' più in giù sul mio braccio e io trattengo il respiro, aspettando la prossima scarica.

Il problema non era la quantità di dolore, ma la sua vigliacca fulminea intensità, zaa-aa-p!, qualcosa che ti sorprende anche se sai che sta arrivando. E poi quel sobbalzare ridicolo sullo sgabello: come la scena iniziale di Ghostbusters, dove Bill Murray conduce esperimenti di telepatia su un paio di volontari collegati a elettrodi, una bella ragazza e un disgraziato, prima lei e poi lui, a turno. Murray sbircia una carta da gioco e chiede di indovinare che carta è: qualsiasi risposta giusta o sbagliata gli dia la ragazza, Murray sorride e annuisce: "Esatto! Ehi, è fantastico, hai delle notevoli capacità parapsicologiche!", mentre quando risponde l'altro (e risponde sempre giusto, azzeccando la carta), Murray gli manda una scarica elettrica: "Oh, no, peccato, hai sbagliato... riproviamo...".

Come la spalla in un film comico, a prendermi la scossa a comando... come il gatto di un cartone animato... lo scheletro che lampeggia...

Il dolore ha un aspetto ridicolo su cui gli studiosi non si sono soffermati. La sua inevitabilità è sconcertante, derisoria: ululare a causa di un sassolino in un rene, di un paio di filamenti nervosi accavallati. Tutto il resto funziona nell'universo, e allora perché proprio quella infinitesimale appendice di me deve incepparsi?

Ricordo Pietro Anastasi, che dovette rinunciare a giocare i campionati del mondo perché la notte prima di partire per il Messico, mentre dormiva nel suo letto, gli si erano intrecciati i testicoli. La mia attuale filosofia della precarietà discende da quell'episodio.

L'analisi continuò così, con scariche elettriche e sobbalzi. Finita questa fase, iniziò quella condotta con lo spillone, che il dottore ficcò in vari punti del braccio anche stavolta procedendo dall'alto al basso. Cominciò col muscolo della spalla. Una volta infila lo spillone, lo ruotava nella carne. Questo frugare apparentemente a casaccio era spiacevole sopratutto perché l'apparecchio in corrispondenza dei movimenti dell'ago produceva un segnale, una specie di crepitio, cc-crrrr, ss-cc-crrrrr, come un'unghia che graffia una parete di metallo, per cui sembrava che l'ago stesse raschiando l'osso. Non è bello sentire rumori del genere provenire dall'interno del proprio corpo. E poi faceva male. A un certo punto dell'indagine, notando la mia insofferenza, "coraggio", disse il medico, "manca poco. Abbiamo quasi finito". L'unico momento di vero dolore fu quando piantò l'ago nella mia mano destra, nel golfo carnoso tra pollice e indice, e ci frugò dentro con grande crepitio del monitor.

Dettò gli ultimi risultati all'assistente e "finito tutto", annunciò.

"Meno male", dissi, e mi alzai subito dallo sgabello.

Feci male a alzarmi di scatto.


Lo stomaco, le viscere, si erano svuotate, mi sembrava di avere dentro l'addome una bolla d'aria che si andava espandendo. Ero un uomo vuoto, e il vuoto di cui ero fatto saliva verso la gola, verso la testa, ora anche la testa si stava svuotando...

Per anni ho praticato in maniera dilettantesca (come se l'imprecisione del gesto mi tenesse al riparo dai pericoli di un'identificazione totale e fanatica in ciò che facevo) alcune arti marziali, di origine cinese, dove fra l'altro s'imparava, in piedi o sdraiati, con esercizi respiratori appropriati, a "svuotare" il proprio corpo a partire dalla sommità del capo e procedendo verso il basso. Cosa significa esattamente svuotare il corpo, ecco, non è facile dirlo anche se si può provare a descrivere l'effetto suggestivo a cui si perviene dopo i primi tentativi. All'inizio è soltanto frustrazione, non succede nulla di quanto desiderato e promesso: malgrado gli sforzi di concentrazione il corpo resta piantato lì, solido e greve, le membra di carne, la mente affollata di pensieri.

