Autore Ahmet Altan
Titolo Scrittore e assassino
Edizioneedizioni eo, Roma, 2017, Dal mondo , pag. 414, cop.fle., dim. 13,5x21x3 cm , Isbn 978-88-6632-823-0
OriginaleSon Oyon [2014]
TraduttoreBarbara La Rosa Salim
LettoreGiovanna Bacci, 2017
Classe narrativa turca












 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

CAPITOLO PRIMO



Il paese dorme.

In una grande città c'è sempre qualcuno sveglio, ma nelle cittadine di provincia tutti vanno a dormire intorno alla stessa ora. Questo l'ho scoperto dopo essermi trasferito qui.

Me ne sto seduto sotto un albero di eucalipto che si erge come una statua sontuosa nell'unica strada principale, su una di quelle vecchie panchine con nomi e cuori incisi nelle tavole di legno scuro.

Dal mio arrivo in paese avevo sempre desiderato sedermi qui, ma questa è la prima volta.

Mi sono appoggiato allo schienale.

Ho alzato lo sguardo al cielo.

Dormono tutti, sognano. E lo fanno tutti insieme.

Gli occhi fissi al cielo, ho visto i loro sogni levarsi, sgusciando fuori dalle case, dalle finestre, dalle porte e dai camini; li ho visti salire fino alle nuvole bianche, ostentando un arcobaleno di colori: c'è chi parla, chi ride, chi singhiozza, chi fa l'amore, ci sono corpi avviluppati su palchi teatrali con sipari di velluto, in stalle e strade oscure, in soggiorni, mercati e in riva al mare, c'è un cavallo che nitrisce, due donne che si baciano, un bambino che corre in lacrime, un tesoro in monete d'oro, e un coltello scintillante. Qualche volta mi capita di notare la stessa donna o lo stesso uomo che si spogliano dei loro sogni per popolare quelli degli altri.

Osservo la cittadina sognare.

Non sono ubriaco, non di alcol, almeno.

Ho appena ucciso una persona.

Il ricordo di quello che ho fatto è vago, come di un sogno.

A essere sincero non rammento granché: il mio braccio, che in qualche modo mi si è come staccato dal corpo, la mia mano che si è allontanata dal braccio e stringe una pistola. Non ricordo di aver premuto il grilletto. Solo un colpo. Poi davanti a me una bocca aperta come per dire qualcosa, un viso contratto, un braccio sollevato in aria, l'altro premuto su una ferita, un corpo che cade sulle ginocchia, ma niente sangue.

Cosa prova una persona che uccide un altro essere umano? In quell'istante il mio corpo si è irrigidito, sopraffatto da una paura fino ad allora sconosciuta, che mi ha fatto vibrare la carne, le vene, ogni fibra del mio essere, e poi sono come sprofondato in uno stato di sonnolenza.

Sono uscito di casa e ha camminato fino a qui.

Non ricordo di aver pensato a niente in particolare.

Mi sono seduto su questa panchina.

Ritengo che Dio sia un pessimo, oltre che sconsiderato, romanziere.

Uno scrittore di talento non costruisce i rapporti tra i suoi personaggi basandosi su coincidenze, né tantomeno si piega a queste ultime per risolvere i punti cruciali della sua storia.

Ma Dio ha un feroce senso dell'umorismo. E le coincidenze sono il suo passatempo preferito in questa vita, che altro non è che un concatenarsi fortuito di eventi.

Vedi, io non sono di qui.

Sono arrivato da lontano, da una grande città.

Sono venuto qui per scrivere un romanzo su un omicidio. Cosa c'è di strano se mi sono rivelato un assassino? Io ritengo che in questo ci sia la mano di Dio: un'altra delle sue sconsiderate coincidenze che si fanno beffe della sua stessa creazione.

L'intera cittadina è immersa nei sogni.

L'unico sveglio sono io. O forse sto sognando?

È arrivato il momento di raccontarvi quello che è successo.

Ma la storia non è frutto della mia penna, e dunque se è selvaggia, indifferente e crudele è perché viene dalla mano di Dio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

CAPITOLO SECONDO



Ricordo ogni cosa del giorno in cui la vidi per la prima volta.

Ci incontrammo in un piccolo aeroporto di una cittadina situata tra le colline e il mare.

