Copertina
Autore Arjun Appadurai
Titolo Sicuri da morire
SottotitoloLa violenza nell'epoca della globalizzazione
EdizioneMeltemi, Roma, 2005, Melusine 32 , pag. 192, cop.fle., dim. 120x190x17 mm , Isbn 978-88-8353-233-7
OriginaleGlobalization and Violence [2001], Dead Certainty: Ethnic Violence in the Era of Globalization [1998], The Civilization of Clashes [2002], Our Terrorists, Ourselves: notes on the epistemology of insecurity [2002], Grassroots Globalization in the Era of Ideocide [2002]
CuratorePiero Vereni
TraduttorePiero Vereni, Giovanni Picker, Viviana de Luca,
LettoreLuca Vita, 2005
Classe politica , storia contemporanea , globalizzazione , storia criminale , sociologia
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Indice

  7 Introduzione
    Scindere la differenza: le dimensioni culturali della
    violenza

    Parte prima

 21 Capitolo primo
    Globalizzazione e violenza

 37 Capitolo secondo
    Sicuri da morire: la violenza etnica nell'epoca della
    globalizzazione

    Parte seconda

 71 Capitolo terzo
    La civiltà degli scontri

 89 Capitolo quarto
    I nostri terroristi, noi stessi: note sull'epistemologia
    dell'insicurezza

111 Capitolo quinto
    La globalizzazione dal basso nell'epoca dell'ideocidio

    Parte terza

137 Capitolo sesto
    La paura dei piccoli numeri

173 Postfazione
    Il pericolo della purezza: Appadurai e la violenza etnica
    Piero Vereni

185 Bibliografia

 

 

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Pagina 7

Introduzione

Scindere la differenza: le dimensioni culturali della violenza


Questo volume tratta della violenza su larga scala e motivata da ragioni culturali cui assistiamo nel nostro presente. I capitoli che lo compongono sono stati stilati nelle loro prime versioni tra il 1998 e il 2004, e quindi le questioni essenziali che affrontano sono germinate all'ombra di due tipi principali di violenza. Il primo, che abbiamo visto all'opera in Europa orientale, in Ruanda e in India all'inizio degli anni Novanta, ci ha posti di fronte all'evidenza che dopo il 1989 il mondo non stava necessariamente evolvendosi in forme progressive, e che la globalizzazione poteva portare alla luce gravi patologie incistate nelle sacre ideologie dell'appartenenza nazionale.

Per il secondo tipo di violenza, classificato ufficialmente a livello mondiale sotto l'etichetta "guerra al terrorismo", si può indicare come data di nascita lo spaventoso attacco alle torri del World Trade Center di New York dell'11 settembre 2001.

Quell'attentato, in effetti, ha segnato il culmine di un decennio caratterizzato da livelli eccezionali di violenza e da una crescita costante dell'attività bellica (inter- e intrastatale) come tratto della vita quotidiana in diverse società.

Attualmente, viviamo in un mondo — declinato in forme diverse dagli Stati e dai mezzi di comunicazione di massa a seconda dei differenti contesti nazionali e regionali — in cui la paura spesso si dimostra insieme la fonte e il fondamento di intense campagne di violenza collettiva, che possono variare per ampiezza dalle sommosse locali ai pogrom di vaste dimensioni.

Durante gli anni Quaranta del Novecento, e per alcuni anni in seguito, molti studiosi avevano iniziato a presupporre che le forme estreme di violenza collettiva, soprattutto quelle in cui gli omicidi di massa si accompagnano a diverse forme di degradazione pianificata del corpo e della dignità umana, fossero una diretta conseguenza del totalitarismo, soprattutto del fascismo, pur se riscontrabili anche nella Cina di Mao, nell'Unione Sovietica e in altre società totalitarie di più ridotte dimensioni. Purtroppo, gli anni Novanta ci hanno dimostrato oltre ogni dubbio che anche le società liberaldemocratiche – oltre a varie forme intermedie di organizzazione statale – possono diventare preda di forze maggioritarie e di violenza etnocida di ampie dimensioni.

Ci troviamo quindi costretti a porre una domanda (e a trovare una risposta): perché gli anni Novanta, e cioè il periodo di quella che oggi chiamiamo la "tarda globalizzazione", sono diventati l'epoca della violenza su vasta scala in diverse società e regimi politici? Quando parlo di "tarda globalizzazione" (con più di un'allusione al "tardo modernismo") faccio riferimento a una serie di prospettive e progetti utopistici che hanno assunto credibilità in molti paesi, Stati e sfere pubbliche dopo la fine della guerra fredda. Queste prospettive trovavano espressione in una serie di dottrine, collegate tra loro, sull'apertura dei mercati e il libero commercio, sulla diffusione delle istituzioni democratiche e delle costituzioni liberali, e sugli effetti benefici di internet (e delle relative tecnologie cibernetiche) per attenuare le ineguaglianze sia entro che tra le società, e per accrescere le quote di libertà, trasparenza e buon governo anche nei paesi più poveri e più isolati. Oggi, a parte i più fanatici sostenitori di una sfrenata globalizzazione economica, nessuno crede più che il libero mercato ed elevati livelli di integrazione economica e finanziaria internazionale producano necessariamente effetti a catena positivi.