Poi in un momento imprecisato comincia a avviarsi questo processo di smobilitazione della realtà e la sua ricostruzione in materiali leggeri, rarefatti, come se gli spazi tra gli atomi si fossero dilatati. Molto si deve all'incoraggiamento del maestro e alla concentrazione sulle singole parti del corpo. L'attenzione ha una potenza plastica impensabile: modella le cose a suo piacimento, creando una sensibilità diversa e addirittura opposta a quella ordinaria, capace cioè di smentirne le percezioni abituali. Gli oggetti familiari assumono forme, funzioni e posizioni inedite. La densità della materia varia in maniera sorprendente e così i colori, il tatto, la temperatura. Si può giungere alla sensazione di stare respirando profondamente con la nuca, come se la bocca fosse migrata sul lato opposto della testa, o di essere immersi in un liquido, o di reggere in mano una palla morbida e calda, di sentirne chiaramente il peso e la forma, pur vedendo altrettanto chiaramente che la mano è vuota.

Il vuoto...

Fare vuoto...

Poco a poco...

Un respiro... e ecco che la testa si svuotava, era sgombra (cioè, "piena solo di luce") fino alla linea dietro gli occhi, un altro respiro lungo e lento... e il vuoto luminoso arrivava al livello della bocca... come se la materia di cui il corpo è colmo si stesse versando fuori... scendendo fino a un segno, una tacca stabilita... e via così fino alle parti basse. Faceva impressione quando si arrivava a svuotare il bacino, le ginocchia.

Al posto della materia di cui espirando eravamo riusciti a liberarci, soffiandola via... entrava LA LUCE.

Durante queste operazioni pneumatiche... al termine di esse... quando persino le dita dei piedi erano svuotate... subentrava una calma perfetta, come non ho mai conosciuto prima o dopo, una calma persino inquietante per quanto era estesa a ogni più periferica parte di me. Era simile a una padronanza assoluta che non avesse perciò alcun bisogno di essere esercitata: tutto era sotto controllo e dunque non esigeva alcun controllo.

Ero colmo di luce.

Luce tiepida.

Sentivo la punta del naso, la punta delle orecchie, le dita di mani e piedi formicolanti di calore.


Ora invece avevo freddo. Il vuoto che mi saliva dalla pancia era gelato. Cercai di dirlo al medico ma poi pensai che non potevo visto che non sapevo cosa diavolo mi stava succedendo, e forse era eccessivo che confidassi le mie sensazioni sgradevoli a un dottore che stava portando a termine un'analisi sul mio braccio destro, che c'entrava il resto? L'esame era terminato e cosa poteva succedermi ormai?

Mi alzai dallo sgabello. Stirai le braccia. Una volta in piedi mi accorsi che avevo i pantaloni bagnati di sudore. La macchia arrivava fino a metà coscia, e me ne vergognai perché uscendo di lì sarebbe sembrato a tutti i pazienti in sala d'attesa che me l'ero fatta addosso, malgrado il caldo non ci si poteva immaginare che qualcuno sudasse in quel modo, che il bagnato dei miei pantaloni si dovesse al sudore, sì, ero fradicio, anche, il torace nudo grondava sudore. Mi toccai, era sudore ghiacciato, abbondante e strano, e aumentava, in breve mi coprii di goccioline gelate. Stavolta riuscii a dirlo al dottore, "dottore", mormorò una vocina attutita, ronzando attorno alla mia testa, "dottore... io credo... di non sentirmi bene". Ero in piedi davanti a lui e continuavo a sudare freddo. La bolla di vuoto arrivò alla testa. Lui mollò le carte che stava compilando e mi si avvicinò svelto ma tranquillo, e sorrise, dicendo che era normale avere questo di tipo di reazione. Aggiunse che era il vago. Dalla parola "vago" è nata la decisione di scrivere questo racconto. E mise delicatamente una mano dietro la mia testa, che si piegava all'indietro, sostenendo col palmo aperto la mia nuca. La vocina sempre più distante chiese "quale reazione...?". Sentivo un estremo bisogno di poggiare la nuca sulla mano aperta del dottore, sì, avevo bisogno di sostegno e ce l'ho poggiata. Ho appoggiato all'indietro la testa.

E sono svenuto.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 124

Con tutto il bene di dio che abbiamo a nostra disposizione potremmo fare meraviglie. A partire dal dono del corpo.

Invece...

"Ho la sensazione di vivere col freno a mano tirato."

"Non riesco a esprimere quello che sento veramente, quel che sento dentro."

