Copertina
Autore Jon Lee Anderson
Titolo Guerriglieri
SottotitoloViaggio nel mondo in rivolta
EdizioneFandango, Roma, 2011 [2004], Documenti 39 , pag. 432, cop.fle., dim. 13,5x20,5x2,2 cm , Isbn 978-88-6044-159-1
OriginaleGuerrillas, Journeys in the Insurgent World [1992]
TraduttoreValentina Nicolì, Alessandro Ciappa
LettoreLuca Vita, 2012
Classe movimenti , guerra-pace , storia contemporanea , paesi: Iraq , paesi: Afghanistan , paesi: Palestina
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Indice


Introduzione                                  9

Capitolo 1  Miti fondativi                   23

Capitolo 2  Una realtà parallela             81

Capitolo 3  Guadagnarsi da vivere           145

Capitolo 4  Fare la guerra                  214

Capitolo 5  Sistemi di giustizia            262

Capitolo 6  Una nuova famiglia              308

Capitolo 7  Parlare agli dei                357

Epilogo                                     411

Note                                        425


 

 

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Pagina 9

Introduzione


Se ci sono le condizioni giuste, la guerriglia può nascere all'interno di qualunque società. Se le persone si vedono irrimediabilmente private dei loro diritti dal proprio governo, o oppresse nel proprio paese, allora è inevitabile che compaia la violenza. La gente imbraccia le armi per le più svariate ragioni, che vanno dall'indignazione per le disuguaglianze economiche e le ingiustizie sociali alle forme sistematiche di discriminazione culturale, razziale e politica.

Essendo tutti i popoli del mondo pervasi dal senso di un'identità tribale, culturale o nazionale, l'impulso a espellere l'intruso rappresenta una reazione intrinsecamente umana, e niente come un'invasione militare da parte di una potenza straniera può scatenare lo spirito di ribellione. L'occupazione americana dell'Iraq è una sorta di esperimento chimico andato male: tutti gli ingredienti utili a produrre un'insurrezione sono stati messi in pentola.

La violenza scoppiò in Iraq nel giro di poche settimane dalla caduta di Baghdad per mano delle forze militari americane nell'aprile del 2003. Quando il primo maggio il presidente George W. Bush dichiarò la "fine delle ostilità", i primi colpi della rivolta irachena erano già stati fatti esplodere.

Probabilmente era un esito inevitabile. Sebbene fosse stata scrupolosamente pianificata e gestita, l'occupazione dell'Iraq condotta dagli anglo-americani non sarebbe mai stata accolta calorosamente dagli iracheni. Ben prima dello scoppio della guerra, c'erano in Iraq forti sospetti circa le reali intenzioni della Coalizione. Molti iracheni credevano ancora a ciò su cui Saddam Hussein li aveva sempre messi in guardia: l'Occidente voleva distruggere la civiltà irachena e rubarne il petrolio. Fu questo clima di scetticismo combinato ad altri fattori a instillare tra gli iracheni il seme della resistenza.

Da un giorno all'altro, giovani soldati americani che giravano armati e che non parlavano una parola di arabo divennero i nuovi guardiani della città. A Baghdad e in tutto il paese si impadronirono dei grandiosi palazzi di Saddam, facendone le loro basi operative. Migliaia di soldati cominciarono a pattugliare le strade irachene e a presidiare i check-point. Quando Baghdad cadde e i suoi edifici pubblici furono puntualmente saccheggiati e dati alle fiamme sotto lo sguardo tollerante delle "forze di liberazione" appena giunte, molti iracheni, compresi i più duri oppositori di Saddam, cominciarono a covare un forte risentimento verso di loro. Non passò inosservato il fatto che gli americani avevano protetto il Ministero del petrolio e non i tesori nazionali custoditi nel museo iracheno, e questo portò molti a pensare che quella scelta facesse parte di un piano malvagio per annientare il patrimonio culturale dell'Iraq. Successivamente, Paul Bremer III, da poco nominato da Bush viceré dell'Iraq, ordinò lo scioglimento delle forze armate irachene e dichiarò illegale il Partito Baath, precludendo di fatto a svariati milioni di iracheni e alle persone che da loro dipendevano ogni speranza di trovare spazio nel tanto decantato "nuovo Iraq".

Intanto, decine di migliaia di esuli iracheni e di "contractor" stranieri profumatamente pagati si riversano nel paese. Per tutta quella lunga, torrida estate del 2003, il sistema elettrico di Baghdad, danneggiato durante la guerra, rimase totalmente inservibile, e molte città restarono al buio per mesi. L'industria del petrolio irachena, al contrario, fu presto rimessa in moto, cosa economicamente sensata, ma che confermava i sospetti di molti iracheni che la vera priorità degli americani in Iraq fosse il petrolio, e che l'occupazione rappresentasse in fondo un immenso stupro della loro nazione a opera di sciacalli stranieri.

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Pagina 16

Quando, circa sei anni fa, cominciai a indagare il mondo in rivolta per scrivere questo libro, volevo comprendere cos'è che fa decidere a delle persone normali di muovere guerra, di scegliere consapevolmente di uccidere e morire per un ideale che, almeno all'inizio, esiste solo nelle loro teste. Il primo passo, o quello che a me doveva apparire tale, è quello cruciale, poiché implica l'attraversamento di una invisibile linea verso una realtà in cui la morte, non la vita, rappresenta la principale certezza. Sentivo che è proprio la consapevolezza di compiere questo passo a separare il guerrigliero dal resto del mondo. Come nel famoso detto di Che Guevara che celebra i rivoluzionari armati come "la più alta forma di specie umana", i guerriglieri sembravano un tipo diverso di uomini.

