Copertina
Autore Umberto Ambrosoli
Titolo Qualunque cosa succeda
EdizioneSironi, Milano, 2009, indicativo presente 43 , pag. 320, cop.fle., dim. 15x20x2,8 cm , Isbn 978-88-518-0120-5
LettoreRiccardo Terzi, 2010
Classe biografie , storia criminale , economia finanziaria , paesi: Italia: 1960
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Pagina 35

Intanto scorrono gli anni Sessanta, un decennio che si potrebbe rappresentare anche per opposizioni: l'apice ma poi lo sfiorire del boom economico; il governo Tambroni e l'epoca del centrosinistra; la ventata del 1968 ma la nascita della strategia della tensione e del terrorismo. Un decennio inquieto, insomma, soprattutto sul finire, quando le rivendicazioni sociali ed economiche delle classi lavoratrici creano subbuglio e timore mentre le aspirazioni antiautoritarie e libertarie, soprattutto dei giovani, si intrecciano agli scontri di piazza, al dramma mondiale della guerra in Vietnam e alla repressione sovietica a Praga, all'uccisione di uomini simbolo come Martin Luther King e Bob Kennedy.


Nel 1968, anche a Milano, la quotidianità è scandita dalle manifestazioni studentesche, dalle occupazioni di scuole e università, dagli scontri tra studenti e polizia, dagli scioperi dei lavoratori – per le condizioni di lavoro, per le pensioni – e dalle dimostrazioni più "eclatanti" come quella del giorno di Sant'Ambrogio davanti alla Scala.

Il '68 rimane però il momento degli studenti, mentre l'anno delle tute blu è il '69: durante il cosiddetto "autunno caldo" (con il rinnovo contemporaneo di ben trentadue contratti nazionali di lavoro) cinque milioni di lavoratori dell'industria, dell'agricoltura e di altri settori sono decisi a far sentire tutto il peso delle proprie rivendicazioni. È molto più di una semplice vertenza retributiva, è piuttosto un grande movimento collettivo di cui lo Statuto dei lavoratori del 1970 sarà il frutto legislativo, il riflesso evidente di un mutamento dell'opinione pubblica prima che dei rapporti di forza. Tra gli articoli della nuova legge: il divieto delle indagini di opinione, la limitazione dei trasferimenti ai casi di necessità comprovata, la regolamentazione degli accertamenti sanitari e delle sanzioni disciplinari.

Ma è proprio con il 1969 che la situazione degenera, al di là di ogni previsione, sul fronte della violenza politica e di piazza. In aprile scoppia un ordigno a Milano, alla Fiera Campionaria, in agosto esplodono otto bombe su diversi treni: fanno solo feriti, ma sono i prodromi della imminente strategia della tensione, che culminerà pochi mesi dopo nella strage di Piazza Fontana.

È di questi mesi anche quella che viene considerata la prima vittima degli anni di piombo: un giovane poliziotto del III Reparto Celere, Antonio Annarumma, in servizio nel corso di una manifestazione indetta dall'Unione comunisti italiani e dal Movimento studentesco, viene ucciso durante gli scontri nel centro di Milano. Come risulterà dalla ricostruzione della magistratura, da un vicino cantiere edile alcuni manifestanti hanno raccolto e lanciato dei tubi di acciaio contro la camionetta guidata dall'agente, colpendolo al cranio e causandone la morte.

È il 19 novembre. Lo sgomento cittadino è enorme, ma non mancano le polemiche, poiché gli organizzatori della manifestazione sostengono che la morte sia dovuta solo allo scontro violento che si è verificato tra la camionetta di Annarumma e un altro mezzo della polizia; voler imputare quel decesso ai manifestanti, sostengono, è solo uno stratagemma per accentuare la tensione, togliere solidarietà alle istanze di studenti e lavoratori e legittimare la repressione con la quale lo Stato intende soffocare le contestazioni.

