Copertina
Autore Karim Amellal
CoautoreHabiba Mahany, Mabrouck Rachedi, Faοza Guène, Khalid El Bahji, Jean-Ιric Boulin, Dembo Goumane, Mohamed Razane, Samir Ouazene, Thomté Ryam
Titolo Cronache di una società annunciata
SottotitoloRacconti dalle banlieue
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2008, Eretica speciale , pag. 160, cop.fle., dim. 15x21x1,1 cm , Isbn 978-88-6222-073-6
OriginaleChroniques d'une société annoncée
EdizioneStock, Paris, 2007
TraduttoreIlaria Vitali
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe narrativa francese , paesi: Francia
PrimaPagina


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Indice


Manifesto                                             3

Onde di malinconia, Karim Amellal                     7

Razzismo cieco, Habiba Mahany                        26

Deviazioni, Mabrouck Rachedi                         35

Una palla in mezzo agli occhi, Mabrouck Rachedi      47

Io sono chi sono, Faοza Guène                        55

Un'altra notte a Saint-Denis, Khalid El Bahji        63

C'è del losco in Danimarca, Jean-Ιric Boulin         88

Allah ha aiutato i bianchi, Dembo Goumane           100

Stato di fermo, Mohamed Razane                      116

Abdel Ben Cyrano, Mohamed Razane                    126

In un giardino abbandonato, Samir Ouazene           130

Una giornata a Dreux, Thomté Ryam                   144

Un rito iniziatico contro l'intolleranza            154


 

 

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Pagina 3

Manifesto


Perché pensiamo che la Francia sia un paese moderno il cui vivere comune si elabora attraverso l'apertura della mentalità, il riconoscimento delle sofferenze individuali, il racconto della sua diversità e dei suoi immaginari

Perché rifiutiamo che lo spazio pubblico, unica risorsa intellettuale di cui dispone una società per pensare sé stessa, sia sprecato in vane polemiche, nella derisione sistematica, nei discorsi concordati e nell'instancabile messa in scena di chi è al potere

Perché la letteratura in cui crediamo, come contributo essenziale alla guerra del senso, è agli antipodi della letteratura attuale, egotista e meschina, sfogo degli umori borghesi

Perché siamo convinti che la scrittura, oggi più che mai, non possa più essere chiusa, melliflua, sdolcinata, ma debba diventare al contrario engagée, combattente e feroce

Perché ci rifiutiamo di rimanere spettatori delle sofferenze di cui sono vittime i più fragili, i declassati, gli invisibili

Perché prendiamo atto delle mancanze di una politica che non si è mai dotata davvero dei mezzi necessari per lottare contro le disuguaglianze che ostacolano le possibilità di un futuro migliore

Perché classificati come scrittori di banlieue, etimologicamente luogo del bando, vogliamo investire il campo culturale, superare le frontiere e recuperare così lo spazio confiscato che ci spetta di diritto, per legittima aspirazione all'universalismo

Perché questa generazione, la nostra, ha il fuoco per avere successo, lo slancio per abbattere le porte, la rabbia per arrivare fino in fondo, il carisma per bucare lo schermo, l'intelligenza per accumulare i diplomi, la forza per abbattere le barricate, la determinazione dello sportivo, la bellezza del libro, il carattere dell'Africa, l'odore del Maghreb, l'amore per il tricolore e per la poesia di Francia

Perché questo paese, il nostro paese, ha tutto per tornare ad essere un esempio, a condizione che si accetti per com'è e non per come fu;


Noi, artisti, decidiamo di unire le forze e di operare insieme per lottare contro le disuguaglianze e le ingiustizie

Noi, figli di una Francia plurale, vogliamo promuovere questa diversità come carta vincente e opportunità per il futuro, come forza collettiva

Noi, uomini e donne del verbo, innamorati del senso e dell'azione, vogliamo agire, nel nostro piccolo, contribuendo così alla costruzione di una società più solidale

Noi, somma d'identità mescolate, mettiamo tutte le nostre forze nella battaglia per l'uguaglianza dei diritti e il rispetto di tutti, al di là delle origini geografiche e delle condizioni sociali

Noi, cittadini di qui e di altrove, aperti sul mondo e sulla sua ricchezza, vógliamo combattere con il verbo e la penna i pregiudizi vergognosi che sclerotizzano il nostro paese e minano il vivere comune

Noi, scrittori in divenire, ancorati nel reale, ci impegniamo in una letteratura dello specchio, realista e democratica, che rifletta la società e i suoi immaginari nella loro interezza

Noi, figli della Repubblica, desideriamo partecipare alla forza del suo messaggio, alla potenza della sua ispirazione e tradurre nei fatti il valore dei suoi principi

Noi, figli di Francia, cresciuti qui, stanchi dell'arroganza dei benestanti davanti alle nostre grida di miseria, ai nostri appelli d'aiuto e alle nostre lettere rimaste senza ascolto, volgiamo oggi le nostre voci e le nostre penne verso la nazione, sollevandoci come un solo uomo, come un solo inchiostro.

Insieme, noi esistiamo.

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Pagina 5

Il collettivo Qui fait la France? è prima di tutto un'avventura letteraria. Riunisce degli autori che, al di là del loro percorso e delle loro origini, hanno trovato nella letteratura un viatico comune.

Questi autori credono infatti nella letteratura come mezzo di rappresentazione sensibile di immaginari, aspirazioni collettive, appelli alla considerazione e alla dignità, che sono nascosti o disprezzati. A tal proposito, la letteratura si pone come un giudizio sulla società e la mentalità per le quali è scritta. Il punto in comune tra gli autori del collettivo è di emettere una sentenza inappellabile sulla società francese, tanto più legittimata dal fatto che i loro scritti hanno come unica pretesa di essere fedeli alla realtà. A tal proposito, rivendicano interamente, come Stendhal, la letteratura come specchio da portarsi dietro lungo la strada. Si può disquisire sul termine "reale" come nuova divinità del romanzo o come potente astrazione, senza che ciò comprometta la direzione da seguire. Se in Francia ci sono così pochi libri sul reale – ovvero il vissuto e il sentire comuni, il più ampiamente condivisi – a vantaggio di libri egotisti, borghesi, introspettivi e aridi, non è per mancanza di autori di talento, ma perché questi autori non amano il reale francese, perché la Francia stessa non si ama. Mentre gli autori del collettivo ne fanno parte e ne sono innamorati. Hanno un'empatia per le banlieue, i figli d'immigrati, gli invisibili, i precari, i disprezzati, gli indignati, i sofferenti, che danno questo colore ai loro scritti. Sono i loro protetti. E tutto ciò che aggrava la condizione di questi ultimi diviene naturalmente ciò che devono combattere, con tutte le armi. E la letteratura ne costituisce una, potente ed efficace. Il fatto che la letteratura ritrovi di colpo questa funzione – la lotta per la giustizia e la dignità – basta ad inscriverla nella società e a rendere antiquati i dibattiti in voga su ciò che può la letteratura.

