Copertina
Autore Elisabetta Ambrosi
Titolo Inconscio ladro!
SottotitoloMalefatte degli psicanalisti
EdizioneLa Lepre, Roma, 2010, I Saggi , pag. 190, cop.fle., dim. 13,5x21x1,4 cm , Isbn 978-88-96052-28-0
PrefazioneEmilia Furbini, Marta Tibaldi
LettoreGiorgia Pezzali, 2011
Classe psicanalisi
PrimaPagina


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Indice


  7 Prefazione di Emilia Furbini
 19 Perché questo libro


    CHI BEN COMINCIA...

 25 In cerca di un terapeuta
 29 Le regole, tutela per chi?
 37 Poche, tante, troppe parole


    I NEOCON DELLA PSICHE

    Calvinismo
 45 Qui si lavora
 49 Ragione e sentimento
 53 La condanna delle passioni
 57 Sesso, questo sconosciuto

    In difesa dello status quo
 63 Primo comandamento: non agire!
 67 Il culto del limite
 71 Analiste madri e pazienti bambini

    Bentornata colpa
 75 "Tutto dipende da lei"
 79 I neovolontaristi
 83 Moralismo di ritorno

    Come una religione
 87 Il dogma dell'infallibilità
 91 L'impossibile indipendenza
 95 Convertire gli altri
 97 "Se mi lasci sei perduto"


    LA TEORIA CHE NON TIENE

    Robotica
105 Inconscio buono, coscienza cattiva
109 Il magico mondo dei meccanismi
113 La furia dello scavo e il passato che non passa

    Soggettivismi
119 Proiezioni
123 La realtà perduta
127 Qui il caso non esiste
131 Qui il mondo non esiste

    Anima o corpo?
137 Psicosomatica
141 Sintomi, che noia
145 Una TAC dell'anima?


    "OGGI FINIAMO"

149 L'ultima seduta
153 Quando l'analisi fallisce
157 Il mito di una vita senza macchia


    CONCLUSIONI
163 Alla ricerca dell'analista perfetto?


165 Postfazione di Marta Tibaldi
187 Note


 

 

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Pagina 9

Prefazione
di Emilia Furbini



Da un luogo segreto e protetto, vi giunga il grido di dolore e di protesta di un'analista freudiana che ama il suo lavoro, crede profondamente nella psicanalisi e rispetta i suoi pazienti!

Sì, mi sono nascosta qui, perché Elisabetta, l'Autrice, che mi si avvicinò un giorno, sorridente e ingannevole, non mi trovi. Almeno fino al momento in cui questa prefazione sarà pubblicata e solo allora, tutti gli analisti freudiani al mio segnale "scateneranno l'inferno"!!!

Vi avverto, amo le citazioni da film, e me ne ricordo tantissime, alcune anche sbagliate e che non fanno tanto ridere, ma non m'importa. Altrimenti potevate chiedere la prefazione a Totti.

Me la batto con Umberto Eco e soprattutto con mio padre, che mi ha reso la vita impossibile, in senso buono, parlando come i fratelli Grimm quando ero piccolissima, come Filottete e Orazio quando facevo il liceo e come Ippocrate all'università.

Sono noiosa? Per me è già un successo non trasformarmi continuamente come Woody Allen in Zelig, e questa stabilità emotiva, tanto per dirne una, la devo alla mia analisi.

Un'esperienza così bella, vissuta intensamente, con serietà e determinazione, tanto utile per me e per quello che sarebbe diventato il mio lavoro: ascoltare gli altri, accogliere le loro sofferenze, mantenere la giusta distanza, cercare insieme nel passato i sintomi del presente, stabilire i nessi, scorgere lentamente un cambiamento, separarsi.

Coretta, la mia saggia tata di Alatri, a proposito dell'opportunità di fare un'analisi o no (non sono certa che ne capisse il significato profondo, mi ha vista, però, ogni giorno, per sei anni, alzarmi precipitosamente da tavola e correre dall'altra parte di Roma per andare dall'analista), pronunciò un bel giorno una frase spesso ripetuta negli anni: "Dottore', io non so si te fa bene o no, ma metticela e toglicela!!!".

