Copertina
Autore Jean-Loup Amselle
CoautoreM. Fusaschi, F. Pompeo, E. M'Bokolo, J.P. Dozon, J. Bazin, J.P. Chrétien, C. Vidal
Titolo L'invenzione dell'etnia
EdizioneMeltemi, Roma, 2008, Universale 46 , pag. 282, cop.fle., dim. 12,2x19x2,5 cm , Isbn 978-88-8353-604-5
OriginaleAu cœur de l'ethnie. Ethnie, tribalisme et État en Afrique
EdizioneLa Découverte, Paris, 1985
CuratoreJean-Loup Amselle, Elikia M'Bokolo
TraduttoreMichela Fusaschi, Francesco Pompeo
LettoreGiorgia Pezzali, 2008
Classe antropologia , etnologia , storia: Africa
PrimaPagina


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Indice

  7 Introduzione
    Michela Fusaschi, Francesco Pompeo

 25 Prefazione alla seconda edizione
    Au cœur de l'ethnie rivisitato
    Jean-Loup Amselle, Elikia M'Bokolo

 35 Prefazione alla prima edizione
    Jean-Loup Amselle, Elikia M'Bokolo

 39 Etnie e spazi: per un'antropologia topologica
    Jean-Loup Amselle

 77 I bété: una creazione coloniale
    Jean-Pierre Dozon

119 A ciascuno il suo bambara
    Jean Bazin

165 Hutu e tutsi in Ruanda e in Burundi
    Jean-Pierre Chrétien

205 Situazioni etniche in Ruanda
    Claudine Vidal

227 Il "separatismo katanghese"
    Elikia M'Bokolo

269 Bibliografia

 

 

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Pagina 7

Introduzione

Michela Fusaschi, Francesco Pompeo


Una civilizzazione non nasce da se stessa; piuttosto essa è un incontro (Mercier 1962).


Ragioni generative

Questo importante lavoro curato da Jean-Loup Amselle e Elikia M'Bokolo esce in Francia nel 1985 come esito di un lungo lavoro collettivo e, all'ennesima ristampa oltralpe, viene reso disponibile in italiano solo oggi, colmando un ritardo di almeno due decenni.

Le questioni che riguardano l'identità culturale, l'etnicità e la tradizione trattate in questo volume sono al centro di un'ampia riflessione già dalla fine degli anni Sessanta. La letteratura antropologica internazionale ha, infatti, rimesso in discussione le categorie descrittive e interpretative, spostando l'attenzione sulla comprensione delle dinamiche che sono alla base dei processi identitari.

La traduzione di Au cœur de l'ethnie, a parte l'estrema difficoltà di rendere un titolo così evocativo, fornisce alle lettrici e ai lettori italiani l'opportunità di confrontarsi direttamente con un percorso di ricerca denso, mettendo forse fine anche ad alcune letture interessate e riduzioniste che, come apparirà più chiaro pagina dopo pagina, non si sono sempre confrontate con i testi originali pretendendo di confutarli, pur non entrando nel merito.

I sei studi che compongono il libro, realizzato insieme agli storici, sono legati da un filo rosso che unisce almeno due punti essenziali, i quali delineano rispettivamente un forte posizionamento teorico e una critica, se non una denuncia, altrettanto marcata: da un lato si afferma l'idea che occorra decostruire gli oggetti dell'etnologia, rifiutando il pensiero dell'esistenza di essenze culturali e rintracciandone i percorsi generativi all'interno del modello di conoscenze di quella che, qualche anno dopo, sarà definita come la "ragione etnologica" (Amselle 1990). Dall'altro si delinea una netta presa di posizione verso coloro che leggono i conflitti del continente africano nel segno del tribalismo, ovvero in relazione a "manifestazioni etniche viste come la sopravvivenza di un passato sempre vivace e molla del presente" (Moniot 1986, p. 135).

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Pagina 35

Prefazione alla prima edizione

Jean-Loup Amselle, Elikia M'Bokolo


Abbiamo riunito in questo testo alcune riflessioni teoriche e degli studi di caso sul concetto di etnia e su altre nozioni (tribù, "razza", nazione, popolo) che sono a esso frequentemente associate, ma anche sui fenomeni correntemente designati nel contesto africano attraverso le espressioni di tribalismo, etnicità, regionalismo, nazionalismo tribale...

Questi fenomeni non sono certo solo caratteristici dell'Africa: le ideologie di autoctonia, i movimenti separatisti, la ricerca e l'affermazione di identità collettive diverse da quelle legate allo Stato nazione, in breve, i particolarismi di ispirazione culturale o politica si ritrovano, con un'intensità variabile, in un buon numero di regioni e di Stati, dall'America anglosassone alla Cina e all'Indocina, dalla Russia sovietica all'America Latina, dal Vicino Oriente all'Europa. E non è raro che vi esplodano di tanto in tanto violente rivolte.

In nessun altro luogo questi particolarismi occuparono o sembrarono occupare il terreno politico e il campo intellettuale in modo così massiccio come in Africa. Molteplici fattori spiegano questa particolarità.

Innanzitutto, nel seno stesso dell'africanismo, una lunga tradizione scientifica, incentrata sull'etnologia o sull'antropologia, si è identificata con lo studio delle etnie senza affrontare, in un silenzio eloquente e compromettente, un'analisi rigorosa del concetto di etnia.

