Copertina
Autore Isabel Allende
Titolo Ritratto in seppia
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2001, I Narratori , pag. 272, dim. 140x222x18 mm , Isbn 978-88-07-01601-1
OriginaleRetrato en sepia [2000]
TraduttoreElena Liverani
LettoreAngela Razzini, 2001
Classe narrativa cilena
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Pagina 13

Sono venuta al mondo un martedì d'autunno del 1880, nella dimora dei miei nonni materni, a San Francisco. Mentre all'interno di quella labirintica casa di legno mia madre, grondante di sudore, ansimava per aprirmi un varco, il cuore intrepido e le ossa disperate, nella strada ribolliva la vita selvaggia del quartiere cinese con il suo aroma indelebile di cucina esotica, il suo chiassoso torrente di dialetti sbraitati, la sua inestinguibile folla di api umane in un frettoloso andirivieni. Nacqui di buon mattino, ma a Chinatown gli orologi non si attengono ad alcuna regola e a quell'ora prende vita il mercato, il traffico di carretti e i latrati tristi dei cani nelle loro gabbie, in attesa del coltello del cuoco. Solo parecchio tempo dopo sono venuta a conoscenza dei particolari della mia nascita, ma sarebbe stato ancora peggio non averli mai appresi; si sarebbero potuti smarrire per sempre negli impervi sentieri dell'oblio. Nella mia famiglia i segreti sono talmente tanti che probabibnente non avrò tempo sufficiente per svelarli tutti: la verità è fugace e viene lavata via da torrenti di pioggia. I miei nonni materni mi accolsero con commozione - benché, stando a diversi testimoni, fossi una neonata orribile - e mi adagiarono sul petto di mia madre, dove rimasi raggomitolata per alcuni minuti, gli unici che ebbi la possibilità di trascorrere con lei. Poi mio zio Lucky mi alitò sul viso per trasmettermi la sua buona sorte. L'intenzione era generosa e il metodo si è rivelato infallibile, dato che almeno in questi primi trent'anni di vita mi è andata bene. Ma, attenzione, non devo anticipare troppe cose. Questa storia è lunga e ha inizio ben prima della mia nascita; per raccontarla ci vuole pazienza e ce ne vuole ancora di più per ascoltarla. Se durante la strada perdessi il filo, non c'è bisogno che ti disperi, perché con tutta certezza lo ritroverai qualche pagina dopo. E siccome bisogna pur cominciare con una qualche data, fissiamola nel 1862 e diciamo allora, tanto per dare l'avvio, che la storia ha inizio con un mobile dalle proporzioni inverosimili.

Il letto di Paulina del Valle fu commissionato a Firenze, un anno dopo l'incoronazione di Vittorio Emanuele II, quando nel novello Regno d'Italia vibrava ancora l'eco delle pallottole di Garibaldi; smontato, fece la traversata per mare a bordo di una nave genovese, sbarcò a New York nel bel mezzo di uno sciopero sanguinoso e proseguì poi trasportato su uno dei vapori della compagnia di navigazione dei miei nonni paterni, i Rodríguez de Santa Cruz, cileni residenti negli Stati Uniti. Toccò al capitano John Sommers ricevere le casse contrassegnate in italiano con una sola parola: naiadi. Quel robusto marinaio inglese, del quale rimangono unicamente un ritratto sbiadito e un baule di cuoio logorato da infinite traversate marittime colmo di curiosi manoscritti, era il mio bisnonno, come ho da poco appurato, da quando cioè, dopo molti anni di mistero, il mio passato ha finalmente iniziato a schiarirsi. Non ho conosciuto il capitano John Sommers, padre di Eliza Sommers, mia nonna materna, ma da lui ho ereditato una certa propensione all'erraticità. Quell'uomo di mare, orizzonte e sale allo stato puro, dovette addossarsi l'onere di trasportare il letto fiorentino, nella stiva della sua imbarcazione, fino all'altra sponda del continente americano. Dovette schivare il blocco yankee e gli attacchi dei confederati, raggiungere i limiti australi dell'Atlantico, solcare le acque traditrici dello Stretto di Magellano, entrare nell'Oceano Pacifico e, dopo brevi soste in diversi porti sudamericani, orientare la prua verso il Nord della California, l'antica