"Forse le hai fatto del male senza accorgertene."

"Bisognerebbe registrare quello che dici e fartelo riascoltare."

"E dire che ero disposto a credere alla tua innocenza."

Eccomi. Sono qui. Sono pronto a abbandonare questa psicologia. Se, forse, malgrado, però. La vita è troppo breve per passarla a analizzare frasi dette allo scopo di prendere tempo. Le cose in cui ci si invischia, le scuse che si forniscono, i monologhi rassicuranti, le risposte evasive e quelle piene di stizza. Ogni rapporto poteva essere più intenso. Le scorie da bruciare. Abbandonarsi alla corrente è un'espressione di rinuncia che non rispecchia l'adesione con se stessi. Non so se stavo andando verso l'incoscienza o verso una forma diversa di coscienza, salivo, precipitavo, sprofondavo, ascendevo, si faceva sempre più evidente il groviglio di nessi, si dissolvevano quelli superflui, nelle ghirlande c'era tutto quel che mi serviva, le frasi con cui ricominciare facevano capolino e io me le scordavo una dopo l'altra. Ero in grado di inventarne quante ne volevo. Erano rose che si sgualcivano in un istante. I loro petali bagnati mi carezzavano le guance. Nascevano e morivano automaticamente. Questo automatismo era sacro. Il sacro non esisteva più ma appunto questo era sacro, questa assenza, questa incredibile precisione contornata di silenzio.

Ora non vedevo, non sentivo più niente. Dopo aver risvegliato un uragano di forze, ne ero privato e scoprivo che non appartenevano a me, non erano mie le forze che mi erano state date e poi tolte. Io ero niente e vagavo. Non c'era più nemmeno la leggerezza là intorno a disturbarmi col suo fruscio. Nemmeno i nomi e gli aggettivi, le lettere che li compongono.

Svanivano una dopo l'altra.

Ebbi la sensazione che prima di svanire sorridessero maliziosamente.

Lettere dell'alfabeto che sorridono?

Poi ci fu buio e un respiro tranquillo. La figura sdraiata sotto le coperte che si sollevavano e si abbassavano, e intanto era sopraggiunta la notte nella stanza, vi si era installata. Gradualmente, di colpo.

Almeno così credo perché io non c'ero più. Avevo raggiunto lo stadio desiderato.

Mi cullavo nelle onde alfa.


Tutto quello che avreste voluto sapere sulle onde alfa e non avete mi osato chiedere. Un capitolo che riserva delle sorprese. È l'ignoranza a produrre il sapere. E dal sapere scaturiscono nuova ignoranza e nuovi desideri. Mi è venuta voglia di procurarmi uno degli apparecchi di cui ho letto in questi giorni, normalmente in dotazione a musicisti techno, preparatori e medici sportivi, terapeuti, venditori di sogni: una brain machine.

Ma andiamo con ordine.


Il cervello emana onde come un qualsiasi apparecchio elettromagnetico. A partire dalla loro frequenza, espressa in herz (cioè in cicli al secondo), vengono classificate in quattro categorie:


Onde beta. Hanno la frequenza più alta, tra i 14 e i 30 Hz, e vengono prodotte durante le normali attività di veglia, quando selezioniamo e ordiniamo gli stimoli che provengono dal mondo circostante. Ci permettono di ragionare nell'accezione comune di questo termine e di conseguenza agire. In questo istante stiamo emettendo onde beta dal cervello. Sono le onde della logica e della decisione immediata.


Onde alfa (le più invocate da tutte le discipline di meditazione). Hanno una frequenza minore, da 8 a 13 Hz, e sono proprie di uno stato di coscienza rilassata. La mente è ricettiva. Le onde alfa dominano lo spettro nei momenti introspettivi e nel dormiveglia. Chi è impegnato in una seduta di yoga, taiji o jiqong, lascia sul tracciato dell'EEG sopratutto onde del tipo alfa.


Onde theta. Tra i 4 e i 7 cicli al secondo. Sono prodotte dalla mente che immagina: durante il sogno a occhi aperti e la fase REM del sonno. Se riscontrate durante la veglia le onde theta indicano una conoscenza intuitiva e immaginativa. Rappresentano un grado di consapevolezza diverso ma in un certo senso superiore a quello che si possiede durante la fase beta.