Questo libro, allora, è un ulteriore tentativo di rispondere alla seguente domanda: perché un decennio caratterizzato dal sostegno generalizzato per l'apertura dei mercati, la libertà di movimento dei capitali finanziari e le idee liberali di regime costituzionale, buon governo e libera espansione dei diritti umani ha prodotto da un lato così tanti esempi di pulizia etnica e dall'altro forme così estreme di violenza politica contro le popolazioni civili (un buon modo per definire la tattica terrorista)? Nei capitoli che seguono, di tanto in tanto mi troverò a criticare severamente alcuni dei tentativi più noti di affrontare la questione. In queste pagine, invece, mi limito a dichiarare in termini semplici gli ingredienti per elaborare una risposta di natura diversa, che trovi fondamento nell'attenzione per le dimensioni culturali della globalizzazione. Alcuni commentatori hanno giudicato il mio precedente tentativo di descrivere l'allora emergente mondo della globalizzazione (Appadurai 1996) come forse un po' troppo severo nel criticare il moderno Stato nazionale, e ingenuamente ottimista per quanto riguarda gli aspetti positivi dei flussi globali. Con questo libro, intendo fare i conti senza mezzi termini con i versanti più cupi della globalizzazione.

Per riuscire a comprendere in modo più articolato come la globalizzazione si intersechi con la pulizia etnica e il terrore, ritengo utile partire da una serie di idee interrelate. Il primo passo consiste nel riconoscere che dietro l'idea stessa di Stato nazionale si nasconde un concetto essenziale e pericoloso: quello di ethnos nazionale. Nessuna nazione moderna, per quanto benevolo possa essere il suo sistema politico e per quanto nette siano le sue dichiarazioni pubbliche sui valori della tolleranza, del multiculturalismo e dell'inclusione, si sottrae completamente alla convinzione che la sua sovranità nazionale si basi su una qualche forma di genio etnico.

Un'istanza di questa prospettiva è stata recentemente espressa con disarmante franchezza da Samuel Huntington (2004), nel suo pubblico e allarmato appello sul modo in cui gli ispanici degli Stati Uniti starebbero rischiando di recedere dallo stile di vita "americano", concepito evidentemente come una dottrina culturale rigidamente euro-protestante. È quindi impossibile sostenere ancora l'idea che le tesi etnonazionaliste riguarderebbero esclusivamente oscuri Stati baltici, farneticanti demagoghi africani o gruppuscoli nazisti in Inghilterra e in Europa settentrionale.

Diversi studi hanno posto in evidenza come l'idea di un ethos nazionale specifico, lungi dall'essere espressione naturale di questo o quel luogo, venga invece generata e naturalizzata con grande sforzo, grazie alla retorica della guerra e del sacrificio, attraverso discipline vessatorie di uniformazione educativa e linguistica, e attraverso la soppressione di una miriade di tradizioni locali e regionali, al fine di produrre indiani, francesi, bretoni o indonesiani (Anderson 1991; Scott 1998; Weber 1976). Alcuni dei nostri maggiori teorici della politica, in modo particolare Hannah Arendt (1951), hanno inoltre fatto notare che l'idea di popolo nazionale costituisce il tallone d'Achille delle moderne società liberali.

Nell'argomentazione che sviluppo in questo volume, prendo lo spunto dalle idee di Mary Douglas (e di molti altri antropologi) per suggerire che la strada che conduce dal genio etnico a una cosmologia totalizzante della sacralità nazionale, fino alla purezza e alla pulizia etnica, è sostanzialmente un percorso in linea retta. Alcuni sostengono che un simile rischio riguarderebbe solo quelle comunità moderne che, erroneamente, hanno posto il sangue al centro della loro ideologia nazionale, ma a ciò si può ribattere che nazione e sangue, in tutto il mondo, sembrano intrecciarsi in un abbraccio ben più saldo e generalizzato. Tutte le nazioni, in determinate condizioni, pretendono corpose trasfusioni, esigendo solitamente il versamento di una parte del loro stesso sangue.

Questa tendenza intrinsecamente etnicista presente in tutte le ideologie del nazionalismo non spiega come mai solo alcune entità nazionali finiscano per divenire teatro di violenze su larga scala, guerra civile o pulizia etnica. È necessario, a questo punto, fare riferimento al ruolo dell'incertezza nella vita sociale. Nel capitolo titolato Sicuri da morire, sviluppo in modo articolato la mia interpretazione sui modi in cui l'incertezza sociale possa suscitare progetti di pulizia etnica che, nella prassi, sono assieme vivisezionisti e verificazionisti: vanno cioè alla caccia dell'incertezza smembrando il corpo ambiguo, il corpo del sospetto. Sostengo inoltre che questa specie di incertezza sia intimamente legata al dato di fatto che i gruppi etnici odierni si contano a centinaia di migliaia, e che i loro spostamenti, le commistioni, gli stili culturali e le rappresentazioni dei media suscitano profondi dubbi su chi esattamente possa essere conteggiato nel "noi" e chi invece nel "loro". In questo quadro, alcuni principi e pratiche del moderno Stato nazionale – l'idea di un territorio sovrano e certo, di una popolazione contenibile e quantificabile, di un censimento attendibile, e il sogno di categorie di appartenenza stabili e trasparenti – vengono messi in discussione nei modi più svariati nell'epoca della globalizzazione, per ragioni che vengono esplorate nei prossimi capitoli. Soprattutto, la fluidità globale della ricchezza, degli armamenti, degli individui e delle immagini – fluidità che ho descritto nel mio libro precedente, Modernità in polvere (Appadurai 1996) – pone radicalmente in discussione la certezza che popoli distinti e riconoscibili si sviluppino su territori nazionali ben definiti da essi controllati.