Nel 1967, a dieci anni, avevo visto l'immagine sgranata di una foto su una copertina che ritraeva Che Guevara sul suo letto di morte. Oggi quell'immagine è un classico: il Che emaciato e con la barba che giace a torso nudo su una brandina; il petto crivellato di proiettili, circondato dai suoi carnefici, in uniforme. Prima di quella foto, non avevo mai sentito parlare di Che Guevara e del suo progetto per liberare l'America latina attraverso la guerriglia. La sua morte rappresentò la mia prima presa di coscienza dell'esistenza di persone come lui, e da quel momento in poi fui attratto dalla figura del ribelle, del guerrigliero.

Questo libro tratta cinque gruppi di guerriglieri - i mujaheddin in Afghanistan, i Karen in Birmania, il Fronte Polisario nel Sahara occidentale, l'FMLN nel Salvador, e un gruppo di ragazzi palestinesi a Gaza –, ma parla anche di uno stile di vita che, sebbene piuttosto distante da quello di molti di noi, presenta alcuni aspetti che appartengono a tutta l'umanità. Sebbene i gruppi guerriglieri siano essenzialmente organizzazioni politiche, io ho voluto parlare delle persone che li compongono e non dei gruppi stessi. Ho osservato la guerriglia come un fenomeno globale, non territoriale. Ho esaminato i guerriglieri come avrei fatto per ogni altro gruppo di persone, prendendo in considerazione le loro preoccupazioni comuni, riguardanti la famiglia, la religione, l'economia, la società, la legalità e la mitologia, e come queste preoccupazioni giochino un ruolo nel loro vissuto quotidiano. Ho analizzato le differenze e le similitudini tra i membri di questi eserciti, ma soprattutto ho provato a tirare fuori quell'enorme tesoro di storie che tutti i guerriglieri si portano dentro. Spero infine di aver fornito un ritratto di ciò che può essere la guerriglia oggi nel mondo.

A sentire i nostri giornali e le nostre televisioni, che mandano in onda scene dei loro violenti attacchi e le loro urla di protesta, i guerriglieri sono ormai figure onnipresenti. Le loro azioni e i loro strani nomi o acronimi sono un fatto ordinario, per quanto le loro motivazioni continuino a restare oscure. In qualsiasi momento ci sono almeno una ventina di guerriglie che si stanno combattendo in giro per il mondo. Alcune sono guerre etniche o territoriali di lungo corso, rinfocolate dalle armi e dai consiglieri delle varie potenze regionali, o che, come un'emorragia, continuano dai tempi in cui erano i terreni di scontro della Guerra Fredda. Nel corso del tempo, alcuni guerriglieri si sono talmente radicati da aver assunto il ruolo di comandanti de facto dei loro feudi territoriali.

In questo "altro mondo", la presenza di armi non è un'anomalia ma una raison d'être; i bambini nascono, crescono e vengono educati nel vortice della guerra. I guerriglieri sono persone che, a dispetto dei conquistatori di questo "altro mondo" da loro immaginato, vivono secondo le proprie leggi e il proprio credo, raccontandosi le proprie storie e leggende – facendo la storia. Tuttavia, per quanto bene possiamo talvolta comprendere la loro linea politica, i guerriglieri restano qualcosa di inaccessibile e di oscuro alla maggior parte di noi. Sono stranieri visti solo in fotografia, in pose minacciose con armi automatiche, con il volto atteggiato a una fiera determinazione o nascosto da una sciarpa.

L'ispirazione di questo libro in realtà è nata quando, diventato giornalista, ho cominciato a scrivere reportage delle guerre di guerriglia combattute in America Centrale. Passai il capodanno del 1986 con i guerriglieri dell'FMLN nella provincia di Morazàn nel Salvador. Morazàn dista solo tre ore dalla capitale, dove vivevo, ma era un mondo a parte. Per alcuni giorni spinsi la mia jeep su per le rocciose mulattiere accompagnato da quei guerriglieri, mentre le loro armi automatiche ticchettavano contro la carrozzeria infuocata a ogni sobbalzo e a ogni scossa. Sembrava che dovunque andassimo si accendesse in loro il ricordo dei luoghi dove si erano verificati eventi importanti, eventi che erano ancora vivi nei loro cuori e che li spingevano di nuovo all'azione. Mi stupii di quanto folclore e di quanta storia questo popolo nascondesse. Mi resi conto che lì a Morazàn stavo assistendo a qualcosa di notevole: una società ribelle che viveva al di fuori delle leggi del proprio paese. Tutto quello che dovevo fare era viaggiare per vedere se questo fenomeno fosse presente in tutto il mondo; ampie porzioni di territorio ormai appartenevano non alle forze governative che regnavano sulla carta, ma a dei fuorilegge che esercitavano la vera autorità politica.

Per scrivere questo libro, volevo avere una visione dei guerriglieri che fosse la più ampia possibile. Ma sapevo che per riuscirci avrei dovuto osservare da vicino le guerre che si stavano combattendo in diverse parti del mondo. D'altronde, essendo impossibile coprire l'intero globo terrestre, mi sono dovuto limitare a un numero di gruppi guerriglieri che fosse rappresentativo della guerriglia moderna. Ciò nonostante, non volevo che i guerriglieri che avevo scelto fossero presi come i portavoce di tutti i guerriglieri.

