Copertina
Autore Monica Ali
Titolo Alentejo blu
EdizioneMarco Tropea, Milano, 2006, Le Gaggie , pag. 256, cop.fle., dim. 140x215x21 mm , Isbn 978-88-438-0592-1
OriginaleAlentejo Blue [2006]
TraduttoreLucia Fochi
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe narrativa bengalese , narrativa inglese , paesi: Portogallo
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Pagina 6

                I paesi sono come le persone,
                cui ci avviciniamo piano piano, lentamente...

                         JOSÉ SARAMAGO, Viaggio in Portogallo



                Perch'i' non spero più di ritornare
                Perch'i' non spero
                Perch'i' non spero più di ritornare

                           T.S. ELIOT, Mercoledì delle ceneri



1



In un primo momento pensò che fosse uno spaventapasseri. Quando uscì nella luce stanca del mattino per alleggerire la vescica, benedicendo come sempre il vecchio albero di Giuda, Joćo si girò e vide la sagoma scura nel bosco. Ci mise un po' a chiudere la cerniera dei pantaloni. Le dita erano come agenti nemici. Fingevano di essere al suo servizio, ma in segreto lavoravano contro di lui.

Joćo uscì da sotto i rami ricoperti di muschio con un solo pensiero: ottantaquattro anni sulla terra sono un'eternità.

Toccò gli stivali di Rui. Arrivavano quasi a terra. «Amico mio» disse «lascia che ti aiuti.» Aspettò il coraggio di alzare lo sguardo e vedere la sua faccia. Quando venne sussurrò, con la voce lacerata di vecchio. «Querido» disse «Ruizinho.»


In piedi sul tronco che Rui aveva calciato via, Joćo prese il coltellino e cominciò a tagliare la corda. Fece passare il braccio libero sul petto di Rui fino a sotto l'ascella e sentì il peso che cominciava a spostarsi man mano che le fibre si aprivano sotto la lama.

Il mandorlo era fiorito presto quest'anno. Anche i pomodori sarebbero arrivati presto, di un precoce, ingannevole rosso. Non avrebbero avuto sapore. Joćo prese la mano rattrappita di Rui nella sua e pensò: queste sono le cose che so. Era ora di piantare le fave. Il terreno su cui era cresciuto il granoturco doveva riposare. Quest'anno le olive sarebbero state piccole e dure.

Si sedette nell'erba lunga con la schiena appoggiata al tronco e Rui abbandonato contro di sé. Gli spostò la testa per sistemarsela meglio sulla spalla. Gli strinse le braccia intorno al corpo. Era la seconda volta che lo abbracciava.


Avevano diciassette anni e molta fame la prima volta che si incontrarono, sul retro di un carro bestiame diretto a est verso i campi di grano. Rui lo tirò su senza una parola, ma più tardi disse: «Di lavoro ce n'è abbastanza per tutti. L'ho sentito dire». Joćo annuì e quando le colline digradarono e le grandi pianure si aprirono come una promessa dorata, si appoggiò e disse: «Chi vuole un lavoro lo trova». Spostavano il sedere sulle assi di legno e fingevano di non provare dolore e guardavano più lontano di quanto avessero mai fatto, villaggi bianchi impressi come schiuma sull'azzurro, la terra che si infrangeva contro il cielo.

Il terzo giorno scesero al limitare di una cittadina e i bambini che corsero incontro al carro erano malconci, proprio come i fratelli e le sorelle di Joćo. Joćo guardò Rui, ma Rui serrò le labbra e buttò le gambe oltre il bordo come gli altri uomini. I più vecchi furono chiamati e andarono a tagliare il sughero o ad arare i campi mentre Joćo e Rui rimasero lì con le mani in tasca. La fame era tale che Joćo la sentiva nelle gambe, nelle mani e nel cuoio capelluto. Oltrepassarono le casupole, le donne sulle porte, i cani con il naso nei canali di scolo, e arrivarono in centro. «Rimarremo insieme» disse Rui. Aveva gli occhi verdi, il naso delicato e la pelle bianca, come se non fosse mai stato al sole.

«Se qualcuno ci vuole, dovrà prenderci tutti e due» disse Joćo come se fosse padrone del suo destino.

