Copertina
Autore Lucio Apuleio
Titolo Metamorfosi
EdizioneGarzanti, Milano, 2004 [2002], i grandi libri , pag. 455, cop.fle., dim. 110x180x30 mm , Isbn 978-88-11-36861-8
OriginaleMetamorphoseon libri XI [0170]
PrefazioneFederico Roncoroni
TraduttoreNino Marziano
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe classici latini , fantastico
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Pagina 3

LIBRO I



1 Ecco, lettore, io qui per te metterò insieme storie d'ogni genere, sul tipo di quelle milesie e blandirò le tue compiacenti orecchie con un amabile sussurro se tu non sdegnerai di posare lo sguardo su un papiro egiziano vergato con l'arguzia di una penna alessandrina, perché tu possa stupirti per gli aspetti e i destini degli uomini che han preso altre fogge e mutato l'essere loro e poi restituiti, di nuovo, con alterne vicende, al loro primitivo stato.

Dunque, comincio.

«Ma chi è costui?». Sappilo in poche parole. Le regioni dell'Imetto, nell'Attica, l'Istmo di Corinto e il promontorio del Tenaro nei pressi di Sparta sono terre fortunate celebrate in opere più fortunate ancora. Di lì, anticamente, discese la mia famiglia; lì, da fanciullo, appresi i primi rudimenti della lingua attica, poi, emigrato nella città del Lazio, io che ero del tutto digiuno della parlata locale, dovetti impararla senza l'aiuto di alcun maestro, con incredibile fatica.

Perciò devi scusarmi se, inesperto della lingua forense, che mi è straniera, incorrerò in qualche errore.

Del resto questa varietà del mio linguaggio ben si adatta, per stile, a quell'abilità acrobatica con la quale mi accingo a narrare.

Incomincio con una storiella alla greca. Stammi a sentire, lettore, ti divertirai.


2 Ero diretto in Tessaglia per affari (la mia famiglia per parte di madre, è originaria di quella regione e per il fatto che fra i suoi antenati vanta il celebre Plutarco e suo nipote, il filosofo Sesto, è per me titolo di gloria), dunque, ero diretto in Tessaglia e m'ero già lasciato alle spalle montagne ripide, valli impervie, umide pianure, campagne fertili e coltive, cavalcando un bianco cavallo del luogo, ormai stanco anche lui. Così, per scrollarmi di dosso la stanchezza, dal momento che ero stato a lungo in sella, smonto, per sgranchirmi le gambe, asciugo con cura la fronte del cavallo madida di sudore, gli accarezzo le orecchie, gli tolgo il morso e lo lascio andar libero, al passo, perché smaltisca un po' la stanchezza e si svuoti del peso naturale del ventre. E mentre quello a testa in giù e con la bocca volta a cercare qua e là nei prati il suo pasto, io mi unisco, come terzo, a due viandanti che in quel momento di poco mi precedevano.

Tesi l'orecchio per sapere di cosa parlassero e sento che uno dei due, scoppiando in una gran risata, diceva all'altro: «Piantala di raccontare balle così assurde, così madornali!».

A queste parole io, che sono sempre smanioso di novità, intervenni: «Non è che io sia un impiccione, ma mettete anche me a parte dei vostri discorsi, perché io vorrei sapere tutto o almeno moltissime cose e, poi, qualche allegra storiella farà sembrare meno aspra la salita che ci sta davanti».


3 «Sono frottole queste», continuava, intanto, quello che aveva parlato per primo, «vere come quelle di chi affermasse che basta una formuletta magica per fare andare i fiumi all'insù, rendere il mare una massa solida, impedire che i venti, privi di forza, smettano di soffiare, fermare il sole, far svaporare la luna, staccare le stelle dal cielo, oscurare il giorno e rendere eterna la notte».

Io, allora, incoraggiato a parlare, ripresi: «Ehi, tu, che evidentemente hai avviato il discorso, non prendertela, non badargli, continua il tuo racconto». E all'altro: «In quanto a te fai male a tapparti le orecchie e a rifiutarti cocciutamente di credere a delle cose che potrebbero anche esser vere. Capita, sai, che, per una sciocca prevenzione, si prendano per menzogne quelle cose che non si sono mai viste o udite e che sono fuori della nostra comprensione; ma se poi ci pensi un po' su ti accorgi che non solo sono facilmente comprensibili ma anche semplici a farsi.


