Autore Ubah Cristina Ali Farah
Titolo Il comandante del fiume
Edizione66THAND2ND, Roma, 2014, Bazar 18 , pag. 204, cop.fle., dim. 14,4x20,8x1,6 cm , Isbn 978-88-96538-95-1
LettoreFlo Bertelli, 2015
Classe narrativa italiana , narrativa somala , paesi: Somalia









 

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Pagina 7

Se qualcuno pensa che mi metterò a recitare il mea culpa si sbaglia di grosso. La gente si fa un sacco di idee quando mi vede: da dove vengo, chi sono i miei genitori, in che casa vivo, se vado bene a scuola. Insomma, un bel quadretto preconfezionato. Ma, dico io, una storia non si può cogliere al primo sguardo, bisogna armarsi di pazienza e mettersi in ascolto. Riconoscere, per esempio, che sono le nostre scelte a mostrare di che pasta siamo fatti. A volte si vedono immagini sacre agli angoli dei crocevia, proprio lì dove i sentieri si dividono. Qualcuno ci lascia fiori o candele votive. Ecco, anche se a me non salterebbe mai in mente di fare una cosa tanto stramba, so che quelle madonnine e quei santi per molti un senso ce l'hanno. Stanno lì per ricordare ai viandanti che corrono sempre il rischio di prendere la strada sbagliata. Beh, io questo errore non lo voglio fare. Ho passato troppo tempo a rimuginare su mio padre, sul perché abbia preferito comandare un esercito anziché vivere con me e mamma in questa bellissima città. Pensavo che se persino lui, lasciandoci soli, aveva fallito, anch'io prima o poi avrei commesso un errore irreparabile. Ma la guerra cambia la natura delle persone, le loro relazioni, nessuno ne esce illeso. Zia Rosa e mamma hanno stretto un'alleanza e ci hanno cresciuti a suon di storie e canzoni. Le favole non sono poi così diverse dalla vita reale. Il comandante del fiume ha il compito di proteggere la gente del villaggio dai coccodrilli e, per assolverlo, può contare solo sulla sua capacità di distinguere il bene dal male. Riuscirà nel suo difficilissimo incarico? Dopo tutto quello che ho combinato posso pure confessare che, in fondo, sapevo già come erano andate le cose. Ma un conto è intuirla la verità, un altro è dirla ad alta voce. Mia madre se ne è lavata le mani e mi ha mandato in avanscoperta. Penso che certi nodi andrebbero sciolti in casa, gliel'ho detto tante volte, bisogna essere corazzati per affrontare la realtà. Ma lei è convinta di aver preso la decisione giusta e che solo uscendo dal guscio uno si fa le ossa.

Rimane il fatto che mi sono dovuto far bocciare, sottrarre a una punizione e persino ferire, per trovare il coraggio. Ora sono pronto. Voglio raccontare i fatti dall'inizio alla fine, spiegarli per bene. Solo mettendo le parole una dietro l'altra riuscirò a vederne il senso. Sissi sarà contenta. Lo devo soprattutto a lei, è la mia sorellina.

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Rimaniamo in silenzio, bevo con la cannuccia. Lo sciroppo è dolce, il ghiaccio si squaglia subito. Un po' di sollievo, anche se la testa mi scoppia. Ho la nausea, suoni e rumori sono tutti amplificati. Sento addosso una debolezza infinita, come se il corpo e la testa non rispondessero più ai comandi. Mi lascio andare.

«Zia, mi dici qualcosa su tua madre?».

«Perché mi fai questa domanda?».

«Te la ricordi ancora?».

«Lo sai, te l'ho detto tante volte. È morta quando ero bambina. Ho solo un paio di foto». Si aggiusta la fascia intorno ai capelli. Lo fa sempre quando è agitata: slega e riannoda.

«E ora che ricordo hai di lei?».

Si alza e poggia entrambe le mani sul tavolo, pendendo in avanti.