Quale profonda verità, quale crogiuolo di sensibilità si celava dietro quella affermazione!

Chissà, se l'Autrice avesse conosciuto Coretta, invece di scrivere questo libro, sarebbe andata in pellegrinaggio a Vienna facendo le scale dello studio di Freud a ginocchioni. Ma così non è stato.

Tutta questa energia demolitrice verso l'analisi e gli analisti non scaturisce da una forza ritrovata? (attentaaaa, stai interpretandoooo, lei non ci sopporta, ci cerca, ma non ci vuole, fa parte del tuo lavoro, datti pace, accettalo...).

Forse avrei fatto bene ad ascoltare la mia cara mamma, di origini meridionali, che diceva: "Pissichiatria, pissicoanalisi, pissicoterapia! Perché non hai fatto qualcosa che io sapessi pronunciare bene, chessò ingegneria aerospaziale o fisica quantistica?".

Io andavo avanti, adamantina e inconscia, studiando e formandomi, in ogni luogo deputato e in ogni momento possibile, con grande ottimismo. Per poi imbattermi in un libro che descrive l'analista freudiano con l' insight del Divino Otelma, l'etica di Vanna Marchi, le movenze di Mister Bean e l'intelligenza di Ace Ventura?

La mia risposta a tutto questo è la stessa che Walter Matthau, medico ortopedico, dà a Jack Lemmon che gli contesta il referto di una radiografia: "Non porto questo camice perché faccio il macellaio!".

Vi cominciate a chiedere che razza di prefazione sia la mia? Perché non contesto capitolo per capitolo, argomento per argomento, rigo per rigo, il lavoro di Elisabetta, con rigore scientifico, dando voce ad autorevoli colleghi che hanno scritto la storia della psicanalisi, lottando, a volte in solitudine, non andando a vedere cinepanettoni e non leggendo «Vanity Fair», senza fare sei ore di spinning a settimana, senza comprarsi un SUV, e senza andare a Sharm... per anni e anni della loro vita?

Non lo faccio perché la prefazione diventerebbe un barboso trattatello psicoanalitico e rovinerebbe la malvagia freschezza con cui l'Autrice si avventa sulle metapsichiche giugulari dei freudiani come Edward Cullen (il vampiro di Twilight, sì so anche questo!) su di un grizzly.

Elisabetta, reduce da sfortunatissimi incontri analitici, ci descrive come mostri normativi pieni di fisime e di psicopatologie, ma ammette, sommessamente, che non siamo tutti uguali!

Preferisco rispondere a questa affermazione come Russel Crowe in Robin Hood: "Non so da dove vengo, so solo dove sono stato" (scusate, ma questa frase era troppo bella per perdersi in pochi fotogrammi, forse non si attaglia perfettamente alla difesa degli psicanalisti tutti, ma, d'altronde, perché difendersi seriamente, se le accuse sono così... dissolvenza...).

È stata una grande emozione arrivare alla fine del lavoro, gongolando vistosamente, dopo aver segnato a margine tutte le obiezioni da fare, per scoprire poi che le note superavano il numero delle pagine scritte!

Rinunciare, per esempio, a parlare di "resistenze" profonde come le grotte di Postumia e di "difese" solide come il caveau della Swiss Bank è stato difficile, ma ce l'ho fatta. Anche perché la Nostra, in una paginetta finale, ci avverte che sì, forse sta cercando qualcuno che non esiste e, invece di dedicarsi ad altro, si augura che l'analisi cambi e che cambino anche gli analisti (li vorrebbe più flessibili e più ecumenici... ma io sono della SPI non del PD!). Ma cambiare un po' lei no, eh?

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Pagina 19

Perché questo libro



Un tempo, durante i primi anni del mio innamoramento analitico, mi chiedevo: "Come ha fatto il genere umano a cavarsela per tanti secoli senza la psicanalisi?". Me lo chiedevo con lo stesso sbigottimento di quando pensavo che fino al Settecento sulle tavole italiane non c'era il pomodoro, alimento senza il quale mi sembra impossibile vivere.