Rimediarono una mezza pagnotta al bar lavando i pavimenti e portando a spalla l'immondizia fino alla discarica e dormirono sulla strada di ciottoli con la bocca aperta. Quando Joćo si svegliò, la prima cosa che vide fu la faccia di Rui. Pensò che il dolore allo stomaco fosse solo fame.

Insieme cercavano fra i rifiuti e dormivano. Andavano in giro con gli altri uomini in attesa di un lavoro e impararono molte cose: come far durare poche parole in una conversazione, come stare appoggiati a un muro, come sputare e fare il pieno di indifferenza.

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Pagina 25

Uscì e andò al pickup. Premette le mani sulla portiera dove il sole faceva brillare di bianco il metallo rosso. Lasciò il villaggio, oltre i filari di aranci che costeggiavano i marciapiedi stretti, oltre la pompa dell'acqua dove una vecchia ingobbita riempiva dei contenitori di plastica, oltre la piazzetta con le sue aiuole sgargianti e lo stagno verde scuro pieno di rane, e svoltò a destra dopo i semafori che non servivano a regolare il traffico (molto scarso) ma a issare una bandiera al futuro.

Entrò in casa e andò dritto al computer, in camera da letto. Tutti i mobili erano finiti lì, a parte un paio di sedie e uno sgabello sul terrazzo. Nella sua mente si era fatta strada l'idea di una correlazione tra il vuoto della casa e la qualità del suo lavoro, dove l'austerità dell'una prometteva la pienezza dell'altro. Lesse le ultime pagine sullo schermo, aggiungendo e togliendo qualcosa, determinato a entrare nella storia. Si alzò e si sedette di nuovo. Serrò le mascelle deciso a farsi sommergere. Non c'era speranza. Era come decidere di suicidarsi e cercare di annegare immergendo la faccia nel lavandino.

Spense il computer e decise di non fare più pause per tutta la mattina. Prese i libri, andò sulla terrazza e guardò oltre il giardino, le querce da sughero in lontananza, i tronchi di un vivido color terra rossa dove la corteccia era stata asportata, i rami muschiosi che si aprivano e si protendevano fino a un tempo lontano. Stanton si sedette, aprì il libro, venne immediatamente distratto da una lucertola che guizzava fuori e dentro un vaso vuoto. Tornò al libro, arrancò per mezzo capitolo poi lo lanciò nel giardino.

Era forse il peggior libro che avesse mai cercato di leggere. Stabilito quello si sentì istantaneamente gonfio di sapere. Era come un lottatore di sumo che si mettesse le scarpette da ballo con la speranza di piroettare. E del resto, che altro poteva imparare su Blake? Se avesse saputo meno cose su di lui, scrivere il romanzo sarebbe stato più facile. Accidenti, sarebbe persino riuscito a inventare qualcosa.

Senza chiudere la porta, abitudine che si era imposto di perdere, scese le scale della terrazza e attraversò il giardino oltrepassando gli eucalipti dalle foglie tenere che dicevano sst-sst, si calmavano e si agitavano e si acquietavano di nuovo. Percorse il solito sentiero nel bosco di querce da sughero che iniziava dove finivano gli eucalipti, senza alcun piacere se non il pensiero del gin che si sarebbe versato al ritorno. Sparsi tra gli alberi di sughero c'erano dei pini e lui raccolse una pigna, la tenne in mano per un po', poi la lasciò cadere.

Gli alberi erano radi, di tanto in tanto lasciavano spazio a erba e pecore. Sopra la camicia, il pastore portava una pelle di pecora, un buco per far passare la testa e un laccio stretto in vita. Stanton salutò. Tutto il giorno... quell'uomo passava tutto il giorno a guardare le pecore. Al confronto i suoi sforzi fiacchi erano vergognosi.

Arrivato in una radura dove alcuni vecchi alberi erano stati abbattuti e i fiori di primavera crescevano più fitti, Stanton fece una sosta. C'erano anemoni, cisti e saponaria e gerani selvatici. Le ginestre guizzavano gialle sopra i ceppi degli alberi.

«Lei è inglese» disse il ragazzo. Stanton non l'aveva sen- tito avvicinarsi.

«Salve, compatriota» disse.