terra dell'oro. Gli ordini ricevuti erano precisi: doveva aprire le casse sul molo di San Francisco, supervisionare il falegname di bordo mentre assemblava le parti di quel rompicapo, badando bene a non sfregiare gli intarsi, sistemarvi sopra il materasso e il copriletto di broccato color rubino, caricare il catafalco su un carretto e farlo condurre a passo d'uomo verso il centro della città. Il postiglione avrebbe dovuto fare due giri intorno a plaza de la Unión e poi altri due suonando una campanella di fronte al balcone della concubina di mio nonno, prima di recapitarlo alla destinazione finale, la casa di Paulina del Valle. Doveva portare a compimento siffatta impresa in piena Guerra civile, mentre gli eserciti yankee e i confederati si massacravano nel Sud del paese e nessuno era certamente dell'umore giusto per scherzi e scampanellate. John Sommers impartì le istruzioni sacramentando, perché durante i mesi di navigazione quel letto era assurto a simbolo di ciò che più detestava nell'esercizio della sua professione: i capricci della sua datrice di lavoro, Paulina del Valle. Quando vide il letto sistemato sul carro tirò un sospiro di sollievo e decise che quella sarebbe stata l'ultima cosa che faceva per lei: era ai suoi ordini da dodici anni e la sua pazienza aveva toccato il limite. Il mobile, ancora in perfette condizioni, è un pesante dinosauro di legno policromo; la testata è sovrastata da un Nettuno circondato da onde spumeggianti e creature marine in bassorilievo, mentre ai piedi giocano delfini e sirene. In poche ore mezza San Francisco ebbe modo di apprezzare quel talamo olimpico; ma la favorita di mio nonno, a cui lo spettacolo era dedicato, si nascose mentre il carretto passava e ripassava con il suo scampanellio.

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[...] Vedendo tutto pulito e ordinato, senza tracce del parto, nessun panno sporco né odore di sangue, per un istante lo pervase una folle speranza, ma poi vide l'espressione di dolore sui visi di Tao, Eliza e Lucky. Nella camera l'aria era diventata rarefatta; Severo respirò profondamente e si senti mancare l'ossigeno, come se si fosse trovato in cima a una montagna. Si avvicinò tremando al letto di Lynn distesa con le mani sul petto, le palpebre chiuse e i lineamenti trasparenti; una bella statua d'alabastro color cenere. Le prese una mano, dura e fredda come il ghiaccio, si chinò su di lei e notò che il suo respiro era a malapena percettibile e che aveva le labbra e le dita blu, le baciò il palmo, in un gesto interminabile, bagnandolo con le sue lacrime, sopraffatto dalla disperazione. Lei riuscì a balbettare il nome di Matías, subito dopo sospirò un paio di volte e se ne andò con la stessa levità con cui era transitata fluttuando nella vita. Un silenzio totale accolse il mistero della morte e per un lasso di tempo impossibile da misurare attesero immobili, mentre lo spirito di Lynn terminava di elevarsi. Severo sentì un urlo prolungato sprigionarsi dal fondo della terra e trapassarlo dalla punta dei piedi alla bocca senza riuscire a venirgli fuori dalle labbra. Il grido lo invase dentro, si impadronì interamente di lui e gli scoppiò nella testa con una silenziosa esplosione. Rimase così, inginocchiato di fianco al letto, a chiamare Lynn senza voce, incredulo davanti a un destino che all'improvviso gli aveva strappato la donna che aveva sognato per anni, e se la portava via proprio quando credeva di averla conquistata. Un'eternità dopo sentì che gli toccavano la spalla e incrociò gli occhi spiritati di Tao Chi'en, "su, coraggio" gli sembrò che mormorasse; più indietro vide Eliza Sommers e Lucky singhiozzare abbracciati e capì di essere un intruso nel dolore di quella famiglia. Allora si ricordò della bambina. Si diresse verso la culla d'argento ondeggiando come un ubriaco, prese la piccola Aurora in braccio, la portò vicino al letto e la avvicinò al viso di Lynn, perché dicesse addio a sua madre. Poi si sedette, adagiandosela in grembo per cullarla sconsolato.