In parole semplici, anche se nel corso della storia umana la linea tra "noi" e "loro" è sempre stata sfumata lungo i confini e confusa in caso di vasti territori e grandi numeri, la globalizzazione esaspera queste incertezze e produce un nuovo impulso alla purificazione culturale, mano a mano che un numero crescente di nazioni perde l'illusione della sovranità economica nazionale o del benessere. Questo punto ci ricorda inoltre che la violenza su larga scala non è semplicemente la conseguenza di una contrapposizione tra identità diverse, ma è essa stessa uno dei modi in cui viene prodotta l'illusione di identità univocamente definitive ed emotivamente coinvolgenti, in parte per attenuare le incertezze sull'identità che i flussi globali producono continuamente. Valutati in questa prospettiva, il fondamentalismo islamico o cristiano, e molte altre forme regionali e locali di fondamentalismo culturale, possono essere considerati parte di un quadro in evoluzione costituito dai tentativi di produrre nuovi livelli di certezza – di cui fino a tempi recenti non si sentiva l'esigenza – su temi come l'identità sociale, i valori, la sopravvivenza e la dignità. La violenza, soprattutto quella estrema e "spettacolare", è un modo per produrre quel che altrove ho definito "adesione totale" (Appadurai 1998), specialmente quando le ragioni dell'incertezza sociale si uniscono ad altre paure sulla crescita dell'ineguaglianza o sulla perdita della sovranità nazionale, oppure a minacce alla sicurezza locale e alla vita stessa. In questo senso, per usare la spietata definizione di Philip Gourevitch (1998, p. 95) a proposito del Ruanda, "il genocidio, dopo tutto, è una pratica di costituzione della comunità", come mi troverò a ripetere spesso nel corso di questo volume.

Il fatto che la ferocia "produca comunità" di per sé non spiega le forme peculiari in cui si è rinnovata, nel corso degli anni Novanta, la violenza contro le cosiddette minoranze, dagli Stati Uniti all'Indonesia, dalla Norvegia alla Nigeria. Si potrebbe sostenere che l'Unione Europea che si va formando sia, per molti aspetti, la formazione politica più illuminata nel quadro postnazionale. Ma oggi sembrano emergere due Europe: quella dell'inclusione e del multiculturalismo in un gruppo di società europee, e quella di un'apprensiva xenofobia in quel che potremmo chiamare l'Europa di Pim Fortuyn (Austria, Romania, Olanda, Francia). Per spiegare come mai alcuni Stati per altri versi inclusivisti, democratici e secolari covino al contempo ideologie basate sul nazionalismo maggioritario e sulla razza, dobbiamo sondare più in profondità il cuore del liberalismo, come faccio nel sesto capitolo.

L'analisi lì condotta mi spinge a sostenere che la deriva etnonazionalista e perfino etnocida delle società democratiche dipenda in larga misura dalla singolare e profonda reciprocità che sussiste nel pensiero sociale liberale tra le categorie di "maggioranza" e "minoranza", reciprocità che produce quella che io chiamo l' ansia da incompletezza. Le maggioranze numeriche possono diventare "predatrici" ed etnocide nei confronti dei "piccoli numeri" proprio quando alcune minoranze (e le loro ridotte dimensioni) evidenziano quanto potrebbe essere breve il salto che separa la condizione di maggioranza dalla prospettiva di una totalità nazionale incontaminata, un ethnos nazionale puro e senza macchia. In determinate condizioni, un tale senso di incompletezza può spingere le maggioranze verso forme parossistiche di violenza contro le minoranze. In questo volume, analizzo a più riprese queste condizioni con particolare riferimento al caso dei musulmani dell'India.

La globalizzazione, intesa come la forma specifica in cui sono venuti a organizzarsi gli Stati, i mercati e le idee di commercio e governo, acuisce le condizioni in cui si manifesta la violenza su larga scala perché apre una potenziale rotta di collisione tra la logica dell'incertezza e quella dell'incompletezza, ognuna delle quali ha la sua forma e la sua forza.

In quanto contesto generale del quadro mondiale durante gli anni Novanta, le forze della globalizzazione producono le condizioni per una diffusione praticamente planetaria dell'incertezza sociale (tema esaminato nel secondo capitolo).

L'ansia da incompletezza (entro il progetto della totale purezza nazionale) e il senso di incertezza sociale sulla disponibilità di categorie etnorazziali sufficientemente ampie possono produrre una forma inconsulta di rinforzo reciproco, che apre la strada al genocidio.