Perfino i funerali, molto partecipati dalla cittadinanza, saranno inquinati dalla polemica: il leader di MS Mario Capanna si presenta alla cerimonia per testimoniare l'estraneità del Movimento alla morte dell'agente, ma subisce l'impulsiva e comprensibile reazione di alcuni presenti.

Meno di un mese dopo, è il 12 dicembre, un altro colpo si abbatte sulla città: la strage di Piazza Fontana. Un ordigno, al tritolo, esplode alle 16.37 nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura. Causa 17 morti e 88 feriti. Ai morti della strage si aggiunge il diciottesimo, altrettanto innocente: Giuseppe Pinelli, anarchico, il cui decesso durante il fermo in Questura genererà nuove tensioni, altre violenze.

L'escalation appare irreversibile, la dimensione della strage è di inaudita gravità; allo sgomento si unisce il terrore, Milano è una città ferita e tormentata.


Ai funerali delle vittime, in piazza del Duomo, c'è anche papà.

In quei tempi, nelle discussioni tra amici, non è tra i sostenitori di una reazione dura da parte dello Stato: osserva, certo solo del fatto che bisogna comprendere attentamente cosa stia succedendo. Percepisce la confusione, ne diffida. Per questo non può comprendere chi reagisce alla confusione con la confusione. Ma il suo moderatismo non è paravento, nemmeno involontario, all'indifferenza sociale né alla chiusura familistica (lascerà scritto alla mamma per noi figli: «Abbiano coscienza dei doveri verso sé stessi, verso la famiglia nel senso trascendente del termine che io ho, verso il Paese»).

Per intanto è necessario stare al proprio posto e fare al meglio il proprio lavoro.

Ed è quello che papà fa, sia con i liquidatori della SFI sia con l'attività libero-professionale, dove – negli anni – consegue soddisfazioni e successi: diviene consulente legale di alcune cliniche, di società commerciali, presidente del Collegio sindacale della Banca del Monte di Lombardia, di quello della Gioventù musicale, entra nel Collegio sindacale del Credito Fondiario e nel 1974 sarà sindaco della società editrice di «Il Giornale Nuovo» appena fondato da Indro Montanelli.

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Nel marzo del 1974 giunge in Italia, proveniente dall'altra parte dell'Oceano, la notizia che le azioni della Franklin National Bank, la ventesima banca americana, hanno subito un grave crollo in borsa. I ribassi proseguono nel periodo successivo, in termini nettamente più marcati rispetto all'andamento del mercato. Gli investitori hanno la sensazione che, a livello internazionale, l'affanno di liquidità del gruppo cui appartiene la Franklin sia di gravità irreparabile. A maggio la Security Exchange Commission, l'autorità di controllo statunitense della borsa, sospende la trattazione. È solo l'ultimo degli interventi per contenere i danni prodotti da quell'istituto, che già dal settembre del 1973 era guardato a vista per via delle sue spericolate manovre in cambi valutari.

La banca appartiene a una galassia finanziaria facente capo all'italiano Michele Sindona: tutto il gruppo – un sistema complesso ma interdipendente nelle sue componenti – risente di questo dissesto in borsa, dello stretto controllo da parte delle autorità americane e del rifiuto delle altre banche statunitensi di trattare affari o contratti con la Franklin.

A soffrire in primo luogo sono due istituti di credito italiani del gruppo: la Banca Unione e la Banca Privata Finanziaria, entrambe con sede a Milano.

Così anche in Italia, nella primavera-estate del 1974, Sindona è sull'orlo del crack. Sono gli ultimi mesi per cercare di evitare il fallimento delle sue banche, per attivare e muovere la sua rete di appoggi nel mondo della politica, della finanza e della massoneria.

Tentativi falliti. Sul finire di settembre diviene impossibile qualsivoglia alternativa alla liquidazione della Banca Privata Italiana (nata dalla fusione il primo di agosto di BU e BPF) che viene decretata il 27 settembre dal ministro del Tesoro, mentre la Banca d'Italia nomina il commissario liquidatore.