Mirando ad abbracciare il reale, la letteratura difesa e prodotta dagli autori del collettivo è quindi necessariamente politica e profondamente democratica. Θ in questo l'originalità, nel ritrovarsi su questa base che alcuni giudicherebbero prosaica. I collettivi hanno infatti spesso l'ambizione di far parte di avanguardie estetiche e/o concettuali, sostenendo un atteggiamento iniziatico, dotto, per molti incomprensibile. Mentre il reale, che ci attraversa tutti, è paradossalmente una scatola nera, sconosciuta, temuta o detestata. Porsi all'avanguardia del reale, andargli incontro insieme ad altri, allo scopo di farne l'esplorazione e la conoscenza per tutti, è una scommessa molto più ambiziosa e utile.

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Pagina 7

Onde di malinconia


Samir era seduto a gambe incrociate davanti al mare. Scrutava il largo senza distrarsi, come il guardiano di un faro, e teneva d'occhio i movimenti ondulatori di una piccola barca che riposava sui flutti, in lontananza. Di sicuro quella di un pescatore, pensava.

Il cielo era molto azzurro e il sole un po' pallido. Era pieno pomeriggio. Sulla spiaggia non c'era anima viva, forse a causa del freddo, visto che era inverno. Un inverno di provincia. Di paese di mare o piuttosto d'oceano. Con un odore di alghe nell'aria e nuvole altissime che sfilavano in cielo a schiere serrate, in strisce sottili e parallele. L'oceano andava e veniva senza furia. Accarezzava melodiosamente la spiaggia. La marea lo spingeva a ritirarsi. Presto, sarebbe stato lontano.

Samir affondava le mani nella sabbia fresca, non a fondo, ma abbastanza da sentire l'acqua che gli ammorbidiva la pelle e la punta delle unghie. I suoi occhi non lasciavano il largo, né la barca che sbarrava un pezzo d'orizzonte. Aveva una giacca a vento, una tuta bianca e delle scarpe da tennis alla moda che, come le calze, aveva tolto nonostante il freddo. Stendeva dritto davanti a sé i piedi nudi e nodosi.

Ad un tratto, delle lacrime gli scesero sulle guance. Soltanto delle goccioline, appena formate, che gli scivolavano sulle guance tracciando percorsi sinuosi. Cominciava anche a tirare su con il naso. Gli bruciavano gli occhi. Diventavano rossi. Contemplavano l'oceano versando sulla carne violente tracce di amarezza.


Perché Samir aveva appena lasciato la madre. L'aveva lasciata dietro di lui, molto lontano, a centinaia di chilometri, nel minuscolo appartamento di un quartiere di banlieue, a qualche fermata di suburbana dalla grande, grandissima, immensa città piena di luci e di ricchezza, che non si curava, purtroppo, delle sue povere vicine.

Sua madre si chiamava Safia. Sulla cinquantina, forte, sempre con un velo dai colori vivaci sui capelli brizzolati, costantemente raccolti. Aveva perso il marito, il padre di Samir, qualche mese prima. Era morto in un cantiere, soffocato sotto una barra di piombo caduta dall'alto di un'impalcatura fissata ad un palazzo borghese del centro della capitale. La madre aveva maledetto il mondo intero insieme al capo-cantiere, un piccoletto sfregiato e accigliato con un berretto calcato in testa, venuto ad annunciarle la morte del marito, compagno di sventura, con un'aria grave e compassionevole. Stagliato sulla porta d'ingresso di fronte a lei, le lanciava quelle parole dure come pietre, con gli occhi fuori dalle orbite, ravvivati da un grande sopracciglio che, come una barra, sottolineava lo sguardo vuoto con un lungo tratto nero.

Alla morte del marito, Safia aveva pianto tutte le lacrime che aveva in corpo e Samir aveva un bel essere lì, accanto a lei, non era riuscito a sollevarla, rassicurarla, confortarla. Per lei era come un fantasma, un fantoccio, un incapace, un impotente, un irresponsabile, e tutta quella storia era durata diversi giorni. Dopo un po', stanco di veder affluire in casa sua tutte le matrone del palazzo e le conoscenti del quartiere con le braccia cariche di condoglianze, si era chiuso nella sua stanza, al riparo, con le cuffie del lettore MP3 nelle orecchie e il volume al massimo. Aveva un unico desiderio, raggiungere gli amici di sotto, nell'atrio, sul piazzale, e dimenticare quella madre infelice che implorava Dio dalla mattina alla sera. Così passarono i giorni, si succedettero i mesi, ma niente riusciva a placare la tristezza della madre. E quando la vedeva così, che si asciugava gli occhi, recitando frammenti di Corano, girando in tondo e tenendosi la testa, aveva voglia di mandare tutto a puttane, raggiungere il padre, in paradiso, altrove, lontano, lontanissimo, in cielo, verso le stelle, insomma cioè lassù.

Così ha lasciato tutto. Neanche gli amici sono riusciti a trattenerlo. Un colpo di testa, se n'è andato e basta, come un missile. Ha preso la borsa sportiva, sceso i gradini del palazzo quattro a quattro ed è corso in stazione. Nella suburbana che filava veloce verso Parigi, ha abbassato la testa, ignorando le persone nello scompartimento, il vetro crivellato di sputi secchi, i terreni incolti in attesa di edificazione che spuntavano sui lati. Di colpo, il ricordo del padre gli ha stordito la mente: quel tipo coraggioso, con un berretto sempre in testa e la robusta carcassa che faticava a muoversi, schiacciata dal peso dell'enorme sacco di pelle che portava a tracolla ogni sera rientrando dal lavoro. Stringendo fortissimo gli occhi, Samir cercò lo sguardo del padre, ma vide solo minuscole biglie senza espressione incastrate nelle orbite, offuscate dalla fatica. Suo padre se n'era già andato.