D'altronde la maggior parte delle interpretazioni dei fenomeni politici caratteristici dell'Africa contemporanea hanno integrato l'etnia e tutto ciò che ne deriva in uno schema semplicistico e rassicurante: qualificati come "modernisti", i movimenti che hanno condotto alle indipendenze e le egemonie che li hanno seguiti sono presentati come altrettante aspirazioni a costruire delle nazioni e a consolidarle. Improvvisamente, le molteplici opposizioni a questi pretesi "Stati nazionali in costruzione" sono state ridotte a delle "lotte tribali", essendo lo stesso tribalismo concepito come l'espressione politica dell'etnia e squalificato più spesso come sopravvivenza e risorgenza di arcaismi precoloniali. Se è necessaria una testimonianza recente dell'incredibile resistenza di questi cliché, eccone qui una, attinta da una buona fonte, ovvero dalla seria rivista «Afrique contemporaine». Il primo agosto del 1982 ci fu in Kenya un colpo di Stato. L'articolo che lo riferisce pone una domanda essenziale: "Resta da comprendere perché abbia avuto luogo". La risposta è certamente evidente: "ben inteso, qui come in Uganda e come in Zimbabwe, i dati etnici servono da supporto ai combattimenti politici, che non fanno altro che 'modernizzare' comportamenti antichi che il periodo coloniale in Africa inglese, più che altrove, non è riuscito ad eliminare. Ed è così che si scopre che, dietro agli insorti, si profilano i Kikuyo, tribù illustre e maggioritaria in Kenya". Si potrebbero moltiplicare a piacere gli esempi delle variazioni alle quali la vulgata etnicista continua a dare luogo sul modello del discorso scientifico o su quello dell'evidenza comune.

Diciamolo sin da subito, c'è una grande distanza fra queste opinioni e gli studi qui riuniti che giungono a delle conclusioni molto vicine a quelle sviluppate da Paul Mercier più di venti anni fa, quando, interrogandosi sul "significato del tribalismo", egli notava che "le opposizioni etniche attuali esprimono e riflettono ben altre cose che differenze culturali e ostilità tradizionali, che si perpetuano sotto altre forme" (1961, p. 70). Ma quali altre cose? Occorre sottolineare che il dibattito sull'etnia e il tribalismo non è puramente teorico; a partire da lord Fredrick Lugard, teorico del colonialismo britannico, se così si può dire, fino al regime dell' apartheid sudafricano, passando per i poteri dello Stato contemporaneo, tutti i sistemi di dominazione in Africa hanno allegramente attinto dalle teorie dell'etnia e abilmente manipolato i sentimenti etnici. Nel 1923, lord Lugard, ispirandosi all'approccio naturalista degli etnologi dell'epoca, proponeva di "classificare" la popolazione dell'Africa tropicale in tre tipi, secondo le strutture sociali, ossia "le tribù primitive, le comunità evolute e gli africani europeizzati". Sappiamo cosa simili argomentazioni hanno determinato sul piano della politica in paesi come il Ghana, il Kenya, la Nigeria o l'Uganda: vessazioni e controlli minuziosi nei confronti degli "africani europeizzati" e delle "comunità di evoluti" giudicate troppo dinamiche; privilegi di ogni tipo per le chefferies delle tribù primitive ritenute rappresentare l'Africa tradizionale congelate nelle loro strutture e nella loro vocazione a essere colonizzate.

Erede del pensiero e della politica coloniale britannica della fine del secolo scorso, il regime dell' apartheid ha perfezionato questa manipolazione: assimilare le società africane a tribù non comporta solamente proclamare la loro "differenza" irriducibile allo sguardo della società bianca – società di classe e Stato nazionale –, ma significa anche abbassarle al rango più basso nella gerarchia delle società umane; allo stesso modo erigerle a società tribali significa anche affermare che queste sono in permanente conflitto tra loro e legittimare una sistematica politica di divisione.

Abbassare, escludere e dividere rappresentano davvero l'essenza della politica dei "bantustan". Quanto ai poteri dello Stato dell'Africa indipendente, questi hanno fatto propri e interiorizzato la visione, i cliché e gli stereotipi dell'etnologia coloniale: la "diversità tribale" degli Stati africani serve loro come argomento per rifiutare il pluralismo politico, dietro il pretesto che esso non sarebbe che un'espressione di questa diversità e di conseguenza un ostacolo alla costruzione nazionale. Il culto dello Stato nazione serve naturalmente a legittimare poteri personali e dittature oligarchiche; sicché i rumorosi discorsi sull'unità nazionale sono ovunque accompagnati da una politica abilmente spettacolarizzata, dai "dosaggi etnici e regionalistici", che permettono al potere di dissimulare la sua natura nel perpetuare gli stereotipi etnicisti.

Abbiamo cercato in questo libro di rimettere un po' le cose al loro posto.