Onde delta. Le più lente, da 0.5 a 3.5 Hz. Sono proprie del sonno senza sogni, dell'abbandono totale. Vengono prodotte durante i processi inconsci di autogenerazione e di autoguarigione.


Ora, la formazione delle onde cerebrali può essere modificata dall'esterno. Una serie di luci e suoni emessi a determinate frequenze può rilassare, eccitare, modificare i tempi di reazione agli stimoli, e l'effetto è misurabile attraverso il tracciato encefalografico. Ciò si deve al fenomeno detto della risonanza, scoperto nel Seicento dal fisico olandese Christiaan Huygens, il quale osservò come due pendoli affiancati tendono a sintonizzare il proprio movimento oscillatorio, "quasi volessero assumere lo stesso ritmo". Lo stesso accade percuotendo un diapason e accostandolo a un altro diapason "silenzioso": ecco che anche il secondo comincia a vibrare.

La risonanza agisce egualmente sul cervello. Il cervello vibra sulle frequenze proprie dell'attività cerebrale. Se lo si sottopone a impulsi visivi, sonori o elettrici (magari ricorrendo a cuffie o occhiali speciali), la sua naturale tendenza è quella di sintonizzarsi sulle onde che riceve. Il fenomeno è detto risposta in frequenza. Le onde cerebrali si mettono in sintonia con le oscillazioni acustiche e visive esterne.

Gli effetti possono durare ore dopo la stimolazione. Al pari di quelle chimiche, musica e luce fungono da sostanze psicoattive nel condizionare il comportamento. Le brain machine stimolano un ritmo cerebrale piuttosto che un altro. Le onde alfa indotte servono a sedare negli atleti l'ansia preagonistica e a rendere fluidi i loro movimenti, potenziando la performance sportiva e diminuendo il rischio di infortuni. Viene anche usata una tecnica detta biauricolare o binaurale, basata su un dislivello tra le frequenze di ascolto: l'orecchio sinistro viene stimolato con un suono alla frequenza, poniamo, di 500 Hz, e l'orecchio destro con uno a 510 Hz, creando perciò una differenza di 10 Hz che viene percepita direttamente e solo dal cervello. Il cervello così stimolato entra in risonanza con il "ritmo biauricolare" di 10 Hz, all'interno della banda delle onde alfa, le quali veicolano rilassamento, tranquillità. La musica techno, specie se associata a luci stroboscopiche, induce al contrario onde cerebrali di grande tensione. Le alte frequenze acustiche e luminose creano uno stato di euforia e eccitazione che perdureranno tanto più a lungo quanto più prolungato sarà stato lo stimolo. Per questo smaltire una notte in discoteca può richiedere vari giorni. Il cervello continua a risuonare su frequenze che impediscono il sonno o l'attenzione, la concentrazione, la vigilanza.

La binaural beat frequency (BBF) può essere quindi usata per eccitare come per rilassare. Lo stesso sistema viene utilizzato nelle light & sound mind machine. Un paio di occhiali opachi all'interno dei quali sono incorporati dei led: la luce lampeggia partendo da una frequenza simile a quella dell'utilizzatore in quel momento (di solito le onde beta, stato di veglia). Variando la frequenza del suono e del lampeggiamento si inducono le onde cerebrali a accordarsi alla frequenza desiderata. Sono utili a: indurre il sonno, favorire particolari attività mentali o fisiche, facilitare l'apprendimento.

Ma non servono per forza delle macchine complicate. Da sempre suoni e luci condizionano il ritmo del pensiero. Le onde alfa (come anche le beta) sono indotte dall'ascolto di rumori naturali o di musiche ripetitive, come quelle dei rituali religiosi, o dalla intonazione di particolari suoni o dalla ripetizione di frasi. Il fenomeno della risonanza si avverte fisicamente quando siamo noi stessi a produrre il suono in grado di condizionare il nostro spirito. Il corpo diventa una cavità attraversata dalla voce. Quasi tutte le tecniche di meditazione vi fanno ricorso. Non sono esercizi complicati. Chi almeno una volta nella vita ha intonato la famosa sillaba