4 Anch'io, l'altra sera, per fare il gradasso con gli amici, mandai giù un boccone troppo grosso di polenta e formaggio e, tanto quella roba molliccia e appiccicosa mi si era attaccata al palato e mi impediva di respirare, che per poco non mi sembrò di morire. Eppure, non molto prima, proprio con questi occhi, ad Atene, davanti al portico Pecile, avevo visto un giocoliere infilarsi nella gola, per la punta, una spada affilata, di quelle che usano in cavalleria, e poi, per poche monete, ficcarsi fin giù nelle budella una lancia da cacciatore, proprio dalla parte della punta mortale: ed ecco che al legno dell'asta, la cui punta di ferro introdotta nella gola sbucava dietro la nuca, si attaccò un ragazzino leggiadro e agilissimo e cominciò una danza di capriole e volteggi come se fosse tutto snodato e senz'ossa tra la grande ammirazione di tutti. Lo avresti detto il nobile serpente che s'attorciglia al bastone nodoso di Esculapio.

Ma ora ti lascio la parola, riprendi il racconto che avevi incominciato. Ti basti che sia soltanto io a crederti, anche per lui; in cambio, alla prima locanda che incontreremo, ti offrirò da mangiare. Questa sarà la ricompensa per te».


5 E lui: «Accetto di buon grado la tua promessa. Avevo appena iniziato e, comunque, ricomincerò dal principio. Ma prima voglio giurarti, per questo dio sole che tutto vede, che le cose che racconto sono tutte vere; del resto, voi stessi non avrete più dubbi una volta arrivati alla più vicina città della Tessaglia, perché il racconto di questi fatti è sulla bocca di tutti.

Ma prima lasciate che io vi dica da dove vengo e chi sono: mi chiamo Aristomene e sono di Egio. Mi guadagno da vivere vendendo miele e formaggio e prodotti simili, su e giù per le osterie della Tessaglia, dell'Etolia e della Beozia.

Fu così che venni a sapere che a Ipata, la città principale della Tessaglia, si vendeva formaggio fresco, di buona qualità e a un prezzo d'occasione. Subito mi ci precipitai per acquistarne l'intera partita. Ma si vede che partii sotto cattiva stella e così la mia speranza andò delusa, perché un certo Lupo, un grossista, mi aveva preceduto e il giorno prima aveva fatto incetta di tutto. Così, affaticato da quel viaggio, fatto in fretta e furia e per nulla, la sera stessa me ne andai ai bagni pubblici.


6 Ed ecco che vedo Socrate, un mio compagno d'armi. Se ne stava seduto per terra, ravvoltolato a mala pena in un mantellaccio sbrindellato, irriconoscibile, tanto era pallido e sfigurato per l'estrema magrezza; pareva uno di quei disgraziati perseguitati dalla malasorte che si riducono a chiedere l'elemosina alle cantonate.

Era un mio intimo amico costui, lo conoscevo bene, tuttavia mi avvicinai a lui con una certa titubanza: "Ohilà, Socrate", gli feci, "cos'è questa storia? Com'è che sei in questo stato? Che t'è capitato? A casa ti piangono per morto e ai tuoi figli i giudici hanno già dato un tutore; con tua moglie, che t'ha fatto il funerale e che s'è consumata in lacrime e che per il pianto le si sono seccati gli occhi, i suoi parenti insistono perché si consoli della tua perdita e rallegri la tua casa con nuove nozze. E tu, intanto, te ne stai qui che mi sembri proprio un fantasma. Mi fai proprio vergognare".

"Ah, Aristomene", mi rispose, "come si vede che non conosci i colpi mancini della fortuna, i suoi capricci, le sue alterne vicende" e, arrossendo per la vergogna, si tirò sulla faccia quel suo mantello sbrindellato; ed io vidi che sotto era nudo dal ventre al pube.

Non reggendo alla vista di tanta miseria, gli tesi la mano e feci per tirarlo su.