Il ragazzo si fece incerto. Decapitava i fiori col suo bastone.

«Siamo tutti e due inglesi» disse Stanton.

«Guardi qui» disse il ragazzo e lanciò il bastone. Fece un arco alto e atterrò lontano, nelle silves.

«Bel lancio.»

«Già» disse il ragazzo. «Grazie.» Sorrise e si passò una mano sulla testa che era appena stata rasata, il cuoio capelluto rosa ben visibile. Pidocchi, pensò Stanton. Una spruzzata di lentiggini gli copriva il ponte del naso e si stendeva sulle guance. Era una bella faccia, aperta e spontanea.

«Lei scrive libri» disse il ragazzo. «Mi piace il suo furgone.»

«Io sto tornando indietro» disse Stanton.

«Anch'io.»

Camminarono insieme sul sentiero segnato. Il ragazzo batteva i piedi nell'erba per far saltare i grilli tutto intorno. Sembrava che le scarpe non potessero reggere il viaggio di ritorno a casa. Vide un sasso marmorizzato, vi si avventò sopra e se lo infilò in tasca.

«Come ti chiami?» chiese Stanton.

«Jay» disse il ragazzo. «Jay Potts. Anche noi avevamo un furgone come il tuo.»

«E cos'è successo?»

Il ragazzo sollevò le braccia sottili. «Un incidente.»

«Papà o mamma?»

«Io.» Fece una lunga pausa e visto che Stanton non la riempiva, continuò. «Guido solo fuori dalle strade principali. Su sentieri come questo, intorno a casa o nei campi. Non so cos'è successo esattamente. So solo che si è schiantato contro un fico e io ho dovuto portare uno di quegli affari per il collo per settimane.»

Stanton rise. «E adesso allora cosa guidi?»

«Be', mio padre ha un trattore e a volte me lo faceva guidare, ma adesso si è rovesciato in un fosso e non riusciamo più a tirarlo fuori. Abbiamo una Renault 4, ma quella non la guido. Non mi chieda perché.»

«Perché?» disse Stanton.

«Non lo so» disse Jay. «Non me lo chieda.»

Un gufo volò tra gli alberi e scese fino al sentiero. «Si è svegliato presto» disse Stanton. Pensava di mettere un po' di arancia nel gin, quella sera, per prendere un po' di vitamina C. «E tu vai a scuola o hai cose più importanti da fare?»

Incontrarono il pastore e Stanton gli augurò boas noites e il ragazzo parlò portoghese, con un accento così forte che Stanton non riuscì a capire. Salirono la collina diretti verso casa, l'eucalipto ormai in vista, sbiadito nella luce fioca. Stava arrivando la sera e Stanton cominciava a infiacchirsi.

«Non dobbiamo parlare per forza» disse il ragazzo. «Cammino insieme a lei e basta.»

Una coppia di cipressi slanciati segnava l'ingresso alla proprietà. «Alberi da funerale» aveva detto Dieter quando era venuto a fare il preventivo. Circondavano tutti i cimiteri crescendo alti e grassi sui depositi del sottosuolo. Jay si fermò con le mani sui fianchi. Puntò lo sguardo a terra e batté i tacchi nella polvere.

«Bene» disse Stanton.

Jay distolse lo sguardo come se fosse stata sollevata una questione complicata.

«Forse ho della Coca in frigo.»


Bevvero sulla terrazza e guardarono il sole scivolare giù per il cielo. All'inizio Stanton fu contento della presenza del ragazzo, come se avesse dovuto fare qualcosa di spiacevole che così poteva rimandare ancora un po'. Jay sorseggiava la sua bibita facendola durare. Le braccia nude erano magre ma vigorose, pronte per i muscoli. Non parlava, quasi non si muoveva, sperando forse di essere dimenticato.

Non era cambiato nulla, ma tutto cominciò a sembrare diverso. Il ragazzo era tra i piedi. Stanton fissò una collina lontana, quella a forma di piramide, e cercò di bloccare quella strana oppressione. Lentamente gli cresceva dentro la sensazione che il ragazzo gli impedisse di proseguire la serata anche se, a dire il vero, non aveva nulla da fare. Stava per parlare quando Jay si alzò di scatto. «Č meglio che vada.» Sulle scale si girò. «Mi piace la sua macchina.»

