Copertina
Autore Antonio Lobo Antunes
Titolo In culo al mondo
EdizioneEinaudi, Torino, 1996, I coralli 55 , pag. 206, dim. 136x213x17 mm , Isbn 978-88-06-14027-4
OriginaleOs Cus de Judas [1983]
TraduttoreMaria José de Lancastre
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe narrativa portoghese , storia: Africa
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Pagina 3

A

Quello che piú mi piaceva allo zoo era la pista di pattinaggio sotto gli alberi, e il professore negro bello e dritto che scivolava all'indietro sul cemento in ellissi lente senza muovere neanche un muscolo, circondato da bambine dalle gonne corte e dagli stivaletti bianchi che, se avessero parlato, di sicuro avrebbero rivelato voci di tulle come quelle che negli aeroporti annunciano la partenza degli aerei, sillabe di cotone che si dissolvono negli orecchi come lische di caramella nella conchiglia del palato. Non so se quello che sto per dirle le sembrerà una cazzata ma la domenica mattina, quando ci andavamo con mio padre, gli animali erano piú animali, la solitudine da spaghetto della giraffa assomigliava a quella di un Gulliver triste, e dalle tombe del cimitero dei cani venivano fuori ogni tanto dei guaiti infelici di barboncino. L'odore era quello dei corridoi all'aria aperta del Coliseu, il circo d'inverno, pieni di strambi uccelli inventati in gabbie di rete, struzzi simili a professoresse di ginnastica zitelle, pinguini gottosi con l'andatura di vecchi bidelli coi calli ai piedi, cacatoa con la testa inclinata come visitatori di musei; nella vasca degli ippopotami lievitava la lenta tranquillità della grassezza, i serpenti si attorcigliavano in molli spirali stronzesche e i coccodrilli si abbandonavano con naturalezza al loro destino terziario di lucertole patibolari. I platani fra le gabbie si coprivano di un pulviscolo argentato, come i nostri capelli, e mi sembrava che in qualche modo saremmo invecchiati insieme: il giardiniere con il rastrello che raccattava le foglie in un secchio aveva senza dubbio a che fare con il chirurgo che mi avrebbe rastrellato i calcoli della cistifellea per metterli in un flacone avvolto da un'etichetta adesiva: una menopausa vegetale in cui i noduli della prostata e i nodi dei tronchi si avvicinavano e si confondevano ci avrebbe affratellati nella medesima malinconia senza illusioni: i molari sarebbero caduti dalla bocca come frutti marci, la pelle della pancia si sarebbe raggrinzita in una ruvidità di corteccia. Ma non era impossibile che un alito complice scuotesse le ciocche dei rami piú alti, e una tosse rompesse a stento le nebbie della sordità con muggiti di buccina, che avrebbero acquistato gradualmente la tonalità tranquillizzatrice della bronchite coniugale.

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[...] C'era odore di rinchiuso, di influenza e di biscotti, e soltanto le grandi vasche da bagno ossidate, dalle zampe a forma di artigli di sfinge, con la linea dell'acqua assente indicata da un orlo marrone simile al segno di un berretto sulla fronte, mi sembravano vive, nel loro cercare con avide fauci smisurate le mammelle di rame dei rubinetti, da dove scendevano ogni tanto lacrime rare come gocce di Argirol. Nelle cucine, identiche al laboratorio di chimica del liceo, un calendario delle Missioni con tanti negretti appeso al muro, cameriere senza età, tutte di nome Albertina, preparavano brodi di gallina insipidi brontolando sopra i tegami brani di rosario destinati a condire il riso in bianco. Negli scaldabagni antichissimi, contemporanei alla marmitta di Papin, le fiamme del gas acquistavano la forma instabile di petali fragili, oscillando sull'orlo di un'esplosione catastrofica che avrebbe ridotto a cocci irriconoscibili l'ultima tazzina di Sèvres. Le finestre non si distinguevano dai quadri: sul vetro o sulla tela, gli stessi alberi di ottobre si rattrappivano come piselli intirizziti dopo un bagno in piscina, sopra i quali si attorcigliavano le stelle filanti sbiadite di un carnevale defunto. Le zie venivano avanti a scossoni come ballerine da carillon alla fine della carica, mi puntavano alle costole la minaccia incerta dei loro bastoni, osservavano con disprezzo le spalle imbottite della mia giacca e proclamavano acide:

- Sei magro

come se le mie clavicole prominenti fossero state piú vergognose di una traccia di rossetto sul colletto della camicia.

Una pendola non localizzabile, perduta fra tenebre di armadi, sgocciolava ore soffocate in un corridoio lontano, intasato da bauli di canfora, che portava a stanze irte e umide, dove il cadavere di Proust fluttuava ancora, spargendo nell'aria rarefatta un alito logoro d'infanzia. Le zie si installavano con difficoltà sul bordo di gigantesche poltrone decorate da filigrane di uncinetto, servivano il tè in teiere lavorate come custodie manueline e completavano la loro giaculatoria indicando con il cucchiaino fotografie di generali furibondi, deceduti prima della mia nascita in seguito a gloriosi combattimenti di trictrac e di biliardo, in Circoli Ufficiali malinconici come sale da pranzo vuote, dove le Ultime Cene erano sostituite da stampe di battaglie.

