Copertina
Autore Isabel Allende
Titolo Eva luna
EdizioneFeltrinelli, Milano, 1989 [1988], UE 1076 , Isbn 978-88-07-81076-3
OriginaleEva luna [1987]
TraduttoreAngelo Morino
LettoreRenato di Stefano, 1989
Classe narrativa cilena
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9 [ inizio libro ]

Mi chiamo Eva, che vuole dire vita, secondo un libro che mia madre consultò per scegliermi il nome. Sono nata nell'ultima stanza di una casa buia e sono cresciuta fra mobili antichi, libri in latino e mummie, ma questo non mi ha resa malinconica, perché sono venuta al mondo con un soffio di foresta nella memoria. Mio padre, un indiano dagli occhi gialli, veniva dal luogo in cui si uniscono cento fiumi, odorava di bosco e non guardava mai direttamente il cielo, perché era cresciuto sotto la cupola degli alberí e la luce gli sembrava indecorosa. Consuelo, mia madre, aveva trascorso l'infanzia in una regione incantata, dove per secoli gli avventurieri hanno cercato la città di oro puro vista dai conquistatori spagnoli allorché si affacciarono sugli abissi della loro ambizione. Quel paesaggio aveva lasciato in lei una traccia che in qualche modo riuscì a trasmettermi.

I missionari raccolsero Consuelo quando non sapeva ancora camminare, era solo una marmocchia nuda e coperta di fango e di escrementi, che era arrivata sgattaiolando lungo il ponte dell'imbarcadero come un minuscolo Giona vomitato da una balena di acqua dolce. Mentre la lavavano, constatarono senz'ombra di dubbio che era femmina, cosa che suscitò in loro una certa confusione, ma ormai c'era e non si poteva buttarla nel fiume, sicché le misero un pannolino per nasconderle le vergogne, le spremettero qualche goccia di limone negli occhi per guarirle l'infezione che le impediva di aprirli e la battezzarono col primo nome femminile che venne loro in mente.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 265 [ fine libro ]

Al termine della cena familiare, Rolf e io ci ritirammo nella stanza che ci avevano preparato. Entrammo in una camera vasta, col caminetto dove ardevano ciocchi di biancospíno e un letto alto, coperto dalla trapunta più arieggiata del mondo e da una zanzariera che pendeva dal soffitto, bianca come il velo di una sposa. Quella notte e tutte le notti che seguirono ci unimmo con un ardore senza tregua finché il legno della casa non acquistò il brillio rifulgente dell'oro.

E continuammo ad amarci per un ragionevole lasso di tempo, finché l'amore non si logorò e si disfece in brandelli.

O forse le cose non andarono così. Forse la fortuna fece sì che ci trovassimo fra le mani un amore eccezionale e io non avessi più bisogno di inventarlo, ma solo di vestirlo a festa perché durasse nella memoria, secondo il principio che è possibile costruire la realtà a misura dei nostri desideri. Ho esagerato un po, dicendo per esempio che la nostra luna di miele era stata eccessiva, che aveva cambiato lo spirito di quel villaggio da operetta e l'ordine della natura, che le viuzze si erano animate di sospiri, che le colombe avevano fatto il nido negli orologi a cucù, che in una notte erano fioriti i mandorli del cimitero e che le cagne dello zio Rupert erano andate in calore fuori stagione. Scrissi che durante quelle settimane benedette, il tempo si allungò, si avvoltolò su se stesso, si srotolò come il fazzoletto di un mago e questo bastò perché Rolf Carlé - con la solennità ridotta in polvere e la vanità finita sulla luna - esorcizzasse i suoi incubi e riprendesse a cantare le canzoni dell'adolescenza e perché io ballassi la danza del ventre imparata nella cucina di Riad Halabí e raccontassi, fra risate e sorsi di vino, molte storie, inclusa qualcuna con un finale felice.

| << |  <  |