In un primo momento non riuscii a discernere il suo viso, offuscato da un velo di luce, e rimasi ammaliato da questo.

A colpire in lei prima di ogni cosa erano i suoi occhi e la luce abbagliante che emanavano, solo dopo si apprezzava la bellezza del suo viso.

E lei questo lo sapeva.

Doveva aver imparato a usare il potere ammaliante dei suoi occhi quando era ancora una ragazzina.

Mi resi conto di come stessero le cose solo in seguito: gli uomini la tampinavano e la riempivano di doni, che lei accettava quasi con disdegno e, poi, grati per l'attenzione, le facevano altri regali — incontrai uomini che le avevano donato la loro stessa vita.

Lei accettava qualsiasi cosa le regalassero.

Non la vidi mai addolorarsi per tutto ciò che scivolava via dalla sua vita, era come se accumulasse cose e persone solo per potersene liberare: dopo un po' o le gettava via o le abbandonava. Non riuscii mai a comprendere perché volesse sempre liberarsi di qualcosa, perché non volesse mai niente, ma ottenesse sempre tutto.

Lei era calma. La sua serenità attirava le persone come una calamita: gravitavano tutte intorno a lei. A volte anche gli oggetti sembravano prendere vita e andarle incontro.

Pioveva quel giorno.

Dalla finestra si vedeva un boschetto vestito di verdi ulivi, ingrigito per la pioggia, che correva all'orizzonte; i loro tronchi nodosi sembravano un antico esercito pronto a marciare dopo essere improvvisamente resuscitato dai meandri della terra.

Il nostro piccolo aereo era in ritardo per il decollo.

Nella zona d'imbarco al primo piano dell'edificio eravamo in cinque.

La torre di controllo era al secondo. Oltre a me, c'erano quattro persone dietro le ampie vetrate che davano sulla pista: un pilota di aereo agricolo, due ricchi del luogo con la cravatta male annodata, e la donna.

Se ne stava seduta da sola, ascoltando il pilota un paio di posti più in là. Sembravano conoscersi bene. Con un cenno del capo salutò gli altri due uomini.

Poi si alzò e andò alla vecchia macchinetta del caffè nell'angolo, scivolando davanti a me come un lampo di luce.

Io stavo leggendo il giornale, ma mi ero accorto di lei.

Al ritorno si fermò e sistemò la sua tazza fumante sul tavolo di fronte a me. Poi si chinò, raccolse il mio impermeabile dal pavimento e lo mise sulla sedia accanto alla mia.

«Le era caduto a terra» disse.

La sua voce era morbida, quasi un bisbiglio, esigeva attenzione e mi aveva colto impreparato.

Trattava tutti, e soprattutto gli uomini, come se fossero dei bambini malati che avevano bisogno di particolari cure. A volte avevo la sensazione che lei considerasse gli uomini come dei menomati. All'epoca non sapevo che le veniva spontaneo farlo.

In silenzio, riprese il caffè dal tavolino, mi sorrise e poi tornò al suo posto.

Io rimasi a guardarla mentre si allontanava.

Ora posso valutare questi frangenti con il senno di poi, che si fonda sulla consapevolezza del passato e la conoscenza del futuro. Rivivendo quel momento adesso, mi sento un po' un chiaroveggente. Ma allora ero all'oscuro di ciò che sarebbe successo.

Vagliando il passato da questa panchina posso vedere come sia cambiata la mia vita, virando drasticamente in una certa direzione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 69

CAPITOLO DECIMO



Hamiyet credeva che Gesù fosse sepolto nella chiesa in cima alla collina. Diceva che certe notti vi vedeva un lampo di luce, ma la chiesa non veniva mai colpita dai fulmini. Era risaputo. Si racconta che una volta scoppiò un incendio che devastò gli uliveti sulla collina, ma si fermò a soli dieci metri. Poi ci fu una terribile alluvione, ma le acque si divisero in due appena prima del tempio e si incanalarono ai due lati.

«A volte vanno a scavare lì. Ma chiunque lo faccia finisce morto. Ne hai sentito parlare?».

«Ma in questo posto non si parla d'altro che di morte?».

Hamiyet fece un sorriso civettuolo.

«Certo, ma non posso dirti niente».

«Perché?».

«Perché...».

«Non capirei forse?».

«No, capiresti eccome... Anche troppo».

