Copertina
Autore Andrea America
Titolo La rivolta delle patate
SottotitoloStorie di fabbrica e campagna
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2013 , pag. 180, cop.fle., dim. 14x21x1,1 cm , Isbn 978-88-7937-611-2
PrefazioneMarco Demarco
LettoreMargherita Cena, 2013
Classe citta': Napoli , regioni: Campania , paesi: Italia: 1960 , lavoro , movimenti
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Pagina 25

La foto sul lido del 1957 si porta dietro, quasi automaticamente, il ricordo di Carosello, la pubblicità televisiva che proprio quell'anno andava in onda ogni sera dopo il telegiornale. Conobbi allora Calimero e Topo Gigio, la mucca Carolina e Cesare Polacco, l'ispettore Rock – che una volta aveva commesso un errore perché «non aveva mai usato la brillantina Linetti» – il sorriso Durban's di Carlo Dapporto, Caballero e Carmencita della Lavazza, l'olandesina della Mira Lanza, la Vecchia Romagna con etichetta nera – «il brandy che crea l'atmosfera» – ed Ernesto Calindri al centro della strada con il carciofo della Cynar, consigliato già allora «contro il logorio della vita moderna». E qualche anno dopo «la caramella che mi piace tanto e che fa du du du du Dufour».

La mattina di quella gita al mare eravamo già tutti pronti alle sette del mattino alla stazione del paese. C'era anche un gruppo di ragazzi che scherzava con i genitori della giovanissima Carmela cantando in coro: «Carmela è na bambola e fa 'ammore cu me, ma a mamma è terribile, nun mm' 'a vò' fá vedé».

C'era Amalia, la serva del commendatore Di Santo: seduta sullo scanno in legno nella piccola e buia sala d'aspetto, con una faccia sconvolta, pallidissima e malvestita, dimostrava il doppio dei suoi vent'anni. Era la quinta di nove figli con due fratelli afflitti dalla poliomelite; il padre, manovale edile, l'aveva cacciata di casa perché incinta di quattro mesi in seguito alla relazione con un uomo sposato, padre di una sua amica. Amalia si recava a Napoli per essere ospitata da una zia paterna che portava il suo nome. Mia madre le offrì il biglietto per il treno, un fazzoletto di stoffa, cinquecento lire e un abbraccio di buona fortuna.

Io avevo con me la camera d'aria di gomma della ruota di una Seicento, mio fratello portò un pallone Champion di colore arancione con bande nere e mio padre una macchina fotografica Bencini Comet nera con due rollini da ventiquattro pose. Era professionale, nuova di un paio di mesi, ma del tutto diversa da quella con teleobiettivo a cannone che usava James Stewart in La finestra sul cortile, il film di Hitchcock di qualche anno prima.

Mia sorella leggeva «Grand Hotel» e aveva tra le mani un sacchetto in tela talmente pieno di roba che non si chiudeva.

Alle otto e trenta, con il sole che faceva allegria, dopo essere scesi dal treno a piazza Garibaldi a Napoli, eravamo già sull'autobus per Portici. Non ricordo se fosse affollato e neanche cosa feci durante il viaggio. So invece benissimo che un'ora dopo eravamo già sul lido in costume da bagno, con i piedi nella rena e gli abiti appesi nella cabina in legno.

Tutti in costume, tranne mia madre che rimase con un prendisole rosa e con gli zoccoli in sughero, seduta davanti alla cabina numero diciannove, fittata per l'intera giornata. E pensare che il medico di famiglia da anni le consigliava qualche settimana di spiaggia per curare una tosse che la torturava. Mia madre rimase lì non perché non condividesse la gioia del mare ma, credo, solo perché stanca per la nottata passata sveglia davanti al fornello a gas a preparare le frittate di maccheroni, la parmigiana di melanzane e le cotolette. Per la prima volta venne meno alla tradizione del digiuno il giorno dell'Assunta, ma mangiò solo pane e anguria.

Davamo fondo alle provviste, il sole accarezzava la nostra pelle bianca e dal juke-box del bar arrivava la voce di Renato Carosone che cantava «Tu vuò fa l'americano! mmericano! mmericano...». Sentivo Carosone e pensai che, se al mare ci fossi stato prima, al tempo delle elementari, avrei certamente saputo cosa scrivere nel primo tema in classe alla riapertura della scuola, quello in cui ti chiedono come hai trascorso le vacanze.

