Autore Suad Amiry
Titolo Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea
EdizioneMondadori, Milano, 2020, Scrittori italiani e stranieri , pag. 240, cop.rig.sov., dim. 14,5x22,4x2 cm , Isbn 978-88-04-72510-7
OriginaleAn English Suit & A Jewish Cow. A novel based on a true story [2020]
TraduttoreSonia Folin
LettoreGiovanna Bacci, 2022
Classe narrativa palestinese , paesi: Palestina , paesi: Israele , guerra-pace












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice



         Prima parte - SUBHI - UN ABITO INGLESE
                        (GIAFFA, GIUGNO 1947)

  9   1  Il miglior meccanico della città
 18   2  L'abito inglese: una terra promessa
 24   3  I giardini di aranci
 29   4  L'abito inglese: averlo o non averlo?
 37   5  Il paparino
 40   6  Tre banconote verdi e una rossa (luglio 1947)
 47   7  L'abito inglese: il grand tour
 53   8  Orgoglio inglese
 59   9  L'abito inglese: consegnato alla posterità
 64  10  Khawaja Subhi al Caffè dei Matti
 68  11  Il Caffè degli Intellettuali
 73  12  Il ragazzo diventa uomo
 79  13  Gita al bordello
 83  14  Mawsim El Nabi Rubin (agosto-settembre 1947)
 86  15  La tendopoli
 90  16  Il rito del Kisweh
 95  17  Il costruttore di aquiloni
101  18  L'amore della mia vita


         Seconda parte - RITORNO A GIAFFA

111  19  Malinconia (settembre-novembre 1947)
116  20  Le arance della morte (4 gennaio 1948)
120  21  Assalto al treno
124  22  La macabra parata di Gerusalemme (8 aprile 1948)


         Terza parte - I NUOVI PADRONI

133  23  Un mondo scomparso
137  24  l nuovi padroni
144  25  Interrogatorio per un abito contestato
148  26  Giaffa città chiusa
151  27  Le case degli assenti
156  28  Il miglior meccanico della non città


         Quarta parte - SHAMS

165  29  Madre surrogata
172  30  La mucca ebrea (un mese prima)
176  31  Interrogatorio per una mucca ebrea
180  32  C'è qualcuno alla porta
187  33  Una madre musulmana
192  34  Piano di fuga
199  35  L'inferno alle spalle
202  36  Le mani vuote e il cuore a pezzi
205  37  I nuovi vicini (Giaffa, 1951)
215  38  Una richiesta amichevole
225      Ciò che resta (Giaffa, gennaio 2018)


229      Ringraziamenti
231      Da una storia vera
233      Nota dell'editore


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

1
Il miglior meccanico della città



Fu solo dopo un crescendo di «Subhi, Subhi, Subhi... Porca miseria, walak, Subhi!» che il ragazzo si degnò di alzare la testa nell'antro buio dell'officina. M'allem Mustafa era sulla soglia insieme a un nuovo cliente, un tipo alto ed elegante. Senza alcuna fretta, Subhi fece cessare il rumore assordante del generatore elettrico e alzò il palmo della mano come per dire "un momento!". M'allem Mustafa gli rispose con un gesto autoritario e un altro urlo.

«Ti ho detto di venire qui subito!»

Subhi indicò le decine di pezzi meccanici sparsi sul pavimento di cemento imbrattato di grasso. C'erano macchinari di ogni genere: pompe idrauliche, generatori elettrici, motori - tutti in attesa di essere riparati da lui, abile meccanico quindicenne. M'allem Mustafa conosceva fin troppo bene l'atteggiamento di Subhi quando non voleva essere disturbato. Riprese a strillare.

«Subhi!... Molla quello che stai facendo! Vai a lavarti le mani e la faccia. Voglio che accompagni Khawaja Michael alla sua bayyara, la piantagione di arance. A quanto pare c'è un problema con il sistema di irrigazione, o forse con la pompa idraulica della cisterna grande.»

«Khawaja Michael» borbottò Subhi fra sé e sé, alzando di nuovo lo sguardo verso lo sconosciuto.