Arrivato alla Gare du Nord, ha chiesto a una bigliettaia, dietro il pannello di vetro, dove si trovava il mare più vicino. La ragazza ha riso e gli ha detto di lasciar passare il cliente successivo che quella non era un'agenzia di viaggi. Ma Samir ha insistito. Allora la sportellista, brontolando, gli ha teso un biglietto per la costa normanna, a tre ore di treno da Parigi.

Perché il mare? Perché no. Il mare era un segnale, una sirena, qualcosa che lo attirava; una fabbrica dei sogni, un'officina del piacere. Una sorta di simbolo di tutto quello che non aveva avuto da quando era nato. Perciò è salito su quel treno, si è seduto nel posto assicuratogli dal biglietto e si è fatto trasportare dai binari. Sceso dal treno, ha seguito le indicazioni che segnalavano la direzione della spiaggia. Ha messo lo zaino sulla sabbia e visto che comunque non poteva andare più lontano, si è messo a guardare il largo e quella barchetta appoggiata lì come una ninfea, come una foglia, come un oggetto alla deriva che si muove al ritmo delle onde, che si muove solo con la brezza e le correnti.

Samir era sempre seduto davanti all'oceano, a guardare il largo e quella barchetta immobile. Assaporava quel panorama sublime nel silenzio del vento e ripensava a quel che si era lasciato alle spalle, nella fornace di cemento e ferraglia, là dove i piccioni sorvolano i palazzi come avvoltoi, pronti a beccare e a spolpare. Cazzo, c'è gente fortunata, si diceva, mentre lui era tutto tranne che fortunato, fin dalla nascita, da quando aveva messo piede su questa terra infernale. "Mektoub!" diceva di solito sua madre quando capitava una disgrazia. Destino. Allora anche lui si era abituato a dire mektoub appena qualcosa andava storto. E ne aveva sputati di "mektoub" in vita sua! Del resto, ne aveva abbastanza, ora, di dire mektoub. No, non lo avrebbe più detto, Wallah, era per quello che se n'era andato da quella topaia, nonostante la madre.


Perso nei suoi pensieri, Samir non aveva notato l'esile figura che si era appena seduta accanto a lui. Indossava una felpa con il cappuccio, jeans slavati e grosse scarpe da tennis fuori moda, con una striscia rosa sui lati, come Samir non ne aveva mai viste. Stava lì a pochi centimetri e non diceva niente. Anche lei guardava dritto davanti a sé. Dopo diversi minuti aprì finalmente bocca per chiedergli se aveva una sigaretta. Senza distogliere lo sguardo, lui le tese il pacchetto di Marlboro rosse, spappolato dal viaggio, e un accendino Bic. Lei lo ringraziò e si mise a fumare come se niente fosse.

Incuriosito anche se non aveva alcuna intenzione di rimorchiarla, dopo un po' Samir le chiese come si chiamava e la ragazza, che aveva più o meno la sua età, gli rispose che si chiamava Sandrine. Era una ragazza magrissima e non molto carina, con i capelli grassi, dei buffi occhi di un azzurro pallido e senza trucco, un naso piuttosto grosso e all'insù e il seno piatto. Niente a che vedere con tutte le ragazze che Samir aveva sfiorato, ma solo sfiorato, al limite appena toccato, nel suo quartiere della banlieue parigina, dove i centri commerciali vomitavano la loro ricchezza alla faccia dei poveri e le fighette venivano a passeggiare con le amiche in minigonna o jeans attillati, per passare il tempo che, altrimenti, non passava mai.

"Non è una bella tipa, allora cosa ci fa qui?" rimuginava Samir, con gli occhi fissi sul mare, sul largo, sulla barca e sul cielo. E lei guardava nella sua stessa direzione, con gli occhi vuoti, prendendogli sigarette in continuazione, ma senza più chiedere perché Samir aveva messo il pacchetto sulla sabbia, tra lei e lui, perché si servisse da sola.

Passarono così dei lunghi minuti. La barca del pescatore, un po' più in là, non si muoveva. Li fissava scrupolosamente. Samir aveva l'impressione che tutto il blu del cielo gli sarebbe crollato sulla testa. Non era abituato a tanto azzurro. Nel suo quartiere, anche quando il cielo era azzurro diventava grigio atterrando sui palazzi. Come la leggenda di re Mida che gli avevano raccontato un giorno a scuola, ma al contrario: re Mida, quando toccava qualcosa la trasformava in oro, ma il quartiere, invece, non appena lo si toccava, si diventava grigi.

Un mucchio di grossi uccelli bianchi planavano come aquiloni. Samir ripensava a suo padre, quell'omone in giacca blu che riconosceva da lontano, di cui aveva tante volte scorto la sagoma, dopo la scuola, dall'alto del palazzo.

— Da dove vieni? — gli chiese improvvisamente Sandrine.

— Vicino a Parigi — rispose Samir.

— Non ci ho messo mai piede, a Parigi.

— Ma va'? Io non abito a Parigi, comunque, abito lì vicino, in banlieue, insomma.

— Non conosco neanche la banlieue, com'è?

— Roba da poveracci.

— Non può essere peggio di qui. Io non sono mai stata più in là di Le Havre. Conosci Le Havre?

— No, dov'è?

– All'inferno.

– Allora è come il posto da dove vengo io.

– Raccontami com'è da te.

— Basta che t'immagini un posto dove c'è solo cemento, dappertutto. Ovunque metti il naso, respiri sempre l'odore del cemento. A forza di vivere lì, le persone si trasformano in blocchi di cemento. Non c'è più cuore, non c'è più anima, ci sono solo quelle cazzo di pietre grigie che ti consumano gli occhi, e non c'hai scelta perché non puoi guardare altrove. Ecco com'è da me. Allora, ti piace?

Dei ragazzi passarono dietro di loro, obbligandoli a interrompersi. Sandrine girò la testa e di colpo spense il mozzicone sulla sabbia. Samir le offrì un'altra sigaretta, ma lei rifiutò.