Per fare ciò occorre innanzitutto operare le necessarie riclassificazioni concettuali interrogandosi sistematicamente sulla nozione di etnia. Jean Bazin a proposito dei bambara e Jean-Pierre Dozon per i bété dimostrano che in fatto di etnie siamo in presenza di realtà in movimento: qui come altrove, nessuno è esclusivamente membro di un'etnia, e gli individui, come i gruppi sociali, sono o cessano di essere secondo il luogo e il momento membri di una o di talaltra etnia. In definitiva sono l'etnologia e il colonialismo che, misconoscendo la storia o negandola, ansiosi di classificare e di nominare, hanno così fissato le etichette etniche. Si deve procedere, come dimostra in effetti Jean-Loup Amselle, a "decostruire l'oggetto etnico": una volta riabilitate la storia e un'antropologia dinamica, appare chiaro che i gruppi etnici sono stati integrati in insiemi più ampi, degli "spazi" strutturati attraverso fattori economici, politici e/o culturali che hanno determinato i "gruppi etnici", fornendo loro anche un contenuto specifico.

I "tribalismi" contemporanei non possono pertanto esprimere altro che l'etnia. Le analisi di questi fenomeni a Shaba proposte da Elikia M'Bokolo, in Ruanda e Burundi da Jean-Pierre Chrétien e Claudine Vidal dimostrano quanto essi siano legati a determinate fasi storiche nel corso delle quali gli attori politici, le categorie e le classi sociali si trovano ridotti a esprimere le loro ambizioni, la loro collera o il loro fallimento nel linguaggio tribale, etnico o regionalista. Così, nella maggior parte dei casi, è la lotta per il potere dello Stato che si riflette in queste pratiche.

Tutti questi punti rappresentano le principali tappe di un lungo percorso tanto collettivo quanto individuale. Scommettiamo che queste saranno ripercorse da altri e che in questo modo saranno svelate le vere spinte delle società africane.

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Pagina 39

Etnie e spazi: per un'antropologia topologica

Jean-Loup Amselle


È ovvio affermare che la questione dell'"etnia" è al centro della riflessione antropologica ed è altrettanto ovvio che essa costituisca il fondamento del suo approccio scientifico. Tuttavia è facile constatare che, fino a tempi recenti, questo tema di ricerca non ha suscitato un grande entusiasmo da parte della maggioranza degli antropologi. Scorrendo la letteratura, si ha in effetti la sensazione che il trattamento del problema dell'etnia sia considerato dai ricercatori sul campo come una corvée di cui occorre sbarazzarsi al più presto per affrontare i "veri" campi: la parentela, l'economia e il simbolismo, ad esempio. Benché la definizione dell'etnia studiata dovrebbe costituire l'interrogazione epistemologica fondamentale di ogni studio monografico e, in un certo senso, tutti gli altri aspetti ne dovrebbero conseguire, si percepisce invece che, spesso, esiste uno iato tra un capitolo preliminare che, per poco che vi ci si attardi, mostra la fluidità relativa dell'oggetto, e il resto del lavoro. in cui al contrario le considerazioni sull'organizzazione parentale e la struttura religiosa fanno prova della più grande sicurezza.

Questa relativa "dimenticanza" o questo "disinteresse" da parte degli antropologi ha senza dubbio a che fare con la storia della disciplina e anche con le differenti tendenze che l'hanno animata. È sempre più evidente che l'antropologia si è formata sulla base del rigetto della storia e che questo rifiuto si è di fatto mantenuto da allora. Senza pretendere di lasciarci andare a un inventario classico, che consiste nel passare in rassegna ogni scuola antropologica e nell'esaminare il modo in cui essa avrebbe trattato il problema dell'"etnia", è in questa sede sufficiente ricordare che le correnti che hanno segnato maggiormente il pensiero antropologico – l'evoluzionismo, il funzionalismo, il culturalismo e lo strutturalismo – sono delle dottrine essenzialmente astoriche.

Se si considera, seguendo il pensiero di Marc Augé (1979), lo spazio dentro il quale si sviluppa il pensiero antropologico contemporaneo, si capisce chiaramente come mai l'analisi sull'etnia non possa essere posta al centro della riflessione degli etnologi. Secondo Augé, questo spazio antropologico è diviso fra due grandi correnti: l'una che si interessa al senso e al simbolo e l'altra che tratta essenzialmente della funzione. La prima corrente comprende la scuola di Griaule e gli strutturalisti, la seconda i funzionalisti e i marxisti, che Augé mette, a ragione, sotto la medesima categoria.

È ben evidente, dunque, se si considera la prima tendenza, che né i discepoli di Griaule, che accordano la priorità a ciò che le società stesse dicono, né tantomeno gli strutturalisti, che hanno invece bisogno di più società o almeno di più sistemi di parentela o di miti per pensare le possibilità differenziali dello spirito umano e stabilirne la trasformazione nel senso matematico del termine, non potevano di fatto porre il tema dell'etnia al centro del loro discorso.

Per quanto riguarda la seconda tendenza, quella che comprende i funzionalisti e i marxisti, la questione è più complessa. Si sa che il padre fondatore della scuola funzionalista, Malinowski, rifiuta la storia, da lui assimilata all'evoluzionismo. Dal momento che non esiste la sequenza tipo "selvaggio, barbaro, civilizzato" si tratta di considerare ogni società nella sua specificità ma senza che sia presa nello stesso tempo in considerazione la possibilità di stabilire la sua micro-storia. È così che seguendo Lucy Mair, Malinowski (1945) postula l'esistenza di un grado zero del cambiamento corrispondente all'ambiente rurale e prosegue lo studio del "contatto culturale" a partire dallo stato originario delle società contadine africane. Si può allo stesso modo notare, in senso inverso, come Nadel, il quale si situa in continuità con Malinowski, come vedremo, sia tra coloro i quali hanno fornito una delle migliori definizioni di cosa sia l'etnia.