- Se Dio vuole, il servizio militare lo farà diventare un uomo.

Questa energica profezia, trasmessami lungo l'infanzia e l'adolescenza da dentiere di indiscutibile autorità, si prolungava in echi stridenti ai tavoli di canasta, dove le femmine del clan fornivano alla messa domenicale un contrappeso pagano a due centesimi il punto, somma nominale che serviva loro da pretesto per manifestare, su una giocata sfortunata, antichi odi pazientemente segregati. Gli uomini della famiglia, la cui pomposa solennità già mi aveva affascinato prima della mia Comunione, quando ancora non capivo che i loro conciliaboli sussurrati, inaccessibili e vitali come assemblee di dèi, si destinavano semplicemente a discutere sui soffici meriti delle natiche della domestica, approvavano gravi le zie con l'intenzione di allontanare una futura mano rivale nei pizzicotti furtivi durante la sparecchiatura. Lo spettro di Salazar faceva calare sulle calvizie pie fiammelle di Spirito Santo corporativo, al fine di preservarci dalla tenebrosa e deleteria idea del Socialismo. La PIDE proseguiva coraggiosamente la sua strenua crociata contro la sinistra nozione di democrazia, primo passo verso la scomparsa, nelle tasche avide di strilloni e garzoni, del servizio di posate di cristofle. Il Cardinale Cerejeira, incorniciato in un angolo, garantiva la perpetuità della Conferenza di San Vincenzo, e, conseguentemente, dei poveri ammansiti. Il disegno che rappresentava il popolo in ruggiti di esultanza atea intorno a una ghigliottina libertaria era stato definitivamente esiliato, fra vecchi bidè e seggiole zoppe, nella soffitta aureolata da uno spiraglio polveroso di sole, nel mistero che esalta le carabattole abbandonate. Cosi che, quando mi imbarcai per l'Angola a bordo di una nave carica di militari per diventare finalmente un uomo, la tribú riconoscente al governo che mi concedeva gratuitamente l'opportunità di una tale metamorfosi comparve compatta sul molo, rassegnandosi in un impeto di fervore patriottico a subire gli spintoni di una folla agitata e anonima, simile a quella del quadro della ghigliottina, venuta fin li per assistere, impotente, alla sua stessa morte.

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Le andrebbe un altro drambuie? Il fatto di parlare di fiale da bere mi dà sempre il desiderio di liquori sciropposi, magari gialli, nell'insensato desiderio di scoprire grazie a loro e grazie al soave e gioviale capogiro che ne deriva, il segreto della vita e della gente, la quadratura del cerchio delle emozioni. A volte, verso il sesto o settimo bicchiere, sento di esserci quasi riuscito, di essere sul punto di riuscirci, sento che le pinze maldestre del mio intendimento preleveranno con precauzione chirurgica il delicato nucleo del mistero, ma immediatamente sprofondo nell'informe esultanza di un'idiozia pastosa dalla quale vengo fuori la mattina dopo, a colpi di aspirina e di sali di frutta, per inciampare nelle mie ciabatte preparandomi per andare al lavoro e trasporto con me l'irrimediabile opacità della mia esistenza, palude di misteri densa come la pasta di zucchero in fondo alla tazza mattutina. Non le è mai capitata questa cosa: sentire che è vicina, che afferrerà fra un secondo l'aspirazione aggiornata e eternamente inseguita per anni e anni, il progetto che è insieme la sua disperazione e la sua speranza, stendere la mano per afferrarlo con insostenibile gioia e cadere all'improvviso all'indietro, con le dita chiuse sul nulla, mentre l'aspirazione o il progetto si allontanano tranquillamente da lei al trotto minuto dell'indifferenza, senza guardarla nemmeno? Ma forse lei non conosce questa sorta orribile di disfatta, forse la metafisica costituisce per lei solo un disturbo passeggero come un effimero prurito; forse lei è abitata da una giocosa leggerezza di barche all'ancora che dondolano dolcemente come culle. D'altronde una delle cose che mi piacciono di lei, se permette che glielo dica, è l'innocenza, non l'innocenza innocente dei bambini e dei poliziotti, intessuta di una specie di verginità interiore acquisita a spese della credulità o della stupidità, ma l'innocenza saggia, rassegnata, quasi vegetale, direi, di coloro che si aspettano dagli altri e da loro stessi la stessa cosa che lei e io, qui seduti, ci aspettiamo dal cameriere che sta arrivando chiamato dal mio braccio alzato da buon allievo cronico: una specie di attenzione distratta, e l'assoluto disprezzo per la magra mancia della nostra gratitudine.