A volte pensavo che il mondo fosse come una gabbia a due posti, e quando un uomo e una donna stanno lì dentro si spogliano della maschera che indossano fuori, diventando persone completamente diverse.

Dall'esterno Hamiyet era una donna che parlava con i mobili e credeva in ogni genere di superstizione, una donna che viveva in un mondo tutto suo. Ma, quando restavamo da soli, lei cominciava a flirtare con me. Le veniva naturale. I suoi modi civettuoli erano così brillanti che non potevano non essere innati.

Anche se mi provocava apertamente, era sempre pronta a nascondersi dietro a doppi sensi. Probabilmente sentiva di potersi lasciare andare a certe libertà con me, di potersene fregare dei codici locali, perché io venivo dalla grande città.

In certi momenti mi scoprivo a guardarla con desiderio.

C'è da dire che ero il custode di un segreto che lei teneva nascosto al mondo intero, e questo cambiò la mia percezione di lei e il suo modo di flirtare con me.

Ero una delle tre persone al mondo che sapevano chi fosse o, meglio, cosa fosse, e ciò che aveva fatto.

Ma lei questo non lo avrebbe mai scoperto.

Apprendere il segreto di qualcuno senza che questi ne sia al corrente significa appropriarsi della sua anima: come accade con le bambole voodoo. Sapevo cosa c'era dietro a ogni sua parola, perciò ero in grado di manipolarla a mio piacimento.

Ma lei non aveva idea di ciò che facevo.

Hamiyet mi affascinava.

E io flirtavo con lei.

Mi chiedevo se, manipolandola, un giorno avrei raggiunto un'intimità tale che avrebbe condiviso con me il suo segreto. Il gioco sessuale a cui giocavamo segretamente serviva a questo scopo. Devo ammettere che, anche se non ne avessi avuto uno, mi sarei divertito lo stesso.

Da sempre ero un appassionato di questo genere di passatempi.

Tutto era un gioco per me.

Che cos'è la vita se uno non la prende come un gioco? Nient'altro che una noia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 78

Prima o poi qualcuno avrebbe intavolato l'argomento che tanto mi interessava. E infatti qualcuno lo fece.

A quel punto, un sorriso gentile in viso, domandai:

«Da dove viene la leggenda della chiesa sulla collina? Chi ha messo in giro questa storia secondo cui Gesù sia sepolto lassù?».

I poveri del posto credevano che Gesù fosse sepolto in quella chiesa, ma per i ricchi la storia era completamente diversa: vedevano soldi lì dove la povera gente vedeva sepolto Gesù. «Credo sia stato un generale romano» rispose Hamdullah Bey, proprietario di un famoso villaggio turistico appena fuori dal paese.

Poi ognuno dei presenti mi raccontò la propria versione della storia, ripartendo ognuno da dove l'ultima persona aveva terminato.

«Nei sotterranei c'è un profondo e complesso labirinto. Dopo che un generale romano di questa zona ci aveva sepolto i tesori dei pirati che aveva catturato al largo, per evitare che qualcuno trovasse il bottino decisero di costruire quella chiesetta, appunto, e misero in giro la voce che vi era sepolto Gesù».

«Bene, allora a chi appartiene?».

Non volò una mosca.

Rahmi rispose per tutti. Gli altri assunsero un'aria seria e solenne.

«Nessuno lo sa. Dicono che l'ultimo proprietario sia stato un pascià ottomano. Ma a chi appartenga adesso rimane un mistero. Gira voce che deve essere di qualcuno qui, che ha paura di uscire allo scoperto...».

«Perché mai dovrebbe avere paura?» chiesi io, interrompendolo.

«C'è un'enorme fortuna lassù, più di quanto si possa immaginare. Si può acquistare un paese intero con quei soldi... Un tesoro raccolto da centinaia di navi pirata. Non permetterebbero che finisca nelle mani di una sola persona. Quando si tratta di somme di una certa consistenza il denaro rappresenta un pericolo. Perciò il proprietario mantiene l'anonimato, e nel frattempo progetta come estrarre quel bottino. Oppure...».

«Oppure...» dissi, ripetendo le sue parole e poi aspettai che finisse la frase.