– Li conosco – mormorò per giustificarsi.

— E allora? Cioè, c'hai paura di loro?

— No, ma non devono sapere che fumo.

— Sei musulmana per caso?

Sandrine spalancò gli occhi, sorpresa:

– Ma tu sei fuori! Perché?

– Lascia stare.

– Cosa?

– No, no, niente.

Improvvisamente, Sandrine si avvicinò e gli prese la mano. Intrecciò le sue dita con quelle di lui, continuando a guardare avanti. Samir la lasciò fare.

– Vieni? – gli chiese lei.

– Dove vuoi che venga? Sto bene qui.

– A casa mia.

– E i tuoi genitori?

– Me ne frego. Di sicuro stanno guardando la TV. Non ci sentiranno. Samir prese la borsa sportiva e si lasciò trascinare verso il paese. Sandrine non gli mollava la mano. Lui la seguiva con calma e disciplina. Non si poneva domande. Nello stato in cui era, se ne sbatteva di tutto. La ragazza non gli piaceva molto, ma insomma, dopotutto, perché non andarci se lei ne aveva voglia? Non gli costava niente. Rimpiangeva solo di abbandonare già l'oceano e la barchetta del pescatore. Avrebbe voluto conoscerli meglio. Pazienza, si ripromise che sarebbe tornato.

Samir non era un bel ragazzo. Era piuttosto magro, il viso era largo e le spalle esili. Aveva i capelli scuri e gli occhi neri affossati nelle orbite. Un naso un po' schiacciato e una bocca banale. Assomigliava a un sacco di altri tizi del quartiere che, come lui, non avevano mai avuto molta fortuna con le ragazze. Sandrine, un'occasione così, una ragazza che voleva portarselo a casa sua, era un colpo di fortuna, una cosa incredibile, qualcosa che capita solo nei sogni, cioè da sbroccare! E lui era da un'altra parte. Se ne sbatteva proprio di quella povera ragazza con i capelli grassi e senza seno, che lo trascinava come un cadavere verso la sua cameretta grigia, che gli stringeva la mano come una morsa, senza dubbio con un bel po' di idee in testa.

Quello che aveva in testa lui, invece, quello che lo ossessionava, quello di cui non riusciva a sbarazzarsi, era sua madre, che si era lasciata alle spalle, come un oggetto pesante e ingombrante. L'aveva abbandonata nell'appartamento del quartiere popolare, miserabile tacca nel cemento armato, in cima al palazzo. Quando era partito non le aveva detto niente, non una parola. Neanche un bacio. Lei non sapeva dove fosse. Non avrebbe mai immaginato che era scappato. La notte scendeva e lei stava preparando da mangiare, di sicuro, come se lui dovesse varcare la soglia da un istante all'altro, come ogni sera. In quel momento, probabilmente metteva in tavola i loro due piatti, insieme alle solite posate. Stava girando un grosso cucchiaio di legno nella casseruola che lasciava uscire un buon odore d'intingolo. Probabilmente lei lo stava aspettando, suo figlio, sperando, come ogni sera, ma senza convinzione, che lui la baciasse e la stringesse tra le braccia, che la consolasse e la confortasse, che fosse un po' dolce e che si prendesse il tempo di parlare con lei.

Sandrine accelerava il passo. Ora erano nella piazza principale, ornata da un misero monumento ai caduti. Presero per una piccola stradina che svoltava verso destra, vicino al municipio. Nel mezzo, l'insegna "Macelleria-Salumeria" indicava che erano arrivati. Era una casa a due piani, come se ne trovano dappertutto nelle città di provincia, con la facciata grigia con l'intonaco scrostato. Al piano terra, la saracinesca era abbassata, segno che il negozio era chiuso. Gli spiegò che lei e i suoi genitori abitavano in un appartamento collegato al negozio da una porta laterale. La camera dei genitori era al primo piano e la sua incollata al retrobottega. Gli disse di non fare rumore, perché a quell'ora i suoi genitori stavano guardando la TV in salotto, di fianco alla sua stanza. Girarono quindi per prudenza intorno alla casa, passando da una via perpendicolare alla strada e atterrarono in un minuscolo giardino incolto. Sandrine mormorò che la sua stanza era vicinissima e che aveva lasciato la finestra aperta, poi si tirò dietro Samir perché la seguisse. Si inoltrarono nel giardino, costeggiarono il retro della casa per qualche metro e arrivarono sotto la sua finestra, effettivamente semichiusa e separata da terra da un pezzo di muro. Lei lasciò la mano di Samir e si arrampicò per prima, appoggiandosi ad un ramo che spuntava da un albero. Si issò senza fatica fino al davanzale. Saltò dentro la stanza e disse a Samir di imitarla.

Si ritrovarono entrambi nel buio. Sandrine non parlava più. Era tesa, probabilmente a causa del rumore della TV che arrivava fino a loro. Samir la seguiva con lo sguardo, con la solita docilità. Lo fece sedere sul suo letto e gli disse di non muoversi, che tornava subito. Aprì la porta della sua stanza e scomparve in un corridoio buio. Samir si distese sul letto e chiuse gli occhi, in cerca di qualcos'altro.


Sua madre si stava preoccupando. La cena era pronta in tavola. I piatti straripavano di loubia. Samir adorava quella mistura fatta di fagioli bianchi e castrato intinti nella salsa rossa. Qualche fagiolo si era sparso sul tavolo e lei si accaniva a pulire le macchie di salsa. Si chiedeva cosa stesse facendo lui, perché non fosse ancora lì. Lanciò un'occhiata all'orologio a pendolo del soggiorno e sentì un grande vuoto dentro di lei: le otto. Controllò il cellulare. Non aveva chiamato nessuno. Era sola. Girava in tondo. Pronunciò qualche parola in arabo, poi si sedette sulla poltrona e come al solito accese la televisione.


Sandrine tornò qualche minuto dopo. Si sedette vicino a Samir e gli prese di nuovo la mano.

— Sono andata dai miei, sussurrò avvicinandosi al suo viso. Gli ho detto che non avevo fame, che non volevo mangiare. Così stiamo tranquilli.

Samir ritrasse la mano con violenza.

– Accendi la luce. Non voglio stare al buio. Non mi piace il buio. Sandrine ubbidì e accese la lampada sul comodino. I muri erano tappezzati di poster della nazionale francese e di gruppi rap. Samir li conosceva quasi tutti.