Se ora ci si avvicina alla sponda marxista la situazione si presenta ancora più ambigua. Certamente ci si potrebbe aspettare che gli antropologi che si richiamano a Marx abbiano focalizzato il loro approccio in particolare sull'etnia, avendo tenuto la storia come riferimento costante. Ma non è questo il caso: a eccezione dello studio di Maurice Godelier (1973, pp. 93-131) sulla nozione al primo sguardo vicina, ma in realtà distinta, di "tribù", su questo punto i marxisti non hanno particolarmente brillato per la loro riflessione teorica. Non è difficile comprenderne il perché: assimilando talvolta la storia alla sola evoluzione delle forze produttive e preoccupati di individuare uno o più modi di produzione, per come si combinano all'interno di una formazione sociale, essi hanno trascurato l'analisi della "produzione di forme" (Amselle 1979) e si sono accontentati della comprensione empirista dell'etnia tale e quale gli era stata trasmessa dai loro predecessori – molto spesso degli amministratori coloniali o missionari (Chretién 1981a) – e che gli forniva un quadro comodo all'interno del quale essi potevano situare questi concetti (Copans 1982). Da questo punto di vista occorre notare l'esistenza di una distanza considerevole fra l'assenza di una riflessione marxista di ordine generale sull'etnia e la qualità della speculazione della realtà dei gruppi etnici così come essa appariva nelle monografie di questi autori (Meillassoux 1964; Terray 1969). In tal senso ci si può domandare se questi antropologi non siano rimasti prigionieri di una problematica indubbiamente assai influenzata da una lettura neo-positivista del marxismo (Althusser) e dalla condanna che quella implicava di ogni storicismo e se, per altri aspetti, non abbia gravato su di loro il peso dell'istituzione antropologica che spinge ogni ricercatore a identificare il proprio nome con un'etnia particolare (Meillassoux 1979). Questa corrente marxista non di meno è soggetta da qualche tempo a un'evoluzione sensibile: alcuni dei suoi rappresentanti stanno rimettendo in questione quello che era il loro approccio monoetnico (1978) mentre si stanno avvicinando alla terza corrente che sarà adesso chiamata in causa, quella che Paul Mercier (1966) ha definito "dinamista". A questa prospettiva si collegano i nomi di Max Gluckman, Georges Balandier, Paul Mercier, Jacques Lombard, Guy Nicolas e Jean Copans. Questi autori sono abbastanza vicini al marxismo nel senso che insistono sulla necessità di procedere attraverso un approccio storico a ogni società o più precisamente al quadro scelto come luogo di inchiesta: villaggio, chefferie, regno, e così via. Questo primato accordato alla storia interviene nella maniera seguente: conviene scegliere l'insieme delle determinazioni che pesano su uno spazio sociale determinato e mettere l'accento sulla rete di forze, tanto "esterne" quanto "interne", che lo strutturano; in poche parole si tratta di analizzare "l'efficacia di un sistema su di un luogo" (Amselle 1974, p. 103). Questo approccio conduce a mettere in rilievo nel senso più ampio il quadro "politico" di questo spazio e a inserirlo in un insieme che lo oltrepassa. Questa riflessione dovrà arrivare, se non a una definizione operativa dell'etnia (c'è n'è bisogno?), almeno alla decostruzione dell'oggetto etnico che rappresenta sempre un freno per il progresso della disciplina. Ma prima di vedere a che cosa potrà portare il superamento della problematica etnica è opportuno esaminare le differenti definizioni dell'etnia proposte dagli antropologi.


Definizioni

Il termine "etnia" (dal greco ethnos: popolo, nazione) è apparso recentemente nella lingua francese (1896); nel XVI e nel XVII secolo, come sottolinea Mercier (1961, p. 62), il termine "nazione" equivaleva a quello di "tribù". L'apparizione e la definizione tardive dei termini "tribù" ed "etnia" conducono sin da subito a porre un problema sul quale ritorneremo, quello della congruenza tra un periodo storico (colonialismo e neocolonialismo) e l'utilizzazione di una determinata nozione.

Se questi termini hanno acquisito un'utilizzazione massiccia, a detrimento di altre parole, come il termine "nazione", è senza dubbio perché si trattava di classificare a parte talune società, negando loro una qualità specifica. Conveniva infatti definire le società amerindiane, africane e asiatiche come altre e differenti dalle nostre, togliendo loro quegli elementi attraverso cui esse potevano partecipare di una comune umanità. Questa qualità che le rendeva dissimili e inferiori alle nostre società è evidentemente la storicità, e in questo senso le nozioni di "etnia" e di "tribù" sono legate ad altre distinzioni attraverso le quali si opera la grande divisione tra antropologia e sociologia: società senza storia/società storiche, società preindustriali/società industriali, comunità/società.