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[...] Nel Circolo Ufficiali di Luso, città che è una specie di quartiere Madre de Deus a Lisbona, strade geometriche e case popolari, piantato sull'altopiano dei Bunda, con quello spirito da «Portogallo in miniatura» corporativo che ha fatto dello Estado Novo un'aberrazione costante, vuoi per difetto vuoi per eccesso, ho visto per l'ultima volta e per molto tempo tende, bicchieri a calice, donne bianche e tappeti; a poco a poco quello a cui mi ero abituato durante tanti anni si allontanava da me: famiglia, conforto, quiete, il piacere stesso delle scocciature senza pericolo, delle malinconie soavi cosi piacevoli quando non ci manca niente, del tedio alla poeta decadente, frutto del credo convinto in un'illusoria superiorità. Per esempio, la tristezza dopo cena sostituiva le parole incrociate del giornale e io mi intrattenevo a riempire i quadratimi in bianco con elucubrazioni arzigogolate che oscillavano fra l'idiozia palese e la banalità profonda, i limiti entro i quali, peraltro, si condensa il pensiero lusitano, equivalenti metafisici delle quartine scritte sui garofani di carta che si regalano per Sant'Antonio. Cerchi di capirmi: apparteniamo a un paese dove l'abilità fa le veci del talento e l'ingegno fa le veci della forza creatrice, e penso spesso che non siamo altro che dei minorati mentali ingegnosi che riparano i guasti alle valvole dell'anima con rappezzi di fil di ferro. Forse anche il fatto di stare qui con lei non è altro che un rappezzo di fil di ferro che mi può salvare dalla bassa marea di disperazione che mi minaccia, disperazione di cui non conosco la causa, capisce, e che di notte mi avvolge nel vischio della sua melma mi annega in afflizione e paura, mi bagna il labbro superiore di un baffo di sudore, mi fa tremare le ginocchia l'una contro l'altra con un rumore di nacchere come quello della dentiera di un portiere addormentato. No, sul serio, arriva il crepuscolo e il mio cuore accelera i suoi battiti, lo sento nel polso, le mie viscere si comprimono, la cistifellea mi fa male, gli orecchi mi ronzano, qualcosa di indefinibile e sul punto di scoppiare palpita teso nel mio petto: uno di questi giorni il portiere mi troverà steso nudo sul pavimento del bagno, un filo di dentifricio e di sangue all'angolo della bocca, le pupille a un tratto enormi che guardano il nulla, mandando un fetore livido, gonfio dai gas. Lei lo legge sul giornale, non ci vuol credere, rilegge, controlla il nome, la professione, l'età, e dopo due ore se lo sarà dimenticato e verrà qui, come al solito, a ormeggiare il suo silenzio in un'insenatura di bicchieri, a far tintinnare a ogni minimo gesto i suoi braccialetti indiani che ricordano una Londra mitica perduta nella nebbia del passato, all'epoca in cui Bob Dylan parlava e le gambe delle commesse del Selfridges erano attraenti quasi come i sorrisi dei poliziotti.

Un'altra vodka? E vero che non ho finito la mia ma a questo punto del racconto mi turbo sempre, che ci posso fare, è successo sei anni fa e ancora mi turbo: scendevamo dal Luso verso le Terre della Fine del Mondo, incolonnati, attraverso piste di terra sabbiosa, Lucusse, Luanguinga, le compagnie indipendenti che proteggevano la costruzione della strada, il deserto uniforme e laido dell'est, villaggi indigeni cinti di filo spinato tutt'intorno ai prefabbricati delle caserme, il silenzio cimiteriale delle mense, alloggiamenti di zinco che marcivano lentamente, scendevamo verso le Terre della Fine del Mondo, a duemila chilometri da Luanda, gennaio volgeva alla fine, pioveva, e andavamo a morire, andavamo a morire e pioveva, pioveva, e io, seduto nella cabina del camion, accanto all'autista, col berretto sugli occhi, con la vibrazione di una sigaretta infinita in mano, ho iniziato il doloroso apprendistato dell'agonia.

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Gago Coutinho era anche il caffè di Mete-Lenha, un bianco balbuziente i cui sforzi per riuscire a parlare lo facevano contorcere in smorfie di defecazione, sposato a una specie di bombola del gas addobbata di collane stridenti, che si lamentava in continuazione con gli ufficiali dei pizzicotti con i quali i soldati prestavano omaggio alle sue natiche atlantiche, difficili peraltro da distinguere in una donna imparentata a un immenso gluteo rollante dove perfino le gote avevano qualcosa di anale e il naso sembrava lo scomodo gonfiore di un'emorroide; era un caffè da bevande innocenti nei pomeriggi cosí lunghi della domenica, e dove per la prima volta il tenente, in atteggiamento confidenziale, mi fece vedere nel suo portafoglio la fotografia della domestica e, appoggiandosi all'indietro sul sedile di ferro troppo esiguo per le sue enormi spalle, mi rivelò il prodotto sintetico delle meditazioni di tutta una vita:

- Se il padrone non si fa la serva, lei non si affeziona alla casa.