Oggi invece, mentre continuo a interrogarmi su come l'umanità sia potuta andare avanti fino alla Rivoluzione Francese senza caprese e spaghetti al sugo, mi domando invece se si possa essere felici nonostante la psicanalisi, quando questa si tramuta in un male peggiore dei sintomi che intende curare.


Le ragioni del fallimento della psicanalisi, che nonostante l'irresistibile avanzata del cognitivismo e delle neuroscienze è ancora in voga nella nostra società, sono tantissime e di varia natura.

Da un lato, l'eccesso di razionalismo dei terapeuti (simili, in questo sì, ai loro avversari scienziati), dall'altro la pretesa di poter spiegare ogni dettaglio, l'illusione — che ha davvero del magico — di poter controllare l'intera vita psichica del paziente. Questa ambizione maniacale non solo impedisce un vero abbandono psicologico della persona in cura, condizione necessaria per una terapia, ma produce anche una grande confusione in chi, steso sul lettino, sente che il proprio inconscio viene sistematicamente sminuzzato ma non riesce a comprendere il reale senso di tutto quel gran lavoro di cucina. E soprattutto, come ciò sia collegato alla sua vita vigile e ai suoi desideri coscienti.

Il tentativo di "riordinare" a tutti i costi, quasi nevroticamente, la vita interiore di un paziente si accompagna talvolta, curiosamente, a una sibillina oscurità linguistica e alcune interpretazioni, audaci se non addirittura dubbie, restano nella zona d'ombra dell'indimostrabilità.

Nella girandola di proiezioni e contro proiezioni che caratterizza il rapporto analitico, si finisce per perdere di vista la realtà, interna ed esterna, che spesso sta lì mite, silenziosa eppure evidente nella sua tangibile e concreta verità.

In breve: razionalizzazione feroce per un verso e ingarbugliamento epistemologico per l'altro possono convivere (infelicemente) nella pratica analitica, in una miscela di cartesianesimo e occultismo, soggettivismo esasperato e oggettivismo esasperante, che dà letteralmente alla testa.

Oltre che sottolineare alcune contraddizioni teoriche, questo libro vuole mettere in discussione ciò che parte della psicanalisi è diventata, al di là della dottrina: una vera e propria chiesa, anzi un insieme di chiese chiuse che si detestano tra loro e utilizzano con i loro pazienti gli stessi metodi delle religioni dogmatiche, tra i quali il più drastico è quello, trasmesso al paziente fin dal primo latte, secondo cui al di fuori della terapia non c'è salvezza, un articolo di fede non dissimile dal famoso monito cristiano: extra Ecclesiam nulla salus.

Da questa concezione della terapia proviene quello che mi sembra essere il vero tallone d'Achille delle psicanalisi: il problema della dipendenza, o in altre parole tutte quelle tragiche contraddizioni che nascono da un conflitto di intenti: pur affermando solennemente che la terapia ha come fine l'autonomia del paziente, a quest'ultimo viene costantemente ripetuto che senza di essa la sua vita sarebbe priva di senso e piena di desolazione, con l'ovvio risultato che la via verso l'emancipazione e la guarigione appare spesso accidentata, se non impossibile.

Inconscio ladro! nasce dall'esperienza vissuta, non da riflessioni teoriche, e per questo potrebbe essere accusato di parzialità. "Tu ti limiti a raccontare le tue tragicomiche avventure. Però non tutta la psicanalisi è così". C'è del vero in questa affermazione. Tuttavia le pagine che seguono sono nate dalla convinzione che anche un'esperienza fatta sulla propria pelle abbia tutte le carte in regola – forse più di alcuni saggi sistematici e asettici – per cogliere i veri punti deboli di una teoria e di una pratica da sempre controverse. Chiunque, paziente, ex paziente o semplice appassionato di psicologia, ritroverà in queste pagine la memoria di innumerevoli sedute inutili o addirittura dannose, a prescindere dalle diverse scuole e terapie analitiche.