7 Ma lui, col viso coperto: "No, no, che la malasorte continui a godersela la sua vittoria".

Finalmente riuscii a tirarmelo dietro e intanto mi tolgo uno dei miei mantelli, lo vesto in fretta, per non dire lo copro e, subito, gli faccio fare un bagno, rifornendolo di tutto l'occorrente per ungersi e asciugarsi; anzi io stesso lo strofinai ben bene per togliergli quel dito di sudiciume che aveva addosso. Dopo averlo ripulito, benché fossi stanco anch'io, lo portai di peso alla locanda, ché a mala pena si reggeva in piedi, e qui lo ficcai in un letto caldo, gli diedi da mangiare e da bere, lo tenni su con qualche storiella, tanto che in breve ritornò loquace e allegro e, allora, corsero frizzi, chiacchiere, motti piccanti. A un tratto, però, dette in un sospiro profondo, doloroso, e picchiandosi la fronte con una gran manata: "Ma si può essere più iellati di me", cominciò a lamentarsi, "se soltanto per aver voluto correre dietro a uno spettacolo di gladiatori, di cui si dicevano meraviglie, mi sono ridotto in questo stato. Ricorderai che ero andato in Macedonia per il mio commercio, ebbene gli affari m'erano andati a gonfie vele e così, dopo nove mesi, stavo tornando a casa, ben fornito di quattrini, quando poco prima di giungere a Larissa, mi venne in mente di fare una capatina a quel famoso spettacolo, ma, in una valle impervia e deserta, fui assalito da una banda di briganti ferocissimi e derubato di tutto. Riuscii a fuggire e, ridotto quasi in fin di vita, raggiunsi la locanda di una certa Meroe, una donna matura ma ancora belloccia, alla quale raccontai dei miei lunghi viaggi, del mio desiderio di tornare a casa e, infine, della rapina subita. Ella fu molto gentile, mi preparò gratis una graditissima cena e, alla fine, andata in fregola, mi portò a letto con lei. Scalogna maledetta, perché bastò che dormissi una sola notte con lei per impegolarmi in una di quelle relazioni che poi ti tiri dietro per anni: le diedi quei pochi stracci che i briganti mi avevano lasciato addosso, e perfino gli spiccioli che, facendo il facchino (allora ero ancora in gamba) mi venivo guadagnando. Ed ecco in quale stato, tu l'hai visto, quella buona donna e la mia cattiva stella, mi hanno ridotto".


8 "Te lo meriti proprio tutto questo", gli dissi, "e anche di peggio se fosse possibile, dal momento che invece di pensare alla tua casa, ai tuoi figli, hai preferito i piaceri del sesso con una vecchia baldracca".

"Zitto, per carità, zitto", fece quello tutto spaventato, portando l'indice alle labbra e volgendo il capo all'intorno come per accertarsi che si potesse parlare senza rischio, "non parlare male di quella donna perché è una maga; che tu non ti tiri addosso qualche guaio con la tua lingua sconsiderata".

"Ma che stai dicendo? Che razza di donna è costei, questa tua bellezza da taverna?".

"È una maga, un'indovina", insistette, "capace di tirar giù la volta celeste e di sollevare la terra, di far diventare le fonti di sasso e liquefar le montagne, di riportare alla luce gli dei dell'inferno e inabissare quelli del cielo, di spegnere le stelle, di illuminare perfino il Tartaro".

"Ma piantala, dài, con questa messinscena da tragedia, smettila di recitare e parla come parlano tutti".

"Vuoi che te ne racconti una o due o anche molte delle cose che ha fatte? Che gli uomini delle nostre parti si innamorino pazzamente di lei, anzi tutti gli indiani e gli africani dell'uno e dell'altro oceano e perfino le genti che abitano agli antipodi, è solo un piccolo segno della sua magia, una bazzecola. Ma sta' a sentire quello che ha fatto, testimone un sacco di gente.


9 Con una sola parola ha mutato in castoro un suo amante che s'era messo con un'altra. E sai perché proprio in castoro? Perché questa bestia, quando è inseguita e teme di essere catturata, si stacca da sé i testicoli. Questo lei voleva che capitasse anche a quel suo amante che l'aveva piantata per un'altra.

E ancora: ha trasformato un oste, che era suo vicino e le faceva concorrenza, in un rospo: ora quel povero vecchio sguazza in una botte del suo vino immerso nella feccia fino alla gola e chiama con suoni rochi che vorrebbero essere amabili i suoi avventori di un tempo.

Un altro l'ha trasformato in montone: era un avvocato che l'aveva calunniata e da montone ora difende le cause.

Alla moglie di un suo amante che le aveva indirizzato una paroletta pepata ha tappato l'utero e poiché quella era incinta le ha bloccato il feto in corpo condannandola a una perpetua gravidanza. La gente ha fatto i conti, dice che sono otto anni ormai che la poveretta è gonfia come se dovesse partorire un elefante.


10 Per queste e per tante altre vittime l'indignazione popolare crebbe a tal punto che venne deciso di condannarla, l'indomani, senza alcuna pietà, alla lapidazione. Ma lei con le sue arti magiche prevenne la sentenza; un po' come la famosa Medea che, ottenuta da Creonte una sola giornata di dilazione, con la fiamma sprigionata dalla corona mise a fuoco tutta la reggia con dentro lui stesso e la figlia. Così questa Meroe, fatti alcuni sortilegi sopra un sepolcro (come mi confidò poco dopo tra i fumi del vino) ed evocando misteriose potenze soprannaturali, chiuse tutti nelle loro case tanto che per due interi giorni nessuno riuscì a sbloccare le serrature, a scardinare le porte, a sfondare le pareti.

Questo finché, per consiglio comune, non la supplicarono ad una voce giurandole solennemente che non le avrebbero torto un capello, pronti, anzi, a proteggerla da chi avesse osato qualcosa contro di lei.