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Altre ragioni ci devono, in più, dissuadere dal relegare nel passato i fatti di cui papà è stato protagonista. L'Italia di allora, per molti versi, non era poi così diversa da quella di oggi: mondo economico e mondo politico, più che collaborare, ciascuno con le proprie competenze al bene comune, erano spesso collusi nella perpetuazione del proprio potere; né il mondo politico manifestava desiderio di indipendenza da imprenditoria e finanza. Del resto, analizzando i fatti che hanno portato all'uccisione di papà, si ricava il quadro di un sistema collusivo/corruttivo quasi da manuale.

Nulla di diverso — se non in termini di scaltrezza, pervasività e raffinatezza — da quanto sarebbe emerso negli anni Novanta con la cosiddetta Tangentopoli, o dagli episodi di corruzione, malafinanza e collusione che ciclicamente e con dimensioni più o meno imponenti riappaiono nelle cronache dei giornali.

Un certo modo distorto (se non criminale tout court) di fare finanza o economia, o se vogliamo più semplicemente "affari", per esistere e durare ha bisogno di un determinato e corrispondente modo di fare politica: lo stile "al di fuori delle regole" finisce con l'essere il collagene che consente ogni alleanza.

Negli anni Settanta, una coincidenza di interessi illegittimi e dissimulati spingeva perché il fallimento dell'"impero" di Michele Sindona ricadesse come danno sui risparmiatori, sulla collettività del nostro Paese, sul sistema finanziario. Con il suo lavoro papà ha fatto quanto era in suo potere per evitare che ciò accadesse. Per questo la sua vita è stata annientata.

Muovendo lo sguardo da quei giorni all'oggi, mi sembra che l'unica vera differenza stia in una maggior sfrontatezza: gli interessi illegittimi non sono sempre così occulti e dissimulati, forse perché certi comportamenti non sono più oggetto di riprovazione da parte della società, e anche perché si può contare sull'assenza di una reazione.

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Nel giro di un decennio il giro di affari che gestisce, in proprio o per conto di altri, è enorme. Tra i suoi clienti e soci si conta un certo Daniel Porco, assieme al quale Sindona nel 1967 verrà segnalato dalla Criminalpol di Washington a quella di Roma per traffico di sedativi, stimolanti e allucinogeni (le autorità italiane risponderanno di non avere riscontri di attività illecite).

È un'ascesa rapida quella di Sindona, che, nel 1961, diventa socio di maggioranza della Banca Privata Finanziaria: in quindici anni da avvocato è divenuto prima finanziere e poi banchiere. Sviluppa contatti, conoscenze e amicizie anche nel mondo politico, che non manca di assecondarlo; con il passare del tempo, inoltre, tanto più ambiziosi sono i suoi progetti, tanto maggiore è l'appoggio che ottiene dai media. A lungo i giornali (e non solo italiani) gli 4ttribuiranno epiteti altisonanti, come «mago della finanza» e, dall'estero, «l'italiano di maggior successo dopo Mussolini».

I pochi che si pongono domande in relazione a questo successo (da dove arrivano i soldi che hanno reso Sindona potente? dove porta il suo modo di fare affari?) vengono considerati degli invidiosi.


Il partner che fa la differenza per il prestigio di Sindona è uno in particolare: l'Istituto per le Opere di Religione, la banca vaticana, a cui il finanziere si avvicina grazie alla parentela con monsignor Amleto Tondini, cognato di una sua cugina, che nel 1958 lo presenta a Massimo Spada, allora amministratore dello IOR. Questi diventerà un interlocutore prezioso per Sindona e, una volta lasciati gli incarichi nella banca vaticana nel 1964, sarà una presenza ricorrente nei consigli di amministrazione della galassia sindoniana. Lo stesso monsignor Tondini, sempre sul finire degli anni Cinquanta, presenta a Sindona anche Giulio Andreotti, che del banchiere per molti anni tesserà le lodi in Italia e all'estero e che non gli negherà aiuto nei momenti più difficili.