— Cosa vuoi fare? — le chiese lui.

— Non lo so. E tu?

– Non lo so neanch'io, ma te lo dico subito, non mi va di baciarti. Sandrine si scostò da lui. I suoi occhi azzurro pallido si allargarono. La bocca si dischiuse. Voleva dire qualcosa, ma all'ultimo momento rinunciò.

– Scusami, non volevo ferirti – le disse Samir, cercando di riprenderle la mano. – Ma davvero non ho voglia di baciarti. Non sono qui per questo. Non sono venuto fino a qui per scoparmi una. Non sei tu è solo che... cioè, insomma...

– OK, disse lei abbassando gli occhi. Allora mi spieghi perché sei venuto qui?

– Perché a casa mia mi mancava l'aria. Avevo l'impressione di morire, di soffocare. C'è il mio vecchio che è morto da poco e mia madre non sopporta lo shock. Non la smette di piangere, così, cioè, capisci?... Io avevo voglia di vedere qualcos'altro, di essere da un'altra parte. Cioè, volevo vedere il mare, le barche e il resto. Mi segui?

– E perché sei venuto in questo buco?

– Θ colpa della tipa delle ferrovie, alla Gare du Nord. Mi ha rifilato un biglietto per questo posto. Mi ha detto che qui l'avrei visto, il mare.

– Qui fa schifo.

– Θ meglio che casa mia.

— Dici così perché non abiti qui.

— No, è perché tu non abiti nel mio quartiere che dici così.

Lei colse l'occasione e alzò la testa verso di lui, un sorriso sulle labbra:

— Com'è il tuo quartiere? Dai, raccontami ancora com'è, ti prego.

— No, ti ho già detto tutto. Lascia stare, non rompere le palle.

– Dai, raccontami com'è da te, cosa fai e tutto il resto. Io non vedo niente di nuovo qui. Non succede mai niente. Θ il buco del culo del mondo.

— Non faccio niente a casa. Le solite cose. Non c'è lavoro, ci sono solo intrallazzi e guai. Cioè, non c'è niente di bello. Tu c'hai il mare, c'hai le onde, c'hai il cielo azzurro che non è sfigurato da palazzi alti quaranta chilometri con dentro solo delle gabbie per topi. Abiti in una casa con un cazzo di giardino. Vedi, quello che non capisci è che sei fortunata a stare qui.

— Ah sì? Cazzo!

Samir stette zitto un attimo, poi continuò, snervato:

– Il mio quartiere, te l'ho detto, cazzo, è come un cazzo di pezzo di cemento che hanno abbandonato in un campo. Intorno non c'è niente e dentro c'è solo merda. Ecco com'è il mio quartiere. Allora, ti attira, eh?

– Beh, qui ci sono solo campi – rispose Sandrine con calma. – Θ tutto quello che c'è. E il mare poi, ne ho le palle piene, chiaro? Mi dà l'impressione di vivere su un'isola deserta. E poi, non credere, è grigio anche lui, come il tuo cemento, puzza ed è sempre grigio, e i gabbiani ci cagano addosso tutto il giorno. Sai, mio padre è macellaio, vende carne e vorrebbe che anch'io facessi lo stesso. In realtà è dispiaciuto di non aver avuto figli a cui lasciare l'attività, allora spera che lo faccia io lo stesso e pazienza se sono una ragazza. Fuori, al paese, non c'è un cavolo. Ci sono solo nuvole in alto e pioggia che ci gocciola sulla faccia. Ecco com'è qui.

Samir scoppiò a ridere.

– Sul serio, tu non sai proprio cos'è un quartiere difficile! Credi di impietosirmi con le tue vacche e la pioggia? Ma smettila!

Di colpo un rumore risuonò nel corridoio. Sandrine fu presa dal panico e disse a Samir di mettersi sotto il letto. Lui fece appena in tempo a scivolarci sotto che si aprì la porta. Era il padre, un tipo enorme con la faccia rossa sbarrata dai baffi.

– Senti, sei sicura che non vuoi mangiare niente? – gridò. – Bisogna che ti rimpolpi figlia mia, sei esile come un ramoscello. Non è così che attirerai i ragazzi!

Sandrine si precipitò su di lui dicendo di lasciarla in pace, che non aveva fame e aveva da fare. Il padre batté in ritirata e lei gli chiuse la porta dietro. Samir uscì dal nascondiglio:

– Wow, simpatico il tuo vecchio! Beh, ora ti lascio. Ho voglia di tornare sulla spiaggia. Voglio dormire lì.

– Cosa? Tu sei pazzo.

– Seh, forse, ma è per questo che sono venuto.

Poi, controllando l'orologio:

– Cazzo, mia madre dev'essere in pensiero, mesquina (poveretta).

– Cosa?

Gli era sfuggito. Samir non era riuscito a trattenersi. Le parole erano state più veloci. Le aveva sputate fuori meccanicamente, come semi d'uva.

– Niente, tranquilla.

– Non l'hai detto a tua madre che venivi qui?

– Dai, mollami.

Sandrine insistette, senza tener conto di quello che le aveva appena detto:

– Non l'hai detto a tua madre?

– No – rispose lui. – Perché avrei dovuto?

– Ti cercherà, no?

– E allora?

– Non so.


Samir si risedette sul bordo del letto. A quell'ora sua madre lo stava cercando. Certo. Era presa dal panico. Probabilmente era già passata a casa della signora Rida, la vicina del piano di sotto, la madre di Farid, con il quale andava in giro di tanto in tanto. E la signora Rida aveva sicuramente chiamato il figlio per chiedergli se sapeva dov'era Samir, e Farid aveva risposto che non lo sapeva, che non l'aveva visto quel giorno. Allora probabilmente era tornata di sopra. In quel momento, doveva essere ancora seduta davanti alla televisione, a guardare una stupida trasmissione. La cena si era raffreddata, ma i piatti erano ancora sul tavolo. Straripavano di loubia. Sul muro, sopra la televisione, il padre di Samir non poteva fare niente. Guardava, ecco tutto, dall'alto della cornice dorata.


– Vuoi chiamarla, tua madre, per dirle che sei qui? – gli propose Sandrine.