«Me lo chiedi per via di tuo padre, vero?».

«Mamma ha buttato tutte le sue fotografie. Non so neppure come è fatto» rispondo.

Sento il viso incandescente, il dolore che si acuisce. Zia Rosa avvicina la sua sedia alla mia e guardiamo entrambi l'edificio di fronte.

«È strano, quando penso a mia madre la immagino sempre con i libri di scuola sotto il braccio, anche se non l'ho mai vista in questo modo. È così che l'ha conosciuta mio padre, quando era ancora una ragazza».

«Era il suo insegnante, giusto?».

«Sì. A quei tempi a Mogadiscio le scuole erano quasi tutte italiane. Papà viveva in Somalia da qualche anno. Mamma era molto più giovane—».

«E poi si sono sposati!».

«Sì, ma era già malata».

«...».

«Io sono nata dopo neppure un anno. Mio padre aveva paura che mi contagiasse, e così l'ha fatta internare. Ma queste cose te le ho già raccontate».

«Ti sei mai arrabbiata con tuo padre?».

«Arrabbiata?».

«Perché non le permetteva di stare con te».

«Diceva che mamma si doveva curare e che appena guarita sarebbe tornata a casa. Mi mancava. Mi ricordo la sua allegria. E poi mio padre... un uomo troppo anziano per una bambina della mia età... frequentava solo italiani, tali e quali a lui».

«E quando sei diventata grande ti sei arrabbiata?».

«Sì, un po', perché ho capito meglio come stavano le cose. E questo anche grazie a tua madre. Ti ricordi quei parenti somali che mi ha aiutato a rintracciare?».

«Chi? Quella tua zia che vive in Danimarca?».

«Sì, mia zia mi ha detto che molti sono guariti dalla tubercolosi, il problema è che mamma non si curava».

«Non li obbligavano a prendere le medicine nei sanatori?».

«Sì, ma pare che mamma scappasse in continuazione. Non ne voleva sapere di stare rinchiusa. Chissà se è vero. A me piace pensare che volesse venire da me».

«Magari è così».

«Ma per tornare a casa doveva curarsi».

«...».

«È difficile, le persone a volte rendono le storie più drammatiche di come sono già. Comunque, non è questo che rimprovero a mio padre».

«E allora cosa?».

«Avevo sette anni quando mamma è morta. Siamo subito venuti in Italia e abbiamo perso tutti i contatti con i nostri familiari giù in Somalia. Papà sembrava sollevato e ha cominciato a dire cose odiose sui somali, tipo che ti chiedono sempre qualcosa, che sono opportunisti. Per questo non li chiamava, diceva. Poi ha deciso di affidarmi a sua sorella, che era pure più anziana di lui. Ti puoi immaginare. La mia parte somala era bandita in quella casa!».

«Che significa?».

«Niente, lo sai benissimo».

«Cosa?».

«Che mio padre era fascista!».

«E allora? Si è pure sposato con una somala!».

«Certo, di trent'anni più giovane. Dài, facciamola finita con questa storia e raccontami che diavolo ti è successo».

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Pagina 35

Da qualche mese avevo iniziato a fare uno scherzo idiota, la gente pensava che fossi andato fuori di testa, lo so, ma io mi divertivo a sconvolgere tutti, vedere le facce che facevano, morivo dalle risate.

Ecco di che si tratta. Dopo aver celebrato il Giorno della memoria per la dodicesima volta nella mia carriera scolastica, mi era presa la fissa di dire «heil!» a tutti: squillava il telefono e io rispondevo «heil! chi parla?»; le macchine mi suonavano quando attraversavo la strada all'improvviso, e io gridavo «heil!»; alzavo la mano per uscire dalla classe e chiedevo «heil! posso andare in bagno?». I professori facevano finta di non sentirmi, ma una volta ho esagerato e mi hanno sospeso.

