Copertina
Autore Umberto Albini
Titolo Atene segreta
SottotitoloDelitti, golosità, donne e veleni nella Grecia classica
EdizioneGarzanti, Milano, 2004 [2002], Gli elefanti saggi , pag. 130, cop.fle., dim. 120x190x11 mm , Isbn 978-88-11-67831-1
LettoreGiorgia Pezzali, 2005
Classe citta' , storia antica , storia sociale , viaggi , paesi: Grecia
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Indice

Prefazione                             7

Cosa si mangia oggi?                   9

Il gran circo del sesso               29

Veleni e antidoti                     49

Il vizio del gioco                    67

Mantelli rubati e teste rotte         83

L'arte di imbrogliare e ricattare    101

Recluse e aggiudicate                113


 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE



I pasti dei ricchi e i pasti dei poveri, le prostitute dei bordelli e le cortigiane di altobordo, le erbe e pozioni magiche e il veleno di stato. E ancora il gran gioco d'azzardo, i furti con destrezza, le rapine, le risse, le delazioni, le donne emarginate, le ereditiere concupite: ecco gli argomenti del presente volume. E dunque anche le abitudini e i tabù, le fortune e le sventure, le trasgressioni, le speranze, le frustrazioni di singoli e di gruppi in un rapido panorama della minuta realtà urbana di Atene, che naturalmente confinava spesso con l'illegalità. È una raccolta di testimonianze - inserite in un discorso organico - tratte da poeti tragici e comici, da oratori, da storici e filosofi e, ovviamente, da Ateneo (II-III sec. d.C.), l'autore di una enciclopedia antiquaria preziosa per le notizie fornite e per le citazioni di «testi» altrimenti sconosciuti per noi.

Lo scopo principale della mia ricerca era, attenendomi alle norme della filologia, di illuminare alcuni aspetti curiosi dell'esistenza quotidiana ad Atene. Ho dato spazio a figure di minor conto, e qualche volta anche a personaggi di spicco, privati però dell'aureola che siamo abituati a vedere intorno a loro. Ho registrato fatti e fatterelli, vizi e peccati rinunziando a inopportune valutazioni morali, ho preferito colorare la mia esposizione con toni di amichevole ironia. Per alleggerire la pagina ho inserito qua e là brani in versi (tradotti o da me inventati per l'occasione) che si dispiegano in un ritmo leggero da filastrocca.

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Pagina 24

È difficile farsi un'idea di come fossero i vini greci. Le sparse notizie sono generiche. Sappiamo che il vino di Taso risanava i cuori, che i vini di Corinto, invece, costituivano una tortura, che il vino di Pramno poteva essere curativo (Nestore lo dà al medico Macaone ferito, Iliade, XI, 638-641) ma anche tossico, se opportunamente trattato (Circe se ne serve per trasformare i compagni di Odisseo in porci, Odissea, X, 233-237). L'unico dato certo in nostro possesso è che venivano abbondantemente medicati con bacche, erbe, frutta per evitare la fermentazione acetica. A tal fine si ricorreva anche alla pece vegetale per la preparazione dei vasi vinari; la sostanza resinosa impediva la degenerazione, sempre in agguato nei paesi caldi. Ancora oggi, in Grecia, è largamente diffuso il vino resinato, detto «retsina».

Oltre a tutto i Greci maltrattavano i loro vini, allungandoli con acqua. Il poeta lirico Anacreonte (VII sec. a.C.) chiede che gli si porti una coppa con dieci misure d'acqua e cinque di vino (fr. 33 Gentili) e considera tale miscela un optimum. Il vino puro era ritenuto fonte di stravolgimento mentale. Erodoto ( Storie, VI, 84) riferisce che, secondo gli Spartiati, il re Cleomene (525-488 a.C.) era stato colto da pazzia, e morto di conseguenza, perché aveva molto frequentato degli Sciti giunti a Sparta per un'ambasceria ed era divenuto così un forte bevitore di vino non annacquato, come loro. Nelle Leggi (773 C-D) Platone dichiara:

La popolazione di uno stato deve essere mescolata come il vino nella coppa, il quale appena versato ferve e spumeggia [= impazza], ma se viene temperato da un altro dio sobrio... dà corpo a una bevanda salutare e moderata.