C'è un'ulteriore "conoscenza" di Sindona che non può essere trascurata poiché (in una fase successiva della sua carriera) gli consentirà di inserirsi sempre più addentro alla finanza vaticana e americana e di affrontare momenti difficili: Licio Gelli, capo della Loggia massonica Propaganda 2.

È necessario, a questo punto, fare un salto cronologico, poiché che cosa sia stata la P2 per l'Italia lo si è appreso dopo i fatti di cui sto raccontando. Ma qualunque tentativo di comprensione di quegli anni – e in un certo senso anche dei decenni seguenti – deve fare i conti con la P2, con l'intrico di interessi che l'animava e con l'ampiezza della sua azione. Anche nella storia di papà ricorrono i nomi di alcuni affiliati alla Loggia P2, determinati nel tentativo di vanificare il lavoro suo e dei suoi collaboratori.

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Per il banchiere di Patti, inoltre, rappresenta certamente una fortuna che, sul finire degli anni Sessanta, il Vaticano stia modificando la propria strategia finanziaria: liquidare in Italia e investire all'estero (in Europa e negli Stati Uniti) è l'obiettivo fissato da Paolo VI. È una determinazione dettata non tanto dalla sfiducia nell'andamento del mercato italiano, ma soprattutto dalla decisione del governo di non esentare più il Vaticano dal pagamento della tassa sui redditi finanziari (la cosiddetta cedolare).

Monsignor Paul Marcinkus («prelato americano con fisico da lottatore e l'aria di chi poco s'intende di flagellanti penitenze») è l'uomo incaricato del progetto per conto dello IOR; questi non opera con i consueti interlocutori della cosiddetta finanza cattolica, ma si rivolge a Michele Sindona (di cui lo IOR è già socio in diverse imprese) che diviene non solo consulente, ma anche partner in alcune importanti iniziative. Si occupa della liquidazione di molte partecipazioni vaticane in rilevanti società nazionali: alcune le acquista lui stesso (per esempio la Società Generale Immobiliare e la Società italiana per le Condotte d'acqua), per altre si incarica di individuare il migliore prezzo di cessione o l'acquirente. Le partecipazioni meno allettanti vengono dissimulate e incorporate ("impacchettate") all'interno di affari più interessanti e così vendute, spesso a prezzi molto superiori all'effettivo valore.

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In un contesto di continua crescita della spesa pubblica e del deficit dello Stato, procede inesorabile e gravissima la svalutazione della lira; per contrastarla diventa necessario anche ricorrere alla chiusura del mercato dei cambi (la quotazione record di 880 lire per dollaro si merita anche una nota sull'agenda di papà). A tante difficoltà si aggiunge la catastrofe naturale del terremoto in Friuli, che causa la morte di quasi 1.000 persone, il ferimento di altre 2.500 ed enormi devastazioni che lasciano quasi 50.000 persone senza tetto.

Il nuovo governo di Aldo Moro, un monocolore DC varato a gennaio, dura lo spazio di un bimestre e conduce direttamente allo scioglimento delle Camere e alle elezioni anticipate per il giugno seguente. Tra le ragioni della crisi i contrasti tra i partiti sulla riforma della legge per l'interruzione volontaria di gravidanza. È questa l'occasione dell'appello di Indro Montanelli, rimasto famoso, che invita gli elettori a «turarsi il naso» e votare per la DC, al fine di scongiurare il sorpasso dei comunisti. La campagna elettorale è, in effetti, assai partecipata, ma i risultati sorprendono gli osservatori: lo scandalo Lockeed non ha danneggiato la DC che, anzi, con il 38,8% recupera rispetto alle ultime elezioni amministrative. Il PCI di Berlinguer — che ha mandato messaggi rassicuranti su questioni strategiche come la permanenza nella NATO e l'autonomia del partito da Mosca — raggiunge il 34,4%.

Questa polarizzazione non è gradita a tutti. Papà, per esempio, commenta: «Risultati elettorali pessimi», riferendosi in uno alla tenuta della DC, all'avanzata del PCI e alle difficoltà espresse dai numeri per la formazione di un governo.