L'uomo era in piedi sulla soglia dell'officina. Indossava un completo di cammello e un Fedora marrone chiaro con un nastro più scuro. In controluce, Subhi non riusciva a distinguere i tratti del suo volto. Il sole accecante di mezzogiorno disegnava intorno a lui un'aura dorata.


Khawaja Michael, Khawaja Michael... Dove l'ho già sentito questo nome?, si chiedeva Subhi lavandosi le mani nere di grasso nel lavandino di pietra. Ma sì, certo, da mio padre, si ricordò mentre esclamava ad alta voce:

«Khawaja Michael in persona! Quale onore!»


Di colpo gli tornò in mente, parola per parola, la discussione - quasi un litigio - con suo padre:

«Io amo il mio lavoro, e se necessario lo farei anche gratis» aveva detto Subhi per difendere la sua scelta di lasciare la scuola e lavorare come meccanico da M'allem Mustafa, il proprietario dell'officina.

«Sì, certo, come no, gratis. Ma tu guarda un po' che faccia tosta. Chi ti credi di essere, il figlio di Khawaja Michael?»

Ecco quando lo aveva sentito per la prima volta. Subhi si ricordò anche che suo padre lo aveva preso in giro, perché pensava che Khawaja fosse il nome del signor Michael.

«La, ya ibni, no figlio mio, Khawaja non è il suo nome, khawaja significa gentiluomo cristiano o ebreo. Naturalmente non tutti i cristiani e gli ebrei sono khawajaat - solo i ricchi. Alcuni sono poveri quanto tuo padre, se non di più.»

I poveri - che fossero cristiani, ebrei o musulmani - Subhi ce li aveva ben presenti. Conosceva benissimo la povertà dei vicini di casa cristiani, Abu e Um Yusef, e pure quella di Abu Yaqub, il facchino ebreo che lavorava al mercato del Carmelo. Invece un ricco khawajaat non lo aveva ancora mai incrociato.

«E quindi come si chiama un musulmano ricco?» aveva chiesto.

«Si chiama uomo ricco, presumo» aveva risposto suo padre con un sorriso.

[...]

«Perché lavorare per M'allem Mustafa quando potresti lavorare per tuo padre?» obiettava spesso Ismael, il padre di Subhi (chiamato anche Abu Jarnal, con riferimento al figlio maggiore).

«La risposta alla tua domanda è molto semplice» replicava Subhi con una punta di cinismo. «M'allem Mustafa mi dà trenta piastre al giorno, mentre tu ai miei fratelli non dai un bel niente.»

«Niente, ya 'ars, banda di piccoli bastardi? Niente? Non vi do forse un tetto? Non vi do forse un materasso su cui dormire? Vostra madre e vostra nonna lavorano giorno e notte per voi! Lavare e asciugare montagne di vestiti luridi e cucinare per le vostre bocche affamate, tu lo chiami niente? Cos'altro può fare un pover'uomo come me per i suoi figli? Vediamo dove ti porteranno le tue trenta piastre al giorno. Finirai scapolo come tuo zio!»

«Cos'ha che non va zio Habeeb? Credi che non sia felice, a Tel Aviv, a tirar tardi una sera sì e l'altra pure?»

«È questo il tipo di vita che sogni di fare, figliolo?»

Nonostante lavorasse ben poco e non guadagnasse praticamente nulla, il fratello più giovane di Abu Jamal riusciva a divertirsi parecchio nei locali notturni. Trascorreva la maggior parte dei fine settimana nei bordelli lungo la Jaffa Tel Aviv Road.

«Ma zio Habeeb dice che in quei posti si coltivano ottime relazioni con i soldati inglesi, e che lui se li sta lavorando per far modificare le politiche del governo britannico sull'immigrazione degli ebrei in Palestina!»

«Sì, certo, come no! Li vediamo, i risultati... Ogni giorno aumentano le navi piene di immigrati ebrei che sbarcano al porto di Tel Aviv, proprio sotto i nostri occhi. Se non sono servite a niente le rivolte del '36, e poi del '39, credi che quell'ubriacone di tuo zio possa fare qualcosa, chiuso dentro un bordello insieme a quattro soldati inglesi ubriachi pure loro?»