Forse era davvero pericoloso (e non solo per l'alto tasso alcoolico) bere vino puro. Il Ciclope Polifemo, trincandone a garganella, ci rimise l'unico occhio. Ho già menzionato due volte Eracle per quanto riguarda il cibo, in riferimento alla sua voracità e alla sua conoscenza dell'arte culinaria. Ma l'eroe famelico era sregolato anche nel bere. Nell' Alcesti di Euripide (vv. 753-760) un servo della reggia di Admeto stigmatizza il comportamento di Eracle sia nello spolverare le vivande imbandite e richiedere insistentemente anche quelle che mancano sia nell'alzare il gomito.

Agguantata una coppa di edera, tracanna vino puro così com'è prodotto dalla nera terra, ne tracanna finché il calore fiammeggiante del vino non gli si diffonde per tutte le vene. E ulula canzoni stonate [come del resto il su citato Ciclope].

Esisteva anche una norma per coniugare vino e acqua. Il meraviglioso Ateneo (I sapienti a banchetto, XI, 782 A) precisa, sulla scorta del filosofo Teofrasto, che nei tempi antichi nel cratere (il recipiente per mescolare) o nella coppa si versava prima l'acqua e poi il vino. In questo modo, infatti, il vino diventava più acquoso e dissetava meglio, diminuendo i rischi dell'ubriachezza. Più tardi si invertì il processo e si aggiunse l'acqua al vino (ottenendo così un'acqua insaporita...).

Nell' Esopo di Alessi (il già citato commediografo del IV sec. a.C.) Solone, il saggio legislatore, sente elogiare da un personaggio, di cui non conosciamo l'identità, la raffinata e accorta abitudine degli Ateniesi di non bere vino puro nei conviti. E Solone spiega che non sarebbe facile:

    I carrettieri, infatti, per le strade
    lo vendono che è stato già allungato
    e non per guadagnarci, no, hanno a cuore
    il bene dei clienti e li difendono
    dal mal di testa che danno le crapule.

Ma la realtà era più variegata. Se i maschi in Atene non si abbandonavano a libagioni con vino puro, le femmine, invece, avevano una decisa propensione per esso. Nella Lisistrata le rivoltose, siglando solennemente il pactum sceleris giurano sacrificando una coppa di vino di Taso che non vi verseranno mai acqua dentro (vv. 196-197). Nelle Ecclesiazuse Prassagora precisa che le donne al governo non rinunceranno alle loro precedenti, sane abitudini. Tra di esse amare il vino puro (v. 227). Del resto la nomea di schiccherone le Ateniesi se la portavano dietro. Nelle Tesmoforiazuse («Donne alla festa di Demetra») si dichiara che farebbero di tutto pur di bere (v. 393). E una donna che partecipa all'assemblea si stringe affettuosamente al seno una bambina tutta fasciata che risulterà poi essere un otre di vino (vv. 733-734).

Presso i Greci il vino conobbe largo impiego farmacologico associato a sostanze vegetali. Sembra anche che venisse dato in abbondanza, in funzione di droga, ai soldati prima del combattimento. Plutarco nella Vita di Dione (30) racconta che Dionigi il Giovane in una fase della sua lotta per riconquistare il potere a Siracusa:

Prima imprigionò i Siracusani mandati a lui, in missione, dalla città e poi, il giorno seguente, all'alba, dopo aver riempito di vino schietto i mercenari li lanciò di corsa contro la fortificazione eretta dai Siracusani intorno all'acropoli.

Il profeta Tiresia non specifica a Penteo (Euripide, Baccanti, 302) che Dioniso possiede qualcosa che è proprio di Ares, il dio della guerra? Tiresia intesse un elogio per così dire etico del vino (vv. 279 sgg.):

Il vino spegne i dolori delle persone che soffrono, quando si riempiono della linfa dei grappoli, dispensa il sonno, oblio dei mali di ogni giorno, per le fatiche offre l'unico rimedio.