Mi asciugavo col dorso della mano l'olio della frittata all'angolo della bocca e fra me e me immaginavo cosa avrei scritto in quel tema. Ecco, sarebbe stato più o meno di questo tenore: «Sono stato al mare con la mia famiglia, il mare era azzurro, la sabbia era pulita, ma scottava. Vicino al juke-box, ragazzi e ragazze scalzi ballavano il rock and roll e si dimenavano come matti. Io, mia sorella e mio fratello ci siamo divertiti un mondo. C'erano un sacco di ombrelloni, tanta gente in costume e un giovanotto con la scritta "bagnino" sulla maglietta bianca che faceva lo smargiasso come Salvatore, quello del film Poveri ma belli».

Be', forse la citazione del film non sarei stato capace di farla, ma lasciamo stare, lo svolgimento non è finito: «Io e mia sorella abbiamo fatto amicizia con una coppia di fratelli della nostra età, abbronzatissimi che sembravano un nero e una nera, figli di un medico importante di Portici, che tenevano la cabina fittata per tutta l'estate. Ci hanno sfidato al biliardino. Facevano i buffoni ma noi siamo stati più bravi e abbiamo vinto tre partite una dietro l'altra. Dopo, per scherzo, li abbiamo sfottuti dicendo che erano scarsi e il ragazzo stava per piangere ma proprio in quel momento è arrivata la loro mamma, una signora col cappello bianco in testa, con certi occhiali grandi grandi, che ci ha sgridati. Noi siamo scappati. Meno male che nostra madre non l'ha né vista né sentita, altrimenti l'avrebbe fatta correre per tutta la spiaggia».

Forse, esagerando, avrei scritto anche che avevamo fatto lunghe nuotate. In realtà, ci bagnammo e divertimmo, ma in riva al mare in quanto nessuno di noi sapeva nuotare.

Quel giorno avevo scoperto il mare, immaginato oceani e barche a vela e fantasticato con balene, piovre e delfini. A portarmi a casa, rosso come un peperone, fu il mio amato capitano di vascello.

Nei pressi di Porta Nolana – sul lato della stazione che faceva da capolinea al treno della Circumvesuviana che ci avrebbe riportati al paese – c'era un chiosco dove si vendeva acqua zuffregna nelle mummarelle. Ne bevemmo tanta, tantissima, da non accorgerci, mentre ci passavamo le anfore di terracotta, che mia sorella Martina era rimasta ferma sul lato opposto con lo sguardo rapito dal manifesto di Lazzarella, in programmazione al cinema Italia. Gli attori protagonisti erano Alessandra Panaro e Mario Girotti, non ancora Terence Hill. Lazzarella era il titolo della canzone con cui Domenico Modugno aveva partecipato alcuni mesi prima al Festival della Canzone Napoletana.

Recuperata Martina, corremmo al treno e ci sedemmo in seconda classe, un attimo prima che il controllore desse il segnale della partenza con lo squillo di una piccola tromba color oro vecchio. Di lì a poco mi sarei ritrovato con gli occhi semichiusi e la testa poggiata sul vetro del finestrino, tra il canto delle sirene, i delfini che guizzavano e le stelle sorridenti e complici. Vedevo Napoli immersa nelle luci della costa, il golfo che, da un estremo all'altro, pareva una mezzaluna coricata su un fianco, languida ed emaciata, affaticata da chissà quante notti, lì in alto a osservare il mondo.

Da qualche parte arrivava la voce di Sergio Bruni che cantava: «Maruzzella, Maruzzè, t'he miso dint'a ll uocchie ó mare, e m'he miso 'npietto a me 'nu dispiacere...» e io nuotavo tra i pesci sfiorando spigole luccicanti. Fui svegliato dalla voce di mio padre, il mio amato capitano di vascello: «André, svegliati, dobbiamo scendere».