«Oppure i documenti sono andati persi quando è deceduto il pascià e l'atto della chiesa è finito nelle grinfie di un parente. Magari il maggiordomo poi l'ha lasciato in eredità ai suoi figli, tuttavia sicuramente è redatto in ottomano e, quindi, chi lo detiene non sa nemmeno cosa ci sia scritto... Sarà finito in qualche baule nella soffitta di qualcuno».

«Nessuno ha mai scavato in quel posto?».

«Bisognerebbe farlo in segreto, ma non è facile. È pieno di labirinti e pozzi profondi. E poi porta sfortuna scavare in un luogo del genere. Alcuni archeologi hanno ottenuto l'autorizzazione dal governo e ci hanno messo mano, ma alla fine sono morti tutti. Nessuno è rimasto vivo».

«Come sono morti?» domandai stupito.

«In un incidente stradale, annegati in mare, uccisi in una rissa».

«Ma allora come si spiegano queste morti?».

«Non lo so... Ma so per certo che l'intero paese ha delle mire su quella proprietà, e probabilmente non solo la gente del posto. Se qualcuno si avvicinasse a quella chiesa, lo saprebbero tutti nel giro di cinque minuti».

«Quindi è pericoloso andarci?».

«Be', non consiglio a nessuno di farlo... Le persone sono disposte a lasciare che il tesoro resti lì, ma non accettano che qualcuno possa impossessarsene. Chiunque si avvicini alla chiesa finirebbe per inimicarsi l'intero paese».

Poi, chissà perché, sentì la necessità di sottolineare nuovamente quanto aveva appena detto. Suonò come un avvertimento: «Tutti qui tengono d'occhio quel posto»; a un tratto tutti si voltarono a guardarmi. In quel momento compresi perché nessun forestiero vivesse lì: erano andati tutti in paranoia a causa di una voce che risaliva a cento anni addietro. Si vedevano l'un l'altro come predatori di tesori, perciò ogni nuovo arrivato veniva trattato con una certa ostilità.

Erano tutti in cerca di quell'atto di proprietà, non c'erano dubbi: a questo scopo conducevano ricerche in incognita, arruolavano elementi delle bande locali come spie e si sorvegliavano a vicenda. I nuovi arrivati alla fine si trovavano costretti ad andarsene e, in caso contrario, restavano puntualmente vittime di incidenti.

Questa ricerca continua del tesoro, alla fine, era diventata un modus vivendi. Erano tutti disposti a lasciare il tesoro intatto, ma non erano disposti a permettere che qualcuno ci mettesse le mani, come aveva detto Rahmi. In quella cittadina già solo pensare una cosa del genere significava essere disposti a morire.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 112

Il nostro rapporto era fatto solo di parole su uno schermo dettate dalle nostre fantasie.

E lì eravamo così intimi.

Nella vita reale, invece, la nostra relazione non aveva un'identità. Ero all'oscuro di ciò che le accadeva oltre quello schermo, se non era lei a raccontarmelo. Mi stava nascondendo tante cose e di questo ne ero consapevole. Mi teneva nascosto alle persone che popolavano la sua vita, quella vera.

Per lei ero un fantasma.

Ero solo parole su uno schermo illuminato a tarda notte.

Non eravamo altro che parole, l'uno per l'altra.

Ora eravamo entrambi preoccupati che la realtà non sarebbe stata emozionante quanto quelle parole.

Condividevamo una vita, che era fatta di messaggi, e temevamo di mettere in pericolo il mondo virtuale, mescolandolo con quello reale. A essere franchi, forse desideravamo solo restare lì, davanti a quello schermo.

Ma eravamo curiosi entrambi.

Volevamo sapere se un uomo e una donna, quando si toccano, provano lo stesso piacere fisico, la stessa emozione e passione, di quando lo fanno a parole.

Il mondo creato nella nostra immaginazione si sarebbe trovato faccia a faccia con l'altro: quello dei nostri sensi.

Eravamo convinti che il mondo della nostra mente avrebbe potuto essere migliore di quello dei nostri sensi.

Sarebbe stato più piacevole pensare di toccare la coscia di una donna o toccarla veramente?

Quando possiamo attingere all'esperienza dei cinque sensi parliamo di realtà, ma allora che emozioni erano quelle dettate dalle parole sullo schermo?