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Cercarono di dissuaderlo e lui li ascoltò con simulata pazienza, ma era evidente che la decisione era già stata presa e che non era il momento per cambiare opinione. Andandosene, portò con sé, in una borsa di cuoio, alcune delle armi da fuoco della collezione di Frederick Williams. Due giorni dopo venimmo a sapere cosa era successo nel podere della cospirazione, a pochi chilometri da Santiago. Durante il giorno, i ribelli avevano progressivamente raggiunto una capanna di bovari in cui si credevano al sicuro; avevano passato ore e ore a discutere, ma constatato che erano ben poche le armi a disposizione e che il piano faceva acqua da tutte le parti, avevano deciso di rimandare, di trascorrere lì la notte, da allegra brigata, e di disperdersi il giorno successivo. Non sospettavano di essere stati denunciati. Alle quattro di mattina, si ritrovarono addosso novanta cavallerizzi e quaranta fanti delle truppe governative; la manovra era stata talmente rapida e sicura che gli assediati non avevano avuto modo di difendersi e si erano arresi, convinti tuttavia di non correre pericoli, dal momento che non avevano ancora commesso alcun crimine, salvo l'essersi riuniti clandestinamente. Il tenente colonnello a capo del distaccamento nella confusione del momento perse la testa e, accecato dalla collera, trascinò un prigioniero davanti ai suoi e lo fece massacrare a furia di pallottole e colpi di baionetta, poi ne scelse altri otto e li fucilò alle spalle; le percosse e il massacro proseguirono in questo modo fino a quando, al sorgere del sole, i cadaveri dilaniati erano sedici. Il colonnello aprì le cantine della tenuta e consegnò le donne dei contadini alla truppa ebbra e imbaldanzita dall'impunità. Incendiarono la casa e torturarono l'amministratore così selvaggiamente che poi dovettero fucilarlo seduto. Nel frattempo gli ordini da Santiago andavano e venivano, ma l'attesa non mitigò l'animo della soldatesca, anzi, ne aumentò la sete di violenza. Il giorno successivo, dopo molte ore di inferno, arrivarono le istruzioni scritte di proprio pugno da un generale: "Esecuzione immediata per tutti". E cosi fu. Dopodiché i cadaveri vennero caricati su cinque carri per essere gettati in una fossa comune, ma fu tale lo scandalo che alla fine vennero consegnati alle famiglie.

Al crepuscolo portarono il corpo di mio cugino, che la nonna, avvalendosi della sua posizione sociale e delle sue conoscenze, aveva reclamato; era avvolto in una coperta insanguinata e venne portato con cautela in una stanza affinché lo si potesse sistemare prima che la madre e le sorelle lo vedessero. Spiando dalle scale, vidi apparire un gentiluomo in finanziera nera con una valigetta che si rinchiuse con il cadavere, mentre le domestiche commentavano che si trattava di un maestro imbalsamatore capace di eliminare i segni della fucilazione grazie a cerone, imbottitura e un ago da materassaio. Frederick Williams e la nonna avevano trasformato il salone dorato in una camera ardente improvvisando un altare e sistemando dei ceri gialli in alti candelabri. Quando all'alba iniziarono ad arrivare le carrozze con la famiglia e gli amici, la casa era piena di fiori e mio cugino, pulito, ben vestito e senza tracce del martirio, riposava in una splendida bara di mogano dalle rifiniture in argento. Le donne, a lutto stretto, si erano accomodate in una doppia fila di sedie a piangere e pregare mentre gli uomini pianificavano la vendetta nel salone accanto, le cameriere servivano panini come se si trattasse di un picnic e noi bambini, vestiti anche noi di nero, giocavamo, spanciandoci dal ridere, a fucilarci l'un l'altro. Mio cugino e diversi suoi compagni vennere vegliati per tre giorni nelle loro case, mentre le campane rintoccavano senza posa per i ragazzi morti. Le autorità non osarono intervenire. Nonostante la rigida censura, tutto il paese venne informato dell'accaduto, la notizia esplose come una polveriera e l'orrore scosse allo stesso modo sostenitori del governo e rivoluzionari. Il presidente non volle conoscere i particolari e declinò ogni responsabilità, esattamente come aveva fatto per le infamie perpetrate da altri militari e dal temibile Godoy.

