Autore Giorgio Amitrano
Titolo Iroiro
SottotitoloIl Giappone tra pop e sublime
EdizioneDe Agostini, Milano, 2018 , pag. 238, cop.fle., dim. 14x21,3x2 cm , Isbn 978-88-511-5344-1
LettoreElisabetta Cavalli, 2018
Classe paesi: Giappone , critica letteraria












 

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Indice


Premessa                                  9


La scrittura                             27

La cerimonia                             51

La felicità                              81

La realtà [e l'irrealtà]                105

Le stagioni                             129

Il karaoke                              173

Lo bellezza                             201


Ringraziamenti                          227

Opere e luoghi citati                   229

Riferimenti bibliografici               235



 

 

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Pagina 15

[...] Iroiro è un termine che si usa per indicare una varietà eterogenea di cose: questo e quello, un po' di tutto, molto, tanto, abbastanza... Il carattere con cui si scrive è quello di iro, "colore": raddoppiato indica varietà, assortimento, molteplicità (parola cara a Calvino) ma con in più un elemento policromo. Non indica soltanto qualcosa di vario, ma anche di variopinto. Iro è un termine dai molti significati, legati anche a concetti buddhisti, ma uno dei più importanti ha a che fare con l'amore. Iroke, somma dei caratteri di "colore" e "spirito"; allude alla sensualità e all'erotismo. Insomma, iroiro è un termine vario, multicolore e persino un po' sexy, e anche per queste ragioni ho voluto sceglierlo come titolo.

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Pagina 27

LA SCRITTURA



In principio era l'inchiostro. Una piccola mattonella nera, sumi, all'apparenza dura come il granito, che poche gocce d'acqua, versate in una vaschetta di ceramica, suzuri, riuscivano a sciogliere con magica facilità. Nell'incavo del suzuri si andava raccogliendo un liquido denso, sempre più scuro quanto più a lungo la mattonella veniva sfregata contro la superficie. Quando il nero aveva raggiunto l'intensità desiderata, il pennello vi affondava, impregnandosi gradualmente d'inchiostro. Un gesto rapido, senza correzioni, al centro della carta, e la creazione era compiuta.

Ma a volte un solo gesto non bastava. C'era una poesia da scrivere o un messaggio d'amore da mandare. Allora il pennello imitava lo scorrere di un ruscello, con qualche schizzo irregolare come il guizzare di una carpa.

Mille anni fa, nel mondo della corte Heian (794-1185), tra buddhismo, shintoismo e confucianesimo la vera religione, diceva Arthur Waley, era la calligrafia. Poiché le donne erano quasi sempre nascoste dietro paraventi e cortine, gli uomini dovevano ricorrere ad altri mezzi per conoscerle e apprezzarne le qualità. Uno di questi era la scrittura. Un messaggio scritto con caratteri privi di eleganza spegneva l'interesse maschile, mentre uno che denotasse gusto e raffinatezza suscitava ammirazione e il desiderio di approfondire la conoscenza. Anche le donne usavano la scrittura per divinare le doti dei loro corteggiatori. Nel ricevere messaggi amorosi, di solito in forma di poesia, erano incantate o respinte dalla scrittura. Caratteri incerti, o rozzi, potevano far loro decidere di chiudere una storia sul nascere. Oggi la calligrafia non ha certo lo stesso peso nella vita delle persone, ma il rito della scrittura ancora si tramanda.




Lungo la Via della scrittura


Lo shodō, "la Via della scrittura"; mi aveva sempre affascinato.

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Pagina 43

Mano di donna


Lo shodō ha origine in Cina, come del resto gli stessi kanji. Questo termine, spesso reso impropriamente con "ideogramma", significa semplicemente "caratteri cinesi". Quando essi furono importati, fra il V e il VI secolo, adattarli alla lingua giapponese, totalmente diversa da quella cinese, richiese un enorme sforzo. Per gestire questa "incompatibilità" i kanji furono utilizzati a volte per il valore semantico, altre per quello fonetico, dando vita a un sistema di scrittura farraginoso e complesso. Successivamente, in epoca Heian, nel tentativo di semplificarlo, furono creati i kana, i due alfabeti sillabici (hiragana e katakana) che permettevano di trascrivere intere parole bypassando i kanji. La cultura di questo periodo, interamente concentrata nella corte imperiale della capitale Heiankyō (l'attuale Kyōto), è caratterizzata dal livello di squisita raffinatezza di arti quali la poesia, la calligrafia, la pittura, e da un fenomeno unico nella storia del mondo: il dominio assoluto della scena letteraria da parte delle donne. Due straordinari capolavori della letteratura giapponese, La storia di Genji (Genji monogatari) e le Note del guanciale (Makura no sōshi) furono scritti in epoca Heian, e per mano di donne.