«Perché no?» chiese Subhi, che si stava godendo la prima conversazione da uomo a uomo con il padre e voleva prolungarne il piacere.

[...]

«E poi vorrei proprio sapere» esplose infine Ismael, «vorrei proprio sapere quale ragazza accetterebbe di sposare un tizio che si spacca la schiena dalla mattina alla sera, al buio in un'officina, in mezzo alla sporcizia, per trenta piastre al giorno!»

Subhi non disse niente. Adesso era stufo di quella discussione. E soprattutto temeva di tradirsi, di rivelare senza volerlo il segreto incandescente che già da qualche mese custodiva in fondo al cuore.


Si era innamorato di Shams, la figlia tredicenne di Khalil Il Saqqa, un collaboratore di suo padre. Innamorato perso. L'aveva vista per la prima volta alla festa di Mawsim El Nabi Rubin - il momento più magico dell'anno, perfetto per l'amore. Come centinaia di altri ragazzini, Shams correva allegramente insieme alle sue sorelle più piccole, Nazira e Nawal, e a uno stuolo di cugini. Subhi vide il suo vestito bianco e arancio prima ancora di avvicinarsi e accorgersi del suo sorriso, dei suoi occhi e dei lunghi capelli ricci che le accarezzavano le spalle.

Quella sera non riusciva a smettere di guardarla - e Subhi tratteneva a stento un sorriso imbarazzato ricordando cosa gli era successo per averla fissata così a lungo -, e da allora ogni notte il ragazzo si dimenava nel letto, come i pesci catturati da suo nonno, girandosi e rigirandosi in preda a un'insonnia molto agitata.

Non capiva esattamente cosa fosse a farlo impazzire. Il suo modo particolare di sorridere? O quella malinconia negli occhi color nocciola?

Non poteva certo immaginare, allora, che lo sguardo della ragazzina portasse in sé la tragedia che anni dopo si sarebbe abbattuta su di loro, sul loro popolo e sul paese intero.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 20

Subhi fu costretto a interrompere l'articolata mappatura mentale delle tariffe, perché Khawaja Michael aveva deciso di avviare una conversazione:

«Come ti chiami, giovanotto?»

«Subhi Ismael Abu Shehadeh» rispose Subhi sperando - invano - che Khawaja Michael riconoscesse il nome di suo padre.

«Quanti anni hai?»

«Sedici a ottobre.»

Ne aveva solo quindici, ma gli piaceva passare per più grande.

«Sei molto giovane. Eppure la gente dice che sei il miglior meccanico della città.»

«Lo sarò se riuscirò a capire che problema ha la sua pompa idraulica e ad aggiustarla.»

Subhi era un po' spaventato.

«Speriamo in bene. Finora non ci ha capito niente nessuno.»

«Insh'allah, Khawaja. Se Dio vuole la aggiusterò» disse Subhi sempre più intimorito.

«E io ti prometto che se vedrò di nuovo l'acqua sgorgare da quei tubi ti farò fare un abito, un abito di fattura inglese, dal miglior sarto della città.»

Subhi rimase senza fiato e sgranò gli occhi.

«Un abito inglese?» ripeté con un filo di voce.

«Sì, su misura, dal miglior sarto della città. Anzi, sarai tu stesso a scegliere dove farlo fare, giovanotto. In lana di Manchester.»

«Ma aveva detto un abito inglese!»

Forse era davvero il miglior meccanico della città, ma di certo la geografia non era il suo forte. Khawaja Michael lo rassicurò:

«Sì, sì, un abito inglese. I migliori tessuti inglesi vengono da Manchester.»

Senza staccare gli occhi dall'abito di cammello di Khawaja Michael, Subhi azzardò un'ultima domanda:

«Mi scusi, Khawaja Michael, ma quanto costa un abito inglese?»

«Dalle sette alle otto sterline, più o meno» rispose Khawaja Michael.