Il 13 luglio viene affidato a Giulio Andreotti l'incarico per il nuovo esecutivo, che giura circa un mese dopo: si tratta di nuovo di un monocolore DC, retto dalla cosiddetta maggioranza della "non sfiducia"; l'astensione dei comurnisti segna un primo avvicinamento all'area di governo (con consultazioni informali in merito alla stesura del programma). Le relazioni che papà avrà con gli uomini di questo e del successivo governo – Andreotti, Evangelisti, Stammati – non saranno delle più facili.

L'agenda di papà riporta un commento interessante.

19 luglio – Rossi [uno dei legali che patrocinano la BPI in liquidazione in alcuni procedimenti in Grecia]. Ha visto Sindona [...]. Lamenta mia acrimonia. Pronto a dare società che ci interessano se – per contro – gli diamo quelle che gli interessano per terzi e che sarebbero... [elenco]. Contento per Andreotti, suo amico.

Che Sindona ritenga Andreotti un amico non può sorprendere nessuno negli uffici di via Boito: al di là delle pubbliche dichiarazioni di stima riportate dai giornali, a dimostrarlo basta un esplicito documento reperito dalla Guardia di Finanza nell'ottobre 1974 presso l'ufficio privato di Sindona in via Fatebenefratelli a Milano.

Si tratta della velina di una lettera scritta a Giulio Andreotti nell'ottobre del 1973 dal genero e più stretto collaboratore di Sindona, Pier Sandro Magnoni. int 3

Illustre e caro Presidente,

desidero vivamente ringraziarLa per la cortesia usatami in occasione del nostro incontro e in particolare per l'interessamento, la benevolenza e la profonda comprensione che Ella ha voluto dimostrare per il Gruppo che rappresento. Desidero anche sottolineare che la mia personale, autonoma ed antica ammirazione, non solo nei riguardi della Sua personalità ma anche per l'azione politica da Lei svolta, ha trovato una viva e diretta conferma attraverso la competenza e la peculiare sensibilità umana con cui Ella ha voluto ascoltare i numerosi e diversi problemi che ci riguardano.

La mia profonda impressione su quanto Ella ha voluto suggerirmi riguardo alla strategia che il nostro Gruppo vuole seguire in Italia mi autorizza a pensare di avere con noi, se mi consente, un sincero amico ed un formidabile esperto con cui poter concordare, di volta in volta, le decisioni più importanti che prenderemo.

Personalmente poi, data la mia età e la mia acerba esperienza, è stato motivo di particolare consolazione l'essermi potuto intrattenere con Lei su tanti argomenti e spero quindi che gli stessi possano essere in seguito ripresi con una determinata frequenza.

Le sono quindi particolarmente grato, anche a nome dell'avvocato Sindona, per la simpatia e la stima che Ella ha voluto dimostrare nei nostri confronti: se da una parte questo ci onora, dall'altra ci impegna sempre più a mettere a disposizione del nostro Paese e dei suoi uomini più rappresentativi le nostre umili forze.

Mi creda, con deferente stima e devozione,

Pier Sandro Magnoni

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La mattina dell'8 luglio dall'America giungono all'aeroporto di Malpensa due avvocati di Sindona con l'interprete, nonché tre rappresentanti dell'accusa dell'amministrazione statunitense.

In quello stesso giorno, nel medesimo aeroporto e proveniente dalla stessa città, arriva anche un certo Robert McGovern il quale affitta un'Opel Ascona presso l'autonoleggio Avis e paga con una carta di credito intestata a William J. Arico: perché questo è il nome vero di Robert McGovern, anche se nella «comunità italo-americana di New York» nessuno lo conosce così ma piuttosto con l'appellativo di Bill lo Sterminatore. Di nuovo sembra di essere in una pellicola, ma purtroppo non è così.