OM

sa di cosa parlo. Vedi la gamma di suoni induisti o buddisti, e i loro equivalenti cinesi. Ogni suono riferito a un punto, a una zona vibrante del corpo. Per qualche anno la domenica mattina andavo a praticare jiqong assieme a una varia umanità, comprendente appassionati di arti marziali, igienisti, ragazze atletiche o mosce, con i capelli legati a coda di cavallo, esseri mediamente sconclusionati, pensatori, signore in cerca di qualcosa. Come me. Dal torpore domenicale scivolavo nella trance medicamentosa inventata da qualche marpione con gli occhi a mandorla tremila anni fa. Una vera metamorfosi, ma non spirituale, no, proprio fisica. Mi si curvavano le spalle a forza di rilassare i muscoli del collo, le ginocchia si piegavano all'infuori, la lingua la tenevo incollata al palato, occhi semichiusi, un sorrisetto... e via via assumevo la postura di un vecchio cuoco cinese mentre va a ammazzare l'anitra nel cortile sul retro. Ciabatte di pezza nera, spalle scese, ventre prominente. Mi mancava solo la mannaia. Erano mattinate benefiche. Il ji (che si scrive anche chi o qi) scorreva nel mio corpo e filamenti di ji allacciavano i corpi tra loro, per esempio praticando quella specie di silenzioso duello, che sembra innocuo, dato che all'inizio ci si tocca solo con l'incavo dei pollici e leggermente ci si sfiora col dorso della mano, e il resto è un gioco di ginocchia che ruotano, di bacino ondulante. La persona assieme a cui si pratica il tui shou non è un nemico, né un avversario nel senso classico, ma nemmeno un compagno di ballo o uno sparring partner. Probabilmente è tutte queste cose insieme. Le sedute domenicali si svolgevano in una palestra di periferia, se faceva bello ci spostavamo nel piazzale esterno, tra lenzuoli di campagna e scheletri di palazzi non completati. Durante l'intervallo tiravano fuori merende a base di noci, aranci, tavolette di cereali, roba secca. Veniva sgranocchiata in silenzio, accompagnata da qualche sorriso, lo schiocco dei gusci.

La frugalità non sarà mai il mio costume. Io la ammiro, la gente così, che sa contenersi, ma è come se la guardassi attraverso un vetro.

Dall'altra parte del vetro ci sono dei valori o delle usanze: dalla parte dove sto io solo desideri.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 150

72.000 fili


La marchesa von O. del famoso racconto di Kleist sviene dopo che alcuni soldati russi hanno tentato di stuprarla. Perde conoscenza proprio quando è ormai in salvo a casa sua, o crede di essere in salvo, dato che, mentre è priva di sensi, viene violentata proprio dal suo soccorritore, il giovane conte. In quanto alla morale della favola può sembrare curioso il fatto che i soldati semplici che hanno provato a farsi la marchesa alla vecchia maniera e non ci sono riusciti, finiscono fucilati, mentre il bel conte, due volte più perfido, che l'ha violentata sul serio e subdolamente, approfittando di lei mentre era svenuta, alla fine se la sposa con la benedizione universale: e va be', così va il mondo, questo è romanticismo, peccare sì ma in maniera affascinante, peccare in modo tale che il proprio peccato diventi un destino leggendario. Il sentimentale è colui che vuole godere ma non addossarsi responsabilità. La gravidanza della marchesa von O. è la rivincita lapalissiana e beffarda delle leggi di natura troppe volte calpestate e irrise dagli eccessi del romanticismo, dove l'incessante turbinio erotico sembra non mettere mai al mondo un bambino. Migliaia di amplessi miracolosi senza concepimento. Atti sessuali ma come scorporati, privi di conseguenze e dunque ripetibili all'infinito, come le morti dei personaggi dei cartoon, dieci, cento volte in fondo al burrone. Amarsi in modo puro e improduttivo, eroico, mortale (alla De Rougemont, per capirsi) e senza mai "mettere su casa"... la famiglia nel romanticismo semplicemente non esiste, come nelle case fotografate sulle riviste, dove tutto è algido e integro, stanze sgombre, mai un giocattolo per terra o altri segni della presenza di bambini, che appunto non esistono, non sono previsti da questo stile...


Perciò io tendo a leggere in chiave sottilmente comica il racconto di Kleist, dove tutti si disperano e piangono per un segreto di Pulcinella: come è avvenuto il concepimento? chi è il padre del bambino?