Subhi deglutì. Era più dello stipendio mensile di un preside, e molto più di quanto lui avrebbe potuto risparmiare in un anno. Non che gli rimanesse in tasca granché, delle famose trenta piastre al giorno.

L'immaginazione di Subhi prese a galoppare. Già si vedeva vestito da sposo, di fianco all'amata Shams (la più bella ragazza del mondo). Lui, nel suo elegante abito inglese da otto sterline, e lei, tutta di bianco vestita, come il principe e la principessa inglesi della rivista in biblioteca. Aveva strappato la pagina, che adesso era appesa al muro grigio dell'officina, sopra la cassetta degli attrezzi: l'angolo delle sue ossessioni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 33

Intento a mettere in pratica la tecnica della nonna, Subhi non si era reso conto che l'automobile era ferma nel traffico, bloccata da una manifestazione contro gli inglesi, e non poteva procedere. La gente intonava cori di protesta agitando cartelli:

BASTA IMMIGRAZIONE EBREA NELLA PALESTINA ARABA!
NO AL PIANO DI PARTIZIONE!
OFFRITE LORO UNA CASA NELLA GRAN BRETAGNA,
NON NELLA PICCOLA PALESTINA!
SMETTETELA DI RUBARE LE NOSTRE TERRE ARABE!
NO AL SIONISMO!



Uno striscione in particolare catturò l'attenzione di Khawaja Michael, che lo lesse a voce alta: «CHIEDIAMO LO SCIOPERO GENERALE... Dio ci assista» sospirò. Un poliziotto gli indicò una strada alternativa. I soldati britannici intanto disperdevano la folla con la consueta brutalità. «Speriamo che non degeneri in una rivolta senza fine, come nel 1936.»

Quel commento lasciò Subhi un po' interdetto. Lui stesso aveva partecipato più volte alle manifestazioni del venerdì, che partivano dalla Grande Moschea di Giaffa per terminare alla Torre dell'Orologio. Certo, aveva appena quattro anni ai tempi della rivolta del 1936, ma suo padre e suo nonno erano una miniera di storie sull'eroismo dei combattenti per la libertà che si opponevano alla Dichiarazione di Balfour. Contestavano la polizia britannica perché trafficava con la milizia sionista, a cui consentiva di far introdurre illegalmente in Palestina armi e uomini.


Nonno Ali aveva spesso raccontato a Subhi della sua casa, fatta saltare in aria dai British Royal Engineers.

«Vorrei proprio sapere cosa c'era di tanto "royal" in quella gente. Me lo ricordo come fosse ieri. Era il 29 giugno. Gli inglesi lanciarono dei volantini dal cielo dandoci ventiquattr'ore per evacuare. Si scatenò l'inferno. Migliaia e migliaia - non centinaia, migliaia! - di soldati britannici riempirono le strade come formiche, infilandosi in ogni vicolo della Città Vecchia. In un batter d'occhio il quartiere fu isolato, e quelli iniziarono a far esplodere le case, una dopo l'altra. Cadevano come un castello di carte. Cominciarono da est e si fecero strada con la dinamite fino al mare. Tutto raso al suolo. Niente più casbah, niente più case, niente più moschea, niente santuari e niente zawiyyeh, niente scuole, niente più viali, negozi, persone... Niente di niente. È stato allora che ci siamo trasferiti a El Manshiyyeh.»

A questo punto del racconto, nonno Ali faceva un gran sospiro prima di aggiungere:

«I soldati inglesi tornarono una seconda volta, per completare lo scempio. Si erano aperti una strada in mezzo alla Città Vecchia per tenere tutto sotto controllo. Da allora, il fascino della vecchia Giaffa è perduto. Ormai ci abitano solo i cani, i gatti e i poveracci. E la mia consuocera Farida.»

E poi, con un sorriso amaro:

«Un disastro. Per i britannici si trattava di un "lifting" e l'architetto municipale ridefinì la vecchia Giaffa una "città romana" con due viali perpendicolari: il Decumanus Maximus e il Cardo Maximus. Ma nessuno di noi aveva mai sentito una parola di latino in vita sua!»