Questo approccio alla diffusione della violenza di natura culturale su larga scala a partire dagli anni Novanta – approccio che tiene assieme l'incertezza e l'incompletezza – può inoltre fornire una prospettiva (non certo un modello, né una spiegazione) da cui studiare il problema del perché questa forma di violenza esploda in un numero relativamente contenuto di casi, soprattutto se l'unità di misura su cui condurre il confronto è il numero attuale di Stati nazionali. L'argomento presentato in questo libro – che ruota attorno alla relazione tra globalizzazione, incertezza e incompletezza – ci consente di riconoscere in quali casi l'ansia da incompletezza e livelli insostenibili di incertezza si combinano secondo modalità che danno vita a mobilitazioni etnocide su larga scala. Si potrebbe sostenere che la compresenza di livelli elevati di entrambi gli stati d'animo sia una condizione necessaria perché possa esplodere la violenza su larga scala. Che cosa costituisca invece un criterio sufficiente è tutt'altro problema. In alcuni casi, questo criterio può essere garantito dall'esistenza di uno "Stato canaglia" (l'Iraq nel suo rapporto con i curdi); in altri casi, da una struttura coloniale razzista (Ruanda); in altri, da un processo costituzionale tragicamente connotato in senso etnico (la Iugoslavia del dopo Tito); in altri ancora, da leader criminali che agiscono su impulso delle loro bramosie personali o di reti che coordinano traffici illeciti (Liberia e Sudan). Nel caso dell'India, che rimane un esempio centrale in tutto il volume, sembra che la condizione di sufficienza abbia a che fare con una peculiarità specifica, che collega una profonda divisione politica a una serie di fratture interne di ordine legale e culturale.

In questa breve rassegna degli argomenti trattati nei capitoli che seguono, è necessario un ulteriore chiarimento. Uno degli aspetti caratterizzanti della violenza su larga scala degli anni Novanta sembra essere un surplus di rabbia, un eccesso d'odio che produce forme inedite di degradazione e violenza, che si accaniscono sia contro il corpo fisico sia contro la dignità spirituale della vittima: corpi martoriati e torturati, individui violentati e bruciati, donne sventrate, bambini squarciati e mutilati, umiliazioni sessuali di tutti i generi. Come dobbiamo interpretare questo surplus, che si manifesta di frequente in azioni pubbliche, spesso tra amici e vicini, e non si limita più a quei modi occulti che caratterizzavano in passato la degradazione della guerra? Soprattutto nel secondo capitolo, che affronta la relazione tra incertezza e violenza estrema, cerco di affrontare questo punto critico. Tenendo in considerazione i molti elementi che potrebbero far parte di una risposta plausibile, ipotizzo che questo eccesso abbia in qualche misura a che fare con il modo in cui la globalizzazione ha deformato il "narcisismo delle piccole differenze", un tema che affronto nelle conclusioni del sesto capitolo.

Il nucleo della mia argomentazione sul surplus di rabbia e l'impulso alla degradazione è che il "narcisismo delle piccole differenze" è oggi di gran lunga più pericoloso che in passato, per via della nuova relazione deteriorata e mutevole che caratterizza il rapporto tra identità e poteri "di maggioranza" e "di minoranza". Dato che le due categorie possono facilmente invertirsi di posto – a causa della duttilità dei censimenti e delle costituzioni, e dei mutamenti ideologici dei concetti di inclusione e equità –, le "piccole" differenze non sono più solamente elementi preziosi per la costituzione di una soggettività incerta, e quindi tratti da salvaguardare con particolare attenzione, come potrebbe suggerire l'originaria formulazione freudiana. In effetti, le piccole differenze possono diventare del tutto inaccettabili, dato che rendono ancora più ambiguo e insidioso il contatto e il confine tra le due categorie. La brutalità, la degradazione e il livello di disumanizzazione che spesso accompagnano la violenza etnicizzata degli ultimi quindici anni sono un segnale del grado di incertezza cui è giunta la linea stessa che dovrebbe dividere le differenze "piccole" da quelle di maggiori dimensioni. In questo quadro, la rabbia e la paura prodotte simultaneamente dall'incertezza non possono più essere risolte facendo ricorso all'estinzione meccanica o all'estrusione delle minoranze indesiderate. Nel contesto attuale la minoranza è quindi la condizione sistematica, ma è la differenza in sé che costituisce il problema di fondo. A questo punto, il tratto caratterizzante dei narcisismi predatori su larga scala del giorno d'oggi diventa l'eliminazione della differenza in quanto tale, e non più un esasperato attaccamento alle "piccole" differenze. Dato che un simile progetto è di fatto impossibile in un mondo di confini sfumati, matrimoni misti, lingue condivise e altre forme di connessione profonda, è destinato a produrre un livello di frustrazione così elevato che può dar conto, almeno inizialmente, dell'eccesso sistematico di cui siamo testimoni dalle notizie dei mass media. Gli aspetti psicodinamici e psicosociali di questo filone d'indagine necessitano di ulteriori approfondimenti, e si collocano ben al di là delle mie competenze, ma questo è il massimo livello cui sono in grado di condurre la discussione su temi così complessi.

Come ultimo tassello di questa breve guida introduttiva ai capitoli che seguono, vorrei far osservare che le riflessioni che propongo sull'incertezza, l'incompletezza, le minoranze e la produttività della violenza nell'epoca della globalizzazione forse ci consentono di riconsiderare il rapporto tra il mondo della guerra unilaterale e della democratizzazione a lunga distanza evocato dagli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq dopo l'11 settembre, e il mondo di terrore a lunga distanza che Al Qaeda e altri hanno scatenato contro l'Occidente nello stesso periodo. Il terzo, quarto e quinto capitolo del volume sono stati scritti alla luce degli eventi dell'11 settembre, e sono stati elaborati e presentati in Europa e India nell'arco dei sei mesi successivi all'attacco al World Trade Center di New York. Da allora, alcune cose sono cambiate, ma non così tante.

