Copertina
Autore Girolamo Aleandro
CoautoreGirolamo Rocco, Marcello Giovannetti
Titolo Esercizi fisiognomici
EdizioneSellerio, Palermo, 1996, Il divano 106 , pag. 124, cop.fle., dim. 10,7x15,5x1 cm , Isbn 978-88-389-1122-4
CuratoreLucia Rodler
LettoreElisabetta Cavalli, 2013
Classe psicologia , storia sociale , scienze improbabili
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Indice


La fisiognomica allo specchio di Lucia Rodler        7

Notizia                                             43

Esercizi fisiognomici


Del modo che tener devono i saggi e letterati
cortigiani per non essere dalla corte
(quasi da novella Circe) in sembianze di
brutti animali trasformati

di Girolamo Aleandro                                49

Note                                                71

Della cognizione di se medesimo

di Girolamo Rocco                                   75

Note                                                95

Dello specchio

di Marcello Giovannetti                             99

Note                                               117


 

 

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Pagina 7

La fisiognomica allo specchio
di
Lucia Rodler



Una finestra aperta sul cuore

Nella sua istanza epistemologica più decisa e rigorosa il pensiero occidentale ha costantemente espresso, quale ambizione estrema del suo sforzo speculativo, l'ideale di un'epifania della verità in termini di pura e immediata interiorità, spoglia d'ogni apparenza o rivestimento esteriore. Veicoli di tale ideale, connaturato alla ricerca della trasparenza assoluta (di sé e degli altri), risultano la realtà storica e la forza di modellazione teorica della fisiognomica: una scienza quasi divina, indiziaria e profetica, fondata sulla leggibilità del tegumento sensibile che avvolge e sottrae il nucleo invisibile dell'anima. La singolarità della fisiognomica sembra consistere nel presupposto di un corporeo onnisignificativo - sezionato nelle sue minime componenti durante un'intera sequenza di secoli - come condizione del manifestarsi dell'autenticità dell'uomo, classicamente inteso nella sua essenza invariabile, di là dalla transitorietà degli individui. Strana situazione, questa, necessaria e paradossale ad un tempo, in cui l'Occidente rivela una propria aporia gnoseologica costitutiva: si deve ricorrere alle figure sensibili per esprimere il desiderio di una conoscenza che non avrebbe bisogno del corpo, senza presumere di definire nulla di più o di meno che la condizione generale in cui si rivela la verità interiore, ed escludendo precisamente ciò che definisce l'assoluta individualità di ogni corpo animato.

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Pagina 40

Si può forse immaginare che qualcuno tra quegli ingegni Desiosi ed Umoristi abbia riflettuto sul contenuto di verità delle tre orazioni, avendo ascoltato pure gli altri undici discorsi di scienze morali e politiche raccolti dal Mascardi. Forse ha intravisto nella dimensione interiore della fisiognomica uno spazio un poco rassicurante, magari il luogo della compensazione di palesi défaillances della natura; o forse si è interrogato sul destino dell'individuo proiettato in uno scenario ancora più sfuggente, costretto ad un'invenzione infinita di prospettive mobili ed aperte su tutto ciò che aveva comodamente considerato come invariabile ed invisibile. Di certo, la fisiognomica doveva risultargli molto più esposta che in passato al rischio dell'incertezza.

Ma come rinunciare al desiderio di infrangere il guscio corporeo, per giungere al cuore della verità? Dal Seicento ad oggi, la fisiognomica ha persino tentato di recuperare il primario valore antropologico. E dire che già per La Bruyère essa non avrebbe mai potuto ritornare al suo antico statuto, a causa dell'instabilità contraddittoria di un uomo impossibile a definirsi, perché «a rigore non è né chi è, né chi pare che sia». Straniero a se stesso e al mondo, l'individuo deve affrontare la modernità senza avere dissipato l'opacità ontologica del corpo e delle sue interpretazioni. Resta il sogno di questa irrealizzabile parusìa, con cui continuare ad interrogare, in gara con la sfinge, i segni del proprio carattere e del proprio destino.