Dedico questo libro a tutte quelle persone che angosciate o addirittura disperate si sono rivolte a un medico dell'anima e non sono riuscite a risolvere i loro problemi, anzi a volte li hanno visti peggiorare. Ma il libro è rivolto soprattutto – proprio come un'ex fidanzata si rivolgerebbe al suo antico amante – ai terapeuti di ogni (analitica) bandiera.

Non a caso tra le righe si avvertirà una certa ottocentesca nostalgia per un rapporto terapeutico un po' romantico, in cui curiosità e attrazione siano accompagnate da pudore e prudenza, in cui il corteggiamento si trasformi lentamente in un solido rapporto amoroso, fatto di ragione e sentimenti, pensieri e passioni. Un rapporto dialettico che non finisca per uccidere il reciproco desiderio nella routine della cura.


Sono due, in particolare, gli inviti che vorrei rivolgere ai nostri analisti.

Il primo è che smettano di condurre terapie "iperbariche", durante le quali chi cura e chi è curato siedono in due luoghi rigidamente separati mentre tutto si svolge in un clima rigidamente sterile, proprio come in un'operazione chirurgica. Qui non ci sono tumori da asportare, ma solo significati da comprendere e a trarne beneficio non è solamente chi è steso sul lettino e paga, ma anche chi ascolta e vede balenare attraverso le parole del paziente, pur tra tic, manie e ossessioni, una luce diversa sulla realtà.

Il secondo è che cessino di trattare i loro pazienti come esseri malati astenici, senza sistema immunitario, e di ingabbiarli in griglie teoriche soffocanti che finiscono col diventare legami che vincolano per anni e anni paziente e analista. Esasperare l'asimmetria tra dottore e malato non è mai stato un fatto produttivo e sembra ancor meno giustificato ai nostri giorni, dato che chi entra in cura possiede talvolta ottimi strumenti di autoanalisi.

Chiunque decida di allungarsi sul lettino andrebbe incoraggiato, fin dalla prima seduta, a rialzarsi e a imboccare il più presto possibile la strada dell'autonomia e della libertà.

Di pensiero e di emozione.

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Pagina 53

La condanna delle passioni



Da paziente modello quale ero, mi trovavo spesso a ripetere, nelle conversazioni con gli altri, le filastrocche psicologiche che apprendevo in analisi e, parallelamente, a utilizzare le categorie psicanalitiche come dei veri e propri righelli etici con cui misuravo la mia esperienza o con cui giudicavo il comportamento altrui.

Ad esempio, quando mi capitava di vedere quei film un po' scemi, un po' adolescenziali e un po' zuccherosi che si concludevano sempre con il trionfo della passione e dell'amore irragionevole (la donna che sceglie l'uomo creativo e sbrindellato rispetto al suo antagonista sobrio ed affidabile), li liquidavo con una battuta acida, memore delle sedute durante le quali il mio analista aveva più o meno direttamente esaltato il valore della riflessività, della cautela e della ragionevolezza. E così mi dicevo: "È ovvio che con un uomo così non si potrebbe vivere. È proprio un film insensato".

Così, come il mio analista-Zenone, anche io mi ero ormai appropriata di quell'idea secondo cui le emozioni violente sono di per sé, sempre e comunque, pericolose, dirette verso la strada deviata del caos e dell'entropia psichica, e che solo dopo un attento vaglio della ragione — al termine del quale ben poco sopravviveva — esse potevano finalmente ottenere un lasciapassare.

La diffidenza verso ogni tipo di irruenza affettiva è spesso uno dei punti fondamentali della disciplina freudiana, in contrapposizione con la vulgata che associa la psicologia alla melassa dei sentimenti, in particolare all'amore pazzerello, la variante plebea dell' amour fou: "insomma, qui si lavora!", è la solita conclusione. Così, per tornare all'esempio del film, il freudiano di oggi non esiterebbe a rimproverarvi la scelta di uno chansonnier disoccupato, individuando presto in una simile propensione la chiara manifestazione di una scissione della personalità.