Se ciò che non potevamo vedere, gustare, toccare, sentire o odorare non era reale, allora come avremmo spiegato quelle notti estatiche traboccanti di piacere selvaggio? Prima dell'avvento dello schermo le nostre vite erano segnate dai pensieri e dalle percezioni, che si influenzavano reciprocamente, ma poi il computer è riuscito a separare la mente dai sensi e ora per noi era arrivato il momento di vedere quale dei due fosse più forte, più vero.

Sentivamo di poterci fidare della nostra immaginazione, più che dei nostri sensi.

La vita che avevamo creato nella nostra mente era perfetta.

Avevamo svuotato la nostra vita "vera" di tutto ciò che fosse in eccesso, che non andasse o fosse sgradevole e ce n'eravamo costruiti una impeccabile.

Avremmo potuto creare la stessa perfezione vivendo i nostri sensi?

I nostri pensieri e i nostri sensi avrebbero potuto scontrarsi brutalmente o venire a un accordo sorprendente.

Era una diatriba che aveva confuso gli esseri umani per secoli: la mente era più determinante del corpo, o il corpo era più determinante della mente? Questo dibattito si sarebbe concluso nella camera da letto di un albergo in montagna.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 132

CAPITOLO DICIASSETTESIMO



Vuoi sapere come mi sento quando sono con te... lo so, penserai che esagero... e forse è vero... non lo so... so che non mi fraintenderai e non sarai capace di arrabbiarti per ciò che dico o faccio... mi fido ciecamente di te... e questo dà un incredibile senso di libertà, oltre che la forza di rivelare i propri segreti... è una bella sensazione... è un po' la stessa che provo nel mio rapporto con dio... so che capirà le mie scelte e mi perdonerà... solo con voi due provo questa sensazione... è strano».

Rientrando a tarda ora dopo esser stato a casa di Mustafa, trovai Zuhal che mi aspettava online. Voleva parlare della sera prima. Tornare in quel mondo fatto solo di noi, il nostro mondo, intriso di reale e di irreale, avrebbe reso felice anche me. Ero caduto nella tana del Bianconiglio e mi ero ritrovato in un universo fantastico che era solo nostro.

«quando faccio l'amore con te provo delle emozioni incredibili... » continuò, «una parte di me si stacca e si unisce a te... io non so quello che provi tu... e nemmeno se provi qualcosa... a volte ho paura... temo che quella parte di me che si arrende a te potrebbe non tornare... non voglio che tu pensi che io stia esagerando... questo è diverso dal fare l'amore con l'uomo di cui sono innamorata... è come cambiare le leggi della natura... oppure è una cosa che non ho mai provato prima... forse altri si sentono allo stesso modo... non sto parlando della soddisfazione sessuale... di quella ce n'è tanta... io mi riferisco a qualcos'altro... durante l'orgasmo provo una sensazione completamente diversa... ti amo, sono la tua donna, ti genero, sono figlia tua, tu sei mio, io sono tua, poi tutto si fa confuso e qualcosa cambia collocazione.... oh, ti prego, dimmi che mi capisci, altrimenti comincerò a pensare che sto impazzendo...».

Capivo quello che mi stava dicendo, perché era la stessa cosa che provavo io.

«noi non facciamo solo l'amore...» cominciai a scrivere, «noi cambiamo anche la nostra identità, la nostra personalità... in un certo senso raggiungiamo una libertà introvabile in qualunque altro angolo di mondo... qualcosa dentro si spacca ed emerge un'altra persona... una persona che non appartiene a nessuno... una persona la cui esistenza dipende dall'altro, consapevole che non potrebbe vivere senza l'altro... solo quando noi stiamo insieme questi aspetti di noi emergono... ma questo crea una profonda dipendenza... noi abbiamo bisogno l'uno dell'altra per sperimentare questa "spaccatura"... e, in un certo senso, è solo in determinati momenti e situazioni che le persone vivono un particolare tipo di amore... è il momento della nascita... intriso di attaccamento e dipendenza di un bambino nei confronti della madre... e di amore... è un'altra vita che corre parallela alla vita reale... è un altro amore che vive parallelo a quello reale... i suoi tratti si definiscono con l'amore fisico, ma quando l'atto finisce non scompare, si va solo a nascondere... la sua presenza, però, si avverte... quel legame ci trasforma in tante cose diverse: una donna, un uomo, una madre, un bambino, un padre, un'amante... diventiamo tanti e questo rende difficile per noi separarci...».

| << |  <  |