Straordinario come la temperie romantica produca una quantità di vicende che sono parodie, rovesciamenti del canone proprio sotto forma di totale adesione a esso, e si fanno beffe dell'atmosfera passionale in cui sono nate, in cui sono state ideate, se uno prova a leggere appena un centimetro sotto l'involucro di tremenda serietà: non siamo noi contemporanei a leggere queste storie sentimentali in chiave ironica, esasperandone la letteralità, ma erano già gli autori, era già Kleist insomma a mettere in scena una forma di sofferente e siderale umorismo... lo stesso del principe di Homburg.


La gravidanza diventa il segnale di una forza ancora più ferina e scura che si agita sul fondo di un eros che vorrebbe essere spensierato ma non può esserlo; quella forza cioè capace di tramutare "tre minuti di estasi" in mesi di nausea e poi poppate e pannolini. Ecco il perché di un allarme che sopratutto il maschio prova nel coito, intuendo che comporterà qualcosa di terrificante.


La gravidanza cioè sporca la purezza fisica dell'atto sessuale (persino la purezza di un furtivo stupro come quello subito dalla marchesa) e dunque avviene il contrario di quanto sostengono taluni, che cioè il racconto di Kleist sarebbe scandaloso per il contrasto tra puro amore platonico e impurità sessuale: all'opposto, è l'impura degenerazione familiare (la gravidanza, il matrimonio e la sfilza di "piccoli russi" che segue) a guastare l'assoluta e rapinosa e insignificante purezza del coito. Il concepimento, dunque, degrada l'amplesso conferendogli un senso e un seguito, inquinandone la romantica gratuità. Potremmo anzi dire che solo in un rapporto al termine del quale la donna rimanga incinta si sia sperimentata per intero la carne: nel vertiginoso rischio della fertilità... questo sì che è "sesso estremo"! Le donne segretamente lo sanno, e sfiorano questo pericoloso mistero, ne sono attratte anche quando lo temono, mentre gli uomini lo schivano e ne hanno una invincibile ripugnanza, che li conduce talvolta a esitare di fronte all'atto sessuale sul fondo del quale intravedono un enigma, una minaccia, un che di portentoso, bestiale, catastrofico e duraturo, che sporca il piacere istantaneo rendendolo, appunto, gravido di conseguenze, capace di guastare il presente trasformandolo in futuro (figli, famiglia, lavorare, insomma l'ingranaggio del mondo), col passaggio da un eros edenico alla dura fatica terrestre. Perciò Eva fa figli solo una volta scacciata.

"Partorirai con dolore" sarebbe suonato altrettanto sinistro se si fosse limitato a "partorirai".

Gli uomini temono, cioè, l'incarnazione.


cfr. Rozanov, Da motivi orientali: il timore e la ritrosia maschile verso l'amplesso – l' Eneide: l'esitazione di Vulcano di fronte a Venere che gli si offre.


Critica interna allo spirito romantico. Abissale o mondana. Byron, Puskin, Leopardi, Büchner, sono nomi ovvi. Ma come non pensare a storie esemplari come le Lettere d'amore rubate di Keller, alla famosa Sarrazine di Balzac analizzata da Barthes, alle lettere sublimemente ridicole di cui Benjamin Constant tempestava Juliette Récamier, al capitolo "coniugale" di Passato e pensieri di Herzen, dove un marito si trova a raccontare la passione di sua moglie per un altro, e scoprirne la costitutiva, irresistibile "falsità"... E poi il caricaturale Pecorin dell' Eroe del nostro tempo di Lermontov, romanzo che è parodistico fin dal titolo... eppure drammatico, intenso.

E persino alcune lettere dell' Ortis.

In ognuna di queste pagine viene narrata la comica, invincibile menzogna della passione. Si potrebbe addirittura sospettare che l'intero romanticismo sia consapevole dei propri cliché, demoniaco per vocazione e per posa e dunque doppio, diabolico, e infine placidamente indifferente al suo stesso estremismo: come quando Goethe definiva i giovanotti che si suicidavano alla Werther dei poveri imbecilli.


Se piangono, svengono e si sfidano a duello ogni tre righe.