Un elogio più ridanciano e laico viene stilato invece da Aristofane, nei Cavalieri (vv. 89-96). Il servo A indirizza l'aberrante servo B sulla giusta strada:

Tu sei una ciarliera polla d'acque. Come osi denigrare il vino che aguzza le facoltà inventive? Conosci qualcosa che stimoli all'azione più del vino? Non lo vedi? Gli uomini, quando bevono, diventano ricchi, hanno successo, vincono i processi, trovano la felicità, aiutano gli amici. Vammi subito a prendere una caraffa di vino: voglio annaffiarmi il cervello, dire qualcosa di intelligente.

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Pagina 39

Gli Ateniesi avevano il senso degli affari e cercavano di ritrarre denaro da ogni fonte possibile. Non c'è dunque da meravigliarsi che esistesse un balzello sulla prostituzione. Ogni anno il Consiglio appaltava questa tassa (Eschine, Contro Timarco, 119): non sappiamo se era un tributo fisso o variabile in conformità dei redditi. Si ha invece notizia che la polizia vigilava sulla congruità dei prezzi: flautiste, cantanti, ballerine non dovevano ricevere un compenso superiore a due dracme (Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 50, 4). Se un appaltatore alzava la tariffa veniva punito. Iperide in una sua arringa (Per Eussenippo, 3) cita il caso di due individui tradotti in tribunale per non avere rispettato la legge. Naturalmente le libere artiste sfuggivano ai controlli del fisco... Investimenti nel settore delle case di tolleranza erano redditizi. Da un'arringa di Iseo in una lite giudiziaria (VI, 19-21) sappiamo, per esempio, che Euctemone, padre di Filoctemone (i nomi sono già un programma), annoverava tra i suoi redditi i proventi di due postriboli posti in posizione chiave, uno al Pireo e l'altro al Ceramico. Pecunia non olet, com'è noto dai tempi dell'imperatore Vespasiano, capace di speculare anche sull'orina dei pisciatoi pubblici.

C'erano però anche margini di rischio legati all'attività dei lupanari. Bastava poco a scaldare l'animo di clienti accesi dalla bramosia. Eroda, mimografo del III sec. a.C., ci ha consegnato lo splendido ritratto di un paraninfo che si è visto sfondare la porta, appiccar fuoco ai locali, portar via a forza una delle sue donnine, e per di più è stato coperto di botte da un turbolento giovanotto. Non erano solo i giovani a frequentare i bordelli: anche i vecchi vi facevano capatine, pur se incapaci talvolta di tendere bene l'arco (Ateneo, I sapienti a banchetto, X, 437 E). Il sullodato Euctemone addirittura, alla tenera età di oltre novant'anni, fa casa e bottega della sua villetta amena al Ceramico.

Non tutte le cortigiane si presentavano fisicamente impeccabili. Chi le educava al mestiere forniva anche utili consigli per gli aggiustamenti necessari. Una ragazza era un po' bassina? Il rimedio consisteva nell'applicare una suola di sughero alle scarpette fini. Per una spilungona, invece, era consigliabile usare pianelle sottili e camminare con la testa incassata fra le spalle. Stretta di fianchi? Indispensabile cucire un'imbottitura sotto il vestito: e, garantito, la gente per la strada si sarebbe messa a fischiare d'ammirazione per il bel sedere. Una donna dotata - ahimè - di pancia prominente doveva ricorrere a seni posticci, come quelli usati dagli attori in ruoli femminili: il vestito poggiato sui seni finti cadeva a piombo e mascherava la pancia.