Samir non le rispose. Inutile. Si accontentò di guardarla. Era in piedi davanti a lui. Era una ragazzina, molto più giovane di lui. Quindici o sedici anni forse. Neanche lei sapeva cosa fare. Avrebbe voluto andare con lui nel suo quartiere, conoscere sua madre, cambiare scuola, forse diventare la sua ragazza, o, perché no, sua moglie. In ogni caso, quello di cui era sicura era di voler lasciare il suo paesello di cafoni, sbarazzarsi della polvere negli occhi, fuggire per sempre e non tornare mai più in quel posto di cadaveri in cui l'oceano seppelliva tutte le anime, come quelle mietitrebbiatrici ingorde che inghiottivano i campi intorno.

Non parlavano più. La stanza affondava nel torpore di una domenica sera di provincia. Il quartiere era lontano, a centinaia di chilometri, ma non era scomparso. Oh no! Samir ne sentiva il ronzio sinistro, gli energici scoppi di voci, il viavai ruvido dell'ascensore nel palazzo, il rumore del vento che si insinuava tra gli edifici, il chiasso del piazzale un po' più in là, disseminato di ragazzini che non sapevano dove andare. Samir cercava di respingere gli sputi del cemento e il freddo scintillio dei lampioni del parcheggio, quelli che vedeva dal suo palazzo, ma non ci riusciva. I fantasmi gli stavano alle calcagna, prima di tutto quello di sua madre, lì, davanti a lui, con il piatto in una mano e il mestolo nell'altra, pronta a servirlo. E poi suo padre, quell'uomo coraggioso, anche lui colato nel cemento con l'arma in pugno come tanti altri, e già dentro a una grossolana cornice. "Ya ouldi, ya ouldi (Figlio mio, figlio mio), dove sei? Rispondimi"; implorava la madre nel vuoto della casa popolare.


La sabbia della spiaggia gli mancava. E anche l'aria del mare, l'odore delle alghe, il ritmo tranquillo delle nuvole in alto, nel cielo azzurro. Era venuto per quello. Era l'unico mezzo per sfuggire agli spettri del cemento, agli orizzonti straziati, ai volti segnati dalla noia, alle sagome scolpite nel grigio, di dimenticare il quartiere, di non pensare a sua madre. Doveva tornarci ad ogni costo.

Guardava dalla finestra della stanza di Sandrine. Era calata la notte. Si diceva che sulla spiaggia le stelle sarebbero state altissime, e avrebbe potuto riflettercisi come se fossero specchi. Era là che voleva essere, non in quella stanza fredda, piccola, piena di poster che gli ricordavano la sua stanza, quella gabbia in cui da tempo non riusciva più a prender sonno, dove durante la notte brutti sogni venivano a prenderlo per mano e non lo lasciavano più fino al mattino.

– Basta, io sloggio. Torno alla spiaggia – disse a Sandrine scavalcando il bordo della finestra. – Ne ho le palle piene di stare qui.

– OK, vengo con te.

Rifecero il percorso inverso, costeggiando il giardinetto, risalendo la stradina e attraversando la piazza del comune che, dopo la strada nazionale, dava sulla spiaggia. Era buio. Solo gli aloni di pochi lampioni ondeggiavano qua e là, come fuochi fatui, sfumando un po' le tenebre del villaggio. Tutto era deserto. L'odore fresco della notte si mescolava a quello dello iodio. Bisognava camminare molto perché l'oceano era indietreggiato. Adesso era molto più lontano. Ma il suo rumore si avvicinava, sordo e meccanico. Non era languido quanto prima. Le onde frustavano la sabbia e si ritiravano con violenza, stridendo come pneumatici sull'asfalto, rimangiandosi la schiuma di cui avevano riempito la spiaggia. La luna brillava in tutto il suo splendore, attorniata da una miriade di stelle. Samir correva verso la riva e Sandrine lo seguiva ansimante. Arrivato lì dove si frangeva l'oceano, si lasciò cadere nell'acqua, tutto vestito. Sandrine si era fermata prima. Lo guardava agitarsi tra le onde morenti, senza capire.


A Samir piaceva il contatto con l'acqua gelida. Gli schiariva le idee: sua madre era disperata. Faceva avanti e indietro tra la sua stanza e il soggiorno, la cucina e la stanza del figlio, con il telefono in mano. Ma non aveva nessuno da chiamare; era completamente sola. Si chiedeva se telefonare al paese, alla sorella, a chiunque, solo per parlare, per avere il sostegno di una voce amica, per sentire un parente. Rinunciò. Era inutile. Non l'avrebbero aiutata a ritrovare suo figlio. Ancor meno suo marito.

Le tempie le battevano all'impazzata, strane idee le passavano per la testa. Pensava che lo avessero arrestato, che i poliziotti lo avessero picchiato per colpa di una banda di teppisti. Immaginava colpi sulla sua faccia, cazzotti, manette, una pistola, delle uniformi, la prigione. E tutto questo per niente. Perché si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato. Capitava. Molte persone, al mercato o nel palazzo, le avevano raccontato storie simili. Del sangue colava sulla carreggiata. La stazione della suburbana era immersa nel buio e suo figlio era collassato sul binario, solo, con il labbro tagliato. Guardava il marito nella sua cornice dorata e lo supplicava d'intervenire, da lì dove si trovava, dal paradiso, dal regno dei cieli. Passando rovesciò una lampada. Buttò via con rabbia il cibo che aveva preparato. Lavava i piatti per tenere occupate le povere mani. Dalla finestra, dall'alto del palazzo, scrutava l'orizzonte e vedeva solo gli aloni dei lampioni, giù in basso, che si confondevano con i fari di qualche macchina di passaggio. Si portava una mano al viso e asciugava le lacrime, con rabbia, con sdegno, con amore.


Sandrine lo spiava. Vedeva il suo corpo magro, immerso nell'acqua, che si muoveva al ritmo delle onde. Avrebbe voluto baciarlo, quel ragazzo venuto da lontano, quel tipo dalla pelle e dai capelli scuri, dagli occhi nerissimi, che non assomigliava agli altri sfigati della zona, che veniva dalla capitale, che aveva l'aria smarrita. Avrebbe voluto prenderlo tra le braccia, stringerlo forte contro il suo petto acerbo, non lasciarlo più, attaccarsi a lui come una sanguisuga, tentare di tutto perché le facesse dimenticare quella triste vita, quel triste corpo, tutti i cafoni che la prendevano in giro perché era la figlia di un macellaio, la campagna senza vita, piena d'orrori e di torpore, puzzolente come un'alga morta.