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 53

8
Orgoglio inglese



C'era qualcosa in quell'abito che faceva sentire Subhi più sicuro di sé, qualcosa che non aveva mai provato prima, benché sapesse di avere molte qualità. Era un ragazzo per bene, abile, intelligente e simpatico - e davvero molto bello.

È così che si sentono i ricconi come Khawaja Michael, che vestono sempre in modo impeccabile: eleganti e sicuri di sé?, si chiedeva Subhi, rievocando l'attimo in cui Khawaja Michael aveva tirato fuori il portafogli di pelle lucida e pagato le otto sterline. Certo, rifletté, a me mancano il portafogli e i bigliettoni verdi e rossi, ma con un abito come questo la gente darà per scontato che ho le tasche piene di soldi.

Adesso che si sentiva un po' inglese, Subhi credeva di capire anche perché i britannici si comportavano in modo così arrogante e presuntuoso. Ripensò alla classica "conferenza politica" di zio Habeeb tutte le (troppe) volte che si ubriacava.

«Fanculo gli inglesi che hanno dato la Palestina in mano ai sionisti. Se loro, i britannici, non avessero colonizzato il mondo applicando la politica del farreq tasud, o del divide et impera per chi sa il latino, il mondo oggi sarebbe un posto migliore. Gli inglesi non hanno cuore, te lo dico io. Credi che dopo aver venduto milioni di africani alle due Americhe si farebbero qualche scrupolo a vendere noi e la nostra terra al diavolo? Lo hanno già fatto. Ma siamo stati noi stupidi arabi a tradire gli ottomani a favore degli inglesi. E loro come ci hanno ricompensato? Con la Dichiarazione di Balfour! E chi cazzo è quel Signor Nessuno, quel pallone gonfiato di un Lord Balfour, per regalare il nostro paese agli immigrati ebrei che sono arrivati ieri? E perché tutto questo? Perché gli inglesi trattano il mondo come un grande bordello: di notte si fottono le puttane e di giorno si fottono i palestinesi. Li vedo sempre, nei bordelli arabi ed ebrei.»

«Non ti vantare dei tuoi peccati, sei peggio di tutti loro messi insieme.»

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 70

Siamo alle solite, pensò Subhi. Sembravano le discussioni fra suo padre e zio Habeeb:

«Contro chi scioperiamo? Chi vogliamo danneggiare? Guardati intorno: noi siamo disperati, mentre i sionisti sono in piena espansione economica.»

«Dio mio, ma cosa abbiamo ottenuto con lo sciopero, a parte distruggere il settore delle importazioni ed esportazioni? Non ricordi quanto siamo stati stupidi a vietare agli ebrei di usare il porto di Giaffa? Gli inglesi gliene hanno costruito uno apposta a Tel Aviv, e adesso tutto il commercio marittimo è in mano loro!»

«Cosa credevi, che gli ebrei aspettassero tre anni la fine del tuo sciopero? Si sono dati da fare, era ovvio. Adesso il palcoscenico è tutto per loro.»

«Allora dimmelo tu, cosa dovremmo fare? Metterci buoni buoni in un angolo ad aspettare che occupino il nostro porto e tutte le nostre terre? Non abbiamo scelta. Dobbiamo affrontarli.»

«Sì, ma affrontarli in modo intelligente, evitando di danneggiare noi stessi.»

«Hai qualche suggerimento? Noi proponiamo lo sciopero generale, tu ti opponi. Proponiamo di resistere con le armi, ti opponi. Come diavolo facciamo a impedire che ci portino via il nostro paese?»

«So solo che l'esortazione allo sciopero di Haj Amin El Husseini ha già affossato l'economia una volta e la affosserà di nuovo, se andiamo avanti. Era sbagliato allora ed è sbagliato oggi. La tensione non deve aumentare. Dovremmo invece dare ascolto al sindaco Haykal e a Muhammad Nimr al-Hawari, propiziare un incontro con il sindaco di Tel Aviv per la firma di un No Atrocity Accord.»