Solo così ella si rabbonì e liberò dall'incantesimo la città. Ma l'ideatore del complotto lasciò serrato in casa e questa, così com'era, pareti, pavimento, fondamenta, di notte tempo, fece volare cento miglia lontano, in un'altra città, posta in cima a una montagna dirupata e priva d'acqua. E poiché le case erano addossate le une alle altre e non c'era spazio per quella del nuovo venuto, te la scaraventò davanti a una porta della città e se ne andò".

[...]

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Pagina 35

LIBRO II



1 Appena il nuovo sole fugò le tenebre e riportò sulla terra la luce, io mi destai e subito saltai fuori dal letto desideroso e impaziente di conoscere tutte le cose bellissime e rare del luogo, tanto più, pensai, che mi trovavo proprio nel cuore della Tessaglia, la terra degli incantesimi, la culla della magia, famosa per questo in tutto il mondo e, per giunta, proprio dove era accaduto il fatto straordinario raccontato da quell'ottimo compagno di viaggio che era stato Aristomene.

Mi misi così a osservare attentamente ogni cosa con uno stato d'animo misto di curiosità e insieme d'ansia.

Ma in quella città tutto mi sembrava strano, irreale, ovunque posassi lo sguardo, come se un qualche funesto incantesimo avesse stregato ogni cosa: i sassi in cui inciampavo mi pareva fossero uomini pietrificati, gli uccelli che sentivo cantare esseri umani diventati pennuti, gli alberi che cingevano le mura uomini anch'essi mutati in creature arboree, perfino l'acqua mi sembrava sgorgasse da corpi umani. Mi aspettavo, da un momento all'altro, che le statue e le figure degli affreschi si mettessero a camminare, le pietre delle mura a discorrere fra loro, che i buoi o, che so io, animali simili a predire il futuro e che dal cielo stesso e dal disco del sole sarebbe, a un tratto, venuto giù un qualche oracolo.


2 Così me ne andavo a zonzo qua e là tutto frastornato ed eccitato da una curiosità tormentosa senza tuttavia riuscire a trovare un benché minimo indizio di quanto mi stava a cuore.

Bighellonavo di porta in porta come uno sfaccendato che ha quattrini da spendere e senza accorgermene mi trovai al mercato.

Qui affrettai il passo per dare una sbirciatina a una donna che passava di lì circondata da un codazzo di schiavi. I monili d'oro scolpiti e l'abito trapunta in oro anch'esso mi mostravano chiaramente che si trattava di una vera signora. Era al suo fianco un vecchio molto avanti negli anni il quale appena mi vide: «Ma sì, è proprio lui, Lucio», esclamò abbracciandomi e bisbigliando poi qualcosa che non compresi all'orecchio della donna.

«Perché non ti fai avanti a salutare questa tua parente?», mi fece poi. Ed io vergognoso: «Non conosco la signora», risposi arrossendo e rimasi lì fermo impalato, a capo chino.

«Ma guardalo, lo stesso ritegno signorile di sua madre Salvia, santa donna», commentava quella, intanto, voltandosi verso di me. «Straordinario, anche nel fisico le somiglia, tale e quale; statura regolare, forte e slanciato, colorito roseo, capelli biondi, ondulati di natura, occhi azzurri ma vivi e lampeggianti come quelli di un aquilotto, e il volto, come lo guardi, una bellezza, e poi, elegante e disinvolto nel portamento».


3 «Sai, Lucio», continuò, «ti ho allevato io, con queste mani, come no? Fra me e tua madre non c'è soltanto un vincolo di sangue ma siamo state allevate insieme.

Tutte e due discendiamo dalla famiglia di Plutarco e siamo state allattate dalla stessa balia e insieme siamo cresciute, come due sorelle; solo la posizione sociale ci divide perché lei ha sposato un uomo importante, io un semplice borghese: sono Birrena e forse hai già sentito fare il mio nome fra quelli che ti hanno educato.

Non fare complimenti, quindi, e accetta la mia ospitalità, anzi considerati a casa tua».

Sentendola parlare così io vinsi ogni impaccio e le risposi:

«Madre, non è assolutamente il caso che io, senza motivo, ora pianti lì Milone che mi ha dato ospitalità; comunque, appena possibile, con le dovute convenienze, sarà mio dovere usarti ogni riguardo e tutte le volte che mi capiterà di passare di qui non mancherò di fermarmi da te».

Così, tra una chiacchiera e l'altra, in pochi passi, giungemmo alla casa di Birrena.


4 L'atrio era bellissimo, colonne ai quattro angoli reggevano Vittorie palmate che, ferme, ad ali aperte sembravano sfiorare con le agili piante il mobile sostegno di una sfera nell'atto di spiccare il volo non di sostare.