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La mia prima partecipazione a una manifestazione risale al 1959, l'anno della "rivolta delle patate". Quelle patate che mio nonno non sopportava. Ero anch'io in piazza la mattina dell'8 giugno 1959, quando a Marigliano scoppiò la rivolta. Senza volerlo, divenni uno dei protagonisti. Avevo 14 anni e frequentavo l'istituto di avviamento professionale. Quel lunedì mattina, giorno del mercato settimanale, stavo andando a scuola e nella testa avevo gli esami del terzo anno che pochi giorni dopo avrei dovuto sostenere per potermi iscrivere al corso triennale del Camim (Centro addestramento maestranze industrie meridionali) di Napoli.

La domenica prima si era concluso il giro d'Italia con la vittoria del lussemburghese Charly Gaul sul francese Jacques Anquetil, astro nascente del ciclismo. La prima parte della giornata l'avevo dedicata all'Azione Cattolica, poi in compagnia di Capitan Miki, di Tex e del Grande Blek, i miei eroi preferiti, quindi con mio padre davanti al televisore in bianco e nero a vedere la tappa.

[...]

La vita dei contadini, allora, dalle nostre parti – quando non erano ancora state introdotte le macchine agricole – era faticosa e piena di stenti. Erano, tuttavia, tempi in cui davvero il lavoro, qualunque esso fosse, era sentito come la sostanza che dava dignità e riscatto da ogni dipendenza e soggezione e che, soprattutto, dava diritto a camminare a testa alta, a sedersi a mensa circondato dal calore di una nidiata di figli in canottiera e mutandine, cresciuti cu 'e mullechelle, con la bocca sporca di salsa e le mani unte e bisunte, allegri e festanti.

E com'era saporito mangiare pane e cipolla, mentre il cuore era in pace con se stesso! E le viuzze e i cortili sempre festanti di voci argentine di bambini che si rincorrevano, mentre le mamme si dividevano tra l'uscio di casa, per tenerli d'occhio e le faccende di casa.

L'economia della zona, soprattutto a Marigliano, era imperniata sull'agricoltura. E primaria era la coltivazione delle patate. A quel tempo, Marigliano era un comune di circa ventimila abitanti, di cui una buona metà erano agricoltori, coltivatori diretti, contadini e braccianti,che viveva di patate. Su ogni cento ettari di terreno, almeno novantasette venivano coltivati a patate. Marigliano era considerata la capitale delle patate. Non a caso, dalla stazione delle Ferrovie dello Stato partivano ogni giorno lunghi treni merci con carrozze cariche di sacchi destinati al nord e ai Paesi europei.

Nessuno avrebbe immaginato che quelle campagne, in futuro, sarebbero diventate "il triangolo della morte, Nola-Marigliano-Acerra". Parliamo di uno fra i territori oggi più inquinati e stuprati del nostro Paese, dove non c'è famiglia che non abbia registrato la perdita di qualche familiare per malattie infettive o tumorali. Un territorio che ha fatto la fortuna economica di noti imprenditori della munnezza, spregiudicati esponenti della politica e della camorra nolana, acerrana e campana. Un territorio avviato all'autodistruzione, dove la legalità e la dignità valgono poco ma costano molto; dove degrado, inquinamento, cemento e corruzione la fanno da padroni.

Quella mattina ero con Vincenzo, mio coetaneo e compagno di classe. Avevo in mano due quaderni, il libro di chimica e un panino con la mortadella avvolto nella carta, il tutto tenuto insieme dall'elastico.

Mentre andavamo a scuola, sul nostro percorso, notammo un centinaio di persone che avevano bloccato il treno nella stazione di Mariglianella. Gli impedivano di partire. Non era Quel treno per Yuma, il classico western con Glenn Ford e Van Heflin, era il treno della Circumvesuviana diretto a Napoli. Il treno degli incontri fra studenti, universitari, fidanzati e ragazzi in attesa del "sì" delle studentesse da incontrare alla stazione successiva. Il treno dove i giovani cedevano il posto a sedere agli anziani.