Innanzitutto ho deciso di recarmi in Afghanistan. Non solo avevo ricevuto un invito da parte di un gruppo di mujaheddin, ma i sovietici non avevano ancora completato il ritiro dal paese, e mi era dunque concessa la rara opportunità di osservare da vicino i guerriglieri combattere contro gli invasori. Andai a Kandahar nel deserto afgano del sud. Dopodiché visitai i territori contesi del Sahara occidentale accanto ai guerriglieri del Fronte Polisario. Fu il viaggio più efficiente e "organizzato" che feci. Ottenni un visto dall'Ambasciata algerina di Londra solo dopo che il Fronte Polisario ebbe approvato il mio viaggio, e in Algeria, una delegazione del Fronte mi ricevette all'accettazione. Una complicità così evidente tra un esercito di guerriglieri e un ospite straniero è rara. Ritornai nuovamente in Afghanistan per osservare l'assedio fallito di Jalalabad. Per un paio di mesi soggiornai in Pakistan nella città frontaliera di Peshwar, e viaggiavo continuamente lungo il confine.

Il terzo posto dove sono stato è la Birmania. Ricevetti la garanzia che mi avrebbero accolto bene in una lettera inviatami da un politico in esilio alleato con i guerriglieri Karen, che combattono lungo il confine tra la Birmania e la Thailandia. Lì, per un periodo di oltre tre mesi, visitai più volte le basi Karen.

Successivamente mi recai nel Salvador, un paese che conoscevo bene, dove alcuni amici mi aiutarono a prendere accordi per entrare nella "zona liberata" dai guerriglieri dell'FMLN tra le montagne del Chalatenango. Il Salvador era per me importante perché ciò che avevo visto lì in precedenza aveva determinato la genesi di questo libro.

Il mio ultimo viaggio fu nei territori occupati da Israele nella Striscia di Gaza, nel campo profughi di Breij, un luogo dove in precedenza avevo stretto amicizia con alcuni shabbab militanti coinvolti nell'intifada. Qualcuno potrebbe stupirsi che abbia incluso gli shabbab in un libro sulla guerriglia, ma essi rientrano perfettamente nella mia definizione di guerriglia, che è la seguente: guerrigliero è qualunque uomo o donna che, con ogni strumento a sua disposizione, rischia la propria vita in una lotta per cambiare lo stato delle cose.


Ho scritto questo libro al presente, per dare ai lettori un senso di immediatezza sul mondo in rivolta. Le persone che ho incontrato e i posti che ho visitato sono descritti così come li ho visti nel corso dei miei viaggi, che si sono svolti in un arco di tempo che comprende tre anni, dal dicembre del 1988 al gennaio del 1992.

Come in tutte le cose della vita, tuttavia, anche le guerre negli anni cambiano, e così è accaduto anche a molte delle situazioni descritte in questo libro. Ma in fin dei conti quest'opera non ha a che fare con le circostanze particolari delle guerre che ho incontrato, ma con i guerriglieri, come se ne possono trovare in ogni momento e in ogni luogo. E soprattutto, la mia speranza è che questo libro riesca a mostrare il lato umano della loro storia, perché potrebbe appartenerci.

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Pagina 23

Capitolo 1

Miti fondativi


Anticamente, sulle mappe, le zone inesplorate del mondo erano segnate in bianco; i cartografi per definirle vi scrivevano sopra TERRA INCOGNITA. Spesso si trattava di regioni popolate che, semplicemente, non erano ancora state scoperte dalle potenze coloniali che redigevano quelle mappe; e così rimanevano, ufficialmente, "terre incognite".

Quando infine quelle terre venivano individuate e cadevano sotto il dominio delle potenze europee in espansione, si riempivano gli spazi bianchi e nuovi confini coloniali venivano imposti su antichi territori tribali e regni autoctoni.

Le mappe hanno sempre rispecchiato la vanagloria dei conquistatori, e l'epoca attuale non fa differenza. Ancora oggi, i territori abitati da guerriglieri che combattono le loro guerre per imporre la propria visione della vita non sono contemplati nei moderni atlanti politici. I confini, se pure esistono, sono tracciati solo sulle carte militari usate dai combattenti o dai loro nemici. Le mutevoli linee di demarcazione segnate su queste mappe non sono ufficiali; talvolta sono proprio segrete, sicuramente inesatte. Eppure esse costituiscono una realtà ben più vera di quella rappresentata dalle mappe che descrivono i confini regionali, provinciali e nazionali degli Stati-nazione ufficiali.

In ogni angolo del pianeta esistono paesaggi interiori percepiti solo dai guerriglieri e dai loro seguaci. Costoro sanno quali drammatici e memorabili eventi, alcuni terribili, altri sublimi, si sono verificati in quel groviglio di alberi e rovi che chiamano casa. Tante cose sono accadute in quelle fitte boscaglie dove un tempo fiorivano i centri abitati. Qui, una battaglia. Lì, un eroe guerrigliero che moriva... un'imboscata a una colonna nemica... un elicottero abbattuto... I luoghi dei massacri acquistano dignità nella solitudine, il loro silenzio interrotto soltanto da un frinire di cicale o dallo stormire degli uccelli. Gli alberi frondosi e i rampicanti avvincono ormai le macerie dove un tempo sorgevano le case, dove prima una chiesa accoglieva i fedeli nella preghiera; i morti giacciono sotto, non visti.

Sono luoghi in cui regna l'atmosfera inquietante di un terreno consacrato; in mezzo a essi si muovono furtivi i guerriglieri, parlando in tono sommesso. Per loro, quei luoghi sono la prova terrificante della vera natura del nemico; e ricordano anche quale prezzo abbiano dovuto pagare degli innocenti per il solo fatto di trovarsi lì.

