Copertina
Autore Alon Altaras
Titolo Il vestito nero di Odelia
EdizioneVoland, Roma, 2005, intrecci 41 , pag. 234, cop.fle., dim. 145x205x14 mm , Isbn 978-88-88700-49-6
OriginaleHaSimalah HaShorah shel Odelia [2002]
TraduttoreAlessandra Shomroni
LettoreAngela Razzini, 2005
Classe narrativa israeliana
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Ricordo con molta chiarezza il primo incontro con Odelia, quasi ne avessi dato testimonianza a un investigatore della polizia. Era il novembre del 1994. Un suo professore universitario le aveva consigliato di rivolgersi a me. Mi hanno detto che lei mi può aiutare, esordì al telefono. Cercai di scoprire di cosa trattasse la tesi che doveva scrivere ma rispose senza preamboli, verrò a casa sua domenica, se permette. Preferirei spiegarle la cosa di persona. Il suo ebraico un po' affettato mi divertì. Lei, all'altro capo del filo, percepì il mio sorriso e partì all'attacco. Domenica prossima, ripeté. Accettai. Non avevo scelta.

Arrivò puntuale all'ora fissata. Le otto di sera. Pallida e bella, con un trucco pesante, inadatto a una ragazza della sua età. Quando mi vide sulla soglia assunse l'espressione di chi si aspetta di vedere un altro — più giovane, o più vecchio — e invece si ritrova davanti un uomo del tutto diverso da come lo aveva immaginato. Prego, entri la invitai in soggiorno. Entrò, girò lo sguardo sulla grande stanza e si sedette in una delle due poltrone verdi che vi troneggiavano. Mi accomodai di fronte a lei e la osservai. Era magra, in modo quasi esagerato, i capelli castani le ricadevano sul viso e sugli occhi e lei li scostava ripetutamente con gesti nervosi e irrequieti. Amir, mi presentai. Lei mi tese la mano fiacca e ossuta e strinse la mia. Odelia, rispose con una lentezza indolente che non lasciava intuire la domanda dal tono pratico che seguì:

"Vuole sapere l'argomento della mia tesi?"

"Certo, ritengo che sia venuta per questo."

"Sì, naturalmente. Sto conducendo una piccola ricerca sulle città poetiche."

"Le città poetiche?" esclamai sorpreso. "Cosa sono?"

Probabilmente Odelia si aspettava la domanda. Un sorriso dolce le si allargò sul viso, scoprendo piccoli denti.

"Sono città alle quali sono state dedicate molte poesie e racconti, come Venezia o Tel Aviv. Dovrei condurre una ricerca su quanto è stato scritto in epoche diverse. Se la loro rappresentazione letteraria è mutata nel corso degli anni."

Non capii perché l'esimio professore dell'Università di Haifa, che non conoscevo nemmeno di nome, le avesse consigliato di rivolgersi proprio a me. Ma non mi interessava. Era lei a interessarmi in quella sera lontana. Eccola lì, seduta davanti a me, in attesa dell'aiuto di un esperto. Mi sentivo a disagio. "Non credo di poterla aiutare" dissi alzandomi e cercando di nascondere l'imbarazzo. "L'unico mio articolo che forse ha qualcosa a che fare con il suo argomento tratta di Roma nella cinematografia di Fellini e Pasolini." Lo avevo pubblicato per puro divertimento. Io ero specializzato in storia della pedagogia italiana.

"Conosco l'articolo. Si intitola La delicata carne delle città. Di quanto ha scritto è l'unico che mi interessa" disse subito Odelia.

In momenti come quelli c'era in lei una miscela seduttrice di praticità e dolcezza.

"E su quali città ha intenzione di indagare?" la mia curiosità si era risvegliata, lei lo notò.

"Su Venezia e Tel Aviv," rispose, come se ritenesse che lo avessi già capito.

"Perché proprio Venezia e Tel Aviv e non, per esempio, Vienna e Gerusalemme?" domandai, divertito dalla scelta di due città che non avevano nulla in comune.

"Mio padre è di Venezia, e anche mia madre è nata in un paese poco distante. Io sono nata qui, a Tel Aviv."

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"Quando avevo sedici anni andammo a Venezia a festeggiare la Pasqua ebraica. Papà faceva coincidere le sue ferie con le vacanze scolastiche perché potessimo andare con lui anche noi. Quella volta venne anche Shoshana. 'Il giorno di Pasqua lo si deve passare in famiglia' disse lei. 'La Pasqua non è come le vacanze estive, quando potete andare da soli e mangiare tutte le vostre porcherie non kasher nell'osteria di Boldrin'."