I favori di una allegra compagna potevano essere assicurati in esclusiva sia in comproprietà sia in possesso comune. Neera, per esempio, l'unica adepta di Venere di cui conosciamo la storia per filo e per segno (v. oltre), una volta ebbe come amanti due uomini insieme che usarono di lei tutto il tempo che vollero e un'altra volta toccò in detenzione ad altri due individui, un giorno a testa. Non sempre i contratti erotici venivano rispettati: il desiderio di prevaricare prendeva il sopravvento. I contendenti risolvevano allora la questione a botte sacrosante o rivolgendosi ai tribunali. La legge ateniese, infatti, riconosceva valore giuridico anche ai patti contra mores: gli accordi sono accordi, anche se turpi, e vanno rispettati. L'orazione di Lisia Su un trauma doloso contempla appunto un episodio del genere. Due Tizi piuttosto agiati e legati da fraterna amicizia e interessi comuni, comprano, per godersene equamente le grazie, una fanciulla non proprio casta che renda liete le loro serate e le loro notti. In seguito a un'imposta imprevista che nessuno dei due intende pagare, perché l'altro è più ricco e dunque tocca a lui, addivengono a uno scambio di beni: una procedura inventata dagli Ateniesi per dirimere controversie economico-fiscali. Poi si pentono di avere fatto lo scambio e si restituiscono i beni incamerati. Ma - ahimè - chi ha la donna se la tiene e non intende rimborsare la quota versata dal coacquirente. La donna d'altronde gioca sull'equivoco e un po' dice di amare l'uno, un po' l'altro. Morale della favola. Il Tizio che si sente truffato carica di botte il truffatore, ma da amico, senza intenzione di conciarlo troppo male. E si vede costretto a ricorrere al miglior avvocato dell'epoca, Lisia, per evitare dure sanzioni.

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Pagina 62

Sarebbe certo molto simpatico indicare quali erbe entravano di diritto nei miscugli miranti a nuocere (molti) e in quelli rivolti al bene (pochi). Il protagonista di un viaggio nell'impossibile (Luciano, La vera storia, 11, 33) sbarca nell'isola dei Sogni. E si accorge che la città che vi si trova è circondata da una selva di piante: sono alti papaveri e mandragore, sui rami di queste piante sono appollaiati pipistrelli. È un insieme da ricettario per calderoni malefici.

Ma il terreno dei tossici e dei rimedi terapeutici vegetali (o minerali e animali) è troppo scivoloso per consentire l'esplorazione ai non esperti. Tuttavia qualche notizia di trattatisti scientifici greci è allettante, come l'indicazione sugli influssi della radice maggiore dell'orchidea: essa aumenterebbe in modo notevole la virilità dei maschi. Sulla mandragora troviamo interessanti notizie in Teofrasto. Nella Storia delle piante (IX, 9, 1) egli segnala che le foglie della mandragora con farina sono utili per le ferite e la radice è efficace, se grattata e macerata nell'aceto, per la erisipela, e anche per la gotta, il sonno, i filtri d'amore... Sempre Teofrasto, nelle Cause delle piante (VI, 4, 5), precisa che la mandragora può essere letale. Platone (Repubblica, 488 C) parla di «immobilizzare con la mandragora». Ci sarebbe anche un'altra erba mirabile nei suoi effetti, ma purtroppo non identificabile. Su di essa concentra la sua attenzione Eschilo in due drammi satireschi, Glauco marino e Gli sciocchi. Nel Glauco marino un contadino della Beozia assiste, sconcertato, all'emergere dalle acque di una creatura inimmaginabile, un essere metà uomo e metà pesce (che terrorizzerà i Satiri). Si tratta di Glauco, un povero pescatore che, avendo casualmente gustato un'erba sempre viva e perenne, è entrato nel regno degli eterni, imbruttito di aspetto ma arricchito di poteri profetici. Nei Kophoi («Gli sciocchi»), Zeus regala ai Satiri, che lo hanno favorito nelle sue tresche erotiche, un bel fascio dell'erba dell'immortalità. Ricolmi di gioia, i Satiri caricano il dono su un asino e si abbandonano a una danza sfrenata. L'asino terrorizzato scappa e i Satiri lo inseguono. Spossato dalla lunga fuga l'asino si accosta per bere a una sorgente custodita da serpenti. Ma i rettili gli consentono di dissetarsi solo se consegna il suo carico. Cosa che l'asino fa. E così i Satiri in ritardo sono scorbacchiati e i serpenti si perpetueranno per sempre uscendo ogni anno dalla propria pelle ed entrando in un'altra.

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