Gli dei e gli spettri della guerra, i suoi eroi e i suoi criminali, i momenti di audacia come quelli della sconfitta – tutti quegli istanti fondamentali che decidono il corso di una guerra – sono invisibili agli estranei, ma abitano quella terra nel cuore e nella mente dei guerriglieri e dei loro seguaci.

Un giorno o l'altro, se mai costoro conquisteranno il potere, saranno apposte targhe ed erette statue in onore di questo pantheon spettrale; ci saranno monumenti nei luoghi in cui fu versato il sangue, luoghi in cui si può andare a rendere omaggio, deponendo una corona di fiori e cercando di immaginare cosa successe. Per il momento, però, questa storia, ancora viva, viene scritta nel sangue e la si può commemorare solo oralmente, nei ricordi narrati più e più volte, tramandati ai più giovani. Questo folklore, questo paesaggio interiore della guerra, continueranno a esistere fino a quando ci saranno dei guerriglieri a ricordare e a raccontare cosa accadde. E alla fine, quelle storie diventeranno miti.

Tutti i movimenti guerriglieri hanno i propri miti fondativi. Per giustificare l'uccisione dei propri simili, gli uomini mitizzano le origini dei loro conflitti, e man mano che la guerra si dipana, si sviluppano anche le storie che la raccontano. Il folklore che ne deriva soddisfa il bisogno dei guerriglieri di immortalare le proprie gesta, di sapere che la loro versione della storia continuerà a essere narrata. Perché appunto il loro timore è che, vivendo da fuggiaschi, rimarranno per sempre invisibili al mondo al di fuori del campo di battaglia, quel campo in cui hanno combattuto e in cui sono morti. Come uno che veda la propria immagine riflessa in uno specchio d'acqua, così anche i guerriglieri hanno bisogno di vedere se stessi, di rassicurasi circa il proprio posto nel tempo.


Nel cuore del deserto del Sahara, un gruppo di guerriglieri perpetua uno dei più insoliti miti fondativi mai sentiti: essi sostengono che il loro arido rifugio selvaggio è nientemeno che una repubblica sovrana, di cui essi formano governo e cittadinanza.

Il muro serpeggia diagonalmente su una dorsale desertica a circa un chilometro di distanza. Da un appostamento per cecchini, con lo scirocco che si alza nella calura di mezzogiorno, sembra solo una irregolare linea bianca sulle dune brunastre. Dal modo in cui luccica e scintilla, quel muro si direbbe quasi un miraggio, come i laghi argentati che baluginano per poi scomparire non appena ci si avvicina.

È la prima linea della guerra per il Sahara occidentale, un'ex colonia spagnola sulla gobba nord-occidentale dell'Africa. Per quasi vent'anni, l'etnia Saharawi ha combattuto una guerra contro l'esercito occupante di re Hassan II del Marocco. Fu lui a costruire quel muro fortificato lungo oltre duemilaquattrocento chilometri che circonda circa i due terzi del territorio. La muraglia, che taglia inesorabilmente quella landa desertica, ha trasformato quella guerra in uno dei più anomali conflitti al mondo.

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Pagina 51

La storia nuova è che i profughi Saharawi sono rinati come popolo del Polisario nel loro crogiolo nel deserto. È stata data loro una nuova prospettiva, ed essi sono risorti dalle ceneri del passato, come tante fenici del deserto, finalmente liberi.

Proprio perché letteralmente murati fuori dalla loro patria, per i Saharawi è tutto più semplice rispetto ad altri popoli espropriati: questa separazione fisica e l'isolamento dalle altre comunità consente di crearsi più facilmente una vita ideale lontana dall'angustia del presente e di immaginare ciò che il futuro ha in serbo per loro. La pena dell'esilio, per quanto sia molto reale, è in certa misura mitigata dal fatto che essi si sentono ancora liberi: la loro terra potrà pure essere occupata, ma loro non sono un popolo occupato. I Saharawi si guardano intorno, guardano il loro deserto: un orizzonte sconfinato. Così, anche le loro possibilità sembrano sconfinate.


Una simile libertà immaginativa non c'è per i palestinesi che vivono sotto l'occupazione israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Non è possibile per loro sanare le ferite provocate dall'isolamento: le migliaia di palestinesi che fanno avanti e indietro dai loro umili impieghi in Israele, devono passare ogni giorno accanto alle rovine dei loro vecchi villaggi e delle fattorie rasi al suolo.

Per i giovani, cresciuti nei campi profughi ascoltando i racconti della vita prima dell'occupazione, l'idea di ritornare nelle terre di famiglia è diventata quasi un imperativo mistico.

A differenza dei Saharawi, che vedono il passato come qualcosa per cui provare vergogna, i palestinesi lo mantengono deliberatamente in vita, in quanto esso è la prova, seppur degradata, delle loro sofferenze e giustifica la loro lotta per riconquistare la patria. Si tratta, per costoro, di un passato idealizzato: almeno a quel tempo, dicono i giovani palestinesi, i loro genitori vivevano e circolavano liberi in una terra chiamata Palestina.

Nella Striscia di Gaza, cammelli svigoriti e piccoli asini al trotto trascinano carretti di legno lungo strade quasi completamente invase dalla sabbia. I bimbi giocano nelle pozze stagnanti ai bordi della strada; una ragnatela di fili elettrici penzola dai pali. Qui e là, dei minareti spuntano dal dedalo polveroso di case in cemento, mentre i megafoni rimandano con voce cupa a tutto volume la chiamata del muezzin alla preghiera, e ovunque gente e ancora gente.