"Mano di donna" (onnade) era anche il nome che si dava allo hiragana, perché gli uomini non si abbassavano a usarlo, ritenendolo disdicevole. Loro scrivevano in cinese puro o sino-giapponese, ritenuti più solenni e carichi di dignità. La possibilità di usare una scrittura duttile e vicina alla lingua indigena permise alle donne un'espressione molto più naturale e insieme raffinata. Se le donne avessero scritto in cinese come gli uomini (cosa peraltro a loro sconsigliata perché sconveniente), difficilmente avremmo avuto i capolavori di epoca Heian. Ma l'invenzione dello hiragana, dai caratteri più fluidi e armoniosi sia dei kanji che dell'altro alfabeto sillabico, cambiò anche l'arte della calligrafia, distinguendola per la prima volta in modo notevole da quella cinese. L'aspetto visivo della scrittura ne fu rivoluzionato.

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Pagina 48

[...] In Giappone nel frattempo le cose sono andate modificandosi. Sempre più persone, soprattutto delle giovani generazioni, ormai abituate a digitare testi su computer e smartphone, hanno meno occasioni di scrivere a mano. Anche la tradizione dei nengajō, le cartoline di auguri del nuovo anno che era un piacere scrivere e ricevere, è in netto declino. Una divertente canzone di Dance Man (Dansu man) di alcuni anni fa si intitolava "So leggere i kanji ma non li so scrivere" (Kanji yomeru kedo kakenai). Il brano è del 2000 e da allora la capacità di ricordare la scrittura dei kanji sembra peggiorata. Ma intanto il gusto della scrittura ha preso forme diverse, e lettering sempre più fantasiosi hanno invaso la pubblicità, sono entrati nei computer, nei videogiochi, e hanno superato i confini del Paese per diffondersi in Occidente dove la scrittura giapponese, con i kanji e i kana, sta vivendo una fortuna inaspettata. Persino i caratteri del katakana, geometrici e angolosi, tradizionalmente negletti dai calligrafi (e odiati dai miei studenti che li trovano indistinguibili l'uno dall'altro), appaiono da ogni parte, nelle creazioni degli stilisti e sulle magliette più a buon mercato, nei videoclip e negli spot pubblicitari, spesso usati a caso, senza curarsi di cosa vogliano dire. Una scrittura-giocattolo libera dal peso del significato, un codice enigmatico postmoderno. Ma è la globalizzazione a fare della scrittura giapponese un alfabeto Morse dell'immaginazione dei giovani occidentali? O a renderla così attraente è un nuovo esotismo, una versione aggiornata del desiderio, che era stato degli Impressionisti, di purificare lo sguardo con colori diversi? Forse la risposta è altrove. La scrittura, la letteratura, il cinema, la moda, l'arte del Giappone, almeno in questo momento della storia, possiedono la chiave per raccontare il nostro tempo, la sua velocità, e dentro questa inafferrabile velocità la nostalgia di una silenziosa, ipnotica lentezza: la pennellata rapida e la carta che assorbe, paziente e duratura custode, il segno.

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Pagina 122

Tech life


Il fantastico in Giappone è una dimensione praticata da sempre. La prima importante opera scritta a noi tramandata, Kojiki. Un racconto di antichi eventi (VIII secolo) con il suo tessuto di miti e fiabe, appartiene alla letteratura fantastica anche più che alla storiografia. Ma il senso del meraviglioso e dell'arcano accompagna ogni fase della letteratura giapponese, inclusa quella moderna, per non parlare dell'arte e delle prodigiose invenzioni del manga. Il lavoro sulla realtà a cui mi riferisco è però un fenomeno circoscritto, che ha inizio negli anni Settanta. Quale sarà la ragione? Forse sta nel particolare rapporto che il Giappone ha avuto con il progresso tecnologico, causa ed effetto insieme del suo boom economico. Una combinazione unica di fattori (desiderio di riscatto, perseveranza, disciplina, perfezionismo, maniacalità) ha creato nel dopoguerra le condizioni per uno sviluppo tecnologico straordinario che ha aumentato il benessere, modificato (in parte) lo stile di vita del Paese, e mutato in modo radicale il paesaggio urbano. La mutazione non è solo nello hardware, e cioè negli edifici che hanno trasformato interi quartieri di Tōkyō e Ōsaka in una specie di Metropolis di Fritz Lang e la stazione di Kyōto in Gotham City, ma anche nel software, ossia nei tanti dispositivi, prima elettronici, poi digitali, che hanno riempito case, uffici, negozi, luoghi pubblici e sono entrati nei giochi dei bambini. Il Giappone è il regno della tech life.