Samir si lasciava trasportare lentamente dai flutti neri, simili a sangue secco, che aderivano alla pelle. – Torna indietro, c'è corrente – lo avvisava Sandrine dalla riva, ma le sue parole rimbalzavano sull'acqua senza raggiungere il bersaglio. Samir non rispondeva. Davanti a sé vedeva soltanto sua madre. Gli rimproverava di essersene andato, di averla abbandonata. Ma insomma, non ce la faceva più. Sempre sotto pressione. Quando non erano gli amici, era il lavoro che non andava. Collezionava contratti di merda, nel campo della manutenzione o della pulizia. Solo ad interim. E la madre che era sul suo groppone, con i suoi piatti e le sue attenzioni. Da quando suo padre era morto, non la smetteva di ossessionarlo con il lavoro, il futuro, addirittura con il matrimonio. Il matrimonio, cazzo! Come se potesse pensare al matrimonio, lui. Non aveva neanche quello che bastava per mantenersi, per vivere da solo, non un centesimo per pagarsi un monolocale, neanche nel quartiere! Non aveva niente, allora sua madre che cosa voleva che offrisse a una donna?

L'acqua era fredda. Gli gelava le membra. Pazienza. Si sentiva bene, lì, tra cielo e terra, nel regno dei jinn, degli spiriti, in quell'oceano ostile che non lo spaventava. "E la tipa, lì, sulla banchina? Cazzo ci fa qui?" Si chiedeva. "Che cosa vuole da me? Non posso offrire niente a nessuno. Sono morto. Sono finito." Il cielo era tutto nero, in armonia con i flutti. Le stelle gravitavano intorno alla luna come lepidotteri notturni, assetati di luce. – Vieni, dai, vieni – si sgolava Sandrine, questa volta mettendo i piedi in acqua per andarlo a prendere. "No"; pensava lui, "vaffanculo, io non vengo. Rimango qui. Mi sento a casa, qui".

Sua madre aveva chiamato la polizia, immaginava. Stava spiegando agli sbirri che suo figlio non era tornato per cena, che non era normale, che non aveva telefonato e il suo cellulare era spento. Uno dei due sbirri prendeva appunti, l'altro lo guardava, lanciando di tanto in tanto delle occhiate intrusive nell'appartamento. – Ce ne occupiamo noi, signora – le diceva con calma, mentre il suo collega stava già chiamando l'ascensore.


Samir si decise infine a fare marcia indietro e a uscire dall'acqua, lentamente, come un animale ferito. Si sedette vicino a Sandrine, sulla riva, a fissare la notte. Un po' più in là, sul morboso oceano, la barca del pescatore vacillava. Il biancore della luna illuminava la fragile sagoma, lasciandone apparire solo i contorni fluidi e sfiancati dalle onde.


Sandrine volle riscaldarlo frizionandolo con le mani, ma lui la spinse via con un gesto secco. "Che cosa vuole da me, questa?" ripeteva tra sé e sé. "Che mi lasci in pace. Che se ne torni a casa, nella sua macelleria, con quel tarato di suo padre." Ma niente da fare, lei rimaneva lì, vicino a lui, come una gatta randagia che vuole la sua razione di cibo. A quel punto, la prese tra le braccia.

La madre gli trapanava il cervello. Vedeva solo lei. Gli stava di fronte. Prendeva tra le braccia anche lei. Sentiva il cuore battergli fortissimo nel petto. Ai margini degli occhi gli si formavano delle lacrime. Non aveva mai preso sua madre tra le braccia. Non aveva mai pensato che prima o poi l'avrebbe fatto. Le sue mani non erano abituate a stringere quel corpicino raggomitolato, a sentire quei capelli sfregargli il viso, a sorprendere la sua pelle. Fino ad allora, sua madre era una coperta di Linus, un punto fermo, una persona che era sempre stata presente e che lo sarebbe sempre stata, perché era così e non poteva essere altrimenti. Alla morte del padre, era rimasto sorpreso, sconcertato, addirittura infastidito nel vederla versare delle lacrime. Per lui, lei non poteva piangere, non come le altre madri. Poteva cucinare, sgridarlo per la biancheria sporca, fargli osservazioni sul lavoro o sugli amici, preoccuparsi per un nonnulla, parlare con le vicine, andare al supermercato, sopportare la vita senza dar nulla a vedere, affrontare i problemi della vita. Poteva fare tutto ciò senza batter ciglio, perché l'aveva sempre vista fare così, ma non poteva sfogare davanti a lui, sulla sua pelle, dei trucioli del suo cuore, come un volgare personaggio da fiction. Quella tristezza gli era sconosciuta. La sua dolcezza la dava dolorosamente per scontata. E lì, sulla sua spalla, l'aveva vista piangere per lui, solo per lui. Il suo amore gli saltava agli occhi, ora e per sempre. Scopriva finalmente sua madre.


Era il cuore della notte. Il vento diventava più violento. Le onde si scatenavano davanti ai loro corpi abbracciati. Con il dorso della mano, Sandrine cercava di proteggersi dagli schizzi dell'oceano. Guardavano entrambi la barchetta in movimento davanti a loro, che si rovesciava e si risollevava centinaia di volte.

Samir pensava a lei sempre di più. A tutto quello che non le aveva detto, al suo disprezzo involontario, alla sua ridicola distanza. La vedeva così forte da quando era bambino, che non aveva mai provato il bisogno di dirle altre cose oltre alle solite banalità. Aveva schiacciato la madre sotto il peso di una virilità oscena. Era davanti a lui, a metà strada tra la luna e quella fragile barchetta che non poteva più resistere alla guerra che gli faceva l'oceano. Il suo velo scintillava sotto le stelle. Il suo abito berbero era un completo bianco, svuotato di colori, che la faceva assomigliare a una fata o un angelo.