Percorrendo l'autostrada israeliana verso sud, ad appena un'ora dalla città ebraica occidentale di Tel Aviv, si trova la Striscia di Gaza: un tuffo improvviso dal mondo dell'Europa moderna in quello del Medio Oriente medievale. Superati i posti di blocco militari israeliani, massicciamente sorvegliati, le strade si disintegrano e la popolazione non è più europea bensì araba. Gli uomini indossano lunghe tuniche e la kefiah, mentre le donne sono nascoste dai veli e da vesti che arrivano alle caviglie. Ovunque ci sono mucchi di rifiuti mai raccolti e si vedono le carcasse arrugginite di veicoli fuori uso.

Lunga appena quarantadue chilometri e larga sette o otto, la Striscia di Gaza è uno dei luoghi più sovrappopolati al mondo. Ci vivono più di 750.000 palestinesi, molti dei quali profughi provenienti da città e paesi che ora fanno parte dello Stato di Israele. Con una punta di macabro sarcasmo, gli abitanti di Gaza dicono che ormai la Striscia è talmente affollata che non hanno più posto per seppellire i morti.

Uno dei sette campi profughi della Striscia di Gaza è quello di Breij. È anche uno dei più piccoli: dà alloggio a ventimila persone. Quasi tutti quelli che ci vivono arrivarono qui nel 1948, dopo aver perduto la casa nella guerra che portò alla nascita dello Stato di Israele.

Dopo quarantacinque anni, Breij ha ormai assunto il carattere definitivo, e degradato, di un tipico villaggio di Gaza. All'inizio consisteva in un campo di tende piantate sul suolo di un'ex guarnigione militare britannica; ora, invece, è un'accozzaglia di povere case di mattoni cavi che sembrano non finite.

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Pagina 56

Sami è un ragazzo di ventiquattro anni, alto, con le spalle curve e la barba folta. "Non si lasci ingannare dalla barba", dice ridendo. "Non sono un fondamentalista." Fa parte del Fronte democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP), un gruppo marxista radicale dell'OLP, e ha studiato per quattro anni all'università della Repubblica democratica popolare dello Yemen, dove si è laureato in inglese. Una volta tornato a casa sperava di trovare lavoro come insegnante in una scuola elementare, per "forgiare le menti dei bambini".

Ma non era un buon periodo per trovare lavoro a Breij. Tutta Gaza era in tumulto perché l'intifada, la rivolta palestinese contro il governo israeliano scoppiata nel dicembre del 1987, era al culmine.

Invece di un impiego da insegnante, Sami trovò presto un posto nel movimento clandestino di Gaza. Insieme ad altri militanti tra i venti e i trenta anni, coordinava gli shabbab, giovani perlopiù sotto i vent'anni che ogni giorno andavano in giro a scontrarsi con i militari israeliani, lanciando pietre e dando fuoco ai copertoni delle auto. Sami porta sempre con sé nella tasca dei jeans un taglierino che gli piace mostrare in giro: dice che se gli israeliani cercheranno di prenderlo non gli renderà certo il compito facile.

Una sera, dopo il coprifuoco, l'intera famiglia si riunisce attorno alla madre, una donna mutilata ma comunque bella, per ascoltare una storia che hanno già sentito centinaia di volte. La stanno ad ascoltare assorti, pieni di rispetto e di un'emozione contenuta. Solo la sorella adolescente di Sami, a cui è proibito essere presente quando ci sono degli estranei di sesso maschile, non è nella stanza. Però muore dalla curiosità, così se ne sta a sbirciare da dietro la porta della camera delle donne, tirando subito indietro i lunghi capelli scuri e nascondendosi ogni volta che la scoprono.

La città dove nacque la madre di Sami ora fa parte di Israele. Durante la guerra del 1948 era appena una ragazzina. Un giorno sulla soglia di casa comparve un guerrigliero ebreo che lanciò dentro una granata. Nell'esplosione sua madre morì e lei rimase mutilata. In qualche modo – non ricorda come accadde - fu separata dal padre, che al momento era lontano da casa. Dopo averla cercata ovunque, l'uomo finalmente la trovò nell'ospedale di Gerusalemme, dove era stata portata dopo l'esplosione.

Insieme al padre si unì all'esodo di profughi arabi che scappavano dalla Palestina: l'uomo voleva trovare un posto dove avrebbe potuto lavorare e prendersi cura di lei in modo dignitoso. Prima la portò a Beirut, poi di nuovo a Gerusalemme, e infine a Hebron, che al tempo era sotto l'occupazione giordana. Con un sorriso fiero e parlando piano, la donna racconta della notte in cui, con un gesto di vera audacia, il padre la portò a dorso di asino dalle colline di Hebron fino a Gaza, che al tempo era occupata dagli egiziani, attraversando il territorio israeliano.

Così crebbe a Gaza; lì conobbe suo marito e mise su famiglia. Per i figli, il corpo menomato della madre e quel suo trascinarsi zoppicando sono la dimostrazione fisica di cosa sia veramente il loro nemico. Ogni volta che ascoltano il suo racconto, la sensazione di doverla vendicare si riaccende forte. Con un simile lascito familiare, è chiaro che Sami non potrà mai essere solo un insegnante.

Racconti come quelli della madre di Sami sono come dei preziosi cimeli di famiglia nella storia orale palestinese che si sta costruendo man mano. In un'altra famiglia, il padre conserva ancora oggi le chiavi della casa che lasciò nel 1948. Adesso è diventata la confortevole abitazione di una famiglia ebraica, ma le chiavi restano appese in bella mostra nella casa del profugo, perché i figli non dimentichino il passato.