Al centro, stupendo capodopera, una Diana in marmo pario, con la veste gonfia di vento sembrava protendersi leggera verso chi entrava, veneranda nella sua divina maestà. Ai lati della dea, a suo presidio, stavano due molossi, anch'essi in marmo pario: erano i loro occhi minacciosi, ritte le orecchie, dilatate le narici, le fauci avidamente spalancate. Se fosse risuonato lì intorno un latrato, certo lo avresti creduto uscito da quelle gole di marmo. Qui, appunto, quell'insigne artista aveva dato la prova più alta della sua arte, raffigurando quei cani con il petto proteso, le zampe posteriori ben ferme a terra e quelle anteriori nell'atto della corsa.

Aveva anche scolpito un macigno alle spalle della dea in foggia di spelonca e muschio, morbide foglie, ramoscelli, pampini e arbusti sembravano fiorire dalla pietra. All'interno, nel nitore del marmo, risplendeva l'immagine divina.

Dagli orli alti del sasso frutti ed uve pendevano, di squisita fattura, simili in tutto al vero, l'arte avendo emulato la natura. Certo avresti pensato di coglierli e mangiarli quando l'autunno che porta il mosto avesse in essi infuso i bei colori maturi. Se, poi, chinandoti a guardare il ruscello che ai piedi della dea scorreva in onde lievi, quei grappoli riflessi tu li avresti creduti non solo naturali ma persino oscillanti come quelli sospesi ai tralci veri.

Tra le fronde si distingueva l'immagine marmorea di Atteone, già mutato in cervo, cupidamente proteso a spiare la dea che si bagnasse in quella fonte, nuda.


5 Mentre io guardavo ogni cosa con gran piacere e interesse, Birrena mi fece: «Tutto questo è tuo», e, così dicendo, invitò gli altri, con un cenno discreto ad allontanarsi. Dopo che furono usciti, continuò:

«Sapessi, Lucio carissimo, come sono in ansia per te, come vorrei proteggerti, più che se fossi mio figlio. In nome di questa dea, guardati, per carità, guardati dalle male arti e dalle pericolose lusinghe di Panfile, la moglie di quel Milone di cui mi hai detto che sei ospite: è una maga famosa, espertissima a evocare gli spiriti maligni: soffiando su dei rametti, su delle pietruzze e cose del genere, quella è capace di sprofondare sole e stelle giù nel Tartaro e nel vecchio Caos. Per di più quando vede un bel giovane ne resta subito presa e non lo molla più, lo lusinga, gli si insinua nell'animo, lo lega con indissolubili vincoli. I meno compiacenti o quelli che le son venuti a noia li trasforma invece in sassi o in caproni o in altri animali o addirittura li uccide. Ecco perché io sono in pena per te e ti supplico di stare attento: quella è una che è sempre in calore e tu, per età e per avvenenza, fai proprio al caso suo». Questo mi disse tutta preoccupata Birrena.


6 Ma io, che sono curioso per natura, appena sentii la parola magia, che sempre mi aveva sedotto, a tutt'altro pensai che a guardarmi da Panfile: anzi, mi venne tanta voglia di essere iniziato anch'io nell'arte magica e di gettarmici a capofitto, in quella voragine, costasse quel che costasse, che, tutto eccitato, mi liberai di Birrena, come da una catena, e gettandole un «salve» in tutta fretta, mi precipitai a casa di Milone.

Intanto, correndo come un pazzo, mi dicevo:

«Coraggio, Lucio, apri gli occhi e bada a te. Questa è la volta buona, finalmente potrai appagare il tuo desiderio e saziarti di storie meravigliose. Bando alle paure da ragazzini, prendi di petto la cosa, ma soprattutto astinenza con la tua ospite, e guardalo da lontano e con rispetto il letto del buon Milone; datti da fare, piuttosto, con Fotide, la servotta: è appetitosa e ci sta e poi è simpatica. Ieri sera, quando sei andato in camera, lei è venuta con te, ti ha messo a letto con un sacco di moine, ti ha rimboccato le coperte in modo piuttosto provocante e baciandoti in fronte ti ha fatto capire che le dispiaceva andarsene; infatti s'è voltata indietro più volte, a guardarti. Questo è di buon augurio; può darsi effettivamente che tutta la faccenda non finisca bene, almeno cerca di portarti a letto questa Fotide».


7 Così ragionando arrivai alla porta di Milone e vidi che tutto funzionava, come suol dirsi, a pennello.

A casa, infatti, non c'era né Milone né sua moglie ma solo la mia cara Fotide che stava preparando per i suoi padroni un ripieno di trippa e polpa di carne tritata, una cosetta veramente squisita a giudicar dall'odore.