Come c'entra tutto questo con Sissi? Aveva finito il murale e se ne stava andando senza neanche dirmi ciao, e allora ho alzato la mano per salutarla: «Heil! Sissi», con il braccio che formava un angolo ottuso con il corpo. Finalmente si è girata, che era proprio quello che volevo, aveva i capelli dritti come cavi elettrici e tanta di quella rabbia che gli occhi sembravano schizzarle fuori dalle orbite come in un cartone animato. Mentre si avvicinava ho visto la sua mano infilarsi nella tasca, «sei l'essere più schifoso del pianeta,» è esplosa «mi hai delusa, non prendi mai niente sul serio, fai male alle persone che più ti amano, dalla tua bocca esce solo merda».

Se ne stava con il collo curvo in avanti e sembrava uno strano uccello con la cresta. Aveva la voce così rauca che non si distinguevano le parole: «Mi sono dedicata anima e corpo ad aiutarti a scuola, siamo al terzo liceo, non in prima elementare». Mentre lo diceva sembrava che stritolasse la bomboletta nella mano destra.

Non so perché, ma in quel momento mi è venuto una specie di raptus da iena ridens, continuavo a ripetere «heil!» in modo convulso, le frasi di Sissi mi arrivavano amplificate, mentre la bomboletta mi si avvicinava sempre più agli occhi. La impugnava come un'arma: «Ti sei fatto persino sospendere... Tra qualche giorno escono i quadri e sai benissimo che ti bocceranno anche quest'anno».

La pioggia era così fitta da sembrare una tenda d'acqua, Sissi aveva il collo gonfio di veleno e gridava «ti odio». Io non smettevo di ripetere «heil!», ridevo in modo isterico, e il gazometro in lontananza sembrava una tromba d'aria che si avvicinava sempre più e ci sollevava in alto, per lo scontro finale.

Visto che continuavo a muovermi come una marionetta impazzita e gli amici mi pregavano di smetterla, perché non ero per niente divertente, per calmarmi ho fatto la cosa peggiore che potevo fare, considerando che avevo un'arma puntata contro.

Il problema di Sissi è che non vuole credere che siamo diversi: è sempre stata convinta che, siccome siamo cresciuti insieme, gli altri ci considerano uguali. Ma siamo seri, nessuno guarda me e Sissi allo stesso modo, gli occhi della gente vedono le differenze, e non basta che a educarci siano state le favole di zia Rosa e le canzoni di mia madre, e non basta neppure essere fratelli per scelta.

Io e Sissi non possiamo essere uguali per tutta una serie di ragioni, ma ce n'è una più importante delle altre e questa ragione è che io sono nero, nato da due genitori neri, mentre Sissi è bianca, ha i ricci dorati e gli occhi grigioverdi. Io sono nero, zia Rosa è apparentemente nera ma non ha trasmesso proprio un bel niente a sua figlia, niente dei suoi colori intendo. I colori di Sissi sono quelli di suo padre, e di suo nonno forse, ma non sono gli stessi dell'altra nonna, la madre di zia Rosa: su di lei quei colori non hanno lasciato tracce.

Pensavo a tutto questo e nel frattempo la terra diventava sempre più fangosa, il murale di Sissi non era ancora asciutto, le pareti sotto l'arco erano umide come quelle delle caverne, e la donna ragno cambiava forma in continuazione.

Sissi non capiva, o non voleva capire, che non basta l'amore fraterno per fare un colore, perché il colore è quello che vedono gli altri, non è quello che vedi tu, che senti tu, e nessuna favola, nessuna canzone, nessuna amicizia può cambiare il colore che vedono gli altri. È per questo che io posso dire «heil!» mentre Sissi non può neppure pronunciarlo. Per me «heil!» non è un tabù, perché sono io stesso il tabù, ed è il mio colore, qui, in questa città, lungo il fiume, a essere un tabù.