Arrivammo due settimane prima della festa e la mamma evitava i frutti di mare e la carne di maiale. Papà, invece, divorava tutto quello che gli saltava in mente, soprattutto cose che aveva apprezzato in gioventù. Mamma Shoshana rimaneva esterrefatta da quello che era capace di ingoiare l'uomo con cui viveva da quasi dieci anni. 'A casa mangia l'insalata che gli preparo,' si lamentava 'la pasta al sugo di pomodoro, le cotolette, il purè e i peperoni ripieni e dice grazie Shoshana, non c'è niente al mondo come il tuo cibo. E adesso capisco che sono solo frottole. Si rimpinza di ogni sorta di calamari, gamberetti, polipi dai mille tentacoli che vivono nelle acque puzzolenti della laguna e se li gode come un pazzo'. Ogni volta che mamma Shoshana andava a Venezia con mio padre scopriva che in quella città il suo Meir aveva una vita propria.

Un giorno, credo che fosse una settimana prima della tradizionale cena pasquale, Anthony mi portò in segreto una lettera in italiano e me la tradusse in inglese. Le zie Renata e Adriana invitavano me e Avshalom ad andare a Trieste e ci promettevano una sorpresa speciale. Raccontai ad Avshalom della lettera ma a quanto pare Anthony gliel'aveva già mostrata. Lui fu entusiasta per la proposta delle zie."

"Perché? Era particolarmente affezionato a loro?"

Odelia parlava con emozione:

"Sì, ma non era quello il motivo principale del suo entusiasmo, bensì un altro: in quel periodo tutto quello che imbestialiva papà rendeva felice Avshalom."

"Diceste a vostra madre che andavate dalle zie?"

"Sai, Amir, a volte penso proprio che tu sia un idiota. Ti racconto la mia vita e tu reagisci come un militare. Cosa avrei dovuto dire a Shoshana? Ciao, mamma cara, noi andiamo dalle sorelle della mamma precedente? Avevo nascosto così bene persino le foto di mia madre che anche se lei avesse messo a soqquadro la casa non le avrebbe mai trovate."

Odelia aveva ragione. Durante tutte quelle notti in cui mi aveva parlato della sua vita l'avevo interrotta con domande senza senso. E non avevo raccontato niente di me. Non avevo accennato alla mia prima moglie, al mio divorzio e ai miei amori occasionali dopo la separazione.

"Renata e Adriana sono divorziate. Renata, la più magra, è stata sposata per qualche anno con un ammiraglio che prestava servizio nella marina italiana. Lui le ha lasciato l'appartamento a Trieste. Adriana era sposata con un dirigente della Illy, una fabbrica di caffè. Lo ha lasciato per un amante grasso, che aveva una grossa Ducati, una di quelle moto che fanno colpo. Anche Adriana la guidava, senza patente, lasciando a bocca aperta tutte le vecchiette di Trieste. Renata raccontava sempre con orgoglio della carriera di centauro di Adriana. Non era una leggenda, come avevo pensato un tempo, ma la pura verità. Mi divertiva pensare alla mia zia cicciotella con casco e guanti da motociclista che sfrecciava negli stretti vicoli di quella strana città. Non sarei riuscita a far salire mamma Shoshana su una moto nemmeno se l'avessi minacciata con una pistola.

Arrivammo a Trieste verso mezzogiorno. Le zie ci aspettavano alla stazione. Renata aveva portato con sé persino Krissi, la sua cagnetta. Un minuscolo barboncino bianco sempre avvolto in un cappottino che ogni inverno Renata confezionava a maglia. Era un grande onore vedere Krissi fuori casa."

"Vedere un cane a passeggio per strada non è una gran cosa" puntualizzai.

"Per Renata e Krissi trovarsi lì rappresentava un evento eccezionale," mi spiegò Odelia "mia zia odia camminare. Persino gli Champs Elisée sono per lei un luogo volgare. Si sposta sempre in taxi, anche per fare solo poche centinaia di metri."

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Il giorno seguente mi recai al mio studio all'università per cercare la fotografia e la trovai in un cassetto, nascosta fra le pagine del mio vecchio articolo La delicata carne delle città. Un posto strano per conservare una foto come quella. Non ricordavo di averla messa lì, con le mie stesse mani. Tornai a guardarla. Ora mi appariva insignificante. Ha perso ogni attrattiva, pensai, eppure i miei occhi si fissarono sui cinque matti con le ceste di verdura. Mi sentii avvampare le orecchie al ricordo della voce suadente di Avshalom e chiusi gli occhi. "Li ho seguiti quando sono scesi dalla barca e hanno bussato alla porta del vicino... Lui ha aperto con un gran sorriso... È stato molto bello." Dovevo restituire la foto a Odelia, il suo posto non era in questa stanza, in mano mia. Non sapevo dove avrei potuto nasconderla a casa nostra e inorridii al pensiero che Odelia potesse trovarla prima che avessi l'opportunità di ridargliela.