Dall'ottobre del 1978 è l'ottava volta – diranno le verifiche effettuate sui passeggeri che sbarcano a Malpensa da New York – che Robert McGovern viene a Milano. Come in precedenza, lo confermano i registri, soggiorna presso l'Hotel Splendido in zona Stazione Centrale. Michele Sindona, deluso dai risultati dei suoi legali, lo ha assoldato perché venisse in Italia a preparare e mettere in pratica azioni intimidatorie nei confronti di Enrico Cuccia e Giorgio Ambrosoli. Lo aiutava, dall'America, Robert Venetucci, suo compagno di cella nel corso della comune detenzione, tra il 1974 e il principio del 1978, presso il carcere di Lewisburg: l'uno per rapina a mano armata, l'altro per traffico di eroina.

In uno dei viaggi precedenti, Arico ha portato a Milano, nascosta nel bagaglio del suo accompagnatore Luigi Cataffio (esponente di medio rilievo della onnipresente «comunità italo-americana di New York»), una pistola 357 Magnum Smith & Wesson, acquistata negli USA a ottobre da tale Henry Hill, vecchio compagno di carcere. In quell'occasione ha confidato all'amico che comprava quell'arma per alcuni lavori che doveva fare in Italia.

A Milano Arico ha condiviso lo svolgimento di sopralluoghi, pedinamenti e ricerche anche con un certo Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontate, boss della mafia siciliana. È stato lui a condurre le conversazioni telefoniche con papà, mentre le telefonate minatorie a Cuccia sono state fatte per lo più da Robert Venetucci dagli USA.

Arico era ancora in città il 27 di giugno e adesso è già di ritorno, perché Sindona il 2 di luglio lo ha incaricato, insieme a Venetucci, di eseguire un omicidio.


La mattina di lunedì 9 luglio papà aggiusta gli ultimi particolari, controlla l'ordine delle carte da produrre. Silvio Novembre lo ha aiutato fino all'ultimo, lamentandosi che per questioni procedurali gli fosse vietato assistere al suo esame. Adesso invece deve partire per raggiungere la moglie a Bibbione, per l'improvviso aggravarsi delle sue condizioni. Salutandosi, Silvio dice a papà: «Abbiamo previsto, tentato di prevedere tutto, abbiamo sistemato tutto, sei pronto, puoi andare tranquillo, qualsiasi cosa ti domandino gli elementi ci sono, sei in condizione di rispondere».

Poi uno parte e l'altro va in Tribunale.


«L'anno 1979, il giorno 9 luglio alle ore 13.05 in Milano, avanti al dott. Giovanni Galati, giudice istruttore» ha inizio l'esame testimoniale di papà alla presenza dei tre rappresentanti della Procura distrettuale di New York (William E. Jackson, Samuel H. Gillespie e Walter S. Mack), nonché dei due difensori di Sindona (gli avvocati John G. Kirby e Steven J. Stein), di due interpreti, di un ufficiale di polizia giudiziaria e di un cancelliere.

A leggere il verbale si ha la sensazione che la prima giornata sia servita per lo più a prendere sul campo le misure: dei limiti della rogatoria, della disponibilità del giudice a concedere domande "a chiarimento" delle risposte offerte, dell'esaustività nelle risposte del testimone.

Alle 17.45 la prima sessione si conclude, papà torna in banca, quindi va a casa. Ci telefona a Montemarcello e commenta con la mamma che sta andando tutto bene.

La mattina del 10 alle 8.30 viene riaperto il verbale e l'esame entra subito nel vivo: papà illustra la contabilità bancaria, anche relativa a portafogli titoli, reperita negli archivi di Banca Unione e di Banca Privata Finanziaria e intestata direttamente a Sindona e alle società Pacchetti, Mabusi, Distributor Holding, Steelinvest, Alifin, Colias, Albalux, Kaitas AG, Kalida AG, Huberi Holding.

Ricorda poi che durante un sequestro è stata reperita anche una copia del bilancio del 1972 della Fasco AG, sottoscritto da Pier Sandro Magnoni, insieme a una lettera che accompagnava il documento originale inviato a un certo «Daniel Porco, nel maggio del 1973; e poiché Sindona conosce Dan Porco non dovrebbe essergli difficile averlo».