Sissi amava ripetere: «I miei ricci sono crespi come quelli di mamma, sembrano ragnatele, per questo mamma dice che sono Tincaaro. Io corro come mamma, e il nostro è un fisico da fondista».

E così Sissi e zia Rosa credono di correre lungo il fiume come gazzelle nella savana.

Ma questa non è la savana, siamo a Roma, questo è il Tevere, lì c'è il gazometro, zia Rosa si è rotta il ginocchio e forse non correrà mai più con la figlia.

Sissi ha i ricci dorati e gli occhi grigioverdi e mi puntava la bomboletta agli occhi, allora le ho urlato il tabù, il suo tabù, e mi stavo voltando per sparire oltre la tenda d'acqua ma lei è stata più veloce e ha premuto lo spray. L'ha premuto una volta, forse due, io ho teso le mani per fermarla: «Sissi, non è un giocattolo!». La pioggia non si è portata via il veleno e gli occhi mi bruciavano, non riuscivo neppure a stare in piedi e, mentre crollavo sotto il ponte, Sissi è sparita definitivamente dietro la tenda d'acqua.

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Il Sibarita mi è mancato, e me ne accorgo solo ora. È passato più di un mese dal giorno del concerto. Quella sera, dopo che il buttafuori mi aveva detto di andarmene, mi sono messo a fumare come un matto, una sigaretta dietro l'altra, ne ho anche scroccata qualcuna da certi tipi che andavano al Cantiere. Ma neppure quello era bastato a calmarmi e, siccome non sapevo con chi prendermela, mi sono messo a tirare calci al muro. Intorno era buio e la gente sembrava non accorgersi di me e del mio sfogo. Finché un tizio si è allontanato dal suo gruppo e mi è venuto incontro. Mi sono subito fermato — anche perché mi vergognavo — e gli ho fatto un cenno di saluto. Aveva i capelli divisi in trecce molto spesse e gli occhi obliqui cerchiati di nero, quasi fossero dipinti; nella penombra, la testa sembrava un riccio di mare.

«Hai da accendere?» mi ha chiesto, e poi si è presentato. Si chiamava Ghiorghis, doveva avere una decina d'anni più di me.

Sentendo il suo nome, mi sono ricordato di un quadro di cui zia Rosa andava molto fiera. Gliel'aveva regalato una sua amica etiope e rappresentava San Giorgio, Ghiorghis nella loro lingua, che uccide il drago. Il santo era molto importante per gli etiopi e la leggenda racconta che aveva ucciso il drago perché tormentava gli abitanti di una città chiamata Selem, riportando così la pace tra la gente.

La faccia di Ghiorghis, a guardare bene, era uguale spiccicata a quella del santo, nel dipinto gli occhi sono così grandi e luminosi che brillano nel buio.

Dopo essersi acceso la sigaretta, mi ha guardato con aria preoccupata e, appoggiandomi la mano sulla spalla, ha chiesto: «Tutto bene, fratello?».

Ero ancora arrabbiato per essere rimasto fuori dal centro sociale, così, un po' per stupirlo, un po' per provocarlo, gli ho risposto: «Perché mi chiami fratello se manco mi conosci?».

Ghiorghis prima mi ha fissato incredulo, poi è scoppiato a ridere. Vedendo che mi parlava, alcuni dei suoi amici si sono avvicinati. Molti avevano i dreadlock, altri la testa rasata, altri ancora indossavano berretti a righe verdi rosse, gialle e nere, i colori dei rasta.

«Fratellino, cosa ti è successo?» mi ha chiesto un altro mentre mi si raccoglievano intorno, avevano tutti le mani nere e la loro sembrava una voce unica che usciva dagli occhi. Continuavo a ripetere: «Perché mi chiamate fratello se neppure mi conoscete?», e anche loro, come Ghiorghis, sono scoppiati a ridere come se avessi detto la cosa più assurda del mondo.