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Pagina 136

Haru wa akebono. "In primavera, l'alba". È con queste parole che si apre Note del guanciale (Makura no sōshi), uno dei due massimi capolavori della letteratura di epoca Heian. Più avanti prosegue: Natsu wa yoru. "D'estate, la notte". Aki wa yugure. "In autunno, la sera". E infine: Fuyu wa tsutomete. "L'inverno, la mattina presto". Sono i momenti della giornata che l'autrice predilige, uno per stagione. Ho già raccontato nel capitolo La scrittura della straordinaria fioritura di talenti femminili della letteratura Heian. L'autrice delle Note del guanciale è Sei Shōnagon, dama di corte al servizio di Teishi, una delle consorti dell'imperatore Ichijō. Il libro fu scritto quasi contemporaneamente alla Storia di Genji (Genji monogatari), la cui autrice, Murasaki Shikibu, era a servizio di un'altra consorte di Ichijō, Shōshi. Le Note del guanciale sono una miscellanea di brani eterogenei, caratterizzati da una mirabile capacità di osservazione e attraversati da una vena di ironia a tratti pungente: pagine di diario, racconti di vita di corte, osservazioni sulla natura, e soprattutto liste, elenchi di elementi che l'autrice raggruppa in aree tematiche (cose sorprendenti, scoraggianti, piacevoli, che suscitano memorie del passato eccetera). Il brano di apertura di cui abbiamo appena dato qualche esempio introduce subito allo spirito del libro. Ogni preferenza esprime lo spiccato gusto estetico dell'autrice. Si tratta di scelte altamente soggettive, a volte arbitrarie ma mai dettate da semplici capricci, anzi sempre motivate.

Se in primavera il momento migliore è l'alba, è grazie alla bellezza del profilo delle montagne che si rischiarano alla luce del sole che sorge, mentre nuvole dalle delicate sfumature purpuree si allungano nel cielo. D'estate la notte è particolarmente bella perché il chiarore lunare le dona una luminosità seducente, ma anche al buio ha il suo fascino, per gli sciami di lucciole che lo attraversano o, se di lucciole ce ne sono appena una o due, per l'incanto di quei piccoli puntini di luce. Senza dimenticare la bellezza di una notte bagnata di pioggia. Anche le virtù della sera in autunno, e del mattino d'estate, sono descritte con argomenti altrettanto convincenti.

Alla corte Heian la vita delle dame si svolgeva soprattutto al chiuso, in una penombra perenne e al riparo da sguardi indiscreti. Diverse barriere si frapponevano tra uomini e donne: pareti scorrevoli, tendine di bambù, paraventi, divisori di vari tipi. Tuttavia, sebbene ostacolate dalla necessità di riservatezza, le donne godevano di una certa libertà nei rapporti con gli uomini. Difficilmente una dama poteva sottrarsi a un consorte imposto dai genitori, ma quando si trattava di relazioni amorose erano libere di rifiutare le avance di corteggiatori sgraditi. A Sei Shōnagon, dotata di un carattere vivace e spregiudicato, non mancava certo la capacità di approfittare degli spazi di autonomia di cui poteva disporre, e nelle Note del guanciale questa sua disinvoltura traspare in molti brani. Ma è anche evidente che la libertà maggiore che possiede è quella di raccontare il mondo come lo vede, senza censure. Si direbbe che non sia soggetta nemmeno all'obbligo di compiacere Teishi, la quale sembra accordarle totale fiducia, come del resto accade a Murasaki con Shōshi. Raramente scrittrici hanno goduto della stessa libertà. Il genere della prosa di Sei Shōnagon si chiama zuihitsu, "seguire il pennello"; e il pennello è l'unica autorità a cui è chiamata a obbedire. È grazie al suo estro di scrittrice, a queste sue associazioni arbitrarie e poetiche, se nell'immaginazione dei giapponesi l'alba è inseparabile dalla primavera, la notte dall'estate, la sera dall'autunno, il mattino dall'inverno. Il brano iniziale delle Note del guanciale è presente nei libri di testo giapponesi per le scuole, e tutti lo ricordano quasi a memoria.