Sullo svenimento aleggia sempre il sospetto della simulazione. Non è semplice verificare se una persona ha realmente perso i sensi o sta fingendo, in che misura i suoi sintomi siano obiettivi: del resto, le ragioni che causano un collasso sono le stesse che istigano a fingerlo. Premesse e risultato sono validi nell'uno e nell'altro caso. La persona priva di sensi attira l'attenzione su di sé, o si cancella dalla scena, si cava d'impaccio, sottraendosi alle richieste e alle situazioni sgradevoli, ispira affetto, pietà, intenerimento, attrazione fisica, esige e ottiene aiuto. C'è un quadro di Longhi molto famoso, dipinto in almeno due varianti, una che si trova alla National Gallery di Washington e l'altra a Vicenza: s'intitola appunto Lo svenimento e ha come protagonista una giovane donna dagli occhi arrovesciati, "fatta sedere e sorretta da cuscini", che alcuni gentiluomini premurosamente tentano di far rinvenire. Alcuni vi hanno scorto un tratto in comune con La finta ammalata di Goldoni, una pièce veloce e limpida come acqua fresca, che ruota intorno a una fanciulla innamorata del dottore. "Il dottor Onesti è il suo male, il suo medico e la sua medicina", afferma con sicurezza Colombina che ha compreso cosa lamenti in realtà la sua padrona. Quanto Rosaura stia male o quanto simuli per attirare l'attenzione non è importante (mi torna in mente una vignetta di Altan: un calciatore a terra, accorre il massaggiatore con la valigetta del pronto soccorso e chiede: "Cosa ti sei fatto?" "Niente. Mi mancavi".)

Soffrire o credere di soffrire o fingere di soffrire sono diverse gradazioni di una stessa malattia.

"Ora la ride, ora la pianze, no la gh'ha appetito, la se destruze che la fa compassion." Pantalone osserva ciò che accade alla povera figlia: le manca il respiro, le tremano le gambe, le pare di cadere, la notte non dorme, sta perdendo la salute. Sembra sciocco questo padre apprensivo, a non capire che lei è soltanto innamorata, ma non lo è affatto. Se la ragazza "dagli occhi stralunati" del quadro di Longhi corrisponde a Rosaura, interpretare la commedia del falso svenimento le sarà costato, comunque, un prezzo psichico notevole. La malattia amorosa più grave è quando il malato giunge a simulare le conseguenze di ciò che effettivamente prova. Come nella follia, l'autenticità del sentimento invade e prolifera nel dominio della finzione. La realtà stessa è costretta, diciamo così, a inventare, come se dovesse truccarsi per essere riconosciuta. Quale mezzo migliore, quale espediente drammatico più efficace, allora, di uno svenimento?

In un'antologia scolastica ho trovato una strepitosa novelletta di Pirandello che ha come protagonisti un'attrice, un drammaturgo e un pipistrello. E come epicentro, uno svenimento clamoroso.

Accade qui l'esatto contrario che in Goldoni e in tutte le varianti romantiche: un evento reale (lo svolazzare di un pipistrello in carne ali e ossa) provoca uno svenimento reale (all'attrice protagonista) nel corso di una simulazione collettiva (la recita in teatro).

Mentre è in scena, durante lo spettacolo, la bella Gastina sviene perché un pipistrello le svolazza in faccia e lei ha il terrore che le si intrichi nei capelli. Il pipistrello abita nel sottotetto del teatro, e visto che lo svenimento ha avuto un incredibile successo di pubblico l'impresario vuole che si ripeta, ogni sera, puntualmente, nel secondo atto: che venga insomma inserito nel testo in via definitiva.

Il pipistrello deve figurare tra le dramatis personae. Se un marziano o un cinese non conoscesse Pirandello, si legga questo racconto. Ecco cosa dice la Gastina:

Io potrei aver sotto comando uno svenimento finto, al secondo atto, se il signor Perres [il commediografo], seguendo il suo consiglio, ce lo mette. Ma dovreste anche aver voi allora sotto comando il pipistrello vero, che non mi procuri un altro svenimento, non finto ma vero al primo atto. O al terzo, o magari nel secondo stesso, subito dopo quel primo finto! Perché io vi prego di credere, signori miei, che sono svenuta davvero, sentendomelo venire in faccia, qua, qua, sulla guancia! E domani sera non recito, no, no, non recito, commendatore, perché né lei né altri può obbligarmi a recitare con un pipistrello che mi sbatte in faccia!

| << |  <  |