I nuovi tipi di organizzazione politica strutturata in forma cellulare (ed esemplificati da Al Qaeda), la crescente facilità con cui ci si affida alla guerra asimmetrica che esercita la violenza contro le popolazioni civili, la sempre più diffusa tattica dell'attentato suicida e, più di recente, la pratica di filmare e trasmettere la decapitazione di partecipanti più o meno casuali sulla scena di scontri violenti: tutto ciò ci costringe a rispondere a una serie di nuove domande, che riguardano le radici del risentimento globale contro le forze del mercato, la forma peculiare assunta dall'antiamericanismo in diverse parti del mondo e l'imprevisto ritorno del corpo del patriota, del martire e della vittima sacrificale entro la scena della violenza di massa.

Alcune di queste problematiche sono affrontate nei capitoli seguenti, in particolar modo nel terzo, quarto e quinto capitolo, esplicitamente dedicati alle condizioni del mondo dopo l'11 settembre 2001. Ma voglio concludere la mia panoramica concentrando l'attenzione sulla forma più recente di choc pubblico e mediatico, un dramma violento che si compie in nome della religione, della nazionalità, della libertà e dell'identità, e cioè la registrazione su video del rapimento e, in alcuni casi, della decapitazione delle vittime come uno strumento mediatico per esercitare una pressione asimmetrica su vari Stati – recentemente anche sull'India – da parte di gruppi associati all'Islam militante. In un certo senso, assistiamo in questo caso a un ritorno alla forma più semplice della violenza religiosa, il sacrificio, su cui René Girard (1972) ha scritto con grande profondità. Sin dal caso della decapitazione filmata di Daniel Pearl in Pakistan poco dopo l'11 settembre, e ora in forme che sempre più si configurano come strumento sistematico di espressione politica, le persone rapite che vengono decapitate o tenute sotto minaccia di decapitazione non sono necessariamente benestanti, potenti o famose. In un caso recente, i sequestrati erano un gruppo di lavoratori poveri e disperati emigrati in Iraq dall'India, dal Kuwait e da altri paesi. Questi poveri migranti, essi stessi foraggio del traffico della globalizzazione, sembrano essere il contraltare alle morti impersonali prodotte dalle forze aeree americane in Iraq o da Al Qaeda a New York, a Nairobi e in Arabia Saudita negli ultimi anni. La decapitazione in video stabilisce un forte richiamo simbolico con forme più intime e personali di sacrificio, associando vittime riconoscibili e identificabili a una cerimonia graduale e organizzata di morte violenta, a un quadro maestoso della natura teatrale dei poteri armati "sotto la maschera". Queste vittime tragiche sono la controparte involontaria degli attentatori suicidi. In entrambi i casi, le ideologie che si innestano su varie forme di disperazione causata dall'asimmetria producono vittime e martiri come strumenti di libertà. Questi corpi individuati rappresentano il disperato tentativo di reintrodurre un elemento religioso entro spazi di morte e distruzione divenuti così astratti da essere quasi inimmaginabili. Possono inoltre essere visti come una risposta morale, per quanto sconvolgente, ai corpi torturati, incatenati, umiliati, fotografati e filmati degli uomini musulmani che oggi si trovano sotto custodia americana in Iraq.

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Pagina 137

Capitolo sesto

La paura dei piccoli numeri


Paura del debole

Da sempre, un mistero circonda quei casi di violenza in cui le minoranze diventano oggetto della furia collettiva. Il mistero riguarda le ragioni per cui i numeri relativamente piccoli che danno alla parola "minoranza" il suo primo significato, e che solitamente implicano debolezza politica e militare, non impediscono alle minoranze di diventare oggetto di paura e rabbia violenta. Che senso ha uccidere, torturare o ghettizzare chi è debole? Può darsi che la questione abbia una sua rilevanza in tutti i casi storici di violenza etnica contro gruppi di ridotte dimensioni, ma in questa sede cerco di affrontare il tema riferendomi in modo particolare all'epoca cosiddetta della globalizzazione, e soprattutto al periodo che va dalla fine degli anni Ottanta ai giorni nostri.

Comunque sia, un'eventuale comparazione non potrebbe riguardare l'intero arco della storia umana, dato che "minoranze" e "maggioranze" sono invenzioni cronologicamente recenti, legate in modo essenziale alle concezioni di nazione, popolazione, rappresentatività ed enumerazione per come si sono sviluppate nei secoli più vicini al nostro. Oggi queste concezioni sono universali, dato che le tecniche di conteggio, classificazione e partecipazione politica che stanno alla base delle idee di maggioranza e minoranza si accompagnano ovunque al moderno Stato nazionale.

L'idea di maggioranza non precede né è indipendente da quella di minoranza, soprattutto nelle elaborazioni discorsive della politica moderna. Le minoranze sono il prodotto dell'enumerazione e della denominazione politica quanto lo sono le maggioranze. In realtà, le maggioranze hanno bisogno delle minoranze per potere esistere in quanto tali, anche più di quanto non sia vero il contrario.

Di conseguenza, per affrontare la questione del perché, in così tanti contesti etnonazionali, si sviluppi la paura verso i deboli, il primo passo è quello di tornare all'opposizione "noi/loro" nella teoria sociologica elementare. In questa teoria, la creazione delle configurazioni collettive dell'altro, cioè "i loro" è un requisito necessario, attraverso i processi di stereotipizzazione e contrasto identitario, per contribuire alla delimitazione dei confini e alla messa in evidenza delle dinamiche del "noi". Questo aspetto della teoria del capro espiatorio, dello stereotipo e dell'altro deriva da quella versione dell'interazionismo simbolico che ha preso forma nell'opera di Cooley e di Mead, ma è altresì centrale nell'interpretazione freudiana delle dinamiche di gruppo, compreso il suo classico saggio sul narcisismo delle piccole differenze (su cui tornerò alla fine).