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Pagina 146

In fondo, tutte le guerre hanno a che fare con l'economia, sia quanto alle ragioni che le scatenano che ai mezzi con cui vengono portate avanti. Poter contare su un adeguato supporto materiale è la chiave della sopravvivenza di molte guerre insurrezionali, se non addirittura del loro definitivo successo o fallimento politico. C'è proprio del vero nel vecchio detto maoista secondo cui, per sopravvivere, i guerriglieri devono potersi muovere tra il popolo come pesci nell'acqua. Tuttavia, anche se il popolo può fornire ai guerriglieri cibo, rifugio, una rete informativa e nuove reclute, è difficile che riesca a procurare loro armi, munizioni e l'equipaggiamento militare necessario per condurre una guerra. Così, la maggior parte dei guerriglieri si rivolge anche ai mecenati stranieri, potenti benefattori che, per motivi loro, vogliono un cambiamento nei sistemi contro cui combattono i guerriglieri. La sfida, per i guerriglieri, è proprio quella di preservare l'integrità della loro lotta pur avendo uno sponsor straniero.

Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta ci fu un boom di guerriglie nel Terzo Mondo. A causa del crollo degli imperi coloniali europei in seguito alla Seconda guerra mondiale, il mondo in via di sviluppo si ritrovò alla mercé di chiunque volesse accaparrarselo, e fu in quei paesi che le nuove superpotenze cercarono degli alleati che combattessero per procura. Nel periodo della Guerra Fredda, i diversi blocchi si resero conto che c'erano nuovi interessi strategici da poter sfruttare nel territorio di influenza nemico, così ai vari gruppi guerriglieri cominciarono ad arrivare aiuti da Washington, da Mosca o da Pechino. Solo nelle aree giudicate non strategiche, le cause dei guerriglieri sono rimaste ignorate.

L'intifada palestinese è unica nel suo genere, perché non ha bisogno di quel supporto logistico che è invece essenziale per le altre lotte insurrezionali. Nondimeno, sebbene i suoi "combattenti" usino perlopiù razzi e coltelli invece di pistole e bombe, l'intifada è una forma di insurrezione a tutti gli effetti. Essa rappresenta l'ultima versione della resistenza palestinese, dopo che tutte le forme di violenza sono state provate e sono tutte fallite. Eppure quello per cui si battono gli shabbab non è diverso da ciò per cui, prima di loro, si sono battuti i commando di fedayn e i dirottatori aerei: una patria palestinese.

Il fine ultimo è rimasto lo stesso, solo i mezzi sono cambiati. Se prima c'era bisogno di rifornimenti regolari di denaro o di armi e munizioni, ora la causa palestinese dipende molto dalla capacità di plasmare a proprio favore l'opinione pubblica internazionale. In questo senso, la povertà estrema dell'intifada si è rivelata un'arma utilissima per alimentare l'immagine di una rivolta del tipo Davide contro Golia, condotta da ragazzi inermi contro soldati armati. Si dà il caso che la Palestina non abbia molta scelta.

Uno degli aspetti più umilianti della vita dei palestinesi sotto l'occupazione israeliana è che molti di loro devono lavorare per il nemico per poter sopravvivere. Ma altro lavoro non c'è, soprattutto non a Gaza. Così, ogni giorno della settimana, a eccezione del venerdì, giorno sacro per i musulmani, oltre settantamila abitanti di Gaza si spostano per andare a svolgere umili lavori in Israele. Sono loro a formare il bacino del cosiddetto lavoro nero israeliano, l'equivalente dei migranti nelle township del Sudafrica, o dei "tangheri" messicani negli Stati Uniti.

Ogni mattina, un fiume di taxi Peugeot azzurro chiaro piuttosto malconci e vecchie Mercedes stipate di palestinesi, sia ragazzi che adulti, si riversano a nord verso Tel-Aviv, dopo essere passati al setaccio dei check-point israeliani al confine settentrionale dei territori. Ogni sera fanno tutti ritorno a Gaza, perché passare la notte in Israele è proibito.

Le giornate sono infinitamente lunghe e il lavoro spesso massacrante. Nonostante alcuni riescano, con la connivenza dei loro datori di lavoro, a rimanere illegalmente in territorio israeliano per la notte, dormendo sul pavimento delle fabbriche o nei magazzini dei ristoranti, la maggior parte deve tornare a casa, per poi rialzarsi il giorno dopo molto prima dell'alba e rimettersi in viaggio verso il luogo di lavoro.

Possono avere anche un titolo di studio, ma i palestinesi finiscono invariabilmente per fare mestieri umili, lavorando ore e ore come cuochi o lavapiatti per pochi soldi nelle cucine dei ristoranti di Israele, come operai o come muratori nei cantieri. Massoud, uno degli amici di Mahmoud, è laureato all'Università del Cairo con una tesi in lingua araba che non ha mai potuto mettere a frutto. La sera, durante la settimana, spesso rimane in casa, ancora sporco di gesso e polvere, esausto dopo una giornata di lavoro.

Per i palestinesi lavorare nel settore delle costruzioni è un crudele scherzo del destino, perché con le loro stesse mani aiutano i nemici a insediarsi nella terra dei loro antenati. A ogni nuovo condominio eretto per accogliere il flusso sempre maggiore di immigrati ebrei europei o di coloni nei territori occupati, questi operai pongono un ulteriore ostacolo al loro futuro, alla riappropriazione di quella terra che chiamano Palestina. Per il momento, però, con una famiglia da sfamare e i figli da vestire, non hanno altra scelta se non trovare lavoro dove possono.