Gli antropologi si sono dunque trovati prigionieri di alcune categorie all'interno delle quali si sono dovuti situare per studiare società di loro competenza, nel momento stesso in cui queste venivano "fissate" dalla colonizzazione (Piault 1970, p. 23). Questo forse può spiegare come mai accanto a brillanti studi su parentela e religione si siano avute davvero poche analisi sulla categoria dell'"etnia".

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Pagina 165

Hutu e tutsi in Ruanda e in Burundi

Jean-Pierre Chrétien


L'esistenza delle etnie hutu e tutsi in Ruanda e Burundi rileva uno strano insieme di evidenze. Ecco delle "etnie" che non si distinguono né per lingua, né per cultura, né per la storia e tantomeno per lo spazio geografico occupato. Certo l'evoluzione sociale e politica contemporanea dei popoli ruandesi e burundesi ha proposto questa separazione come una realtà sovente tragica. Ma, molto prima degli avvenimenti del 1959-1963 in Ruanda e di quelli del 1972-1973 in Burundi, l'evidenza dell'opposizione definita etnica si è imposta agli osservatori sotto un doppio registro: quello delle formule stereotipate, riprese in maniera ossessiva nei reportages o nei cataloghi turistici come nei rapporti degli esperti e nelle recensioni accademiche; e quello di un immaginario falsamente ingenuo, come in quel "saggio fotografico" del 1957 dove tutti í bahutu del Ruanda erano ripresi in "profondità" su un fondo di erbe o di terra battuta e vestiti in maniera succinta, mentre i batutsi si staccavano in "contro-profondità", su uno sfondo azzurro cielo, con i profili "etiopici" calcolati, insieme alle silhouette delle vacche dalle corna lunghe. "Signori tutsi" e "servitori hutu" vengono messi in scena con le posture e l'abbigliamento che conviene agli uni e agli altri come in certi film etnografici dell'epoca dove il mondo "tradizionale" veniva presentato attraverso sequenze di un vero romanzo fotografico (Maquet 1957). Le miniere del re Salomone, un film girato in Ruanda e uscito nel 1950, contribuirà a riattualizzare in un vasto pubblico europeo la fantasmagoria egiziana elaborata da più di un secolo. Roland Barthes, a proposito di un film dello stesso stile, poté scrivere: "Di fronte allo straniero, l'Ordine non conosce che due condotte entrambe come mutilazioni: o riconoscerlo come marionetta o neutralizzarlo come puro effetto dell'Occidente" (Barthes 1957, p. 184).

In Ruanda, alla vigilia dell'indipendenza, anche gli amministratori più convinti, i coloni più limitati o i missionari meno sottili potevano concedersi l'illusione di comprendere questo esotismo ragionevole in modo da poter agire su una società "feudale" da manuale scolastico.

In ogni caso, lo sguardo gettato su questo paese lo situava fuori dal tempo, gli negava la sua storia e anche gli effetti dell'imperialismo coloniale. Le etnie, in questo ambito ideologico, sono dei fatti di "natura" e l'azione moderna degli Stati è rigettata sotto i discorsi teorici della "civilizzazione". Solo un'analisi storica rigorosa permette di mettere in luce il processo che ha condotto a cristallizzare le coscienze etniche nei paesi senza etnie degne di questo nome.

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Un'eredità della razziologia del XIX secolo: camiti e bantu

I due paesi furono attraversati per la prima volta dagli europei nel 1892 (Oscar Baumann in Burundi) e nel 1894 (il conte von Götzen in Ruanda). Ancor prima che vi mettessero piede, la teoria che tracciava i ritratti contrastanti del negro dell'"Africa delle tenebre" e del misterioso Orientale venuto ad avventurarsi fino a lì già era stata forgiata a partire dai contatti con le altre regioni dell'Africa e dalle riflessioni antropologiche dell'epoca.

È attorno alla Bibbia e al Vicino Oriente che il dibattito si era intrecciato a partire dalla prima metà del XIX secolo: la linguistica, l'archeologia e l'esegesi razionalista giunsero a mettere in discussione la negritudine attribuita fino a quel momento a Cham e a rimpiazzare la discendenza di quest'ultimo nella "razza caucasica" bianca. Il poligenismo aveva condotto gli intellettuali a vedere nei "Neri in quanto tali" i rappresentanti di un'altra "specie" umana. I viaggiatori che si avventurarono verso il Niger, lo Zambesi o l'Alto Nilo scoprirono che gli africani non corrispondevano affatto al modello del negro caricaturale che si vedeva all'epoca sulle insegne dei tabaccai e che lo raffigurava volentieri come l'antitesi della statua greca antica, tipo ideale dell'uomo bianco. Le impressioni estetiche giocarono sin dall'inizio un grande ruolo nel gettare le fondamenta dei saperi antropologici. Le etnie furono molto presto classificate, non senza contraddizioni fra gli osservatori, secondo il loro grado di "bellezza", di "intelligenza", di "fierezza o di organizzazione politica"; "i tratti culturali, morali e fisici dovevano concorrere in maniera coerente alla gerarchizzazione delle popolazioni" (Chrétien 1977a).