Il fatto che questo tipo di diagnosi possa anche essere corretta non solleva i neofreudiani dalla critica di iper-razionalismo: la passione è vista in ogni caso con sospetto, come la copertura rosa confetto di un conflitto cupo e minaccioso che mina la vostra integrità. È vero, le emozioni incontrollate possono rompere equilibri e mandare all'aria progetti importanti, ed è per questa ragione che stoici ed epicurei hanno professato l'utilità della moderazione e il distacco dalla passione smodata, che distoglie dal vero bene e provoca vane e tragiche sofferenze: se l'analista-Epicuro avesse potuto scrivere il sequel di uno di quei filmetti scemi, sicuramente avrebbe spazzato via ogni happy end, immaginando che dopo pochi minuti di convivenza la bella innamorata e lo stallone clochard avrebbero cominciato a prendersi a calci e a pugni, per poi lasciarsi con grande profluvio di lacrime. E in effetti, il più delle volte, va proprio così.

Qual è dunque la morale della favola? Hanno ragione i freudiani, e tanto vale tenersi il fidanzato da sbadiglio? Forse si può pensare a un terzo finale. No, non è quello in cui ragione e sentimento trovano in fine un loro armonioso equilibrio, riuscendo a essere appagate entrambe dall'epifania di un uomo sobrio e ragionevole e allo stesso tempo imprevedibile e misterioso. La sceneggiatura della vita non funziona così, l'uomo-sintesi non esiste (in quanto sintetico) e, in realtà, il finale è tutto da trovare, con un po' di inventiva e molta fortuna.

D'altronde, le terapie odierne escludono sempre e comunque l'opzione di lasciare i remi affinché la barca proceda da sola, secondo il flusso della corrente. Questa immagine descrive bene quelle situazioni in cui noi ci lasciamo guidare dalla vita psichica profonda, eppure suscita una reazione di orrore e spavento, perché all'inconscio, durante una terapia, viene lasciato spazio solo in quanto entità addomesticabile e controllabile. Delle due l'una: o l'Io del paziente si rinforza fino a farsi nave militare, oppure si riduce a una piccola zattera in balia della corrente. Credo che un tempo le cose andassero diversamente. La terapia doveva essere il luogo dove il paziente, un po' furtivo, tirava fuori da sotto la giacca il suo piacere, come un pesce maleodorante avvolto in carta di giornale, e lo buttava sul tappeto dell'analista dicendo: "Ecco, io ho questo pesce, cosa ne faccio?". Oggi, invece, l'analista comincia a sentirne l'odore fin dalle scale e, quando il malcapitato entra, lo rimprovera così: "Ancora questo tanfo? Non ha capito che non può andarsene in giro con un pesce in tasca?".

Ma se il desiderio-pesce esiste, perché costringere chi arriva in seduta a lasciarlo fuori dallo studio o a buttarlo direttamente nel cassonetto? Non sarebbe meglio se il terapeuta, invece di scandalizzarsi per il tappeto sporco e i vicini sospettosi, provasse a capire il perché di quel "dono" e si chiedesse se, invece, non fosse possibile pulirlo e spinarlo? O al massimo sostituirlo con un altro animaletto, vivo e non artificiale, acquatico, che so, un cavalluccio marino?

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Pagina 57

Sesso, questo sconosciuto



Quando Freud presentò al pubblico la sua teoria sulla sessualità infantile, sulle perversioni e sui complessi di edipici ed "elettrici" la buona società gli si rivoltò contro. La Chiesa rubricò le sue ricerche come il frutto di morbosità mostruose, e le signorine bene della borghesia europea — che pure, com'è noto, sognavano falli al galoppo — furono subito messe in guardia da simili letture.

Oggi andare in analisi è facile quanto andare in palestra, e in molti hanno dimenticato che un tempo la terapia era ritenuta lo strumento idoneo per risolvere i problemi connessi alla sessualità. Attualmente, chi ha noie con il sesso legge «Cosmopolitan» se vuol spendere solo pochi spicci, va dal sessuologo se ha qualche soldo in più e un lungo avvenire di rapporti davanti a sé, oppure, se ha superato i sessanta, passa direttamente in farmacia.