«Anche se firmassimo quel maledetto accordo, e anche se Giaffa fosse assegnata allo Stato Arabo, fidati: gli ebrei non ci lascerebbero in pace. Il capo della Haganah, Menachem Begin, ha dichiarato apertamente di volersi liberare dell'"enclave araba". Siamo un'isola in un mare di ebrei, nel caso non te ne fossi accorto.»

«Sono loro che si sono insediati qui, non siamo stati noi a piazzarci sulle loro terre. Non possiamo fare altro che prepararci e rispondere.»

«Rispondere con cosa? Con le mani?»

«È proprio per questo che dovremmo procurarci delle armi.»

«Ma quali armi? Da chi? Scusami, sai, ma mi sembri completamente idiota.»

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 84

«Ma chi era Rubin?» aveva chiesto un giorno Subhi a nonno Ali.

«Ti taglio la lingua, ragazzino. È un profeta, e quindi si chiama Nabi Rubin, non Rubin.»

«Scusami, nonno. Allora, chi era Nabi Rubin?»

«Il figlio di Giacobbe.»

«Era ebreo?»

«Sì, era ebreo, ma anche musulmano.»

«Com'è possibile che il figlio di Giacobbe, patriarca degli israeliti, fosse anche musulmano?»

Gli sembrava che le spiegazioni di suo nonno confondessero le sue poche certezze.

«Nipote mio, non lo sai che i musulmani venerano tutti i profeti venuti prima di Maometto, anche se ebrei o cristiani? Pensaci: Musa, Isa, Giuseppe, Isacco, Ismaele... tutti. Molti luoghi sono sacri per tutte e tre le religioni monoteiste, oppure per almeno due, come la moschea El Ibrahimi a Hebron, la tomba di Rachele a Betlemme, o la tomba sacra di san Giovanni vicino a Nablus.»

«Ma non ho mai visto nessun ebreo al Nabi Rubin Festival.»

«Be', ai miei tempi, quando arabi ed ebrei convivevano pacificamente, molto prima che quei bastardi di inglesi arrivassero in Palestina, prima che i sionisti invadessero il nostro paese, prima che iniziassero i disordini fra i due popoli... molti ebrei venivano al festival. Hanno smesso dopo la rivolta del 1936. E io temo che, se la tensione continua a salire, nemmeno noi avremo molto da festeggiare in futuro.»

«Quanto avrei voluto vivere ai tuoi tempi, nonno» disse Subhi.

Era atterrito al pensiero che un giorno lui e Shams avrebbero potuto perdere quell'unica opportunità di passare le vacanze insieme, o comunque vicini.

«Ma è vero che lui, intendo El Nabi Rubin, è stato sepolto in tre luoghi diversi? Com'è possibile?»

«Sì, certo. C'è una tomba al Cairo, alla montagna Muqattam, un'altra a Kabul e una terza...»

«Kabul? In Afghanistan?»

«No, non in Afghanistan. La Kabul della Galilea, in Palestina. Comunque la tomba vera è la nostra, qui, a Giaffa. Infatti il pellegrinaggio vero lo facciamo noi. Anche se ultimamente sembra più un luna park che un pellegrinaggio.»

Infatti Subhi lo conosceva solo come luna park, e si stupì nel sentire il nonno definirlo un hajj, un pellegrinaggio. Gli tornò in mente un commento di suo padre riferito a zio Habeeb: «Anche se lo portassimo al pellegrinaggio vero alla Mecca, Habeeb troverebbe il modo di commettere qualche peccato». Gli uomini della sicurezza avevano appena diffuso le regole da rispettare: niente gioco d'azzardo. Niente alcol. Niente droga.