La soluzione di queste contraddizioni fu trovata verso la metà del XIX secolo da alcuni linguisti sotto forma di un vero gioco di parole: il rovesciamento del senso della parola chamita, sempre più utilizzata, sotto l'influenza dei filologi tedeschi, in hamita, per designare degli africani "superiori", in qualche modo dei neri sbiancati, quelli che già altrove abbiamo definito come "falsi negri". La mania della classificazione e dell'etichettamento, eredità delle scienze naturali del XVIII secolo, trova in questo modo la sua soddisfazione. Ma il grande dibattito sull'unicità della specie umana, sulle "razze" e sulla sorte da riservare alla Tavola delle Nazioni della Genesi fu certamente determinante per il successo di questa nuova terminologia.

La tesi delle grandi migrazioni nord-sud, le più recenti delle quali dovevano essere le più evolute, e lo schema socio-biologico dei meticciamenti presentati come fonti delle culture intermedie tra la barbarie e la civilizzazione ispirarono l'essenza dell'etnologia africanista della fine del XIX secolo e della prima metà del XX. Lefèvre, un esponente della scuola di antropologia di Parigi, nel 1892 fornirà la sua ricetta:

Seguendo a ritroso il cammino degli invasori e la distribuzione geografica dei vincitori e dei vinti, soprattutto il grado di meticciamento, che misura la durata dei rapporti forzati fra gli autoctoni e gli ultimi arrivati si finisce per supplire ai dati storici assenti (Lefévre 1892, p. 69).

Quella che spesso si è chiamata "storia" nelle monografie o nei manuali dell'epoca coloniale si riduce in effetti a una serie di ipotesi dell'etnologia "diffusionista". La teoria delle "aeree culturali", sviluppata all'inizio del XX secolo da autori tedeschi come Ankermann (1905, pp. 54-84) e quasi ufficializzata dalle riedizioni incessanti del manuale di Baumann e Westemann su I popoli e le civilizzazioni dell'Africa, è di fatto una teoria degli "strati culturali". Le variazioni sono lette in termini biologici di meticciati differenziati: le espressioni "hamito-nilotico", "negroide", "bantu hamitizzato" spesso eserciteranno il ruolo di spiegazione dell'Africa orientale.

La maggior parte della civilizzazione viene quindi attribuita a un'influenza straniera, in particolare asiatica conformemente al miraggio orientale che si ritrovava in quest'epoca nello sviluppo del mito ariano. Il naturalista Franz Stuhlman, uno degli esperti più ascoltati in seno all'amministrazione tedesca prima del 1914, in una monografia del 1910, in relazione all'artigianato in Africa dell'Est, scrisse: "A proposito di ogni tratto di civilizzazione in Africa, bisognerà sempre domandarsi se questo non venga dall'esterno e cioè dall'Asia" (Stuhlmann 1910, p. 77).

È proprio in virtù di questa visione, considerata scientifica, che gli autori proporranno di vedere nei galla i discendenti di una scorreria dei Galli, nei fang un'ondata tedesca, nei peul dei giudeo-siriani dell'antichità, nelle rovine dello Zimbabwe una costruzione fenicia o negli zulu dei discendenti di Sumer. Chi può giurare che queste elucubrazioni siano oggi del tutte sparite? Nel maggio del 1970 l'autore di un "racconto etnologico" sul Ruanda "tradizionale" affermava che il suo soggiorno in questo paese gli aveva permesso di "essere contemporaneo dei grandi intellettuali di Sumer" e di scoprire una regalità meravigliosa le cui capitali "ricordano i campi mongoli del Medioevo" (Del Perugia 1970)! Sono quindi del tutto evidenti le implicazioni razziste dell'immaginario letterario e scientifico riguardo ai popoli dell'Africa nera. L'opposizione del "negro in quanto tale" e dell'"hamita" divenne il motivo ricorrente dei manuali specializzati tra gli anni Trenta e i Cinquanta. Quello di Charles Seligaman – ripubblicato molte volte e tradotto in francese dal 1935 –, ne è l'esemplificazione più nota: "le civilizzazioni dell'Africa sono le civilizzazioni degli hamiti (...) i conquistatori camiti erano dei caucasoidi pastori arrivati a ondate successive, meglio armati e dallo spirito più vivo di quello degli agricoltori negri dalla pelle più scura" (Seligman 1930).

Nel 1948 un medico belga pubblicò un piccolo libro redatto al ritorno da un soggiorno effettuato in "Ruanda-Urundi" sotto la tutela belga (Sasserath 1948), nel quale si può trovare un siffatto ritratto dei batutsi: "Li si chiama batutsi. In realtà sono degli hamiti, probabilmente di origine semitica o, seguendo talune ipotesi, hamiti o meglio adamiti. Rappresentano circa un decimo della popolazione e formano nella realtà una razza di signori" (pp. 27-28). "Gli hamiti sono alti 1,90 metri. Sono slanciati. Possiedono un naso diritto, la fronte alta e le labbra sottili. Si intravede in loro una sorta di furbizia, celata da una certa raffinatezza. Le donne giovani sono davvero molto belle e di una tinta talvolta leggermente più chiara di quella degli uomini".

Si trattava, secondo Sasserath, di discendenti di una misteriosa "razza rossa", quella di Adamo in persona e delle prime civilizzazioni (!), secondo un libro esoterico del 1906 sugli "adamiti": la formazione medica non vaccina sempre contro la fantasia sul terreno delle scienze umane...