Indossava una linda tunichetta di lino con una cinturina rosso vivo che le stringeva la vita, proprio sotto i seni. Con le sue manine tondette rimestava il cibo nel tegame, che scuoteva continuamente, di modo che quel movimento le si comunicava a tutto il corpo e così dondolava mollemente la schiena e ancheggiava ch'era uno spettacolo.

A quella vista rimasi lì fermo incantato, in estasi, e mi si rizzò anche un certo arnese che prima era penzoloni.

«Che bellezza!», riuscii alla fine a esclamare. «Fotide mia, come sai muovere bene quei tuoi fianchi e quel tegamino. Chissà che intingoletto squisito stai preparando. Beato, eh sì, proprio beato chi, col tuo permesso, potrà metterci il dito».

Ma lei, civetta e spiritosa com'era: «Sta' lontano, sbarbatello, sta' lontano dal mio fornello, quanto più puoi, ché se appena ti tocca questo mio focherello, ti sentirai bruciare fin le midolla e nessuno potrà estinguerti l'incendio se non io che, con lo stesso piacere, ci so fare assai bene sia coi sughetti e le pentole sia a letto».


8 Così dicendo si voltò a guardarmi e rise mentre io restai lì a mangiarmela con gli occhi. Ma, in effetti, perché mettermi a parlare degli altri particolari quando delle donne la mia unica passione sono sempre stati il viso e i capelli, che prima ammiro in pubblico e poi me li godo in privato.

La ragione di questa mia preferenza sta, forse, nel fatto che questa importante parte del corpo, così in evidenza e così esposta, è la prima a colpirci; e poi, anche perché se per le altre parti, gli abiti e i bei colori delle vesti fanno molto, per questa è solo la bellezza naturale che conta.

Del resto un po' tutte le donne, quando vogliono farsi ammirare per la loro bellezza e per le grazie che hanno, si spogliano, buttano via i veli e, tutte compiaciute, mettono in mostra le loro nudità sapendo che è un dolce incarnato a far colpo più che l'oro di una veste.

Ma se - dico per assurdo, e non voglia mai che succeda una cosa del genere - se a una donna, fosse anche la più bella, tu le tagliassi via i capelli, la privassi di quel naturale ornamento del viso, venisse pure dal cielo o sorgesse dal mare, figlia dell'onda, fosse pure Venere in persona circondata dalle sue Grazie e accompagnata da tutto lo stuolo dei suoi Amorini, ornata del suo cinto fragrante di profumi e stillante balsami, se si mostrasse calva non potrebbe piacere nemmeno al suo Vulcano.


9 Vuoi mettere, invece, il fascino di una bella chioma quando fiammeggia viva ai raggi del sole o, morbida, ne raccoglie la luce o, mutevole, appare nei suoi cangianti riflessi? O quando il fulgore dell'oro sfuma nel biondo del miele, o il nero corvino ha iridescenze azzurre come il collo delle colombe o, ancora, quando densa di balsami orientali e ravviata dai denti sottili del pettine, raccolta a nodo dietro la nuca, si riflette negli occhi dell'amante come in uno specchio, porgendo di sé l'immagine più gradita?

E vuoi mettere ancora quando, folta, fa da corona al capo oppure quando scende fluente, a onde, lungo le spalle? Insomma è così importante una bella chioma che, per quanto una donna si mostri adorna d'oro, di belle vesti, di gemme o d'ogni altro ornamento, se non ha una particolare cura dei suoi capelli, non può mai dirsi elegante.

Ma la mia Fotide era seducente per una certa qual negligenza, più che per l'accurata ricercatezza: infatti i suoi capelli folti scendevano mollemente sulla nuca e lungo il collo, fino a lambire l'orlo della veste; le estremità erano poi raccolte in un nodo al sommo del capo.


10 Non resistetti alla tortura di un piacere così intenso e piegandomi su di lei le lasciai un bacio più dolce del miele, proprio alla radice dei capelli, dove essi risalivano verso la sommità del capo.

Ella si volse lanciandomi di sottecchi uno sguardo assassino: «Ehi, ehi, scolaretto, mi sa che tu ti stai prendendo un bocconcino agrodolce, sta' attento che per la troppa dolcezza del miele tu poi non abbia a sentire a lungo l'amaro della bile».

«E che m'importa, gioia mia, soltanto un bacino, a darmi vigore e poi son pronto a mettermi lungo disteso sul tuo fornello e a farmi abbrustolire», e così dicendo me la strinsi forte fra le braccia e cominciai a baciarla e poiché lei mi corrispose con eguale ardore e gareggiò con me in ogni sorta di libidine, schiudendomi la sua bocca odorosa e cercando con la sua lingua, che sapeva di nettare, la mia, vinto dal desiderio: «Mi fai morire», le dissi, «anzi sono già morto se tu non mi compiaci». Ed ella riprendendo a baciarmi: «Pazienta, anch'io sono ormai tua e perciò non dovremo aspettare a lungo per il nostro piacere; questa sera, appena farà buio, verrò in camera tua. Ora va', ma preparati perché voglio misurarmi con te gagliardamente e mettercela tutta, quant'è lunga la notte».