«Niente prostitute non l'hanno detto... o sbaglio?» aveva fatto notare zio Habeeb con un sorriso.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 93

Ma il momento più bello era la sera. La gente usciva a grappoli, intasava le stradine mossa da curiosità: cosa si sarebbe inventato quest'anno il comitato organizzatore? Il festival era ormai diventato la più importante manifestazione culturale non solo della Palestina ma di tutto il mondo arabo. Si potevano,vedere i film egiziani più recenti e le migliori produzioni teatrali libanesi e siriane, si poteva assistere al concerto di una band di Aleppo, o partecipare a una festa di matrimonio - vero o falso che fosse: i bambini erano particolarmente entusiasti di quelli finti, in cui gli uomini si travestivano da donne e facevano la danza del ventre. Molte famiglie sceglievano invece momenti di meditazione religiosa con sufi e dervisci che si esibivano nella famosa el maylaweiyyeh, la danza rotante, finché cadevano a terra sfiniti sulle dune di sabbia dove rimanevano fino al mattino seguente. Molti, come zio Habeeb, andavano nei caffè equivoci per giocare, bere e fumare hashish. Infine, il festival di El Nabi Rubin era anche il contesto perfetto per gli affari, per le proposte di matrimonio - e per le storie d'amore.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 124

22
La macabra parata di Gerusalemme
(8 aprile 1948)



Si dice che le cattive notizie non vengono mai da sole, ma in genere si intende che ne arrivano contemporaneamente due, al massimo tre.

In Palestina non sono mai meno di quattro.

L'8 aprile 1948 il mondo arabo si svegliò con una terribile notizia. Abdel Qader El Husseini, figlio del sindaco di Gerusalemme e capo di El Jihad El Muqaddas - braccio armato del Partito Arabo Palestinese -, era morto nella battaglia di El Qastal. Gravemente ferito e caduto in mano nemica, aveva chiesto la grazia di un bicchier d'acqua. Per risparmiarsi la fatica, l'uomo che aveva di fronte gli aveva ficcato una pallottola in testa.

La mattina seguente, non lontano dal El Qastal, le forze congiunte dei gruppi Irgun, Lehi e Haganah attaccarono il villaggio di Deir Yasin. Duecentocinquanta palestinesi in fuga furono abbattuti a colpi d'arma da fuoco. I sopravvissuti furono caricati su grossi camion che attraversarono strombazzando i quartieri arabi di Gerusalemme.

Com'era facilmente prevedibile, la macabra parata scatenò l'orrore in tutta la Palestina. Bisognava evacuare le città e i villaggi a rischio. Donne e bambini dovevano essere allontanati dalle zone del conflitto.

Scappare, scappare, scappare. A Giaffa non si parlava d'altro.

[...]

Il mandato britannico giungeva alla fine. La mezzanotte del 14 maggio 1948 si avvicinava a grandi passi e, come un impietoso conto alla rovescia, attacchi e aggressioni andavano aumentando, in frequenza e in ferocia. Il piano di Menachem Begin era semplice: ignorare i confini stabiliti dal Piano di partizione e conquistare quanta più terra possibile prima del 15 maggio. Infatti, finché il mandato era in vigore, gli eserciti dei paesi arabi confinanti - Egitto, Iraq, Siria, Giordania - non potevano entrare in Palestina. E così, in quel lungo lasso di tempo l'Irgun poté agire indisturbato, senza nessun avversario temibile fra i piedi.

Si scatenò l'inferno.

La mattina del 25 aprile le munizioni della rapina al treno riapparvero come per magia nei cieli della città. Invece degli stormi di uccelli, a riempire il cielo di Giaffa nella sua ultima primavera fu una raffica di ventimila proiettili, che la colpirono al cuore per tre giorni consecutivi, indiscriminatamente, fino a metterla in ginocchio.

Caddero impietosi sulla piazza dei Martiri, per fare nuovi martiri. Caddero sugli ospedali e confusero i morti con i vivi e i bisognosi di cure. Caddero sui luoghi di culto, e le preghiere cessarono aprendo il silenzio agghiacciante delle rovine. Non furono risparmiati mercati, negozi, banche, scuole, tutti i luoghi in cui si muove la vita, in cui si impara a conoscere il mondo, in cui le merci sbandierano colori, in cui gli occhi si accendono di curiosità e destrezza, in cui si fa rumore e le voci sono segni impressi nell'aria,

Nessuna voce, invece. Nessun rumore se non quello che riempiva il cielo azzurro di grigio, di fumo, di morte. E morti e feriti furono abbandonati per strada. Gli altri, quelli che non restavano a terra, si davano alla fuga, come potevano. E allora sì, si sentivano voci e grida, ma soffocate: scappa, fuggi, mettiti in salvo, o entrerai anche tu nel regno dei morti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 137

24
I nuovi padroni



Stava nascendo una nuova nazione, mentre un'altra moriva.