«Un giorno ci puoi salire» disse Stanton, rinfrancato e generoso. «Ma guido io.»

Stappò una bottiglia di vinho verde e andò in camera. Seduto sul bordo del letto bevve e osservò le ombre sulla parete. Se un uomo deve avere successo, pensò, è meglio che arrivi più avanti nella vita. Ma non così tardi da non avere tempo di goderselo. E neppure tanto presto da non avere l'esperienza per apprezzarlo. Non era la prima volta che ci pensava, ma era la prima volta quel giorno e, riflettendoci, era già un progresso.

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La bottiglia di whisky rotolò giù dal sedile del passeggero nella brusca curva a sinistra della strada che scendeva a valle. Accostando vicino al pollaio, Stanton cantava una vecchia canzone. You can blow out the candle but you can't put out the fire. Appena aprì la portiera notò il vitello, molto più grosso ora, le zampe arcuate e la pancia gonfia, in piedi vicino alla casa con la pioggia che gli colava dal naso e dalla coda e gli zoccoli chiusi in sacchetti di plastica. Il vento mugghiava tra i bambù e riversava giù dal tetto una tenda d'acqua. Chrissie aprì la porta e indietreggiò e lui entrò e scoprì che i Potts erano tutti lì e nessuno era pronto a dargli il benvenuto.

«Che razza di uomo sei?» Il China aveva parlato con calma. Chrissie era in piedi dietro a Ruby e le carezzava i capelli. Stanton, che aveva bisogno di un'ancora di salvataggio, tentò di sorridere a Jay, ma il ragazzo non lo guardava. «Che razza di uomo sei?» Nient'altro. Chrissie non parlava e Ruby non parlava e Jay non parlava e Stanton non aveva risposte. Aspettò che il China gli rovesciasse addosso tutti gli insulti del mondo, ma quello non fece la cortesia. Il China era in piedi e all'inizio sembrava esserci la speranza di uno scontro, ma anche quella era flebile. Un bel pezzo dopo che la speranza fu svanita, Stanton era ancora lì ad aspettare che succedesse qualcosa, ma non successe proprio nulla.


Sulla strada verso casa sterzò per evitare un trattore che non aveva visto arrivare. Il pickup sbandò sul ciglio erboso e due ruote affondarono senza indugio nel fango. Per arrivare a casa a piedi non mancava molto. Si bevve un bel sorso prima di togliersi i vestiti e scoprì che se sorseggiava in modo costante, a intervalli regolari, buttando giù sorsi molto piccoli, riusciva a tenere lontani tutti i pensieri. Il whisky riscaldava. Se stava a osservare con attenzione il percorso che faceva partendo dal plesso solare, lungo tutte le arterie principali, per ramificarsi in ogni singola vena, poteva percepirlo come una specie di calma che si irradiava dal centro del suo essere.


Si svegliò sulla seggiola, nudo e mezzo congelato, e quando andò a scaldare dell'acqua non sentiva più le dita dei piedi e quelle delle mani erano troppo rigide per accendere un fiammifero. Gli faceva male la testa. La schiena era a pezzi; se non a pezzi, qualcosa di peggio. Quando si chinò per raccogliere i calzini trattenne a fatica un urlo. Si avviò verso la cabina del telefono e lungo la strada pensò a quanto era bello quel posto e quanto gli sarebbe mancato. Nella notte aveva smesso di piovere e il sole giocava tra le punte degli alberi, spargendo qua e là diamanti e smeraldi. Stuzzicava i viola e i rossi del campo arato e lucidava le colline lontane con una lieve ombra di nostalgia. Stanton respirò profondamente ed era bello sentire l'odore dell'eucalipto e del pino e pensò all'aria che lo purificava dentro. Quando arrivò sulla strada vide un vecchio, con il cappello floscio di feltro nero e il gilè, che tirava una vacca lungo il sentiero opposto diretto verso il villaggio con un'andatura lentissima, come se avesse tutto il tempo del mondo, come se la meta non fosse nulla e il viaggio tutto. Stanton sollevò una mano e il vecchio sollevò una mano e si incrociarono e Stanton continuò per la sua strada.