C'erano uomini che protestavano al centro dei binari, passeggeri affacciati dai finestrini che si lamentavano, dimostranti sui binari arrabbiati che urlavano. Incuriositi, Vincenzo e io, ci avvicinammo. Dopo pochi minuti, senza sapere per quali motivi quella gente fosse lì a protestare, ci ritrovammo al seguito di un gruppo che correva verso Marigliano. Davanti a tutti correva Ciccillo, un giovanotto magro e con una paglietta bianca in testa che gridava: «Tutti a Marigliano! Corriamo a Marigliano!». E noi dietro, in corsa, ridendo, scherzando e divertendoci, tanto da dimenticarci della scuola. Perché in quel momento stessimo correndo, non lo sapevamo neppure noi. Una cosa sola sapevamo, ed era che vi avevamo preso gusto a fare quella corsa pazza verso Marigliano. Giungemmo al centro di Marigliano, con il fiato in gola e un ritmo da fare invidia ai campioni delle corse campestri.

Era la prima volta che ci capitava di trovare tanta confusione, eccezion fatta per quando c'era la partita. Una cosa così io l'avevo vista solo nei film western del sabato popolare al cinema Vittoria, dove la pellicola si spezzava continuamente e, prima del film, veniva proiettata la Settimana Incom che dava notizie di fatti di cronaca, spettacolo, sport, costume e leggermente di politica. All'inizio degli anni Cinquanta, in quella sala ancora umida di pianto per le lacrime versate dagli spettatori per i film Catene e I fagli di nessuno – con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson – non arrivavano mai film di prima visione. Si entrava in qualsiasi momento durante la proiezione, spesso bisognava assistere in piedi, appoggiato alla parete e appostato nell'attesa che qualche spettatore uscisse per occuparne subito il posto. Per molti aspetti, il Vittoria ha una storia identica a quella che ha ispirato il film di Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso.

Salii su un improvvisato rialzo per rendermi conto meglio di quello che stava capitando e vidi gente correre a destra e a sinistra, con zappe, rastrelli e vanghe in mano; autocarri e autobus posti trasversalmente sulla strada; poliziotti inseguiti dai manifestanti, contadini inseguiti dai poliziotti, carabinieri che picchiavano, uomini che continuavano a confluire in piazza e un fitto lancio di ortaggi e attrezzi agricoli contro il palazzo municipale. Tutti i nuovi lampioni erano in frantumi, il traffico era bloccato, un autotreno era fermo al centro della strada e una jeep della polizia rovesciata e incendiata. Il Circolo dell'unione "dei signori" che giocavano a ramino, a scala quaranta e a poker, allocato al piano terra dell'edificio comunale, era stato completamente devastato e il portone del municipio sfondato.

Circa tremila dimostranti correvano verso il palazzo del comune e l'esattoria comunale. Quest'ultima rappresentava per i contadini il simbolo della loro miseria. Non mi rendevo conto di cosa stesse accadendo, sembrava un campo di battaglia. Lingue di fuoco che uscivano dagli uffici e i carabinieri che dal piano superiore sparavano in aria raffiche di mitra per intimorire la folla. Altra gente correva verso il vicino ufficio postale e l'area del mercato. Poliziotti e carabinieri che lanciavano bombe lacrimogene e sparavano colpi in aria, cittadini che si infilavano nei portoni per paura o, comunque, per non essere coinvolti.

All'improvviso mi ritrovai circondato da alcuni manifestanti provenienti dal lato opposto della piazza, i quali stavano costringendo i poliziotti, appena scesi da una camionetta, a trovare riparo nella macelleria all'angolo di via Giannone. Ero frastornato. A un certo punto ebbi l'impressione di sentire la tromba del Settimo Cavalleggeri. Arrivavano i nostri? Ma i nostri chi? Io stavo con gli indiani o con i soldati americani? Un poliziotto decise per me. Mi accorsi che mi aveva puntato e che mi stava venendo addosso. Allora mi buttai dalla parte opposta, quella dei pellerossa che difendevano il loro territorio, ma fui preso in pieno viso da una manganellata. Travolto dalla folla, mi ritrovai con un occhio nero e semisvenuto, e con l'orologio da polso a corda, quello della prima comunione, irrimediabilmente rotto.