Nel sinistro edificio dell'ospedale civile, identico a una pensione di provincia moribonda con le pareti tumefatte da foruncoli di umidità i malati di paludismo rabbrividivano di febbre sui gradini dell'ingresso, nel corridoio, nell'ambulatorio, nello sgabuzzino destinato alle iniezioni, aspettando le fiale di chinino in quella quiete immemoriale dei negri, per i quali il tempo, la distanza e la vita posseggono una profondità e un significato impossibili da spiegare a chi è nato fra tombe di Principesse e sveglie di latta, pungolato da date di battaglie, monasteri e cartellini da timbrare. Davanti alla scrivania massiccia come un bunker sulla quale istallavo la mia scienza da manuale universitario, la miseria e la fame sfilavano per tutta la mattinata con la serenità monotona della pioggia di settembre, e l'unica risposta che la mia impotenza mi permetteva erano le pasticche di vitamine in dotazione all'esercito addolcite da un sorriso di scuse e di vergogna. Impediti di pescare e di cacciare, senza terre da coltivare, prigionieri del filo spinato e delle elemosine di pesce secco dell'amministrazione, spiati dalla PIDE, tirannizzati dai cipaios, i Luciase scappavano nella foresta dove si nascondeva il MPLA, nemico invisibile, si nascondeva, costringendoci a un'allucinante guerra di fantasmi. A ogni ferito da imboscata o da mina mi occorreva la stessa afflitta domanda, a me, figlio della Gioventú Salazarista e dei giornali cattolici «Novidades» e «Debate», nipote di catechiste e intimo della Sacra Famiglia che ci faceva visita a casa sotto una campana di vetro, spinto verso quell'incredibile polveriera in uno stupore infinito: ma sono i guerriglieri o Lisbona che ci vogliono assassinare, Lisbona, gli americani, i russi, i cinesi, quel cazzo di figli di troia tutti assieme per fotterci nel nome di interessi che non afferro, ma chi mi ha ficcato in questo culo del mondo di polvere e di sabbia a giocare a dama con l'anziano capitano ex sergente che puzzava di menopausa da amanuense rassegnato e che soffriva di acrimonia cronica da colite, ma chi mi spiega l'assurdità di tutto questo, le lettere che ricevo e che mi parlano di un mondo che la distanza ha reso straniero e irreale, i calendari che imbratto di croci nel calcolare i giorni che mi separano dal mio ritorno con davanti a me un tunnel interminabile di mesi nel quale mi precipito muggendo, bue ferito che non capisce, che non capisce, che non riesce a capire e finisce col ficcare il triste muso bagnato nelle ossa di pollo con i maccheroni del rancio, allo stesso modo, capisce, che qui, in sua compagnia, mi sento un cavallo con le narici infilate nel paniere di vodka, mentre mastico il fieno aspro del limone?

Dopo cena le jeep degli ufficiali giravano di capanna in capanna in oscillazioni da lucciole: l'amore rapido e a buon mercato in stanzette soffocanti, rischiarate da indecisi lumi a petrolio che coloravano le pareti di argilla di un'illusione di cappella. Si arrivava con il tubetto antivenereo in tasca e si applicava la pomata attraverso la braghetta aperta a mo' di una vulva di panno, sotto lo sguardo indifferente di donne coi denti segati in triangolo, accoccolate sul letto nello straniamento di profilo di certi ritratti di Picasso sulla cui curva delle labbra fluttuavano Guernica sprezzanti. Sullo stesso materasso dormivano generalmente i figli, le galline e qualche avo decrepito smarrito in incubi da mummia, che ringhiava i geroglifici dei suoi sogni. Il tenente fotteva con la visiera del berretto girata all'indietro e con la pistola alla cintola, mentre l'ordinanza col fucile puntato sorvegliava i dintorni; l'ufficiale di servizio si era fatto arrivare da Luso una macchina da cucire e faceva orli ai pantaloni all'alba accanto a una negra splendida, dai seni energici pendenti come quelli della lupa di Roma, e il capitano delle partite a dama, al posto di guida, chiedeva a ragazze impuberi che lo masturbassero, offrendo loro in cambio sacchetti di caramelle alla menta: il bianco è arrivato con una frusta, cantava il milizia accompagnandosi con la chitarra, il bianco è arrivato con una frusta e le ha date al soba e al popolo, il bianco è arrivato con una frusta e le ha date al soba e al popolo.