"Li hanno uccisi a man salva, con ferocia, come bestie. Non ci si può aspettare niente di diverso, siamo un paese sanguinario," commentò Nívea, molto più furibonda che triste, continuando ad argomentare che avevamo combattuto cinque guerre nell'arco del secolo in corso; noi cileni sembriamo inoffensivi e godiamo della reputazione di timidi, parliamo persino a suon di diminutivi (un piacerino, mi dia un bicchierino d'acquetta) ma alla prima occasione ci trasformiamo in cannibali. Per comprendere la nostra predisposizione alla brutalità, era necessario sapere da chi discendevamo, disse: i nostri avi erano stati i più crudeli e agguerriti conquistatori spagnoli, gli unici che avessero osato arrivare a piedi fino in Cile, con le armature arroventate dal sole del deserto, vincendo i peggiori ostacoli della natura. Si erano mescolati con gli araucani, selvaggi quanto loro, l'unico popolo del continente che non era mai stato soggiogato. Gli indios si mangiavano i prigionieri e i loro capi, i toquis, usavano maschere da cerimonia fatte con la pelle seccata dei loro oppressori, preferibilmente di quelli con barba e baffi, essendo loro imberbi; questo era il loro modo di vendicarsi dei bianchi, che a loro volta li bruciavano vivi, li impalavano, tagliavano loro le braccia e gli strappavano gli occhi. "Basta! Ti proibisco di parlare di simili barbarie davanti a mia nipote," la interruppe la nonna.

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E quindi iniziarono nuovamente a sfilare per casa i precettori, alcuni dei quali erano sacerdoti disposti a istruirmi in cambio delle succulente donazioni che la nonna elargiva alle loro congregazioni. Ebbi fortuna, mi trattarono generalmente con indulgenza, perché non pensavano che il mio cervello potesse apprendere come quello di un maschio. Don Juan Ribero, invece, era molto esigente, soprattutto perché sosteneva che una donna deve faticare mille volte più di un uomo per ottenere rispetto intellettuale o artistico. È stato lui a insegnarmi tutto quel che so di fotografia, dalla scelta di una lente al laborioso processo di sviluppo; non ho mai avuto altro maestro. Quando, due anni dopo, lasciai il suo studio, ormai eravamo amici. Adesso ha settantaquattro anni e non lavora da diverso tempo perché è cieco, ma guida ancora i miei vacillanti passi e mi aiuta. Serietà è il suo motto. La vita lo appassiona e la cecità non gli ha impedito di continuare a guardare il mondo. Ha sviluppato una forma di chiaroveggenza. Come alcuni ciechi si avvolgono di qualcuno che legga per loro, cosi lui conta su persone che osservano e riferiscono. I suoi discepoli, i suoi amici e i suoi figli lo vanno a trovare ogni giorno e fanno a turno per descrivergli ciò che hanno contemplato: un paesaggio, una scena, un viso, un effetto di luce. Devono imparare a osservare con molta attenzione per superare il minuzioso interrogatorio di don Juan Ribero; le loro vite di conseguenza cambiano, non possono più muoversi per il mondo con l'abituale levità, perché debbono vedere con gli occhi del maestro. Anch'io gli faccio spesso visita. Mi riceve nell'eterna penombra del suo appartamento in via Monjitas, seduto su una poltrona di fronte alla finestra, con il gatto sulle ginocchia, sempre ospitale e saggio. Lo mantengo informato sui progressi tecnici nell'ambito della fotografia, gli descrivo in