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Sebbene ovviamente siano diversissimi tra loro sotto molti aspetti, i palestinesi hanno alcune cose in comune con i Karen della Birmania. Sono due gruppi etnici che vogliono l'autogoverno per la loro nazione, ed entrambi sono riusciti a portare avanti la propria lotta nonostante le crescenti difficoltà economiche. Come i palestinesi sono stati costretti dalle circostanze avverse a contare solo sulle proprie forze, così i Karen si sono risvegliati dal torpore quando si sono resi conto che il loro territorio veniva via via eroso e gli introiti andavano riducendosi sempre di più: ciò li ha spinti a rivedere la loro linea d'azione, per potersi tenere stretto quel che era rimasto e sopravvivere nel futuro.

Le due comunità hanno inoltre una comune eredità coloniale, essendo state entrambe, fino alla fine degli anni Quaranta, pedine strategiche dell'Impero britannico. La Birmania, però, ha perduto quella valenza geopolitica che la Palestina conserva tuttora. Un tempo cuscinetto territoriale con il dominio coloniale britannico dell'India, la Birmania smise di essere politicamente rilevante una volta che l'India ebbe conquistato l'indipendenza. In Asia, le nuove faglie di tensione internazionali attraversavano ormai l'Indocina e si spingevano anche oltre, facendo sì che la Birmania cadesse nel più completo oblio. Ad aggravare questo isolamento fu anche la politica di non allineamento adottata per anni dal regime birmano: Rangoon evitava di richiedere l'aiuto del blocco comunista, e d'altro canto la guerra secessionista dei Karen non risvegliava l'interesse dell'Occidente. Il risultato, straordinario per un'insurrezione così duratura, è che i Karen si sono sempre arrangiati da soli.

Ogni domenica i mahout Karen, lungo il corso del Salween, portano i loro elefanti giù al fiume per il bagno settimanale. Le rive frondose che attraversano la giungla si affollano di queste bestie a chiazze rosa e grigie, mentre i mahout stanno in equilibrio come acrobati sulle loro grosse teste nodose, sfregandole con spazzole ruvide grosse come scope. Gli elefanti se ne rimangono a oziare immersi per metà nell'acqua, arricciando per gioco le proboscidi e soffiando acqua in aria, come teiere viventi che esplodono vapore.

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Tra gli eserciti guerriglieri, il Fronte Polisario è forse quello che più di tutti dipende dal sostegno proveniente dall'esterno. Trovandosi in un deserto che altrimenti sarebbe inabitato, con l'intera popolazione civile a vivere nei campi profughi, il Fronte non ha mai avuto molta alternativa. Al contempo però, questo stato di dipendenza costituisce una risorsa preziosa per la sua base di potere tra i profughi Saharawi. Il Polisario fa da mediatore tra i Saharawi e il mondo esterno, filtrando tutti gli aiuti che arrivano dall'estero. Avendo piena autorità decisionale sulla ripartizione dei beni, il Polisario esercita ormai un controllo totale sulla vita economica dei profughi. È il Fronte a rifornirli di tutto. Non esiste il denaro né la proprietà terriera; non ci sono case, banche, o ipoteche, né bollette della luce o dell'acqua – non ci sono proprio bollette. L'istruzione è gratuita – in media sono settemila i giovani che studiano all'estero –, l'assistenza sanitaria e i vestiti sono gratis; tutto è gratis. Quel che chiede in cambio il Polisario è una lealtà incondizionata.

Essendosi accreditato come un movimento anticoloniale di liberazione nazionale, il Polisario ha avuto gioco facile nel conquistarsi l'appoggio degli Stati fortemente anti-occidentali del Terzo Mondo. Fin dagli esordi del Fronte, l'alleato più importante è stato il governo socialista algerino del FLN; poi anche la Libia, lo Yemen, la Siria, Cuba e l'Iran. Dal momento che le nazioni di sinistra del Terzo Mondo sostengono il Polisario, il re Hassan II, che ha sempre fatto di tutto pur di diventare amico dell'Occidente, ha potuto acquistare notevoli quantitativi di armi dagli Stati Uniti e dalla Francia per il suo sforzo bellico.

Il Polisario, da par suo, non si illude certo di vincere militarmente la guerra: la presenza dei combattenti nel territorio conteso è uno strumento con cui fare pressione affinché, con la mediazione straniera, si indica un referendum e si giunga poi a un accordo politico con il Marocco. Per poter raggiungere questo obiettivo, però, i Saharawi hanno bisogno innanzitutto di attirare su di sé l'interesse e il benvolere della comunità internazionale, una merce rara per coltivare la quale continuano a spendere grandi energie.

Uno dei maggiori successi ottenuti su questa linea dal Fronte Polisario è stata la legittimazione a livello diplomatico: oltre settanta paesi riconoscono ormai la "Repubblica democratica sahariana-araba". L'"ambasciata" più importante si trova ad Algeri, una villa coloniale francese un tempo sontuosa, che domina la città dalla scogliera, affacciandosi sul mar Mediterraneo e sul lungomare del Boulevard Ernesto Che Guevara.

Un segno del legame profondo tra il regime algerino e i guerriglieri Saharawi è la vicinanza tra il quartier generale del Polisario e la base dell'aeronautica militare algerina di Tindouf. È qui che sorge, tra le dune, il complesso amministrativo del Polisario. Da lì partono, in varie direzioni, le strade che portano ai campi profughi, alle basi militari e ai campi dei prigionieri di guerra. Non troppo lontano si vedono diverse batterie di missili terra-aria sovietici. Quei missili, oltre alla vicinanza con la base area, sono il motivo per cui non ci sono attacchi da parte delle moderne forze aree del re Hassan II.