Entro questa tradizione sociologica, la comprensione del processo di "costruzione del noi" risulta limitata, dato che tale processo viene considerato una conseguenza meccanica di quello tramite cui vengono creati "i loro", per cui richiede dei contrasti essenziali e dei confini nitidi, che contribuiscano al consolidamento delle identità collettive ("noi"). La creazione dei diversi "noi", dei soggetti collettivi, è quindi risolta in modo sbrigativo entro questa tradizione di pensiero, dato che viene considerata una pratica sociologicamente naturale, che non necessita di alcuna ulteriore riflessione specifica. La teoria sociologica classica, soprattutto per quanto riguarda la formazione dei gruppi, in effetti tiene in considerazione il ruolo del conflitto (come nella tradizione di Simmel), della religione (come nella tradizione di Durkheim) o degli interessi antagonisti (come nella tradizione di Marx) nella costruzione delle identità collettive. Ma anche se queste tradizioni in qualche misura rendono comprensibile la formazione delle identità del "noi" come un processo in parte indipendente, che non fa riferimento alla dialettica "noi/loro", tuttavia non riflettono in modo particolarmente efficace sulla formazione di quelle che in un altro contesto ho definito le "identità predatrici".


Identità predatrici

Definisco "predatrici" quelle identità la cui costruzione e mobilitazione sociale richiede l'estinzione di altre categorie sociali prossime, definite come minacce all'esistenza stessa di un qualche gruppo, a sua volta definito come "noi". Le identità predatrici sorgono periodicamente da coppie identitarie – a volte da raggruppamenti con un numero maggiore di entità – che condividono una lunga storia di contatti ravvicinati e mescolanze, oltre a un qualche livello di reciproca stereotipizzazione. Di questa storia possono far parte (anche se non necessariamente) episodi di violenza, ma un certo grado di identificazione contrastiva è sempre presente. Spesso un estremo della coppia (o una parte del raggruppamento complessivo) diviene predatore quando rende attiva una rappresentazione di sé come maggioranza minacciata. Questo tipo di mobilitazione è il passo essenziale che trasforma un'identità sociale di tipo benigno in un'identità predatrice.

La formazione di una nazione moderna a partire da un ethnos fornisce spesso le basi per l'emergere di identità predatrici, identità che sostengono la necessità di estinguere un'altra collettività per poter sopravvivere. Le identità predatrici sono quasi sempre identità maggioritarie, il che significa che si basano sulla convinzione e sulla dichiarazione di essere una maggioranza minacciata. In effetti, in molti casi queste dichiarazioni riguardano maggioranze culturali che pretendono di essere legate all'identità della nazione in modo esclusivo o esaustivo. A volte queste pretese sono avanzate in quanto espressione di maggioranze di tipo religioso (come nel caso di indù, cristiani o ebrei), altre volte di maggioranze linguistiche, razziali o di altro tipo (come nel caso di tedeschi, indiani o serbi). Il discorso di queste maggioranze mobilitate spesso include la convinzione che potrebbero diventare minoranze se non si provvede a far sparire un'altra minoranza, ed è per questo che i gruppi predatori usano di frequente argomentazioni pseudo-demografiche sul tasso di fertilità in ascesa tra la minoranza nemica individuata come bersaglio.

Le identità predatrici nascono quindi in quelle circostanze in cui diventa plausibile la pericolosa prospettiva che maggioranze e minoranze possano invertirsi di ruolo. Questa intrinseca reciprocità è un aspetto fondamentale della mia analisi, e ne riprenderò la discussione nelle conclusioni.

Le identità predatrici trovano quindi un loro spazio nella tensione che si apre tra identità maggioritarie e identità nazionali. Un'identità può essere descritta come "maggioritaria" non solo o non tanto quando a essa fa appello il gruppo oggettivamente più consistente entro una comunità nazionale, ma quando si sforza di colmare lo iato tra la maggioranza e la purezza dell'intera entità nazionale. Si tratta di un punto essenziale per comprendere le condizioni in base alle quali un'identità diviene predatrice. Le identità maggioritarie che riescono a rendere politicamente spendibile quella che possiamo chiamare l' ansia da incompletezza riguardo la loro sovranità possono diventare predatrici. L'incompletezza, da questo punto di vista, non riguarda tanto il controllo effettivo o la sovranità in senso concreto, quanto piuttosto – e in modo più rilevante – la purezza e la sua relazione con l'identità.

[...]