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3



Č tardi e fa caldo e il sudore all'inguine stuzzica le cosce mentre lui strofina per l'ultima volta il bancone e nel cervello gli gira senza sosta la frase di sua nonna: viviamo la nostra vita. Che modo aveva di lamentarsi! Così. Sosteneva di essere una che non brontolava mai e aveva trasformato tutta la sua esistenza in una lamentela.

Vasco scuote lo straccio sul lavandino, pulisce il registratore di cassa e infila lo straccio nel cassetto con gli opuscoli turistici. Che cosa tediosa da dire. Č più interessante dire che non viviamo la nostra vita, quella che pensavamo di avere. Si sistema i pantaloni. Da quando è diventato troppo grasso per le cinture ha cominciato a vivere nel terrore di restare col sedere scoperto. Ha le bretelle ma non si fida. Più interessante definire la vita come uno sport da spettatori: noi non viviamo la nostra vita; aspettiamo, osserviamo e giudichiamo.

Gli fanno male le gambe. Darebbe tutto, il caffè, l'appartamento di sopra, i suoi risparmi, il suo berretto degli Yankees comprato proprio alla Home of Champions, in cambio di qualcuno che venga a massaggiargli le gambe. Maledizione a quel Joelly, che si è imboscato anche stamattina. Dovrebbe andare a bussare alla sua porta. Joelly, voglio che mi massaggi i polpacci finché i muscoli non diventino così morbidi che li possa masticare anche un bambino. Cosa significa «indisposto»? Secondo me un uomo, o anche un ragazzo come te, è adatto solo per tre cose: il lavoro, l'ospedale o la tomba. «Un po'» indisposto? Meraviglioso. Č fantastico. Davvero eccellente.

Il respiro comincia a farsi difficoltoso. Vasco spegne le luci e rimane nel bagliore azzurro-viola dell'elettroinsetticida ad ascoltarne il ronzio, come un uomo in uno stato di perenne indecisione. Ecco cosa farà Vasco: accenderà una candela, prenderà l'ultima fetta di torta dalla vetrinetta refrigerata (una torta alle mandorle), si metterà seduto e se la gusterà e poi andrà a letto.


Torta, forchetta, cucchiaio e candela sono davanti a lui sul tavolo. Vasco vede che ha dimenticato di coprire l'espositore, prassi importata dagli Stati Uniti d'America dove ha imparato il mestiere. Dovrebbe essere una misura di sicurezza. Esamina la sagoma scura e discontinua fatta da occhiali da sole, cartoline, orsacchiotti e fischietti giocattolo. Sono abbastanza al sicuro. Ma la maggior parte di quegli oggetti sta sull'espositore da tanto tempo e lui li coprirà anche stanotte. Un bambino che fa girare l'espositore: è questo che significa rotazione delle scorte nell'Alentejo.

Che dire di Eduardo? A Vasco non è mai piaciuto. Non ci si può fidare di un uomo che biascica le parole. Parla chiaro se non hai nulla da nascondere!

Vasco prende la forchetta e la solleva sopra la torta. Lo zucchero scintilla alla luce della candela, bello come l'amore giovane e altrettanto a buon mercato.

Tre giorni prima Eduardo ha detto: «Il mio toro da competizione. Dammi una di quelle empadas. Correrò il rischio.» E da quel giorno non si è più visto. Vasco spera che non torni mai più. Di clienti così può farne a meno.

Guarda la torta da vicino, il piccolo smottamento della pasta da un lato, le nocciole perlate che ornano la superficie, l'impasto spugnoso, denso e sciropposo, lo zucchero in bella mostra. Vasco riappoggia la forchetta. Oh, quell'Eduardo. Sono amici da vent'anni, e anche se Vasco non dovesse pensarci più, non sarebbe una grave perdita.

«Devo mangiare questa torta o no?» dice Vasco a voce alta. Prende il cucchiaio. La tavola traballa. Questi maledetti tavolini di plastica; tutti i giorni Vasco sopporta il loro traballare. Queste maledette sedie di plastica. Non si azzarda mai a sedercisi finché non ha chiuso. Al momento di alzarsi la seggiola gli rimarrà attaccata al sedere e lui dovrà fare leva sui braccioli per staccarsi, fingendo che possa capitare a chiunque.