Chiarito perché non è in possesso del documento originale, papà ne analizza il contenuto, che rende palese come i ricavi della cessione di una società della Fasco AG siano stati utilizzati per coprire l'esposizione della società verso le banche italiane e non per acquistare la Franklin; è stato anche riscontrato il pagamento da parte della Fasco della somma di «6,5 milioni di dollari probabilmente a titolo di mediazione a un vescovo americano e a un banchiere milanese».

Cioè a Marcinkus e a Calvi, come da tutti inteso.

L'esame procede per tutta la giornata; il PM Guido Viola lo descriverà così:

«I difensori di Sindona si ripromettevano di ottenere dallo stesso [Ambrosoli] risposte brevi e categoriche, che non spiegassero l'intero contesto delle varie operazioni alle quali si riferivano. In particolare i difensori di Sindona pretendevano la semplice esibizione dei conti intestati a società del gruppo Sindona presso la BU o BPF sui quali Sindona sapeva essere stata accreditata una massa rilevante di fondi. Una risposta così limitata non avrebbe permesso di evidenziare che i fondi accreditati a quelle società provenivano, con il sistema dei contratti fiduciari e tramite banche estere controllate da Sindona, proprio dai fondi della BU e della BPF Ambrosoli non stette al gioco dei difensori di Sindona».

E infatti dal verbale risulta che i difensori di Sindona vorrebbero cancellare parte delle risposte date perché troppo ampie rispetto alle domande; i rappresentanti della Procura distrettuale di New York ritengono che il tenore delle risposte sia in linea con le richieste del giudice Greisa, cioè di interesse per lo stesso giudice e per il processo. Del resto, come osserva il dottor Galati, se il giudice americano dovesse ritenere non pertinenti alcuni passaggi, provvederà lui a cancellarli; per intanto devono entrare nel verbale.

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Il portone di casa in via Morozzo della Rocca si apre solo a chiave anche dall'interno e papà scende per far uscire i suoi amici. Ha in tasca ancora le chiavi della macchina e già che c'è si offre di riaccompagnare Lazzati, Mugnai e Rosica, che abitano più lontano, mentre gli altri due discutono su quale sia la strada più breve per tornare a piedi, dato che stanno vicini.

La macchina carica fa il giro della piazzetta sotto casa, ripassa davanti a Gavazzi e Zileri, che ancora questionano sull'itinerario: «Se continuate così, faccio in tempo a tornare e a portarvi io!» scherza papà dal finestrino.

Tutti ridono, poi a uno a uno i tre passeggeri vengono lasciati a destinazione e papà rientra. Parcheggia a fianco al passo carraio di casa.

Sta inserendo il gancio dell'antifurto meccanico tra il volante e il pedale dell'acceleratore, quando una 127 rossa si ferma in mezzo alla strada. Chiude la serratura della portiera e una voce lo chiama: «Avvocato Ambrosoli?»; papà si volta, risponde «sì» a un uomo che si trova a poca distanza da lui.

È buio, non c'è nessun altro nelle vicinanze. «Mi scusi, avvocato Ambrosoli» dice Arico sparando quattro colpi di pistola.

Papà muore pochi minuti dopo, su di un'ambulanza che inutilmente corre verso il Policlinico.

«L'anno 1979, oggi 12 luglio, alle ore 12.30 nell'Ufficio del giudice istruttore dott. Giovanni Galati, sono presenti tutte le parti di cui al precedente verbale. Non è presente l'avvocato Giorgio Ambrosoli.

Il giudice istruttore precisa che, come risulta a foglio 50, tutte le parti erano d'accordo che in data odierna si desse lettura dell'intero verbale di deposizione testimoniale reso dall'avv. Giorgio Ambrosoli.

Il giudice istruttore fa presente che l'avvocato Giorgio Ambrosoli è stato assassinato in data 11 luglio 1979, alle ore 24 circa».

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