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Pagina 152

Sì, bisogna ammetterlo, l'aria condizionata, senza la quale in Giappone oggi nessuno saprebbe più vivere, insieme all'umidità ha portato via molta della poesia dell'estate. Per ritrovarla bisogna guardare qualche vecchio film in cui si vedono scene dei quartieri popolari con le persone in yukata, il leggero kimono di cotone, che per sfuggire al calore si siedono in strada, facendosi aria con un ventaglio, e magari mangiando una fetta di cocomero (suika). D'estate, come è naturale, si cercano cibi freddi, come i sōmen, spaghetti sottilissimi di farina di frumento serviti freddi, da mangiare intingendoli nella salsa che sempre li accompagna e lamentandosi del caldo.

In Giappone l'estate è anche la stagione della paura. Nei mesi caldi raccontare storie di fantasmi (kaidan) ha un fascino speciale. Si dice che questi racconti, grazie al loro potere agghiacciante, siano un efficace antidoto al caldo. Chi non aveva mai pensato che i brividi di paura hanno un effetto rinfrescante, è invitato a rifletterci. Ma più utile a spiegare il proliferare delle storie spaventose in estate è la credenza per cui i mesi caldi favorirebbero l'apparizione dei fantasmi. Del resto anche la festa dei morti, l' obon, si svolge d'estate, a luglio o agosto a seconda delle regioni, e in quell'occasione nelle case si fanno dei preparativi per ricevere le visite dei parenti defunti. Insieme ai familiari può però succedere che si infiltrino spiriti solitari, che vagano alla ricerca di compagnia, o fantasmi carichi di rancore e assetati di vendette. I J-horror, i film giapponesi del terrore che a partire dalla fine degli anni Novanta tanto successo hanno avuto anche fuori dal Giappone, raccontano spesso vicende di fantasmi (yūrei) ossessionati dal rancore.

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Pagina 172

IL KARAOKE



Chi si accosta per la prima volta al Giappone attraverso lo studio e le letture, quando ha l'opportunità di viverci sente la necessità di attraversare quel muro invisibile che separa la teoria dalla pratica e di immergersi nella vita vera. Ciò può accadere in molti modi. Uno di questi è il karaoke. Cantare insieme ad altre persone permette uno scambio umano di un'intensità che in contesti diversi, più formali, sarebbe impensabile. Dividere uno spazio comune, esibirsi e assistere alle esibizioni dei compagni permette di saltare molti passaggi obbligati e di entrare più rapidamente in contatto con gli altri, conoscere qualcosa dei loro gusti e della loro sensibilità che altrimenti ci rimarrebbe estraneo, e condividere una porzione della loro memoria — memoria che per quasi tutti è fatta in gran parte di musica. Quella che abbiamo ascoltato durante l'infanzia e l'adolescenza e che, indipendentemente dalla sua qualità artistica, ci si è sedimentata dentro. Lo studio della cultura di un Paese, privilegiando gli aspetti "nobili", lascia spesso fuori quelli considerati meno alti, a cominciare dalla musica popolare nelle sue varie declinazioni. In una sala di karaoke può succedere, a chi osserva le emozioni nella voce del cantante di turno e nei visi di quelli che ascoltano, di scoprire qualcosa che non era scritto in nessun libro ed è invece importante, e di realizzare un piccolo scatto cognitivo. Come se una zona della memoria degli altri, solitamente nascosta e inconoscibile, gli si fosse trasmessa per osmosi.




Lo zen e l'arte del karaoke


Karaoke è ormai una parola globale: non ha bisogno di traduzione né di spiegazione. Non è più necessario nemmeno scriverla in corsivo. Ormai tutti sanno che questa forma di intrattenimento, diffusa in ogni parte del mondo, è nata in Giappone, dove si è affermata a partire dagli anni Settanta. Molti sapranno anche che il termine è formato da kara (vuoto) e oke, abbreviazione di ōkesutora (orchestra). Significa quindi "orchestra vuota", quasi un ricalco della parola karate, che significa "mani vuote, disarmate, nude".