Piccoli numeri e reti globali

Gli eventi dell'11 settembre sono ora abbastanza lontani, per noi che prendiamo parte alla sfera pubblica statunitense, che possiamo iniziare a soppesare la xenofobia, la tempesta emotiva e lo sgomento prodotti dalla distruzione delle Torri Gemelle, per riflettere con più cognizione di causa sulle immagini più persistenti di quell'evento, ora da valutare attraverso il cupo filtro della guerra irachena. Saddam Hussein è stato trovato dopo mesi dall'inizio delle ostilità, Osama bin Laden è quasi sicuramente vivo, i talebani si stanno riorganizzando in Afghanistan e in Pakistan, numerosi signori della guerra tengono l'Afghanistan in un profondo stato di dipendenza economica e militare dal denaro estero. Sembra che gli iracheni, soggiogati inizialmente dalla campagna shock and awe, siano arrivati a odiare gli americani quanto odiavano Saddam, e le armi di distruzione di massa sembrano essere state solo un alibi per le armi di costruzione delle masse, in gran parte nelle mani di Bechtel e Halliburton. Sia in Afghanistan sia in Iraq (ma soprattutto in quest'ultimo paese) gli Stati Uniti sembrano praticare in via sperimentale una nuova forma politica, che potremmo chiamare "democrazia a lunga distanza", uno strano tipo di federalismo imperiale per cui l'Iraq viene trattato come fosse il cinquantaduesimo Stato dell'Unione, operativo sotto la giurisdizione della Guardia Nazionale e di diverse altre forze federali dirette da Washington per far fronte a quello che appare come un disastro (prodotto in questo caso dalla decapitazione del regime di Saddam).

Il problema dei numeri, delle minoranze e del terrorismo è ben presente e attivo in Iraq, e si articola nella questione se un "popolo" iracheno possa mai emergere dalle caotiche mega-politiche degli sciiti, dei curdi e di altre minoranze di rilevanti dimensioni. Da una parte l'amministrazione americana in Iraq fronteggia la spinosa questione delle minoranze, come quella sciita – che in termini strettamente numerici è estremamente consistente e ben collegata al regime iraniano – o quella curda, disposta a cavallo dei confini tra Iran, Iraq e Turchia, e le cui dimensioni sono assolutamente considerevoli. Mentre gli Stati Uniti completano le loro operazioni di non-uscita dal paese (dove hanno importato in fretta e furia squadre di esperti per stendere da un giorno all'altro una costituzione irachena, come hanno già fatto in Afghanistan), si crea un ingorgo concettuale fatto di minoranze numericamente consistenti, insistenza da parte della maggioranza degli iracheni a che la nuova conformazione sociale sia "islamica" e la percezione che una vera democrazia non possa essere islamica, se non in senso estremamente flebile. Tutte le discussioni e le battaglie sulla natura di concetti fondamentali come costituzionalismo, elezioni, democrazia e rappresentatività in Iraq hanno luogo all'ombra di battaglie non metaforiche, e di scenari di guerra in luoghi come Najaf e Falluja.

Due aspetti della caotica situazione irachena attuale sono rilevanti per la questione dei piccoli numeri e della paura delle minoranze, temi centrali di questo capitolo. Il primo è che anche dopo la fine politica di un despota veramente spietato, sicuramente temuto e odiato da molti iracheni, l'esercito degli Stati Uniti è ancora assillato dalla paura dei piccoli numeri, quei piccoli gruppi di guerriglieri o civili che conducono attacchi a sorpresa alle forze americane e a volte lanciano azioni suicide per gettare scompiglio e morte tra i soldati USA. Dato che sono totalmente mimetizzati tra la popolazione civile, individuare questi "terroristi" richiede improbabili qualità divinatorie da parte delle forze americane, che si aspettavano la resa totale dell'Iraq non appena un singolo individuo – Saddam Hussein – fosse stato scalzato dal potere. Gli Stati Uniti quindi, in quanto forza di occupazione, affrontano il timore che i piccoli numeri che continuano a tormentare e uccidere i loro soldati costituiscano una rappresentazione fedele del popolo iracheno, che nella versione originaria della sceneggiatura avrebbe dovuto accogliere gli americani come liberatori, e portare alla luce, sotto la carcassa del dittatore, una smagliante società civile.

L'Iraq, inoltre, incarna una sfida più astratta: come produrre un "popolo" nazionale a partire da quelle che sembrano solo grandi minoranze etniche o religiose? In Iraq e in Afghanistan il progetto americano di costruzione di democrazie a lunga distanza si trova ad affrontare un dilemma insanabile: o gli USA consentono a questi paesi di costituirsi come repubbliche islamiche, dovendo quindi ammettere che l'unico modo di creare i rispettivi "popoli" è quello di porre al centro della definizione di nazione proprio quella religione che l'America teme più di ogni altra; oppure devono trovare il modo di assemblare coalizioni di minoranze numericamente consistenti, riconoscendo in questo caso che la società civile in Iraq, e in molti posti come l'Iraq, dev'essere costruita nel lungo periodo, e che l'unico interlocutore vero oggi sono le minoranze. Ma si tratta di minoranze con connessioni globali e legate a popolazioni numerose.

Dovendo comunque scegliere tra opzioni così difficili, dopo aver dato il via a una guerra che rifiuta di concludersi, gli Stati Uniti devono impegnarsi in questioni di minoranze, incertezza, terrore e violenza etnica che tormentano molte società nell'epoca della globalizzazione. Sembrano esserci segnali che alcuni iracheni stiano già impegnandosi in quella che potremmo chiamare pulizia etnica "a secco", in attesa di passare a forme più brutali di pulizia etnica al momento opportuno. Se un simile scenario si realizzasse, avremmo più che mai bisogno di trovare nuovi modi per tenere sotto controllo la distanza che separa i piccoli numeri dall'odio che suscitano nelle maggioranze politicizzate, quei grandi numeri che Lenin giustamente aveva previsto essere gli indicatori dell'inizio di ogni "politica seria".