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F

Ha mai notato che a quest'ora della notte e a questo livello di alcol il corpo comincia a emanciparsi da noi, a rifiutarsi di accendere la sigaretta, a reggere il bicchiere in un'incertezza tentennatrice, a vagare dentro i vestiti in ondeggiamenti da gelatina? Il fascino dei bar, non le pare?, consiste nel fatto che a partire dalle due del mattino non è l'anima che si libera dal suo involucro terrestre e procede verticalmente verso il cielo in quello svolazzo mistico da tendine bianche dei defunti nel messale, ma piuttosto la carne che si libera con un po' di meraviglia dallo spirito e inizia una danza pastosa da statua di cera che si scioglie, per finire nelle lacrime di rimorso dell'aurora, quando la prima luce obliqua ci rivela, con la sua implacabilità radioscopica, lo scheletro triste della nostra solitudine senza scampo. D'altronde, se ci osserviamo con attenzione, possiamo cominciare a intravedere ormai il profilo delle nostre ossa che le virgole delle occhiaie e l'accento circonflesso della bocca mascherano di sorrisi malinconici dai quali pendono resti appassiti di ironia identici al braccio inerte di un ferito. Forse il tipo del tavolo accanto, che il decimo bicchierino di Porto fa inclinare di diciassette gradi a babordo come una torre di Pisa con la giacca di velluto sull'orlo di un catastrofico crollo, è Amedeo Modigliani, che cerca nel fondo del calice un volto assassinato di donna; forse è Fernando Pessoa che abita in quel signore con gli occhiali, in piedi vicino allo specchio, nella cui acquavite di pera pulsa il volano commosso dell' Ode marittima; forse il mio fratello Scott Fitzgerald che Blondin paragonava a un giocatore di rugby irlandese verrà prima o poi a sedersi al nostro tavolo e ci spiegherà la disperata tenerezza della notte e l'impossibilità di amare, poiché, sa com'è, la vodka confonde i tempi e abolisce le distanze, lei si chiama in realtà Ava Gardner e consuma otto toreri e sei casse di Logan's alla settimana, e per quanto mi riguarda, il mio vero nome è Malcom Lowry, sono cupo come la tomba dove giace il mio amico, scrivo romanzi immortali, raccomando Le gusta este jardín que es suyo? evite que sus hijos lo destruian, e il mio cadavere verrà scaraventato nell'ultima pagina, come quello di un cane in fondo a un burrone. Oggi siamo venuti tutti a occupare quest'innocente quartiere rosa della Lapa che imita un quadro di Carlos Botelho con la bassa marea delle nostre sbornie silenziose sulla cui superficie, ogni tanto e by appointment of Her Maiesty the Queen, scintilla il riflesso del genio, e sopra le nostre teste unte cadono le lingue di fuoco del Johnny Spirito Santo Walker: Utrillo, che spiegazzava cartoline illustrate mentre dipingeva, Soutine, quello dei chierichetti e delle case torturate, il poeta Gomes Leal e la sua innocente e ruggente miseria da bambino vecchio, e noi due che osserviamo, rapiti, questa processione di pagliacci sublimi accompagnata da una musica da circo. Forse le sembrerà strano, ma ho sempre vissuto attorniato da fantasmi in una casa antica che era una specie di spettro di se stessa, dal portone fiancheggiato da ananas di pietra fino alla valigia con le ossa di Anatomia che aspettava in un angolo, con un soave profumo di incenso e di cancrena, che mi mettessi a studiarla. Gatti randagi si nascondevano nei rami del fico dell'orto come frutti furtivi, dai loro occhi gocciolava il latte verde di una diffidenza rapida, sui vetri della stufa cresceva la luce opalina dei versi di Cesário, e in salotto il ritratto di Antero, dalla dolorosa bellezza calcinata dal genio, opponeva ai modesti baffi dei nonni l'oceano in disordine della barba bionda, dove naufragavano rottami spezzati di terzine. Mio padre, magro e spigoloso come un mormone, viaggiava alla deriva sulla poltrona, sospinto dalla ciminiera da nave della sua pipa. L'ombra, disegnata da un Soulages triste, sollevava volumi geometrici nei palazzi vicini. E io mi masturbavo nella mia camera sotto la foto a colori della squadra del Benfica, nella speranza di diventare un giorno l'Aguas della letteratura, quell'Aguas che, accoccolato al centro, sfidava l'universo con l'orgoglio marmoreo di un discobolo trionfale.

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Ninda: il granturco lungo il filo spinato per tutta la notte sfogliava le sue pagine rinsecchite, lo stregone succhiava il collo delle galline sgozzate con un'ingordigia brutale. Il capitano e io giocavamo a scacchi sul tavolo della sala da pranzo, fra briciole e bucce di frutta, spingendo un pedone interrogativo e reticente come un dito che tasta impaurito un brufolo infetto, o stavamo a chiacchierare all'aria aperta, seduti su sedie curve fatte di rozze tavole, valutando approssimativamente la posizione dell'altro attraverso l'eco delle nostre voci nel buio, come pipistrelli inquieti che si cercano: nel mio disordinato Museo Grévin interiore di medici e di poeti, dove Vesalio e Bocage discutevano intorno a dettagli anatomici picareschi e clandestini sotto il casto sguardo censorio del generale Fernandes Costa, autore di sonetti nell'Almanacco «Bertrand», al quale, nella mia infanzia, ho sfacciatamente rubato versi che sprizzavano scintille da bigiotteria che mi incantavano, irruppe all'improvviso un flusso impetuoso di illuminati barbuti che intonavano a vicenda l' Internazionale e La Marsigliese, sostituendosi d'autorità a qualche dozzina di letterati accademici e giornalisti di regime che ciangottavano seduti su sofà impero intorno a drammi storici ricamati a punto a croce di dialoghi da noccioline. Il capitano mi presentò di passaggio un Marx che mi soppesò da lontano mentre biascicava teorie economiche incomprensibili nel segreto dei suoi colletti inamidati, un Lenin con la parrucca che cospirava in mezzo a un gruppo di ardenti signori in redingote, una Rosa Luxemburg che zoppiccava commossa nelle strade di Berlino, un Jaurès ucciso a revolverate al ristorante, con il tovagliolo intorno al collo come i gangster di Chicago che volteggiavano freddati sulle sedie da barbiere fra specchi e flaconi in mille pezzi, e io mi sono messo a immaginare che irrompevo insieme a loro in casa dei miei per poter vedere il fuggi-fuggi terrorizzato dei parenti verso la zona di influenza delle loro icone corporative, puntando verso i vampiri socialisti che digrignavano la tremenda minaccia della nazionalizzazione delle porcellane di famiglia, le trecce d'aglio scongiuratrici delle immagini dei messali. Il plotone che usciva la sera per proteggere la caserma, rimpiattato nelle boscaglie rade che crescevano giallastre sulla sabbia, ritorte e anemiche, ritornava nel buio, passava sotto la lampadina coperta da un abat-jour di insetti, si disperdeva senza rumore nelle capanne degli alloggiamenti, dove la profondità del sonno si misurava dall'intensità dell'odore dei corpi, ammonticchiati a caso come nelle fosse di Auschwitz, e io chiedevo al capitano Cos'hanno fatto del mio paese, Cos'hanno fatto di noi qui seduti in attesa in questo paesaggio senza mare, prigionieri di tre filari di filo spinato in un paese che non ci appartiene, a morire di paludismo e di pallottole il cui percorso sibilato assomiglia a un nervo di nylon che vibra, riforniti da colonne aleatorie il cui arrivo dipende da costanti incidenti di percorso, da imboscate e da mine, mentre lottiamo contro un nemico invisibile, contro i giorni che non si avvicendano e che si allungano indefinitamente, contro la nostalgia, l'indignazione e il rimorso, contro lo spessore delle tenebre opache come un velo da lutto che io mi tiro sopra la testa per riuscire a dormire, come nell'infanzia utilizzavo l'orlo del lenzuolo per difendermi dalle pupille di fosforo azzurro dei miei fantasmi?