La letteratura religiosa cristiana, da parte sua, ha continuato a giocare un ruolo essenziale in questo dibattito antropologico, non solo a causa della presenza sul posto dei missionari, ma anche perché i detentori del racconto biblico sulla dispersione dei popoli si sentivano obbligati a rispondere alle sfide della "scienza". Questo sforzo apparirà per esempio nei diversi manuali pubblicati dopo il 1880 dal sulpiziano Vigouroux fino al suo Dizionario della Bibbia del 1926.

L'episodio della Torre di Babele ha preso il posto di quello della maledizione di Cam come episodio saliente. È allora che i chamiti, puniti per questo atto di orgoglio, saranno respinti verso le terre più lontane e le più bruciate dal sole. L'opposizione fra "hamiti" e "negri" viene in questo quadro spiegata in due maniere: i primi sarebbero i sopravvissuti dell'ondata più recente di questi esiliati; o i frutti del meticciato tra i figli di Cam e di Sem, vale a dire "hamiti semitizzati". È questa la teoria sostenuta per i bahima e i batutsi della regione dei Grandi Laghi da due Padri Bianchi, l'olandese Van Der Burgt nel 1903 e il francese Gorju nel 1920, riconosciuti come due autentiche autorità in materia.

In questo modo il monogenismo biblico venne salvaguardato e la diversità delle "razze" riconosciuta. Altrove la lezione morale della "maledizione di Cam" fu invece recuperata in maniera edificante per le società industrializzate e urbane contemporanee: creatori dei primi imperi, delle prime città e delle prime civilizzazioni, i "camiti" sarebbero stati pervertiti dagli eccessi del progresso. Questi neri portatori delle tracce della loro origine orientale divennero come i simboli del degrado piuttosto che della primitività. Nel suo Dizionario del 1926 padre Vigouroux sosteneva che "è soprattutto la forza al servizio di una civilizzazione tutta materiale, in seno alla quale regna il più grande disordine morale". Una visione penitenziale della storia, caratteristica del cattolicesimo del XIX secolo, che si connetteva senz'altro al pessimismo gobineiano nella sua teoria delle "razze".

Si dirà che risaliamo sino al Diluvio; ma l'applicazione di questa griglia di lettura dell'Africa orientale può essere seguita di autore in autore a partire dal 1863 e fino ai nostri giorni: sono le bibliografie di questi ultimi che di fatto ci hanno condotto a questo metodo regressivo. È impossibile riassumere in questa sede il gioco di filiazione intellettuale che ha portato allo schema etnico evocato all'inizio di quest'intervento. Non c'è dubbio che gli assi essenziali della costruzione ideologica alla base della situazione propria del Ruanda e del Burundi dovevano essere sottolineati.

L'ideologia hamitica si tradusse in questa regione attraverso l'ipotesi di una migrazione galla del XVII secolo. Nel 1863 l'esploratore Speke avanzò questa idea, ripresa poi incessantemente sino agli anni Cinquanta. Ritornato dall'India in Africa per scoprire le "sorgenti del Nilo", questo inglese apprezzò molto l'ospitalità dei sovrani che lo accolsero nella zona dei Grandi Laghi (a Karagwe e a Buganda), l'organizzazione dei loro regni, la bellezza delle persone della corte, che gli ricordano addirittura i somali incontrati in una precedente spedizione. Stupefatto di questa raffinatezza nel cuore del "continente oscuro", diede vita a una "teoria personale" e cioè quella di un'ascendenza etiope (galla) dei pastori bahima incontrati in queste corti regali. Attraverso una tale ipotesi vennero create le "aristocrazie pastorali" di questi paesi (anche a Buganda, dove non esistevano in quanto tali) come popoli a parte, quasi asiatici, che riscossero un successo amplificato nell'immaginario che evoca le sorgenti del Nilo e le "montagne della luna" dopo Tolomeo di Alessandria (Speke 1864).

I viaggiatori europei successivi a Speke, lettori dei suoi diari e affascinati dallo stesso romantico immaginario, ripresero il suo schema per spiegare le realtà socioculturali che li sorpresero in queste regioni. A questo riguardo sono rivelatori i commentari di Oscar Baumann e del conte von Götzen che accompagnarono le prime descrizioni del Burundi o del Ruanda. Il primo descrive i batutsi come dei "cavalieri briganti" di un impero scomparso i quali si distinguevano per i "tratti abissini" e "una pelle più chiara di quella degli altri abitanti". Il secondo deduce la "natura nomade" dei batutsi dalla corte del re guerriero Kigeri Rwabugiri evocando la teoria di Speke come se si trattasse della tradizione propria del Ruanda: dei "pastori hamiti" venuti dai paesi "galla" assoggettarono una "tribù di negri bantu" e cioè gli "agricoltori sedentari wahutu" (von Götzen 1895). Questa separazione etnico-razziale non era comunque ancora stata assunta a dogma al punto da oscurare totalmente l'osservazione tant'è che von Götzen dirà che "nel Ruanda propriamente detto capi e assoggettati si sono già pressoché completamente assimilati nei loro usi e costumi. Non è infatti possibile, il più delle volte, distinguere il Mhuma (1895) dagli agricoltori né dall'armamentario tanto meno dall'abbigliamento".