Non mangerà la torta. La sola idea lo disgusta. Non ha per niente fame. Be', forse un po'. Se mangia la torta si sentirà in colpa. Ma proverà anche piacere. Nessuno verrà a massaggiargli le gambe. Domani arriverà la consegna da Lindoso. Perché lasciare nella vetrinetta una torta della vecchia fornitura? Accarezza quel pensiero come un gatto appisolato fino a quando gli fa le fusa.

Sì, è stupido non mangiarla.

D'altra parte perché dovrebbe sforzarsi di buttare giù quella torta stantia? Č forse un cestino dei rifiuti? Un uomo poco raffinato? Correrò il rischio. Eduardo! Che individuo odioso. Tutti sanno che il cibo di Vasco è sempre fresco.

Vasco prende un pizzico di pasta e la strofina tra pollice e indice. Tutto quel ragionare è inutile. O mangia la torta oppure no. La ragione non c'entra nulla. Per ogni tesi ne esiste una opposta. Se non fosse così il mondo sarebbe un luogo felice.

Se mangia la torta andrà a letto con lo stomaco pieno e dormirà profondamente. O forse lo zucchero lo terrà sveglio. Cosa può fare qualche caloria in più a un uomo della sua mole? D'altra parte, solo i magri dovrebbero mangiare dolci appiccicosi la sera tardi. Visto, non c'è mai un modo univoco di guardare alle cose. Alcune persone hanno il dono di avere una visione parziale. Sono quelli che raggiungono la grandezza. Noialtri - Vasco gira la testa e si vede riflesso nella vetrina, fluttuante con la candela in un mare nero - noialtri dobbiamo cercare di cavarcela.

Vasco fissa l'uomo grasso con il collo che trabocca sulla giubba bianca da cuoco e gli sembra che stia andando alla deriva, che l'oscurità lo stia risucchiando. «Che cosa so io?» chiede, a voce alta, in fretta. La voce è troppo acuta e troppo sottile. Ha bisogno dell'inalatore ma le gambe gli fanno male e non vuole salire le scale. Sposta lo sguardo dalla vetrina e poggia le mani sul tavolo.

Sua nonna era alta meno di un metro e cinquanta e non sapeva praticamente nulla. Aveva solo quattro denti. In tutta la sua vita non era mai andata più lontano di Santa Clara. Riusciva a mangiare un'intera cipolla cruda. Sapeva tagliare la testa a un pollo e tenerlo fermo in modo da non perdere neanche una goccia del prezioso sangue in cui lo cucinava. Sapeva curare la mastite a qualunque donna (o capra o vacca) con il suo impiastro di cui non avrebbe mai rivelato a nessuno gli ingredienti segreti. Le sue imprese non erano grandiose ma lei ne andava fiera. Le piaceva ostentare che qualunque cosa sapesse, la sapeva con certezza.

Quando lo zio Humberto mise in valigia il suo paio di pantaloni di riserva (in alcuni aveva avvolto alcune talee della sua vite preferita) e partì per una nuova vita in Mozambico, una vita di miniere di metallo e mescolanza di razze, lei disse: «Ha risposto a una chiamata».

Quando il suo figlio più giovane, Henrique, rispose a un'altra chiamata due anni più tardi, questa volta per andare a combattere contro i selvaggi in Angola e salvarli da se stessi e dal comunismo internazionale, lei disse: «Č la volontà del Signore».

Quando appresero che non sarebbe più tornato a casa, mentre la madre di Vasco cadde in ginocchio e pianse, la nonna disse: «Ciò che deve essere, deve essere», e uscì a dar da mangiare al maiale. Ma quando Vasco le ruppe la teiera lei lo picchiò con il cucchiaio grosso di legno. Vasco singhiozzò. «Non potevo farci niente. Mi è scivolata.» Lei gli ruppe il cucchiaio sulla testa. «Dovevi fare qualcosa! Perché ce l'avevi in mano, tanto per cominciare? No, bambino mio. Il Signore, con la Sua Grazia, non ci dà forse il libero arbitrio? Quando Eva assaggiò la mela non disse: "Ma non potevo farci niente". E tira giù le braccia. Pensi che ti picchierei sulla faccia?»