11 Queste promesse ci sussurrammo prima di separarci. Intanto s'era fatto mezzogiorno e Birrena mi fece pervenire, come segno di benvenuto, un grasso porcellino, cinque gallinelle e un'anfora di vino pregiato.

«Ecco che arriva Bacco con le sue armi a dar man forte a Venere», gridai a Fotide. «Ce lo berremo tutto questo vino, oggi, per vincere ogni ritegno, ogni fiacchezza ed eccitare ancora di più la nostra libidine. Queste sono le sole provviste che occorrono per una notte d'amore: olio alla lucerna e vino nei calici in abbondanza».

Passai il resto della giornata ai bagni e, poi, a cena, con il buon Milone che mi aveva invitato al suo desco miseruccio, avendo io cura, però, di evitare lo sguardo di sua moglie, memore degli avvertimenti di Birrena; e se per caso i miei occhi si posavano sul volto di lei subito li ritraevo spaventatissimo, come se avessi visto l'inferno. Guardavo, invece, continuamente Fotide che ci serviva e in lei mi rincuoravo.

S'era, intanto, fatta notte, quando Panfile, guardando la lucerna esclamò: «Quanta acqua verrà giù domani», e al marito che le chiese come facesse a saperlo, rispose che era la lucerna a dirglielo. Al che Milone, sbottando a ridere: «Proprio una gran sibilla noi manteniamo con questa lampada. In cima al suo candeliere, come da un osservatorio, quella vede tutto ciò che succede in cielo e perfino nel sole».


12 «Ma sono proprio questi», intervenni io, «i primi tentativi di magia e non c'è niente di strano se questo focherello così piccino, acceso dalla mano dell'uomo, ricordi quel gran fuoco celeste dal quale ha avuto origine e quindi conosca e ci riferisca con un presagio divino le cose che quello è in procinto di combinare lassù nel cielo.

Del resto, da noi, a Corinto, ora c'è un forestiero, un Caldeo, che con le sue strabilianti profezie sta mettendo lo scompiglio in città e per quattro soldi svela alla gente i misteri del destino. Ti sa dire, per esempio, il giorno in cui ti devi sposare, in qual'altro puoi mandar su i muri di una casa se vuoi che non ti vada in malora, quando puoi concludere buoni affari, iniziare un viaggio o metterti in mare. Anch'io gli chiesi cosa mi sarebbe capitato in questo viaggio e lui mi disse un sacco di cose, tutte molto strane: che sarei diventato famoso, addirittura il protagonista di una storia incredibile, straordinaria e che avrei scritto anche dei libri».


13 «Che tipo è questo Caldeo e come si chiama?», fece Milone sorridendo.

«È alto, piuttosto bruno e si chiama Diofane».

«Ma allora è proprio lui, non ci sono dubbi!», esclamò. «Anche qui da noi s'era messo a tutto spiano a far l'indovino fra la gente, guadagnando quattrini a palate, altro che pochi soldi, finché non gli toccò, poveraccio, un incidente, o meglio, un vero infortunio, è proprio il caso di dirlo.

Una mattina, mentre stava predicendo l'avvenire al solito crocchio di gente, gli si avvicinò un mercante, un certo Cerdone, per sapere quale fosse il giorno più favorevole per mettersi in viaggio. Come Diofane glielo predisse, Cerdone mise subito la mano alla borsa e aveva già rovesciato i soldi per contare cento denari quale compenso per la profezia, quando un giovanotto dall'aspetto distinto si fece alle spalle di Diofane e tirandolo per un lembo del mantello, tanto da costringerlo a voltarsi, gli buttò le braccia al collo e cominciò a baciarlo con trasporto. Diofane fece altrettanto, lo invitò a sedere accanto a lui e stupito di quell'improvvisa apparizione, dimenticando completamente l'affare che stava combinando, cominciò: "Che piacere vederti qui! Quand'è che sei arrivato?".

"Soltanto ieri sera", fece l'altro di rimando, "ma tu, fratello, raccontami del tuo viaggio per mare e per terra, dopo che sei partito in tutta furia dall'Eubea".


14 A questo punto Diofane, il nostro grande Caldeo, balordo e distratto, attaccò: "Un viaggio così infame come quello vorrei che toccasse soltanto ai nemici e a quelli che mi vogliono male: una vera odissea. La nave sulla quale eravamo imbarcati, sbattuta dalla tempesta e dal vento, perse tutti e due i timoni e andò alla deriva, finché non calò a picco sfasciandosi contro la riva opposta. Perdemmo tutto e a stento riuscimmo a salvarci a nuoto. Tutto quello, poi, che potemmo racimolare per la compassione di ignoti e il buon cuore di amici, ci fu portato via da una banda di malfattori. Arignoto, il mio unico fratello, che aveva tentato di opporsi alla loro violenza, poveretto, fu sgozzato sotto i miei occhi".