L. R.

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Pagina 49

Girolamo Aleandro



Del modo che tener devono i saggi e letterati
cortigiani per non essere dalla corte
(quasi da novella Circe)
in sembianze di brutti animali trasformati



[...]

O erba maravigliosa e di rara virtù. E che vogliam noi credere ch'ella sia, se non la conoscenza di se medesimo, la quale come ricordo sacrosanto, come divino oracolo soleva già scriversi sovra le porte de' templi? Perciò che sì come l'ignorar se stesso, per sentenza di Boezio e di S. Bernardo, fa traboccare nella bestialità e in istato eziandio peggiore, così senza questo preservativo malagevolmente può chi che sia schermirsi dalle malìe della corte, come quella che troppo bene sa cangiare gli altrui sembianti, e vendere lo stagno ingiallito per oro e i vetri colorati per gioie. Ha quest'erba divina del proprio conoscimento la radice nera e 'l fiore bianchissimo, dovendo l'uomo investigare ora il bruno de' propri difetti, ora la candidezza e lo splendore dell'eccellenze piovuteli dal cielo. Questa è la via da far godere in mezzo degli altrui tumulti un tranquillo riposo, da far stare con l'animo pieno di gioia e col volto ridente, mentre si scorge fra gl'incantesimi della corte altri scioccamente dolersi per una ripulsa avuta; altri spinger addietro il compagno e farsi scala dell'altrui ruina; altri macerarsi per la salita altrui; altri detestar la vita oziosa nella quale vien lasciato; altri spander con prodiga mano le proprie facoltà per comperar vento; altri applicarsi a sì faticosa servitù che resister non vi possa la fiacchezza della sua complessione; e correndo dietro l'aura d'una vana felicità esser architetto a se medesimo di perpetua infelicità. Comprende l'uom saggio l'occolta forza dell'ambizione, la quale internandosi nell'anella de' desideri, quasi penetrativa calamita, fa che l'uno tiri l'altro, e ne forma una longa catena. Sta egli libero da cotal catena, perché non si lascia domare dagl'insani appetiti, dandogli vigore il conoscimento e di se stesso e delle cose ch'abbagliar sogliono le deboli vedute.

[...]

La letteratura senza il sostegno delle più sode virtù è come una piuma di paone, vaga sì per la varietà de' vivaci e ben disposti colori, ma per se stessa leggera; è come una bella chioma d'oro, per la quale chi ambisce di salire dov'altri meriti no'l chiamano, inviluppato a' rami di sterile speranza e pendente al vento di sua vana pretensione, fassi trastullo all'altrui irrisioni e bersaglio alle lanciate di pungenti lingue che crudelmente lo trafiggono.

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Pagina 99

Marcello Giovannetti



Dello specchio



[...]

Non solo furono fabricati gli spegli piani che rappresentano nella propria grandezza i simolacri, o il circolare che men grandi li mostra o il concavo a somiglianza di mezza sfera che per lo splendore de' raggi d'ogn'intorno trasfusi li rende maggiori del vero. O il composto di molti speglietti che per un volto che gli si mostri, con meravigliosa usura rimanda indietro una turba di volti. O i tortuosi o i convessi o gli angolari o i fatti a foggia di colonna o molti insieme congionti che rendono l'immagini in tante guise alterate, e mutano stranamente i siti, i luoghi e gli aspetti de' riguardanti.