Per dirlo con le parole scritte nel 1901 sulla "New Liberal Review" dal padre del sionismo Theodor Herzl, la Palestina era stata un paese senza un popolo; gli ebrei, un popolo senza un paese.

Una menzogna fatta e finita, impacchettata, infiocchettata e servita su un piatto d'argento al mondo "libero", che fu ben felice di farla sua. Forse era solo un modo molto semplice per l'Occidente di ripulirsi la coscienza? Il fatto è che un'inspiegabile ondata di simpatia accompagnò la nascita del nuovo Stato, senza mai arrestarsi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 151

27
Le case degli assenti



Ben presto Giaffa fu invasa dai cosiddetti olim, i nuovi immigrati ebrei che arrivavano dalla Bulgaria, da Bukhara e dallo Yemen per insediarsi nelle case dei palestinesi. Le aggressioni e le umiliazioni continuavano senza sosta. Su tutti i territori occupati fu imposto un coprifuoco dalle sette di sera alle sei del mattino.

Per portare a termine in modo efficiente il totale assoggettamento della popolazione indigena era stato istituito un Comitato di trasferimento, a cui erano stati assegnati diversi compiti. Innanzitutto, doveva sbattere fuori di casa i palestinesi. In secondo luogo, sparare a vista su chiunque tentasse di rientrare in un'abitazione da cui era stato cacciato. Infine, coordinare il "piano di ricollocamento", cioè l'insediamento dei nuovi immigrati ebrei nelle case palestinesi. Era una strategia complessa, decisamente ben congegnata sotto ogni aspetto.

L'elegante quartiere di El'Ajami - distante sia da Tel Aviv sia da Bat Yarn - si rivelò il luogo ideale per ospitare il ghetto arabo. Oltre ai duemila cittadini sfollati di Giaffa, ad 'Ajami si ammassarono altri tremila contadini cacciati dai villaggi circostanti. La zona fu rinominata ufficialmente Area A. Quando il trasferimento fu completato e il quartiere stipato di gente fino a scoppiare, l'Area A fu delimitata con il filo spinato. Rimasero aperti tre varchi sorvegliati.

Inizialmente Subhi era riuscito a rimanere da nonna Farida. Ogni due o tre giorni qualcuno picchiava alla porta o tentava di sfondarla, ma senza riuscirci. Subhi ci stava quasi facendo l'abitudine.

Una mattina, vedendo che non gli portava il suo caffè molto zuccherato, il ragazzo entrò nella camera da letto di nonna Farida. Era morta nel sonno. Giaceva a letto con la testa di lato e uno strano sorriso vagamente sarcastico. Subhi restò in piedi di fianco a lei per chissà quanto, non avrebbe saputo dirlo. Che ne sarebbe stato di quel corpo? Non riusciva ad allontanarsi ma non aveva neppure l'ardire di toccarlo, di mettere in quel letto l'ordine a cui, in tempi normali, un defunto avrebbe avuto diritto. Si limitava a cercare un segno, un messaggio, in quel sorriso che nonna Farida aveva conservato prima di affrancarsi dall'esistenza terrena. E in effetti nella luce polverosa della stanza gli pareva di sentirla la nonna, era la sua voce quella che diceva:

"Sono morta, finalmente! Non ne potevo più di questa gente che le tenta tutte pur di prendersi casa mia. Basta, ho visto troppo dolore, troppe assurdità in questa maledetta nakba, questa catastrofe che sembra non finire mai. Io mi porto avanti e me ne vado in paradiso. Ci vediamo là".

| << |  <  |