Che cosa ridicola. Vasco affonda le dita nella tiepida pozza di cera che si è raccolta sul tavolo. Con le teiere si è liberi di scegliere, con le questioni di vita e di morte no.

Solleva le dita con la palla di cera crepata, davanti alla faccia. Domattina, quando si alzerà, le sue gambe le sentirà così: resti rigidi e insensibili.

Non era mai stato capace di credere. Tutte quelle mattine passate in ginocchio, a respirare l'odore di lucido e polvere, la testa appoggiata contro il banco di fronte come se potesse aprirsi a forza la strada verso la Luce. «Oh Signore» pregava «fa' che io creda.» Gli occhi di padre Quinto si riempivano di lacrime quando le ragazze facevano la comunione. Vasco lo vide in sagrestia con Laura Meireles, la gonna sollevata intorno alla vita. E lui pregò di nuovo: «Oh Signore, ti prego, fa' un altro sforzo».


Quell'Eduardo è come le emorroidi: l'ultima cosa a cui vorresti pensare e la prima che ti viene in mente. E poi cosa voleva dire? Il mio toro da competizione... che razza di insulto sarebbe? Un toro da competizione è un bell'animale e Eduardo non se ne è mai potuto permettere uno neanche lontanamente. Se vuoi insultare un uomo, fallo come si deve. Questa è l'opinione di Vasco, e non sprecherà altro tempo per Eduardo.

Solo un paio di settimane prima era lì che sbuffava e borbottava mentre Vasco discuteva certe questioni con Bruno.

«Gli Stati Uniti» diceva Vasco «sono i poliziotti del mondo. Che la cosa piaccia o no.»

«Č una conferenza gratuita?» aveva detto Eduardo prendendo uno sgabello al banco.

Vasco lo ignorò. «Le Nazioni Unite non possono neanche scoreggiare senza il loro permesso.»

«Emettere e permettere» disse Eduardo. «Chi è che ha la licenza qui?»

Vasco avrebbe dovuto rispondergli per le rime.

«Una birra» disse Eduardo. «Quando hai tempo.»

Il problema di Eduardo è che si mangia le parole. Quando capisci quello che sta dicendo lui ha già cambiato argomento.

Ma Vasco avrebbe dovuto dirgliene quattro e allora sì che le cose sarebbero andate diversamente.

Si stacca la cera dalle dita. Un pezzetto cade sulla torta. Eduardo non è uno di quelli che tengono per sé le loro opinioni. Ma non è a suo agio quando Vasco parla di questioni internazionali perché Eduardo - e Vasco lo sa per certo - non ha neppure il passaporto.

Vasco si sgranchisce le spalle. Le ossa scricchiolano. Com'è possibile, pensa ora, che io decida se mangiare questa torta o non mangiarla? Come se fosse un atto isolato, indipendente da tutte le altre azioni avvenute prima. Come se la storia non avesse il suo peso. Come se una cosa non dipendesse da un'altra. Come se non ci fosse un legame. Come se tutto fosse casuale.

Sua zia Joana era grassa. Vasco non l'aveva mai conosciuta, ma mće non faceva che parlare di lei. Gli pizzicava le guance, le braccia, la pancia: «Proprio come Joana. I maiali pativano la fame quando veniva da queste parti». Vasco era stato un neonato grasso. Mće diceva: «Dio del cielo, mi spacchi in due.» Era stato un bambino grasso. «Lo vedi? Grasso dietro la testa.» Era stato un adolescente grasso. «Non sederti su quella sedia.»

Sì, Vasco è quello grasso, guardate come mangia. Prendine ancora, Vasco. Se lo fa fuori tutto. Lo vedi, ha già finito. Ma ne prenderà ancora. Vasco, prendine ancora. Mangia. Forza, mangia!

Forse mće non lo amava abbastanza. Se tua madre non ti ama riempi il vuoto con qualcos'altro. Mće gli stava sempre addosso, gli dava i pizzicotti e lo baciava. Non lo lasciava mai in pace. Forse lo amava troppo. Lo rese dipendente. Una persona dipendente non si accontenta mai. C'è sempre un vuoto da riempire.