La psicanalisi post-freudiana ha corretto il suo presunto ipersessualismo, anche a causa del kleinismo di cui porta ogni genere di traccia, e ha introdotto tutta un'altra serie di categorie ritenute anch'esse decisive nello sviluppo del bambino, come le note storie sulla relazione bambino-madre, analista-seno etc. Al vocabolario freudiano si è affiancato e sostituito così un dizionario psichico composto da parole come "relazioni oggettuali", "depressione", "dipendenza", "affetti", "mancanza", "limite", "identificazione proiettiva"; un linguaggio ancor più ricco, certo, che ha consentito alla psicanalisi di diventare una scienza umana a tutti gli effetti, con una visione più completa e complessa della semplice "energetica" freudiana. Anche la sfera della sessualità, in teoria, dovrebbe uscirne arricchita poiché il sesso, distaccandosi da quell'aspetto inesorabile, meccanico e onnipresente che Freud gli aveva attribuito, si lega in modo più naturale con l'universo delle ragioni e degli affetti.

Insomma, se una giovane donna fosse entrata nello studio di Freud e gli avesse detto: "Sono qui perché la macchina non parte, mi si è rotto il computer e tra un po' mi sfrattano", lui l'avrebbe subito invitata a parlargli della sua vita sessuale. Ben diversa invece la reazione dell'analista contemporaneo: egli affronterà ogni problema prendendolo alla lontana, esaminando, prima di arrivare al sesso, tutti i rapporti affettivi del paziente ed i significati a essi associati.

Bene, si dirà. Forse sì. Ma il fatto è che nel corso di queste interminabili sedute, e a furia di metafore, al sesso, talvolta, non ci si arriva affatto. E anche se dovessero presentarsi nel paziente dei problemi di natura sessuale, spesso questi vengono letti come effetto di altri malesseri, conseguenza di rapporti emotivi difettosi o carenti. Ciò in parte era vero anche per Freud, per il quale frigidità, impotenza e altri disturbi simili erano sempre il frutto di relazioni distorte con i genitori. Tuttavia, il rapporto sessualità-relazioni parentali veniva sempre analizzato in un'ottica circolare, e la sessualità restava, sempre e comunque, al centro di questo circolo.

L'analista odierno ha dimenticato quella circolarità e, trascurando la sfera del sesso, legge i disagi che la riguardano direttamente solo come sintomi di qualche altro problema. Al pari di segnali importanti come le fobie (aracnofobia, claustrofobia), verranno anch'essi accantonati nella certezza granitica che essi si risolveranno spontaneamente, quando la terapia sarà giunta a buon fine. Insomma, le sedute si concentrano su simboli e metafore dell'infanzia e ci si dimentica di chiedere, ad esempio, con quale frequenza il paziente ha rapporti sessuali con il proprio partner e quanto soddisfacenti siano questi rapporti.

Così, ci sono persone che arrivano in analisi dichiarando esplicitamente i propri problemi sessuali ("Dottore, non scopo più") e dopo una decina d'anni di riflessioni su dipendenza, autonomia, senso della realtà e rispetto dell'altro, stringeranno la mano all'analista, torneranno a casa, festeggeranno la fine della terapia con la moglie o il marito e poi proporranno loro... una bella partita a briscola!

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Pagina 87

Il dogma dell'infallibilità



Negli ultimi mesi della mia esperienza analitica mi trovavo spesso a contestare un po' tutto, dalla rigidità del setting alla metodologia, dalle interpretazioni dei miei sogni fino — eresia! — a quelle serie valutazioni che mi vedevano bisognosa di un ennesimo, intenso ciclo di sedute. L'analista-muro-di-gomma rimandava indietro ogni mia contestazione per poi restituirmela in tutt'altra veste, una veste solitamente acquistata nel frequentatissimo magazzino delle resistenze. Non poteva mai trattarsi di una legittima insoddisfazione, magari dovuta a umani errori e umane mancanze del terapeuta, bensì doveva sempre essere una soggettivissima proiezione da interpretare... correttamente.

Queste "restituzioni" della mia analista erano per me irritantissime, perché io avrei voluto che quella maledetta pallina, che mi tornava sempre indietro come un boomerang, se la fosse tenuta lei punto e basta, in modo da guardarla per bene e accettare il messaggio di cui era portatrice. Tanto più che quella partita era particolarmente sbilanciata, perché due giocatori dovrebbero almeno guardarsi negli occhi, no? Provate a giocare di spalle o, peggio, distesi.