Ma, intanto, mentre Diofane, col cuore a pezzi, raccontava tutto questo, Cerdone, il mercante, ripresisi i soldarelli che aveva già sborsato per la profezia, se la squagliò.

Soltanto allora Diofane tornò in sé e s'accorse della sua balordaggine, specie quando vide che noi, tutt'intorno, ci sbellicavamo dalle risa.

Però, caro Lucio, speriamo almeno che a te, quel Caldeo abbia detta la verità e che tu possa essere fortunato e proseguire felicemente il tuo viaggio».


15 Mentre Milone parlava e sembrava non volere smettere più, io mi rodevo e me la prendevo con me stesso che involontariamente avevo dato esca a tutte quelle ciarle inutili e mi stavo perdendo il meglio della serata e il suo frutto più ghiotto. Finalmente messa da parte ogni esitazione, dissi a Milone: «Se la veda lui quel Diofane con le sue disavventure e si porti pure per mare e per terra tutto il denaro che spilla alla gente, quanto a me sono ancora stanco del viaggio di ieri e, se permetti, vorrei andare a dormire un po' prima».

Detto fatto mi avviai in camera mia e qui trovai tutto bell'apparecchiato per una cenetta. I letti della servitù erano stati spostati, messi il più lontano possibile dalla mia porta, immagino perché non sentissero i nostri notturni gemiti di piacere; accanto al mio letto era stato posto un tavolino con ciò che di meglio era rimasto della cena e coppe riempite a metà di vino, bell'e pronte ad accogliere la giusta porzione d'acqua; accanto, una brocca dall'imboccatura larga fatta a posta per le abbondanti bevute, insomma un gustoso aperitivo per la battaglia amorosa.


16 M'ero appena coricato che la mia Fotide, la sua padrona era già andata a letto, se ne venne da me tutta giuliva.

Aveva una ghirlanda di rose fra i capelli e petali di rose anche sul florido seno. S'appressò e mi baciò lungamente, mi cinse il capo di fiori, altri ne sparse intorno. Poi prese una coppa di vino, vi mescolò dell'acqua tiepida e me l'offrì da bere; ma dolcemente me la rubò dalle mani prima ch'io l'ebbi del tutto vuotata e l'accostò alle sue labbra e bevve a piccoli sorsi, guardandomi. Una seconda coppa e una terza e poi altre ancora così ci scambiammo.

Io, tra i fumi del vino, non solo la mia fantasia ma tutti i sensi sentivo eccitati dalla libidine, bramosi, anelanti; allora, tirandomi su la tunica fino all'inguine e mostrandole quanto impellente fosse il mio desiderio d'amore: «Per carità, Fotide mia», esclamai, «fa' presto, vedi come san tutto teso e pronto alla guerra che tu, senza por tempo in mezzo, mi hai dichiarato. Da quando Amore crudele ha trafitto il mio cuore con la sua freccia, anch'io con tutto il vigore ho teso il mio arco ed ora ho paura che il membro troppo rigido mi si spezzi.

Ma se tu vuoi veramente offrirmi proprio tutte le tue delizie, sciogli i capelli e abbracciami nell'onda delle tue chiome».


17 Non se lo fece dire due volte. In fretta sgombrò piatti e vivande, si liberò delle vesti mostrandosi tutta nuda, si sciolse i capelli con maliziosa lascivia; bella, simile a Venere quando emerse dai flutti, più per civetteria che per pudore mi nascondeva il liscio pube con le sue dita rosate.

«Vieni», mi disse, «vieni all'assalto. Ti terrò testa, sai, non ti cederò. Drizza i tuoi colpi, se sei uomo, e lotta corpo a corpo, trafiggimi, fammi morire perché anche tu morirai. È una battaglia questa che non avrà tregua».

Così dicendo entra nel letto e mi monta sopra, adagio; poi comincia a muoversi con voluttà, su e giù, veloce, inarca la schiena, vibra tutta di libidine e a me, supino, dispensa tutti i doni di Venere. Questo finché ad entrambi resse il respiro, finché non cademmo esausti, l'uno sull'altro abbracciati.

In cosiffatti assalti ci producemmo ben desti fino alle prime luci dell'alba, di volta in volta chiedendo al vino nuovo vigore, perché non scemasse in noi il desiderio e si rinnovasse il piacere.

Così volemmo che molte altre notti fossero simili a questa.

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