«Come perché? Di dove sei piccoletto? chi ti credi di essere?» ha detto uno con aria di sfida, al che Ghiorghis ha fatto segno agli altri di allontanarsi.

Indossava una camicia bianca a maniche corte piuttosto aderente e portava una collana africana di perline colorate. Era più basso di me ma, essendo più grande di età, mi metteva soggezione.

«Mi dispiace,» gli ho detto «ma i miei amici mi hanno appena scaricato. E comunque non sopporto quando la gente mi chiede da dove vengo».

Sentendo queste parole, Ghiorghis mi ha sorriso e si è seduto su un motorino parcheggiato lì accanto.

«Lo so che può dare fastidio ma tra noi è tutta un'altra cosa».

Non mi era ben chiaro cosa intendesse con «tra noi», e Ghiorghis deve essersene accorto perché mi ha spiegato che per lui «tra noi» vuol dire che «non devi recitare nessuna parte, puoi essere te stesso, mentre il resto della gente ha sempre delle aspettative. Se vai in un centro sociale, per esempio, ci si aspetta che tu sia uno che si droga più degli altri, se vai in una parrocchia che tu sia una persona bisognosa. Tutte montature che si sono inventati i missionari, i colonizzatori e gli antropologi».

Continuavo a non capire, perché per me «tra noi» significava Sissi, il Sibarita e le nostre famiglie, niente ci avrebbe diviso, anche se in quel momento loro stavano suonando nel centro sociale e io ero fuori.

Nel ripensare ai miei due amici mi è preso di nuovo un nodo in gola e, con voce quasi rabbiosa, ho detto al tipo: «Va bene, ma questo cosa c'entra con la fatidica domanda? Perché la gente deve sempre chiederti da dove vieni e non si fa i fatti suoi?».

Ghiorghis ha mantenuto la calma e ha iniziato a raccontarmi una storia di quando era ragazzino.

Aveva tredici anni e andava a scuola alla Città dei ragazzi. Lì c'era un insegnante di educazione fisica italoamericano. Era bravo e tutti i ragazzini gli stavano intorno. Un giorno l'insegnante domandò a Ghiorghis: «Di dove sei?».

Ghiorghis rispose: «Etiopia».

Non contento, l'italoamericano gli chiese dove era nato, e quando sentì che era nato a Roma andò su tutte le furie. Cominciò a sommergerlo di parole, un misto tra inglese dall'accento americano e dialetto campano, dicendogli che lui era italiano, non etiope, perché l'Italia era il posto dove era nato, aveva ricevuto le prime carezze, fatto le prime amicizie, cominciato la scuola. Ghiorghis sottolineava questa parola, «carezze», perché il professore la ripeteva continuamente, ma la pronunciava in un modo buffo, con due r.

«Lì per li non mi è sembrato niente di importante, ma in tutti questi anni» ha proseguito Ghiorghis «ho riflettuto molto su quella storia. Posso dire che per me è diventata una specie di codice».

Ghiorghis è andato avanti per quasi un'ora con il suo ragionamento e mi ha fornito molti argomenti. Il succo era che recentemente gli era capitato di accompagnare un amico alla Caritas per un lavoretto estivo e lì aveva incontrato il prete di turno. Questo lo aveva guardato con simpatia e, indovinate un po', gli aveva domandato: «Di dove sei?». «Di Roma» aveva risposto Ghiorghis e il prete aveva insistito: «Etiope, eritreo?».

«I miei sono entrambi etiopi» aveva risposto, allora il prete lo aveva rimproverato: «Non mi piace questo tuo rifiuto».

Ghiorghis ci era rimasto secco. Come si permetteva il prete di sostenere che lui rinnegava le proprie origini? Che si rifiutava di essere etiope? E poi l'insegnante di ginnastica italoamericano glielo aveva spiegato che il tuo posto è dove hai i legami, gli amici, riconosci le strade e gli odori.