Dopo un po' le mie sedute cominciarono a essere occupate da un pensiero fisso e un po' ossessivo. Volevo rivolgere alla mia analista una domanda, soltanto una: "Senta, ma secondo lei, gli analisti possono sbagliare, sì o no?". Una domanda apparentemente banale ma in realtà di cruciale importanza. Se lei avesse risposto di sì, se avesse accettato apertamente che anche lei poteva cadere in errore, allora la partita si sarebbe riaperta, perché il gioco poteva riprendere ad armi pari, la mia opinione contro la sua, in uno scambio dialettico che il filosofo francese Paul Ricoeur ha suggestivamente definito il "conflitto delle interpretazioni". Si tratta di una battaglia faticosa e dall'esito sconosciuto per entrambi, che si può ingaggiare solo quando si abbandonano le illusioni su verità assolute e astoriche.

Invece l'analisi si sottrae al servizio di leva e si dà alla macchia, rifiutandosi di entrare in guerra. Chi c'è a farle compagnia nella boscaglia? La Chiesa, naturalmente. Che ben prima di lei ha adottato lo stesso atteggiamento, dichiarando l'infallibilità di ogni sua deliberazione e finendo anch'essa irretita da una contraddizione insanabile: da un lato ha esaltato la libertà dell'uomo, dall'altro gli ha imposto l'unica legge che potesse salvarlo, e cioè quella stabilita dalla chiesa militante. Tanto vale per il fedele adeguarsi, trasformare, cioè, la sua libertà in necessità. E questo è addirittura aberrante, perché contiene in sé il germe di tutti gli autoritarismi.

Allo stesso modo il corpus teorico psicanalitico che occhieggia dagli scaffali dello studio è sacro all'analista. E anche lui, come il papa, non sbaglia mai.

Certo, chi afferma che la psicanalisi è peggio di una fede dogmatica sembra non tener conto dell'implacabile ostilità della Chiesa verso la disciplina freudiana, ostilità motivata non solo dalla teoria della sessualità infantile, ma anche dal fatto che la psicanalisi ha come scopo manifesto la difesa dell'individuo e della sua libertà.

Eppure l'analista moderno spesso è convinto che ogni volta che la coscienza del paziente suggerisce qualcosa di diverso dalla linea interpretativa che è stata adottata durante la terapia, sarebbe opportuno che il paziente non deragliasse dai binari nonostante ciò che sente, perché una simile percezione non può che provenire da una resistenza, che solo il terapeuta può essere in grado di individuare.

La trappola scatta proprio quando nel paziente si radica l'idea che solo l'analista abbia in mano gli strumenti per assegnare un valore di verità o di menzogna agli elementi che emergono in analisi. Ecco perché, e ancora una volta torniamo all'analogia tra psicanalisi e Chiesa, la terapia funziona solo se chi è steso sul lettino crede ciecamente nella figura che siede alle sue spalle: la questione dell'errore umano dell'analista, semplicemente, non viene mai posta. Il paradosso è che il cattolico se la passa meglio dell'analizzato, almeno lui conosce già ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e se per caso se ne dimentica può subito andarsi a rileggere il catechismo. Se avverte un senso di inquietudine visitando un sito porno, sa che quel senso di inquietudine è dovuto al fatto che ciò che sta facendo è sbagliato, punto. Invece il paziente a volte non riesce a capire se ciò che sente è davvero ciò che sente, se il contenuto dei suoi pensieri è vero oppure ingannevole, e se si tratta di un inganno, di cosa sia espressione o sintomo questo inganno e da quale zona remota della sua infanzia provenga. Torturato da dubbi assillanti, rischia di impazzire. Ed è qui che interviene l'analista, solo che ciò che egli fornisce al paziente non è più un'interpretazione... ma verità rivelata.