Andai a controllare la cassetta della posta, per vedere se gli studenti avevano consegnato le prime stesure delle loro tesine. Il semestre era agli sgoccioli, io ero spesso assente e non c'era nessuno che li seguisse in quei lavori. Durante le lezioni, quelle che non avevo cancellato con ogni genere di stupido pretesto, avevo dedicato solo poche frasi all'argomento, incoraggiando i ragazzi a infilare nella mia cassetta i loro elaborati, o solo una traccia, qualsiasi cosa che mi avrebbe permesso di guadagnare tempo senza essere costretto a cominciare fin da dicembre a incontrarmi con ciascuno di loro. Aprii la cassetta, stracolma di volantini pubblicitari su computer portatili e di elaborati degli studenti solleciti, e tra tutte quelle carte trovai anche un trascurabile invito a un convegno sul tema "Letteratura e Pedagogia" che si sarebbe tenuto a Roma. Mi balenò un'idea che mi era venuta già il giorno prima, quando Sarit era a casa nostra. Certo, il termine d'invio delle proposte di intervento al convegno era scaduto da tempo, ma conoscevo gli organizzatori da quando ero studente. Spedirò per e-mail una sintesi della mia conferenza e chiederò che mi invitino. Sarebbe un'occasione per andare con Odelia in una città davvero poetica. Un noioso convegno sarà il prezzo per godere le bellezze di Roma per tre giorni. Porterò con me la fotografia di Avshalom e nella trattoria di Pasquale, dopo un bicchiere di vino o due, la consegnerò a Odelia come un omaggio cavalleresco. Quell'evento virtuale si trasformò nella mia mente in una solenne opportunità, condita da un romanticismo dolciastro da amanti di cui finora il mio rapporto con Odelia era stato privo. La sera stessa le avrei proposto di accompagnarmi nel viaggio. Non ero sicuro che ne sarebbe stata felice. Dopo tutto, appena il giorno prima. era uscita di casa da sola per la prima volta.

Con mia sorpresa Odelia accettò l'idea del viaggio senza battere ciglio. Cioè, domandò solo che ci limitassimo a rimanere a Roma e che io, vista la mia curiosità malata, come definì l'interesse da me mostrato per le vicende del suo passato, non le proponessi di recarci a Venezia dalle zie. È un convegno breve, la tranquillizzai e le tue zie le ho dimenticate da tempo. La gente che incontro per caso nei cimiteri non mi risulta facilmente simpatica. A Odelia quella punzecchiatura non piacque. "Le persone a cui voglio bene si trovano nei cimiteri," disse, "quindi attento a come parli." La frase mi sembrò eccessivamente severa, inadeguata alla mia battuta insulsa e priva di malignità. Ma dalla sua reazione capii quello che in seguiro fui costretto a riconoscere: avremmo fatto meglio a tenerci lontano da Venezia.

La mia partecipazione al convegno venne ben presto approvata. La sintesi dell'intervento si basava su un mio articolo scritto in ebraico, Da Pinocchio a Berlusconi. Tutto quello che mi restava da fare era tradurlo in italiano prima della partenza. Avevo tre settimane di tempo per abituarmi all'idea che Odelia sarebbe venuta con me nella città, dove era andato in fumo il mio primo matrimonio. Eppure nessuna angoscia minava la magia esercitata su di me da quella città. Le prime volte che ero tornato a Roma dopo la separazione sentii che non avrei più potuto rimettere piede nei luoghi in cui ero stato con mia moglie: i ristoranti, i laghi nei dintorni della città come il piccolo specchio d'acqua di Martignano sulle cui sponde avevamo gustato pesce e fiori di zucca fritti in un'assolata giornata di marzo. Quei ricordi che negli anni passati, prima della comparsa di Odelia nella mia vita, mi avevano talvolta trafitto il cuore, ora mutavano colore e pensai anche alla possibilità di prolungare la nostra permanenza di un giorno o due per recarci a uno di quei laghi. Io per scacciare i fantasmi del passato e Odelia per scoprire le bellezze di Roma e dintorni.

Tradussi lentamente l'articolo, mezza pagina al giorno, come se quell'attività mi aiutasse a preparami al viaggio. In quei giorni Odelia si incontrava spesso con Sarit, mentre trascurava Ronit, la sua amica dei momenti difficili, tenendola lontana dalla sua nuova conoscente. Badava a non farle incontrare, questo lo notai persino io. Più di una volta, quando Ronit telefonava a casa nostra e chiedeva di Odelia, appariva sorpresa nell'apprendere che era uscita. Mi aveva detto che sarebbe rimasta a casa per aiutarti a preparare una nuova conferenza, diceva sbalordita, e io ingoiavo un sorriso e replicavo che Odelia, a suo modo, mi aiutava sempre, ma in quel momento non era in casa, nonostante io desiderassi moltissimo averla sempre accanto a me. Non faticavo a immaginare il motivo della separazione fra le due: Sarit e Ronit insieme sapevano più cose di lei di quanto Odelia potesse sopportare.