Sandrine guardava anche lei la barca, ma ci vedeva solo il riflesso mancato della sua breve vita, delle sue speranze nate morte, del suo giardino incolto schiacciato contro un'imponente costruzione che ospitava una macelleria, che le sue amiche sfottevano quando ci passavano davanti. Stringeva la mano di Samir, sognando che facesse l'amore con lei, lì, su quella spiaggia, davanti al nero oceano, davanti a tutta la città invidiosa. Lo immaginava contro il suo petto, ansimante, sul punto di portarla dove non sarebbe mai andata.


– Vado alla barca – disse lui alzandosi bruscamente. I suoi occhi non mentivano, e nemmeno il resto del suo volto. La luna ne era testimone. Aveva l'aria decisa, immune ad ogni obiezione. Più lo fissava, più capiva che lo avrebbe fatto sul serio, che non erano parole al vento.

La barca era lontana. A diverse decine di metri. Samir si stava togliendo le scarpe. Precauzione assurda. Ci andava sul serio. Sandrine cercava di dissuaderlo, invano. Avanzava verso l'acqua impetuosa. Il vento era furioso. Lei camminava dietro di lui, come per accompagnarlo. Non rispondeva ai suoi avvertimenti puerili. Sua madre era laggiù, in fondo, vicinissima alla barca, ne era sicuro. Ancora uno sforzo e avrebbe potuto toccarla, guardarla, baciarla. Ancora un piccolo sforzo, qualche bracciata, e ci sarebbe arrivato. Le avrebbe detto tutto quello che avrebbe dovuto dirle da molto tempo. Le avrebbe parlato della morte del padre, guardandola negli occhi. Le avrebbe detto che le voleva bene e che gli dispiaceva di essersi comportato come uno stupido bulletto di periferia. L'avrebbe presa tra le braccia e non l'avrebbe lasciata più, sua madre, quella piccola donna con il velo.

Sandrine correva dietro di lui, che era già nell'acqua. Andava avanti senza incertezze. L'acqua gli arrivava ai polpacci e continuava a risalire sul suo corpo. Andava avanti, più svelto. Vedeva solo lei, davanti a sé, vicinissima alla barca del pescatore. "Non è tanto lontana, quella barca," pensava, "coraggio, ancora uno sforzo, posso farcela." Sandrine fendeva la notte per andargli incontro. Anche lei aveva l'acqua fino ai polpacci, ma a lui ora arrivava fino alla pancia. Cercava di andare più in fretta, per tirarlo indietro e riportarlo a riva. Poteva farcela. Gli gridava di tornare indietro, gridava con tutte le sue forze, chiamava aiuto, ma nessuno sentiva mai niente in quel paese autistico.

La luna brillava sempre più. Il vento frustava il volto di Samir. L'oceano era glaciale. Rinunciò a camminare per buttarsi in acqua. "Nuotare," pensava, "bisogna nuotare. La barchetta non è così lontana." Allora si mise a nuotare. La corrente lo portava via. Sandrine era sempre dietro di lui. Nuotava anche lei. Cercava di mantenere la traiettoria e allo stesso tempo di tenerlo d'occhio, ma lui aveva diverse lunghezze di vantaggio. Nuotava come un pazzo, si avvicinava alla barca, malgrado il vento e l'acqua gelida, le onde sempre più alte. Era guidato dalla luna, e soprattutto da Dio, ne era certo. Presto, avrebbe abbracciato sua madre.

Quando con la punta del dito toccò la barca, era privo di forze. L'imbarcazione si muoveva in tutti i sensi e per venti volte cercò di salirci sopra, invano. Con le membra paralizzate, poteva solo aggrapparsi alla prua, stanco, e lasciarsi sballottare. Gli occhi gli si chiudevano poco a poco. La bocca semiaperta, tormentata, faticava a emettere frammenti incomprensibili.

Improvvisamente, Sandrine gli arrivò dietro, esangue quasi quanto lui. Si aggrappò al bordo e lo incoraggiò a salire. Lui non reagì. Allora fu lei a salire sulla barca, tirandolo più forte che poteva. Lui riuscì a radunare le ultime forze per assecondare il movimento.

Intorno a loro l'oceano si scatenava. Stavano incollati l'uno all'altra, in fondo alla barca, per tentare di riscaldarsi. Con le mani, Sandrine frizionava quelle di lui. Samir tremava. Le sue labbra tiravano al nero. Il biancore della luna gli inondava il volto. Era livido. Gli occhi socchiusi lasciavano intravedere solo uno sguardo stretto, pieno di paura e di fatica. Con un ultimo sforzo chiese a Sandrine se voleva partire.

– Per andare dove? – disse lei battendo i denti. – Non possiamo andare da nessuna parte ora. Dobbiamo aspettare che faccia giorno.

Samir girò lentamente la testa dall'altro lato, verso il largo. Le onde si schiantavano contro la barca, facendola beccheggiare pericolosamente. Agitò febbrilmente la mano alla ricerca di un appiglio per sollevarsi un po' e trovò una corda. La tirò ma non cedette. Sandrine si avvicinò per vedere cosa faceva e realizzò che si trattava della corda dell'ancora. Samir non riusciva più a parlare ma anche lui l'aveva capito. Fece segno a Sandrine di aiutarlo a farla cedere.

— No — disse lei, da principio. — Moriremo.

Samir la squadrò. Non una parola poteva uscirgli dalla bocca congestionata. Poteva soltanto guardarla e servirsi dei suoi occhi neri per dirle quello che voleva. Sandrine aveva già capito. Aveva paura.

Gli occhi di Samir finirono per chiudersi. La sua coscienza disegnava a grandi linee il volto della madre, lontano, verso il largo. Fluttuava sull'acqua, tra la luna e le stelle. Aspettava che andasse a raggiungerla. Aveva tolto il velo e sciolto i capelli. Lo implorava di andare verso di lei. Non aveva scelta.

— Ti prego, partiamo — disse a Sandrine in un ultimo respiro.

Allora, con la corda tra le mani, lei tirò con tutte le sue forze finché l'ancora non si staccò e la barca filò come un razzo in direzione del largo. Schiacciarono i loro due corpi ossuti l'uno contro l'altro, sul fondo dello scafo, e si lasciarono trasportare dalla corrente.


Karim Amellal

Autore di Discriminez-moi! Enquκte sur nos inégalités, Flammarion, 2005 e Cités à comparaξtre, Stock, 2006.

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