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Pagina 131

Qui il mondo non esiste



A volte, quando penso agli ovattati studi degli analisti, mi viene in mente l'immagine di una navicella spaziale che galleggia in orbita nel silenzio dell'universo. L'astronauta-paziente, entrandovi, si è lasciato alle spalle tutte le sue preoccupazioni materiali, per entrare nello spazio senza gravità dell'analisi. Questa condizione di isolamento speciale è considerata dagli analisti un prerequisito del lavoro. Per questa ragione si stacca il telefono e magari anche il citofono, e si fa in modo che i pazienti non si incrocino mai nell'anticamera, neppure con lo sguardo.

Ogni interferenza deve essere eliminata, in modo da poter dirigere l'attenzione — in una strana atmosfera sospesa — sui segni delle lotte interiori del paziente, sui suoi sogni rivelatori e suoi racconti evocativi, su tutto ciò che può fornire una chiave d'accesso al suo magnifico inconscio. Un inconscio che è considerato atemporale, astorico e, di conseguenza, anche asociale (un po' come asociali diventano i suoi "proprietari" in analisi, tutti concentrati e isolati sulle loro psico-budella).

È per questa ragione che, nel laborioso processo ermeneutico, gli analisti spuntano tutto ciò che riguarda le condizioni storiche e sociali dei loro pazienti. Questo processo di astrazione totale, però, ha diversi effetti nefasti. In primo luogo, molto banalmente, nel considerare secondarie le faccende materiali l'analista tende a prescindere dai dati più concreti della vita di una persona, come essa trascorre il suo tempo e come si guadagna da vivere. Se abita in una spelonca o in una villa, e come arriva a fine mese, sono tutte questioni che non coinvolgono quei significati profondi di cui l'analista è a caccia, e dunque trascurabili (purché, si intende, il paziente paghi a fine mese).

Questo menefreghismo sociale causa una mancanza ancora più grave: esso induce gli analisti a disinteressarsi della società che cambia, a ignorare i reali effetti dei ritmi vertiginosi della vita moderna, e come questi ritmi e questi mutamenti agiscono sugli individui. Che ciò riguardi l'occupazione o la disoccupazione, il precariato o la competizione.

"L'analisi è fiera della sua impenetrabilità sociale, perché essa costringe i pazienti a calmarsi, a lasciare fuori le frenetiche futilità della vita quotidiana", dicono loro. Vero, ma doversi adattare al nevrotico post-fordismo globale non sempre è una scelta, anzi nella maggior parte dei casi è una necessità, e il fatto che l'analisi resti saldamente e fieramente "fordista" non aiuta il paziente né a tranquillizzarsi, né a ritrovare il benessere. Di fronte a impegni flessibili ma anche e soprattutto imprevedibili, per esempio, sarebbe opportuno un po' più di spirito di adattamento. Ma il terapeuta non vi concede neanche una briciola di flex-security e vi attenderà in piedi, accigliato, con l'orologio in mano, pronto a farvi saldare tutte le sedute che avete mancato, magari per impegni oggettivi, e relativa impossibilità di ubiquità "psichica".

Considerare l'inconscio asociale ha anche un altro effetto negativo. I cambiamenti, infatti, al pari delle piccole e grandi rivoluzioni politiche, sociali e mediatiche, hanno il potere di alimentare, se non l'inconscio di un individuo, sicuramente il suo immaginario, arricchendolo di simboli e aspettative. In questo modo si formano nuovi desideri e nuovi conflitti che forse ben poco hanno a che fare con le rovine greco-romane nel quale l'analista si ostina a frugare.

Insomma, è chiaro che un individuo che nasce oggi è già diverso da uno che è nato dieci anni fa. Tuttavia, l'analista continua a rimestare unicamente tra le figure genitoriali, i seni e i peni, senza mai alzare lo sguardo su quello che succede là fuori, nel mondo, sulle vicende da cui il paziente è influenzato a prescindere dalla propria famiglia, a volte senza accorgersene. Così che, quando riemerge dagli scavi archeologici della terapia e si trova a camminare nel melting pot dell'esistenza, e a fronteggiare problemi inediti, si accorgerà che le discussioni nelle catacombe analitiche non hanno saputo dargli né strumenti di analisi né risposte.

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