modo circostanziato ogni immagine dei libri che commissiono a New York e Parigi, gli espongo i miei dubbi. È aggiornato su tutto ciò che riguarda questa professione, si infervora per le diverse tendenze e teorie, conosce di nome i maestri di spicco d'Europa e degli Stati Uniti. Si è sempre opposto ferocemente alle pose artificiali, alle scene approntate in studio, alle stampe pasticciate ottenute dalla sovrapposizione di vari negativi, cosi di moda qualche anno fa. Crede nella fotografia come testimonianza personale, come modo di vedere il mondo, e crede che questo modo debba essere onesto e che il ricorso alla tecnologia debba essere un mezzo per restituire la realtà, non per distorcerla. Quando attraversai una fase in cui mi era venuto il pallino di fotografare ragazze all'interno di enormi recipienti di vetro, mi chiese quale fosse lo scopo con un tale disprezzo che abbandonai subito quella strada, ma quando gli descrissi il ritratto che avevo fatto a una famiglia di artisti di un circo miserabile, nudi e vulnerabili, se ne interessò immediatamente. Avevo già scattato varie fotografie di quella famiglia in posa davanti a uno sconquassato carrozzone che serviva loro da mezzo di trasporto e da alloggio, quando ne era uscita una bambinetta di quattro o cinque anni, completamente nuda. Allora mi era venuta l'idea di chieder loro di spogliarsi. Avevano acconsentito senza malizia e avevano posato con la stessa intensa concentrazione di quando erano vestiti. È una delle mie migliori fotografie, una delle poche ad avere vinto qualche premio. Ben presto fu evidente che mi attiravano più le persone che non gli oggetti o i paesaggi. Scattando un ritratto, si stabilisce una relazione con il modello che, pur nella sua brevità, è comunque un contatto. La lastra sviluppa non solo l'immagine, ma anche i sentimenti che intercorrono tra le due persone. A don Juan Ribero piacevano i miei ritratti, così diversi dai suoi. "Lei entra in empatia con i suoi modelli, Aurora, non cerca di dominarli, ma di comprenderli ed è per questo che riesce a far affiorare la loro anima," diceva. Mi incitava a lasciare le mura sicure dello studio e a uscire per strada, a spostarmi con la macchina fotografica, a guardare con gli occhi ben aperti, a vincere la mia timidezza, a perdere la paura, ad avvicinarmi alla gente. Mi resi conto che in generale venivo accolta bene e che le persone posavano con molta serietà nonostante fossi poco più che una bambina: la macchina fotografica ispirava rispetto e fiducia, la gente si apriva, si consegnava. La mia giovane età mi poneva dei limití; per molti anni ancora non avrei potuto viaggiare per il paese, introdurmi nelle miniere, negli scioperi, negli ospedali, nelle stamberghe dei poveri, nelle misere scuole, nelle pensioni da due soldi, nelle piazze impolverate dove languivano i pensionati, nei campi, nei villaggi di pescatori. "La luce è la lingua della fotografia, l'anima del mondo. Non c'è luce senz'ombra, come non c'è gioia senza dolore," mi disse don Juan Ribero diciassette anni fa, durante la lezione che mi impartì quel primo giorno nel suo studio in plaza de Armas. Non l'ho dirnenticato. Ma non devo fare nessuna anticipazione. Mi sono ripromessa di raccontare questa storia passo per passo, parola per parola, come è giusto che sia.

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