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Pagina 115

No, davvero, la felicità, quella condizione che viene fuori dall'impossibile convergenza di parallelle fra una digestione senza acidità e l'egoismo soddisfatto e privo di rimorsi, continua a sembrarmi, a me che appartengo alla dolorosa classe di gente inquieta e triste in eterna attesa di un'esplosione o di un miracolo, qualcosa di cosi astratto e strano come l'innocenza, la giustizia, l'onore, concetti magniloquenti, profondi e in fondo vuoti che la famiglia, la scuola, la catechesi e lo stato mi avevano solennemente rifilato per potermi domare meglio, per neutralizzare, se cosí posso esprimermi, ab ovo, i miei desideri di protesta e di rivolta. Ciò che gli altri esigono da noi, capisce?, è di non essere messi in causa, di non scuotere le loro vite in miniatura, murate contro la disperazione e la speranza, di non rompere i loro acquari abitati da pesci sordi che fluttuano nell'acqua limacciosa della quotidianità, illuminata dalla lampada sonnolenta di ciò che chiamiamo virtú e che consiste soltanto, vista da vicino, nella tiepida mancanza di ambizioni.

Vuole un whisky? Questo banale liquido ambrato costituisce oggigiorno, dopo i viaggi di circumnavigazione e dopo il primo scafandro sulla luna, la nostra unica possibile avventura: al quinto bicchiere il pavimento acquisisce la piacevole inclinazione del ponte di una nave, all'ottavo il futuro acquista vittoriose ampiezze da Austerlitz, al decimo scivoliamo lentamente verso un coma pastoso balbettando le difficili sillabe dell'allegria: di modo che, se mi permette, mi sistemo sul divano accanto a lei per vedere meglio il Tago, e brindo al futuro e al coma.

L'est? Ci sono ancora, in un certo senso, seduto accanto all'autista in una camionetta della colonna che procede a balzelloni sulle piste di sabbia verso Malanje. Ninda, Luate, Lusse, Nengo, fiumi che la pioggia aveva ingrossato sotto i ponti di legno, villaggi di lebbrosi, la terra rossa di Gago Coutinho che si attacca alla pelle e ai capelli, l'ansioso tenente colonnello che faceva spallucce davanti al liquore di cacao, gli agenti della polizia politica al caffè del Mete-Lenha che lanciavano sguardi di odio ai negri che bevevano ai tavolini vicini timide birre di paura. Chi è capitato qui non è piú lo stesso quando se ne va, spiegavo al capitano dagli occhiali cadenti e dalle dita membranose, che posava delicatamente sulla scacchiera con gesti da orefice le pedine degli scacchi, ognuno di noi, noi vivi, ha qualche gamba di meno, qualche braccio di meno, qualche metro d'intestino di meno, quando amputammo la coscia in cancrena al guerrigliero del MPLA catturato nel Mussuma i soldati si fecero fotografare con la coscia, come se fosse un orgoglioso trofeo, la guerra ci ha resi bestie, capisce?, bestie crudeli e stupide addestrate ad ammazzare, nelle caserme non c'era un centimetro di muro senza l'immagine di una donna nuda, ci masturbavamo e sparavamo, «il-mondo-che-i-portoghesi-hanno-creato» sono questi negri Luciase scavati dalla fame che non capiscono la nostra lingua, è la malattia del sonno, il paludismo, l'ameba, la miseria, quando arrivammo a Luso ci venne incontro una jeep per avvisarci che il generale non voleva che dormissimo in città, che facessimo vedere al Circolo le nostre piaghe. Noi non siamo cani rabbiosi, urlava il tenente fuori di sé all'inviato del comando di zona, dica a quello stronzo che noi non siamo cani rabbiosi, un sottotenente minacciava a bassa voce di distruggere il Circolo con i bazooka Spazziamo via tutti quegli stronzi, signor tenente, non resterà neppure un cornuto a romperci le palle, Un anno in culo al mondo non ci dà il diritto di dormire in un letto, diceva sull'attenti l'ufficiale operativo, il tenente dette un pugno sul cofano della jeep Dica al generale che vada a prenderselo nel culo, Noi non eravamo cani rabbiosi quando arrivammo qui dissi al tenente che girava su se stesso furioso e indignato, non eravamo cani rabbiosi prima delle lettere censurate, delle offensive, delle imboscate, delle mine, della mancanza di cibo, della mancanza di tabacco, di bibite, di fiammiferi, di acqua, di bare, prima che una camionetta valesse piú di un uomo e prima che un uomo valesse una notizia di tre righe sul giornale, Deceduto in combattimento nella provincia di Angola, non eravamo cani rabbiosi ma non eravamo nulla per lo stato di sagrestia che di noi se ne fotteva e ci utilizzava come cavie da laboratorio e che ora per lo meno ha paura di noi, ha così paura della nostra presenza, dell'imprevedibilità delle nostre reazioni e del rimorso che rappresentiamo che cambia marciapiede se ci vede in lontananza, ci evita, si sottrae ad affrontare un battaglione devastato nel nome di ideali cinici in cui nessuno crede, un battaglione devastato per difendere il denaro di quelle tre o quattro famiglie che sostengono il regime, il tenente gigantesco si girò verso di me, mi toccò il braccio e supplicò con un'improvvisa voce da fanciullo Dottore mi trovi quella benedetta malattia prima che io schiatti qui per strada per tutta la merda che mi porto dentro.