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In conclusione, si osserverà che l'analisi storica mette in discussione le belle certezze abitualmente ripetute. Abbiamo rimarcato la diversità delle argomentazioni messe al servizio dell'etnicità vissuta in questi due paesi: teorie razziali, politiche che giocavano sia con un certo elitarismo, sia con la democrazia, legittimazione dei fratricidi per una lotta di classe. A questo proposito, già in altre occasioni abbiamo descritto questi fenomeni di "safari ideologici". L'elemento permanente si trova nella struttura dello sguardo posato sulla società, nella cristallizzazione del viso dell'"altro" in termini di marginalità, inferiorità o esclusione. Ciò che di fatto ha permesso che scoppiassero degli scontri recentemente, più che la difficoltà della coabitazione, è stato il primato di una pratica politica in cerca di un capro espiatorio o di un tipo ideale, dalla colonizzazione alle indipendenze. La trappola di un razzismo interno si è così consolidata su tutta la popolazione. In questo caso, laddove i gruppi hutu e tutsi non sono affatto delle etnie in quanto tali, caratterizzate geograficamente, linguisticamente e storicamente, lo sviluppo delle coscienze etniche non poteva che significare la messa in discussione radicale dell'altro: politica del disprezzo o politiche dell'esclusione, logiche dell' apartheid fondate esclusivamente su stereotipi razziali. Il tribalismo in Ruanda e in Burundi ha ispirato, in generale e in maniera rivelatrice, la descrizione a colori di una sorta di fumetto: "piccoli" contro "grandi", occupanti alternativamente in ogni campo la posizione dei buoni o dei cattivi. In questa immagine di Epinal, il buon mututsi sarà di preferenza un esiliato, dalle tradizioni affascinanti ma condannato dalla storia, mentre il buon muhutu sarà visto come un lavoratore docile (abbiamo avuto modo di ricordare altrove l'episodio dell'espulsione di uno studente muhutu da un collegio protestante del Burundi per il fatto che non aveva svolto il compito che gli era stato assegnato (Chrétien 1976). Lo specchio offerto a questi paesi dai media dei paesi industrializzati non è indifferente.

Un altro avatar ideologico più volte menzionato consiste nel ridurre le violenze degli anni Sessanta e Settanta in Ruanda e in Burundi nei termini di un conflitto di classe o meglio di "razzismo di classe". Sfortunatamente la storia del XX secolo ci dimostra che la deriva razzista non è né un accessorio né una circostanza. Il nazismo rivela delle contraddizioni e dei fantasmi più profondi in seno alla società tedesca di una crisi congiunturale del capitalismo (Aycoberry 1979, p. 317). Quando Alphomse Toussenel (1886, p. 134) scriveva, nel XIX secolo, che la "feudalità industriale si personifica nell'ebreo cosmopolita", la sua teoria si perdeva nell'antisemitismo. La confusione fra critiche di ordine socioeconomico e la denuncia delle categorie socioculturali ereditate sta molto di più nella teoria delle "razze storiche" sviluppata da Augustin Thierry nell'Ottocento che nelle righe di Marx. L'etnografia interlacustre ha piuttosto seguito proprio Thierry.

La cristallizzazione dei due etnismi antagonisti a partire dalle categorie antiche di un'altra natura non è dunque né la semplice superstruttura dei conflitti sociali moderni, né la superurgenza di oscurantismi esotici. Dopo un quarto di secolo le migliaia di vittime degli scontri vissuti in Ruanda e in Burundi non possono essere né classificate come conseguenze di barbarie passate, né come vittime sacrificali per il futuro. Questo si tradurrebbe, di fatto, nel non voler vedere che in Africa, come in Europa, i valori del sangue, della terra e della "razza" possono prendere corpo in una luce molto moderna e nel cuore delle politiche. L'etnicità si riferisce quanto meno in questi casi a delle tradizioni locali e non a dei fantasmi applicati dall'etnografia occidentale sul mondo cosiddetto tradizionale. L'anomia delle prime generazioni scolarizzate, allontanate dai valori del proprio passato senza mai essere veramente integrate in quelli delle culture occidentali (visti anche i limiti dell'insegnamento primario e post-primario), ha suscitato delle vere e proprie fughe all'indietro, insieme interessate (le ambizioni aiutano) e alterate impiegando tutti i mezzi a disposizione e tutte le giustificazioni. Non pensiamo che la situazione messa in scena da Bertolt Brecht in Teste rotonde e teste aguzze sia fuori luogo in questa sede e lasciamo quindi il lettore su questa citazione (1936):

il nostro Iberin sa che il popolo, non molto esperto di astrazioni, reso impaziente dal bisogno, cerca un reo di tutti i mali che abbia aspetto famigliare: un essere che sia con occhi, naso, bocca e su due gambe, uno che si possa incontrare per strada. (...) ecco cosa ha scoperto: qui a Jahoo, convivono due razze che divergono in tutto, anche nell'aspetto, gli uni hanno la testa tonda, gli altri a punta; e con la testa cambia anche lo spirito, piattamente onesti e fedeli i testapiatta, puntuti i testa-a-punta, scaltri, ambigui calcolatori, proclivi all'inganno. La prima razza, quella a testa tonda Iberni la chiama Ciuk, e afferma che è indigena di Jahoo sin dal principio e di buon sangue. L'altra, segnata dalla testa a punta, è straniera, calata qui fra noi, non ha una patria ed è chiamata Cik.

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