Cosa avvenne dopo quella manganellata non saprei dirlo; so solo che mi ritrovai seduto su di una sedia in ferro, davanti a un negozio, e che una signora di mezza età – grassoccia, con i capelli rossi sciolti, in camice rosa, affabile e gentile – si prese cura di me. Aveva un fazzoletto bagnato in mano e me lo passava a intervalli regolari sull'occhio. Muoveva la testa a destra e a sinistra come un pendolo, sussurrandomi: «Guagliò, ringrazia Dio che ti ho visto in tempo, perché la vedi quella camionetta? Embè, ti stava scamazzando». Dei quaderni e del panino si era persa ogni traccia. Mi accorsi, intanto, che stava arrivando una ragazza impaurita, la quale era sbucata dal vicoletto che collega via Giannone con lo spazio antistante il comune. Aveva in mano un cesto di percoche gialle e una confezione in legno con dentro i formaggini. «Zi' Nannì, avete per caso visto a papà?», chiese alla donna che, per badare a me, le dava le spalle. Spiegò che il padre le stava vicino quando era cominciata la carica: «E mò nun saccio addò stà». Finì per guardare me. Guardava e parlava. «Ho visto invece a Rocco miez' 'a dduje carabinieri ca s'o portavano. Chi fujeva acca, chi fujeva alla. Gente co' sangue 'n faccia ca scappavano». "A zi', ma ch'è succiesso? E chi Rocco hanno portato via?", avrei voluto chiedere.

Passata la furia, il sole era ancora alto. Le forze dell'ordine erano sparse ovunque e un centinaio di cittadini, come "indiani prigionieri", erano in attesa di essere interrogati e trasferiti nella "riserva" di Poggioreale. Erano ammanettati e molti dicevano di non avere nulla a che vedere con ciò che era successo. Furono condotti prima alla caserma di Nola e poi trasferiti a Poggioreale.

Verso le undici di quella mattinata, una ragazza minuta e bellina, bruna, con camicetta bianca e zoccoli ai piedi, confusa e tremante, chiedeva notizie di suo fratello: «Avite visto a Giggino?»; una signora anziana piangeva sulla spalla del marito, un omone portava in giro il suo pancione, una "gnocca" con le trecce e calze corte guardava fisso il poliziotto e due autobotti dei pompieri erano ferme davanti al comune. Molti teloni del mercato erano strappati, le bancarelle divelte, cereali e attrezzi agricoli sparsi a terra e gente incredula chiedeva cosa fosse accaduto.

Il maresciallo dei carabinieri, con la giacca della divisa scucita e un faldone di carte tra le mani, andava avanti e indietro; Gaetano, col berretto alla marsigliese e un sigaro toscano in bocca, sembrava il re di Poggioreale; donna Rosa, ex proprietaria di una fabbrica di patate – che pagava le dipendenti a settimana la domenica mattina, solò dopo che le avevano fatto le pulizie nella sua abitazione – lanciava parolacce contro i mediatori; don Gennaro Ceraso, lo strozzino senza pietà che rovinava le famiglie, aveva a fianco una donna bionda tutta impennacchiata, col bocchino fra le labbra, che aveva conosciuto quando i casini erano ancora aperti; cinque o sei cani rovistavano tra i rifiuti; il bar riapriva lentamente.

Per l'intera giornata tutta la città era rimasta in stato di assedio. Poliziotti e carabinieri presidiavano le vie di accesso alla città e non appena notavano sospetti, immediatamente procedevano al fermo. La sera fu dichiarato il coprifuoco. Al calare della notte cinque camion dei carabinieri carichi di arrestati partirono dalla caserma di Nola diretti a Poggioreale.

Nei giorni successivi in piazza e per le vie di Marigliano fu vietato fermarsi e discutere in più di due o tre persone. In seguito ai primi interrogatori degli arrestati, dopo che uno di loro fece delle dichiarazioni, iniziò per moltissimi giorni la caccia all'uomo. La lista dei sospettati aumentava di giorno in giorno e alcuni contadini, di notte, furono buttati giù dal letto e portati in cella. Solo una parte di chi veniva chiamato in caserma per accertamenti poi tornava a casa. Fu così che dalle mie parti calò il gelo. Il giorno della rivolta, però, il termometro appeso sulla parete esterna della farmacia Trifuoggi segnava ventotto gradi.

La rivolta dei contadini di Marigliano scoppiò perché era crollato il mercato delle patate: dalle quaranta lire dei giorni precedenti, il prezzo era precipitato a sette lire al chilo.

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