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Cazzo, anch'io sono venuto qui perché mi hanno espulso dal mio paese a bordo di una nave stracarica di militari, e perché mi hanno imprigionato con tre giri di filo spinato attorniati da mine e da guerra, mi hanno ridotto alle bottiglie di ossigeno delle lettere della famiglia e delle foto della figlia, alle elementari l'Angola era un rettangolo rosa sulla cartina delle elementari, suorine nere che sorridevano sul calendario delle missioni, donne con anelli al naso, Mouzinho de Albuquerque, ippoppotami, e l'eroica Gioventú Salazarista che batteva il passo sotto la pioggia nel cortile del liceo. Un giorno un compagno negro dell'Università mi portò nella sua stanza vicino all'Arco do Cego e mi fece vedere la fotografia di una vecchia scheletrica con un volto che lasciava indovinare generazioni e generazioni di pietrificata rivolta:

- E la nostra Guernica. Volevo che tu la vedessi prima che me ne andassi, sono stato arruolato e domani scappo in Tanzania.

E l'ho capito solo quando ho visto i prigionieri nella caserma della PIDE, l'attesa rassegnata dei loro gesti, i ventri dei bambini mostruosamente gonfi di fame, l'assenza di lacrime negli occhi terrorizzati. Vede, mia cara, lei deve capire che nell'ambiente in cui sono nato la definizione di negro era «creatura che da piccola è un amore», come se si parlasse di cani o di cavalli, di animali strani e pericolosi che assomigliano a persone, lei deve capire che nel buio della sanzala Santo Antonio mi gridavano

- Vai tua casa, portoghese

fregandosene dei miei vaccini e delle mie medicine e sperando con tutte le forze che saltassi per aria sulla pista, perché la verità era che io non curavo loro ma la mano d'opera a buon mercato dei coloni, diciassette scudi una giornata di lavoro, dieci centesimi un sacco di cotone, la verità è che attraverso di loro io curavo i bianchi di Malange o di Luanda, i bianchi stesi al sole dell'isola di Luanda, i bianchi di Alvalade, i bianchi del Circolo della Compagnia Ferroviaria che rifiutavano con sdegno di parlare con i militari

- Non abbiamo alcun bisogno di voi

sicché quella Guernica diventò a poco a poco la mia Guernica, cosí come diventai basco y amico íntimo del cabrón Francisco Franco, e rimisi a posto i vaccini e le medicine nella loro scatola e ritornai al filo spinato e ai manghi di Marimba, arrivai al pronto soccorso, chiusi la porta, mi sedetti alla scrivania e mi sentii all'improvviso, non so se capisce, braccato come un animale.

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È strano che stia qui a parlarle di tutto questo mentre le tocco i seni, mentre le accarezzo il ventre, cercando con le dita l'incavo umido delle cosce lí dove il mondo ha veramente inizio, perché fu dall'inguine di mia madre che per la prima volta, con occhi recenti come monete nuove, osservai l'universo sussurrato e bizzarro degli adulti, la loro inquietudine e la loro fretta. È strano che le stia parlando di tutto questo qui a Lisbona, in questa stanza foderata di carta fiorita che una mia fidanzata ha scelto prima di scomparire dalla mia vita nel modo improvviso e obliquo col quale era arrivata, lasciandomi nelle viscere una sorta di ferita che mi duole ancora quando la tocco, in questa stanza dalla quale si vedono il fiume, le luci di Almada e del Barreiro sull'altra riva, l'azzurro denso e fosforescente dell'acqua. Cosí strano, capisce?, che talvolta mi chiedo se la guerra sia veramente finita o se non continui ancora, da qualche parte dentro di me, con i suoi repellenti odori di sudore e di polvere da sparo e di sangue, con i suoi corpi disarticolati, le sue bare che mi aspettano. Penso che quando morirò l'Africa coloniale mi si parerà ancora davanti e che cercherò invano, nella nicchia del dio Zumbi, gli occhi di legno assenti, penso che rivedrò la caserma di Mangando che si squaglia nella calura, i negri della sanzala in lontananza, la manica a vento della pista per gli aerei che saluta beffardamente il nulla. Ancora una volta sarà notte e io scenderò dalla vettura per dirigermi al pronto soccorso dove il soldato senza faccia sta agonizzando, illuminato dalla lampada a gas che un caporale regge all'altezza della testa, invasa da uno sciame d'insetti venuto a bruciare le sue ali chitinose con uno sfrigolio da barbecue.