Su questo eravamo d'accordo, ma c'era qualcosa che non mi tornava e allora gli ho chiesto: «Se la pensi così, perché ti sei scelto tutti amici uguali a te?».

Ghiorghis aveva l'aria di divertirsi: «Sei un osso duro, eh?», e mi ha dato una pacca sulla spalla. Sembrava avere la risposta sempre pronta.

«Quando avevo più o meno la tua età frequentavo già da qualche anno il mitico Big Burger di piazzale Flaminio. È lì che si riuniva la mia comitiva, anzi, lì si riunivano quasi tutti i giovani stranieri di Roma. Quel piazzale era l'unico luogo che sentivamo nostro, eravamo liberi di dire quello che volevamo, non eravamo costretti a recitare nessuna parte. Smettevamo di essere come ci vedevano gli altri e non eravamo più "il bisognoso", "il drogato", "lo sfigato", "il superdotato", "l'atletico", "il ballerino", non eravamo più neri, eravamo semplicemente noi stessi. I ragazzi della comitiva potevano essere figli di immigrati o di ambasciatori, italiani o stranieri, vivere nelle periferie o nei quartieri residenziali, quello che ci accomunava era l'amore per l'hip hop, che per noi è un linguaggio universale».

Ghiorghis si esaltava mentre parlava di piazzale Flaminio, i suoi occhi sembravano accendersi ancora di più, e tutti i suoi amici lo osservavano da lontano mentre faceva larghi gesti con le mani.

«La nostra è stata una bellissima esperienza, ma neppure il piazzale bastava a farci sentire a casa. Roma ci stava stretta e molti di noi desideravano andarsene verso uno di quei luoghi dove la gente è più mescolata. Alcuni sono partiti per l'Inghilterra, a Londra, altri hanno scelto posti ancora più lontani e, alla fine, anche per me è arrivato il momento di partire».

Sentendogli nominare Londra, mi sono subito ricordato che non mancava molto alla mia partenza e così gli ho chiesto quanto ci aveva vissuto e come era stato.

All'inizio era stato bello ed eccitante, con il tempo però si era accorto che, fuori dall'Italia, era ancora più difficile rispondere alla fatidica domanda, non aveva parole sufficienti per raccontarsi, e così finiva per incontrarsi anche all'estero con quelli che erano stati i suoi amici di piazzale Flaminio e insieme parlavano del passato con nostalgia.

«Dopo sette anni» mi ha detto «sono venuto a fare una capatina a Roma: dovevo sistemare alcuni impicci rimasti in sospeso. Visto che avevo ottenuto la cittadinanza italiana, non ti sto a raccontare quanti casini ho passato, mi è arrivata la cartolina per la leva obbligatoria e, a quanto pare, poiché non mi ero presentato, stavo commettendo un reato. Nonostante tutte queste scocciature, uscito dall'aeroporto mi è bastato un attimo per capire che ero tornato a casa, bagnato dalla luce di questa città».

«Che differenza c'è tra fare una capatina e tornare?».

Ghiorghis mi ha risposto senza esitazioni: «Per sette anni non ho visto Roma, sette anni sono un'eternità ma è bastato un cappuccino per ritrovare l'amore, più forte che mai, non perché Roma è quello che è - chi non si innamorerebbe di questa città! -, ma perché con il primo cappuccino preso al bar ho ritrovato me stesso».

Mentre diceva queste cose Ghiorghis si è quasi commosso, io intanto mi chiedevo cosa significasse avere nostalgia.

Nostalgia è quando ti manca qualcosa, ma se tu non l'hai mai avuto, puoi provare nostalgia? Forse la nostalgia ti viene quando quel qualcosa gli altri ce l'hanno e tu no.

Ghiorghis è tornato in Italia e la sua comitiva è sempre la stessa: prima si incontravano a piazzale Flaminio, ora non hanno più un posto fisso dove vedersi ma rimangono sempre insieme, e hanno tutti le mani nere come le mie.

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