Conclusioni: globalizzazione, numeri e differenza

Torno ora a due temi importanti: uno è la questione delle piccole differenze e l'altro è lo speciale legame tra la globalizzazione e l'odio crescente verso le minoranze. A quel che posso vedere, non si tratta di due aspetti scollegati tra loro. Michael Ignatieff (1997) è forse l'analista che con maggior precisione ha fatto riferimento al famoso saggio di Freud sul "narcisismo delle piccole differenze" per aiutarci a comprendere meglio i conflitti etnici degli anni Novanta, in particolar modo quelli dell'Europa orientale. Grazie alla sua profonda conoscenza della regione, Ignatieff utilizza la definizione freudiana sulla psicodinamica del narcisismo per gettare nuova luce sulle ragioni per cui gruppi come i serbi e i croati siano giunti a produrre livelli così elevati di odio reciproco, dato il complesso intreccio di storia, lingua e identità che hanno sviluppato nel corso dei secoli. Si tratta di un'osservazione senz'altro utile, che può essere estesa e approfondita in riferimento ad alcuni degli argomenti trattati in questo capitolo.

In particolare, ho ipotizzato che la radice dell'odio assoluto contro l'"altro" etnico si situi in quello spazio ridotto che separa la condizione di maggioranza dall'idea di completa o totale purezza etnonazionale. Questa ipotesi – che ho riassunto nella formula "ansia da incompletezza" – ci offre un'ulteriore base d'appoggio per estendere la formulazione freudiana alle forme pubbliche, complesse e di larga scala della violenza, dato che ci consente di comprendere come le ferite narcisistiche, trasferite a livello di ideologie pubbliche sull'identità collettiva, possono trovare uno sbocco esterno e diventare uno stimolo alla formazione di quelle che ho definito "identità predatrici". La dinamica sottostante è costituita dalla reciproca dipendenza tra la categoria di "maggioranza" e quella di "minoranza". In quanto astrazioni prodotte dalla pratica standardizzata dei censimenti e dalle procedure del liberalismo, le maggioranze possono sempre essere mobilitate a pensarsi come entità a rischio di diventare minori (in senso culturale o numerico) e a temere, di converso, che le minoranze possano facilmente diventare maggiori (attraverso un brusco incremento demografico o tramite subdole strategie legali o politiche). Questi timori tra loro collegati sono la conseguenza specificamente moderna dell'intima reciprocità tra queste categorie, che pone inoltre le basi all'ulteriore timore che possano mutarsi una nell'altra.

È proprio a questo livello che si situa l'intervento della dimensione globale. Con le più diverse modalità, la globalizzazione intensifica le potenzialità di questa mutazione esplosiva, così che la base naturale che tutte le identità collettive perseguono e presuppongono viene costantemente minacciata dall'astratta affinità che lega le categorie di "maggioranza" e "minoranza". Le migrazioni planetarie attraverso e all'interno dei confini nazionali intaccano in modo costante il collante che tiene unite le persone alle ideologie del suolo e del territorio. I flussi globali delle immagini mediatiche e a volte mercificate del sé e dell'altro incrementano un archivio costituito da ibridi che rendono sempre più sfumate le linee nette che dovrebbero delimitare le identità su larga scala. Gli Stati moderni spesso manipolano e alterano la natura delle categorie in base alle quali raccolgono i censimenti e gli strumenti statistici tramite cui enumerano le diverse popolazioni entro i gruppi nazionali. La diffusione su scala planetaria di versioni improvvisate del costituzionalismo, con elementi presi dagli Stati Uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna, suscita nuovi dibattiti globali sull'etnicità, sulle minoranze e sulla legittimità elettorale, di cui l'ultimo esempio è costituito dal caso iracheno. Infine, le modalità multiformi, rapide e in gran parte invisibili con cui le risorse finanziarie si muovono attraverso i canali ufficiali interstatali, le reti commerciali paralegali e i canali del tutto illegali dipendenti da reti come quella di Al Qaeda sono inestricabilmente intrecciate alle istituzioni globalizzate che si occupano di riciclaggio del denaro, trasferimenti finanziari in forma elettronica, nuove forme di controllo e regolamentazione internazionale; tutte dimensioni del capitale finanziario che in sostanza definiscono l'epoca della globalizzazione. Questi movimenti di denaro – sempre rapidi, spesso invisibili e molte volte illeciti – attraverso i confini nazionali sono considerati da molti e a ragione i produttori dei mezzi attraverso cui le minoranze di oggi possono diventare le maggioranze di domani. Ognuna di queste condizioni può contribuire a esacerbare l'incertezza sociale – oggetto di analisi specifica nel secondo capitolo di questo libro – e quindi a creare le condizioni che spingono a superare la soglia tra ansia della maggioranza e predazione su larga scala, fino al genocidio.

La paura dei piccoli numeri, quindi, è intimamente legata alle tensioni che le forze della globalizzazione inducono nella teoria sociale liberale e nelle sue istituzioni. Le minoranze in un mondo che si globalizza sono un evocatore costante dell'incompletezza della purezza nazionale. Quando poi le condizioni – in modo particolare quelle che circondano l'incertezza sociale – entro una specifica comunità nazionale sono mature per trasformare politicamente questa incompletezza in una carenza esplosiva, può infine tracimare la furia genocida, soprattutto in quelle società liberali in cui l'idea di minoranza è giunta a essere, in qualche misura, un valore politico condiviso che influenza tutti i numeri, grandi e piccoli.

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