Il soldato senza faccia agonizza in un'agitazione incontrollabile, legato al lettino di ferro che oscilla, e vibra, e sembra andare in pezzi a ogni sussulto, gemendo nella lebbra rugginosa dei cardini. Occhi curiosi spiano dalle finestre, un piccolo grappolo si fa sulla porta per guardare, affascinato e spaventato, il sangue e la saliva che gorgogliano attraverso la gola inesistente, i suoni indefiniti che emette quanto resta del naso, gli occhi che la polvere da sparo ha fatto scoppiare come un'esplosione di uova lesse. Le fiale di morfina iniettate una dopo l'altra nel deltoide sembrano speronare sempre di piú il corpo legato che si contorce, moltiplicato sulle pareti dalla lampada a gas in ombre che confluiscono, si sovrappongono e si allontanano, formando una danza frenetica di macchie sulla geometria sporca dell'intonaco. Avrei voglia di spalancare la porta, di abbandonare quel corpo, di uscire da quel luogo, inciampando a caso, fuori, contro i cani della caserma e contro i bambini meravigliati che si aggrovigliano alle nostre gambe, avrei voglia di respirare l'umidità del cotone dell'aria d'Africa, di sedermi sui gradini di una vecchia casa dei coloni, con le mani sul mento, svuotato per l'indignazione, per il rimorso, per la pietà, ricordando le pupille color savana di mia figlia nelle fotografie inviate da Lisbona per posta, e avrei voglia di immaginarmi a vegliare il suo sonno, curvo sulle lenzuola della sua culla con commossa attenzione. I grilli di Mangando riempiono la notte di rumori, un dilatato e sommesso suono continuo sale dalla terra e canta, gli alberi, gli arbusti, la miracolosa flora d'Africa si affranca dal terreno e fluttua liberamente nell'aria densa di vibrazioni e di sussurri, il soldato legato al lettino mi agonizza accanto simile alle rane crocifisse sulle tavolette di sughero del liceo, gli inietto una fiala dopo l'altra nel muscolo del braccio, e vorrei essere a tredicimila chilometri da li, a vegliare il sonno di mia figlia tra le lenzuola della culla, vorrei non essere nato per non assistere a tutto ciò, per non assistere alla stupida e colossale inutilità di tutto ciò, vorrei trovarmi a Parigi a fare le rivoluzioni al caffè, o a prendere il dottorato a Londra sparlando del mio paese con l'ironia terribilmente provinciale di Eça de Queirós, a discutere di quella chiavica del mio paese con amici inglesi, francesi, svizzeri, portoghesi che non hanno mai provato sulla loro pelle la furiosa e pungente paura di morire, che non hanno mai visto cadaveri sbrindellati da mine o da pallottole. La voce del capitano dagli occhiali cadenti ripeteva dentro la mia testa La rivoluzione si fa dal di dentro, e io guardavo il soldato senza faccia trattenendo i conati di vomito che mi crescevano nello stomaco, e avrei voluto studiare a Vincennes economia, o sociologia, o che cazzo fosse, avrei voluto aspettare tranquillamente, mentre disdegnavo il mio paese, che quelli che erano stati assassinati lo liberassero, che i trucidati in Angola espellessero la teppa codarda che schiavizzava il mio paese e a quel punto tornare, ed essere competente, serio, saggio, socialdemocratico, sardonico, trasportando con i libri nella valigia la furbizia facile dell'ultima verità di carta.

Mangando, Marimbanguengo, Bimbe e Caputo: il soldato s'immobilizzò infine con un ultimo sussulto, ciò che restava della gola cessò il suo gorgoglio ansioso, il caporale della lampada a gas abbassò il braccio e le ombre si stesero sul pavimento con la vergogna di un cucciolo, improvvisamente immobili. Restammo a lungo a contemplare il cadavere ormai tranquillo, le mani mollemente incavate sulle cosce, gli stivali che mi sembravano dilatati come se fossero imbottiti di paglia, calmi sul piano di ferro bianco e scrostato del lettino. Quelli che spiavano dalla finestra si ritirarono verso gli alloggiamenti, il gruppetto a grappolo si dissolse lentamente con un mormorio indistinto, e io, sa com'è, avrei dato il culo per essere lontano da li, lontano dal soldato morto che mi accusava in silenzio, lontano dalle fiale di morfina che si ammucchiavano, vuote, nel secchio di medicazioni, fra garze, cotone, compresse, avrei dato il culo per essere a Parigi a spiegare al caffè in che modo si combatte il fascismo, per essere a Londra a illustrare Marcuse alle gambe di un'inglese affascinata, per essere a Benfica a sfiorare con un dito la fronte di mia figlia addormentata, a leggere Salinger davanti alle tende aperte sul fico dell'orto, dove la notte s'ingarbugliava come le mie mani maldestre ingarbugliavano le matasse di lana delle mie zie.

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