Come non è del tutto chiaro a chi si debba l'invenzione del karaoke, così non si sa chi abbia coniato il termine che lo designa. All'inizio "karaoke" era solo il nome del dispositivo che permetteva di riprodurre una base musicale; poi è diventato sinonimo del fortunato gioco di società che consiste nel cantare su tale base. Il suono che impianti audio sempre più sofisticati riproducono a perfezione è quello di un'orchestra fantasma: un'orchestra senza orchestra. Questa immagine, che afferma e nega allo stesso tempo, mi fa pensare ad alcune espressioni tipiche dello zen come "il suono senza suono"; "la porta senza porta"; "il tiro senza tiro"; efficaci illustrazioni del paradosso che è uno degli elementi chiave di questo insegnamento.

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Pagina 201

LA BELLEZZA



Mi avevano detto che il Kinkakuji, il tempio del padiglione d'oro, mi avrebbe deluso. Nel 1950 era stato distrutto in un incendio, e interamente ricostruito cinque anni più tardi. Le foglie dorate usate per rivestire la superficie esterna dell'edificio, mi spiegarono, erano troppo hade, cioè vistose, e davano al tempio un aspetto addirittura volgare. L'aggettivo hade è spesso pronunciato con malcelato disprezzo, in genere dalle stesse persone che usano con una certa compunzione un altro aggettivo molto più artisticamente corretto, shibui, "austero" (anche shibumi, in versione sostantivo). L'arte giapponese più squisita è stata creata nel segno dello shibumi, cioè della sobrietà e della mancanza di sfarzo. Pur essendo anch'io un ammiratore dell'eleganza disadorna, trovo irritante che chi ha tale propensione estetica la usi per rivendicare una superiorità sugli altri. È vero, ciò che è vistoso può sconfinare nella volgarità, ma siamo sicuri che sia un peccato così grave? Diana Vreeland, che di estetica un poco se ne intendeva, aveva affermato: «La volgarità è un ingrediente molto importante nella vita. Credo fortemente nella volgarità. È vitale. Un po' di cattivo gusto è come uno spruzzo di paprika. Abbiamo tutti bisogno di uno spruzzo di cattivo gusto. È cordiale, è sano, è fisico. Ritengo che dovremmo usarlo con più abbondanza». Sono d'accordo. Per esempio il Giappone senza il gusto hade sarebbe un Paese più triste, e anche lo stile shibui ne verrebbe danneggiato. È un godimento ammirare le foto concettuali di Sugimoto, gli abiti rigorosi di Yamamoto Yōji, le pitture monocrome zen, ma è anche bello che questo mondo raffinato e spoglio conviva con un altro nel quale dominano i colori accesi e dove si prova piacere a mescolarsi con la gente. Il mondo hade non è fatto per essere guardato dall'alto, sprezzanti e un fondo un po' invidiosi dell'allegria che vi regna, ma per tuffarvisi, lasciandosi trascinare da un fiume di persone come accade nei matsuri: le feste popolari in cui, pressati gli uni contro gli altri, si perdono i confini del corpo e ci si libera, almeno per un poco, del peso della propria identità.




Folgorazioni estetiche 1


Per fortuna non seguii il consiglio di quegli amici votati all'eleganza austera. Una mattina di novembre arrivai di buon'ora nella zona dove sorge il Kinkakuji, a nord di Kyōto. Inaspettatamente c'era la nebbia. Una nebbia non così fitta da far perdere l'orientamento, ma abbastanza densa da dare al paesaggio un aspetto insolito. Forse perché era presto, per il freddo, per la nebbia o per tutte queste ragioni insieme, c'era pochissima gente. Pagai il biglietto, entrai nel giardino e quando mi trovai davanti al padiglione ebbi un sussulto. Un vacillamento visivo, per dirla con Roland Barthes. Chissà perché quando ci si trova di fronte a qualcosa di troppo bello si ha sempre la sensazione di sognare. Immagino che sia perché l'esperienza non ci ha abituato a visioni di una bellezza così abbagliante, e quindi dubitiamo che possano appartenere alla realtà. Ho detto "abbagliante" ma la nebbia assorbiva in parte lo splendore dell'oro, un po' come la neve attutisce i rumori. Poi il mio sguardo scese sullo stagno, il Kyokochi, che circonda l'edificio. Non c'era vento e il padiglione si rifletteva sulla superficie immobile dell'acqua come in uno specchio. Anche il tempo si era fermato, e sarei rimasto lì all'infinito se non fosse stato per il freddo e l'umidità che penetravano nelle ossa.

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