Per non dipendere completamente dagli alleati, il Fronte Polisario ha anche creato uno straordinario network di solidarietà internazionale, in particolare tra i movimenti di sinistra dei paesi dell'Europa occidentale, che si occupano di raccogliere fondi, far conoscere la causa del Polisario e far arrivare gli aiuti direttamente nei campi nel deserto. La ramificazione del Polisario che si occupa dei soccorsi umanitari, la Mezzaluna Rossa Saharawi, distribuisce poi tutti gli aiuti ai profughi tramite i consigli popolari del Fronte.

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Capitolo 4

Fare la guerra


Una notte, nel Chalatenango, quando ormai i compas dormono nei loro rustici capanni, l'esercito squarcia la notte con le sue armi a lunga gittata. Come una mano divina che si allunghi sulle montagne in un gesto di terribile malevolenza, tre razzi strepitano nell'oscurità rompendo il sonno.

Nei pochi, gelidi secondi prima dello scoppio, la notte si riempie del boato dei missili in arrivo, sempre più fragoroso fino alla conflagrazione. Il primo esplode molto vicino, il secondo, per fortuna, un po' più in là, il terzo molto lontano. I compas, alcuni eccitati, altri molto nervosi, emergono dalle loro champas e corrono a mettersi al riparo finché dura il fuoco di fila. Dopo il terzo colpo di mortaio, decidono che il nemico sta solo "facendo delle prove", così se ne tornano a dormire. È una specie di rimpiattino con il nemico, un gioco al quale ormai sono abituati.

All'alba i compas si alzano come se nulla fosse accaduto. Si parla poco dell'attacco, tranne a colazione, quando qualcuno fa notare scherzosamente che il primo colpo per poco non colpiva la latrina del campo. Poi si lascia cadere l'argomento, e i guerriglieri tornano alle loro solite occupazioni, mentre un nuovo giorno di guerra comincia nel Salvador.


Per riuscire a fare la guerra uno deve fare i conti con la morte, e la possibilità concreta di uccidere o di morire rende la vita di un guerrigliero diversa da quella di chiunque altro. In guerra, la vita umana diventa sacrificabile e il rispetto per essa dipende da molti fattori: gli obiettivi della guerra, il comportamento del nemico, le condizioni oggettive del campo di battaglia e, cosa forse ancor più importante, le tradizioni e le convinzioni culturali. In definitiva, il valore che gli uomini accordano alla vita umana determina le modalità con cui verrà condotta una guerra.

"Si impara a convivere con la morte, ci si entra in confidenza», dice Augustín, che lavora con Haroldo per Radio Farabundo Martí. "Ma la paura non ti abbandona mai. Semmai, ami ancora di più la vita. Ma prima di tutto bisogna esser disposti a sacrificarla in qualsiasi momento, se questo serve alla causa."

L'ethos collettivo del sacrificio di sé pone ciascun combattente sull'altare della vittoria rivoluzionaria, una sorta di offerta di sangue agli dei della guerra. L'emozione descritta da Augustín viene definita mistica, anche se è una parola che vuole dire molte cose: in essa sono fusi il credo ideologico, il cameratismo e quel sentimento che spinge i guerriglieri a continuare la lotta. Ciò costituisce l'ingrediente basilare dell'alchimia rivoluzionaria. In una poesia intitolata Ferite, Haroldo descrive così quel che ha dentro:

Nell'anno peggiore di guerra
Al culmine della battaglia
Il combattente,
tenendo il polso disteso
davanti agli occhi, esclama:
"La mia mano, l'ho persa".

Ma guardandosi attorno
Dove il sangue caldo
Dei suoi fratelli
Lancia un grido,
si scuote e dice:
"Non importa, sono ancora vivo"
- e fa un passo più in là.

Haroldo appartiene a una lunga schiera di intellettuali latinoamericani che si sono sentiti obbligati dalla loro coscienza a sposare la causa rivoluzionaria. Il combattente racconta che il suo impegno politico cominciò ai tempi del liceo, quando entrò a far parte di un gruppo letterario; così, gli piace dire con un po' di ironia che è stata proprio la poesia a introdurlo alla rivoluzione. La sua coscienza politica è poi cresciuta all'università.

A quell'epoca, verso la metà degli anni Settanta, il Salvador era in pieno fermento sociale, e le università erano la culla del dissenso contro l'odiata dittatura militare. Gli studenti, i sindacalisti e gli attivisti cristiani cominciarono a reclamare una riforma politica; una richiesta a cui l'oligarchia militare di destra reagì con una repressione ancora più opprimente.

Insieme ad altri giovani poeti e scrittori, Haroldo diede vita a un cenacolo letterario che si riuniva ogni settimana in casa sua. Dopo un po' i giovani si resero conto di essere spiati dalla polizia. Terrorizzati, decisero di sciogliere il gruppo e si persero di vista. A quanto pareva, le parole erano diventate pericolose nel Salvador.

Quell'episodio convinse Haroldo a partecipare più attivamente alla rivolta sociale che andava estendendosi nel paese. Cominciò a redigere manifesti ed editoriali come volontario per i lavoratori in sciopero. In quel periodo rimasero uccise due persone che conosceva e che stimava negli scontri a fuoco con la Guardia nazionale. Uno era uno studente di economia, l'altro un poeta. Da un giorno all'altro li avevano fatti diventare membri di un movimento guerrigliero di cui fino a quel momento nessuno aveva sentito parlare.

Quelle morti lo fecero riflettere: i due giovani erano persone che avevano difeso i loro ideali a costo della vita. L'impegno di Haroldo per un cambiamento radicale della società andò gradualmente intensificandosi, fino a quando non arrivò il giorno in cui si rese conto che era disposto a sacrificare la propria vita per la causa.

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