[...]

Alla stazione dei taxi quasi non c'erano macchine. Una coppia di turisti americani stava discutendo con il proprietario dell'unico taxi presente, probabilmente convinti di essere caduti nelle mani di un abusivo, uno di quelli da cui la loro guida li metteva in guardia. Sfruttai l'occasione e proposi in italiano al tassista di lasciar perdere la discussione e di portarci all'Hotel Celio, situato proprio di fronte alla trattoria di Pasquale. Soggiornare vicino a quella trattoria era stato un mio vecchio sogno e desideravo realizzarlo con Odelia, nella speranza di trasformare quel luogo in un sogno anche per lei. Nel 1989, quando ero studente, avevo vinto una borsa di studio che mi aveva permesso di trascorrere un anno all'Università di Roma. Nei miei primi giorni in città avevo gironzolato in compagnia di una ragazza israeliana che lavorava all'ambasciata. Eravamo capitati alla trattoria di Pasquale per caso, dopo aver camminato dalle terme di Caracalla fino alla zona del Celio, alle spalle del Colosseo. Lì avevo mangiato per la prima volta le bruschette, le spesse fette di pane condite con aglio e olio di oliva. Su una di esse, che Pasquale aveva chiamato alla 'Siciliana', erano adagiate fette di melanzana e peperoncino rosso piccante, su un'altra era spalmato un generoso strato di paté di olive nere, mentre su una terza c'era una salsa verde-grigiastra di carciofi. Quella pietanza semplice, servita in tre varietà, mi piacque subito.

E quando andai ad abitare nel quartiere di San Paolo, subito dopo il ponte in fondo a viale Marconi, ero solito sottopormi con gioia ogni giorno a un viaggio di venti minuti in metropolitana fino alla fermata del Colosseo. Me lo vedevo davanti, fuligginoso ed esausto per le visite dei turisti, e giravo immediatamente a sinistra come se quella grande arena in cui gladiatori con spade di plastica e sandali si facevano fotografare in compagnia di bassi turisti giapponesi dall'ampio sorriso, fosse solo un ornamento lungo la strada che conduceva al locale di Pasquale. Soltanto al termine di un pranzo secondo tutti i crismi, senza rinunciare a nessuna portata — a cominciare dagli antipasti per finire con una macedonia fresca con una pallina di gelato alla vaniglia — proseguivo, un po' ubriaco, verso la Biblioteca Nazionale, alla fermata di Castro Pretorio, dove rimanevo a leggere fino a sera.

Il taxi viaggiava veloce in direzione del centro e io e Odelia tacevamo. Quella mattina non mi andava di condividere con lei i miei ricordi di studente e mi chiesi dove vagasse il suo pensiero in quel momento. Forse a Venezia, nella camera di Bruno, il maledetto dentista, all'Hotel Belle Arti. Che sarà se i ricordi di quel viaggio la assaliranno trasformando questi pochi giorni in un doppione della nostra vita in via Alyat HaNoar? Siamo arrivati, signori, disse il tassista. L'Hotel Celio mi stava davanti, basso e accogliente, avvolto dai rampicanti. Odelia lasciò vagare lo sguardo al di là del finestrino. "Tutto qui?" domandò. "Non c'è altro?"

"Scendi," dissi offeso, "e non parlare di un posto prima di avervi messo piede. Vedrai che non ti pentirai di essere venuta."

"Va bene, Amir, va bene. Non essere tanto preoccupato. Sono contenta che siamo qui."

"Davvero?" faticavo a nascondere il buonumore che quella frase mi aveva causato, ma la mia gioia era prematura.

"Porta le valigie in camera e lasciami dormire qualche ora. Non vorrai che mi addormenti durante il tuo intervento?"

"La conferenza comincia solo domani," le gridai dietro, ma lei era già sparita nella hall dell'albergo.

Mentre Odelia si riposava in camera io attraversai la strada per prenotare da Pasquale il tavolo accanto alla finestra, da cui si vedeva il lungo bancone delle pietanze del giorno. Lanciai uno sguardo all'orologio e cercai di programmare il resto della giornata. Erano le undici, Odelia si sarebbe svegliata verso l'una, l'avrei portata al caffè San Callisto, a prendere un Campari e una granita al caffè e poi saremmo tornati in camera, avrei tentato di convincerla a far l'amore e se lei si fosse rifiutata avrei letto il mio intervento in italiano, mentre lei poteva uscire a gironzolare come una turista in quella città che non era mai stata meta dei suoi viaggi giovanili, ma sempre e solo un luogo di transito, una sosta prima di arrivare a Venezia. Venite alle otto, mi disse il figlio di Pasquale, e io risposi d'accordo, Salvatore, alle otto va benissimo.

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