Ma vi fu mano sì saggia che formò specchio d'argento, di bronzo e di piombo con magistero tale che anche di notte tempo, a guisa d'accesa face, l'adoperava per lucida spia di riconoscere l'esercito dell'inimico. Nella Rocca di Magonza si serba uno specchio che non solo le figure ed i colori, ma distingue prodigiosamente il moto, la quiete, i pesi, i numeri e le distanze. Nelle sale dell'armamento in Venezia ve n'ha uno di figura rotondo, alquanto concavo, che s'altri gli volta la punta d'un pugnale vicino al centro per dritta linea, manda fuori dal vetro, quasi pronto a ribatter l'inimico, un altro pugnale con tanta evidenza ch'io, non credendo all'occhio, tornai a farne la pruova, compiacendomi non meno dell'eccellenza dell'arte che dell'inganno mio; da cui forse prese occasione d'alzarne impresa il Cardinale di Mondovì col motto «Ulciscitur ultro». E da questa non è dissimile quell'altra sorte di specchi che posta in sito proporzionato, con non veduto pennello dipinge in aria l'immagine rappresentata; o quell'altra che mentre rende immobile di meraviglia colui che si specchia, gli mostra l'immagine sua che vola. Proclo, appresso Costantinopoli con specchi d'acciaro posti dirimpetto a' raggi solari, abbruciò l'armata di Vitaliano il Trace, ch'a tempo d'Anastasio imperatore faceva il tiranno; e nel più bel sereno del giorno, con la potenza d'uno specchio si servì del sole per fulmine, cosa che molto prima di lui contro il glorioso Marcello avea fatto Archimede dalle torri di Siracusa. Di maniera che oggimai è troppo plebea l'industria di Socrate, che con l'opera d'alcuni specchi in certo modo situati e disposti di lontano scoperse su le balze d'altissimo monte un dragone d'intorno a fracassati cadaveri. Ma non bastava all'umana curiosità di vedere in tante guise le meraviglie de' specchi, se con empio abuso non l'impiegava ancora in opere scelerate: son note l'oscenità di Tiberio, di Cratete comico ateniese e di quell'Ostio infame, di cui non visse a tempo d'Augusto mostro più abominoso. E passiamo di grazia brevemente anche i sacrilègi: ponevano in una conca di metallo ripiena d'acque uno specchio, indi pigliavano o innocente fanciullo con gli occhi fasciati o donna gravida, che non arrivasse al nono mese, e di loro si servivano per vedere le cose ch'essi con superstiziosa catoptromanzia cercavano. Da cui poco dissimile, ma non meno iniqua era la cristallomantea, ch'esercitavano in varie scheggie di vetro credendo, sciocchi, trovar l'intero della verità tra rotti pezzi di cristallo. Là in Acaia appresso il tempio di Cerere pendeva uno specchio a sottil filo attaccato che, sopra una fontana lievemente battendo, mostrava agl'infermi, che là concorrevano, in varie immagini geroglificata o la vita o la morte. Ed è ormai nota l'orrida invenzione di Pitagora che sopra specchio concavo soleva scrivere a caratteri di sangue umano nefandi pronostici, ch'altri poi lontani da lui poteva distintamente leggere su la luna; ma questa vanità vada ella del pari con quella di Luciano che, essendo un giorno per stranie vie condotto sopra la luna, vide là su in un pozzo un certo specchio ch'in una vista gli offerse tutte le città, tutti i popoli, ed ebbe agio di vedervi commodamente e la patria e i suoi.

Certo non furono ritrovati gli specchi per questi abusi. Fu empiamente ingrato colui che da prima ritorse in vizio il beneficio della natura, la quale ce li additò solo per metterci all'incontro quel «Nosce te ipsum», ch'un tempo fu visto scritto a lettere d'oro là nella facciata del tempio deifico e fu poi stimato tanto difficile da Carmide in Platone. In somma lo specchio è un consigliere che non adula. Parla con più efficacia il suo silenzio che mille lingue. Non vi ha piccolo neo, non vi è minuta macchia o sottilissima ruga sul volto ch'egli fedelmente severo non la palesi. Per questa ragione Socrate diceva a' giovani che solo col consiglio de' specchi si governassero ed in quel libro apparassero, i belli di non oscurare la bellezza del corpo coi vizii della mente, i brutti di gir ricoprendo le difformità del volto con le bellezze dell'animo.

[...]

Non vi è antidoto più possente contro il veleno del vizio, che la considerazione di se stesso nello specchio.

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