Questo è certo: a una cosa ne segue un'altra. «Lo farò» diciamo «perché ne ho voglia.» Pensiamo di vivere come re, ma siamo fantocci sul trono. Emettiamo proclami e ci convinciamo di fare la Storia e dimentichiamo che è stata lei a fare noi.

Se mangio la torta, pensa Vasco - china il capo su di essa - dirò che è perché ho fame. Se non la mangio dirò che è perché sono pieno. E quella diventerà la verità. Se dona Marisa avesse preso questa torta insieme al caffè oggi pomeriggio, non sarei nemmeno qui. Sarei a letto a riposare le gambe invece di stare seduto a questo tavolo, a rimandare l'arrampicata per questa stupida questione della torta.

Solleva il piatto e reprime l'impulso di lanciarlo attraverso la stanza. La torta starebbe nel palmo della mano. Ha una forma irregolare e una consistenza che asciuga la bocca. L'impasto spugnoso forse è più scuro di quanto dovrebbe. Č stato troppo in forno o è rimasto troppo a lungo nella vetrinetta. Ma lo zucchero ammicca e fa promesse scintillanti: dammi la lingua e dimentica; dammi la lingua e sarai libero.

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5



Mio marito ha un modo tutto suo di darmi torto. Dice: «Qualsiasi persona sana di mente vedrebbe che è una vera porcheria e una fesseria bell'e buona». A volte dice soltanto: «Qualunque persona sana di mente, Eileen» e la lascia lì così. Il che risulta comico, detto da un uomo che non riesce ad aprire un libro senza prima esserselo messo sotto il naso per dargli una bella annusata.

Lui è qui da qualche parte, che marcia per la città con un panama sulla testa e la guida turistica in mano. Io dovrei essere seduta al caffè vicino alla stazione di servizio Galp a scrivere cartoline. «Una caldana?» ha chiesto. E io ho detto di sì.

Sto passeggiando (senza scopo, direbbe lui) intorno alla piazza principale che è grande circa quanto il giardino di casa nostra, anche se direi che il nostro giardino è abbastanza grande. Oggi fa di nuovo caldo, ma è ventilato. Il cielo ha la stessa sfumatura di un vaso che ho tenuto stretto con cura per tutto il viaggio di ritorno da Agadir - una delle sue vacanze - per poi lasciarlo cadere sul pavimento della cucina il giorno dopo.

[...]

Mio marito non fa altro che imparare cose. Serie, dice lui, ma sono solo cose. Non servono a niente. La sua idea di vacanza è andare in qualche posto molto lontano e ingozzarsi di fatti. Conosce l'esatta altitudine del Machu Picchu o il numero delle persone che abitano nelle baracche di città del Capo o il prezzo di un'escursione in elicottero sopra le favelas di Rio o la classificazione etnica delle quattordici tribù del Chittagong Hill Tracts. Le sue vacanze (abbiamo cominciato a «fare i turni» circa dieci anni fa) sono sempre sorprendenti. Mozzafiato. Proprio così... quando torniamo a casa io sono a terra, completamente senza fiato.

Abbiamo passato tre notti in una capanna che apparteneva a un re dei Mru sulle colline di smeraldo vicino al confine con la Birmania. «Non ti sembra un po' strano?» ho detto. «Essere qui. A "consumare" tutto questo.»

«Non si tratta di consumare, Eileen» ha detto lui. «Si tratta di capire. Potresti leggere cose su queste tribù per decenni senza capirci niente, se non hai mai vissuto tra loro.»

«Per tre giorni?» ho detto.

«Dov'è la zanzariera?» ha detto lui. «Avevano detto espressamente che le zanzariere erano comprese.»

«E Richard? Č nostro figlio. Potresti cercare di capire lui.»

Si è dato una manata sul collo e ha detto: «Ce n'è una. Ti sei ricordata di prendere la pastiglia per la malaria stamattina?».

«Esci con lui» ho detto. «Vai nei suoi pub e nelle sue discoteche. Vedila come una vacanza. Vivi in mezzo a loro.»

«Qualsiasi persona sana di mente, Eileen» ha detto e ha spento la lanterna elettrica.

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