Copertina
Autore Antonio Apuzzo
Titolo Gentle Giant
SottotitoloI giganti del prog-rock
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2011, , pag. 152, cd, ill., cop.fle., dim. 15x21x1 cm , Isbn 978-88-6222-120-7
LettoreDavide Allodi, 2011
Classe musica
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Indice


  7 Prologo. SIMON DUPREE & THE BIG SOUND

    PRIMA PARTE: THE ADVENT

 15 Capitolo 1. LA FORMAZIONE DEL GIGANTE
 21 Capitolo 2. GENTLE GIANT: IL PRIMO DISCO
 28 Capitolo 3. ACQUIRING THE TASTE: UNA VISIONE SINFONICA
 40 Capitolo 4. LE AVVENTURE DI TRE AMICI
 47 Capitolo 5. I PRIMI TRAGUARDI

    SECONDA PARTE: PLAYING THE GLORY

 63 Capitolo 6. NELLA CASA DI VETRO
 70 Capitolo 7. THE POWER AND THE GLORY
 79 Capitolo 8. UN TOUR SENZA FINE
 87 Capitolo 9. INTERVISTA AL GIGANTE

    TERZA PARTE: THE MISSING GIANT

 99 Capitolo 10. CON L'ARRIVO DEL PUNK
103 Capitolo 11. THE MISSING PIECE
108 Capitolo 12. GIGANTI, ANCHE SOLO PER UN GIORNO
111 Capitolo 13. LA FINE DEL GIGANTE
115 Capitolo 14. LE STRADE SI SEPARANO
117 Capitolo 15. OPERE POSTUME

121 Epilogo THREE FRIENDS
123 Interviste a MALCOLM MORTIMORE, GARY GREEN E KERRY MINNEAR
129 Postfazione 1 FEBBRAIO 1972 - 24 MAGGIO 2010

    APPENDICE
133 IBRIDO HOT SIX PLAYS ACQUIRING THE TASTE
    UNA GUIDA ALL'ASCOLTO

149 NOTE


 

 

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Pagina 6

UNA VOLTA, IN UN TEMPO LONTANO LONTANO,
I GENTLE GIANT ERANO TRA LE BAND PIÙ AMATE IN ITALIA.
QUESTO LIBRO È IL RACCONTO DI QUEL TEMPO LONTANO.



PROLOGO

SIMON DUPREE & THE BIG SOUND

Per narrare le avventure sonore di un gigante è necessario un lungo passo indietro, nel tempo e nello spazio. Bisogna arrivare alla vigilia della Seconda guerra mondiale, nella città di Glasgow. Lì, il 27 agosto del 1937, nacque Phil Shulman, uno dei principali protagonisti della nostra storia. Per essere più precisi, il futuro sassofonista dei Gentle Giant mosse i primi passi tra grandi e sovraffollati caseggiati popolari, nel distretto di Gorbals.

Anni dopo, nel corso di un'intervista, Phil dimostra di conservare ancora ricordi forti e intensi della sua infanzia a Gorbals. Nelle sue memorie, il quartiere appare come un luogo difficile in cui vivere, uno dei posti peggiori sulla faccia della terra, un vero e proprio ghetto: «chiunque conosca la Gran Bretagna e Glasgow, sa benissimo cosa sia quel luogo», rammenta Phil, «è un po' l'equivalente di Watts per Los Angeles o del maledetto East Side di New York. Un posto molto duro». Ma ricorda anche, con grande affetto, quella speciale solidarietà umana che si viene a creare tra persone obbligate a condividere le stesse difficoltà. Quella di Phil è un'infanzia dura, vissuta tra le pieghe di un estenuante conflitto sociale, alimentato dalle difficili condizioni di vita della classe operaia scozzese, dalla crisi economica, dagli scioperi dei lavoratori, e da tutti i forti cambiamenti occorsi alla fine della Seconda guerra mondiale.

Glasgow, in realtà, è sempre stata una città divisa tra una massa lavoratrice — costretta a vivere ai limiti della sussistenza e del disagio — e una classe benestante, detentrice del potere economico e politico. Agli inizi del Novecento, lo spirito del comunismo trovava un terreno fertile fra i confini scozzesi. In quegli anni Glasgow venne scossa continuamente da cortei, scontri di piazza, scioperi e manifestazioni per i diritti dei lavoratori. Un'incredibile serie di riots, ben sedimentata nella memoria collettiva e ricordata tuttora. Caso emblematico fu l'esperienza del cosiddetto Red Clyde — dal nome del Clyde Workers' Committee —, assurta a simbolo della combattività scozzese nel «periodo delle grandi rivolte».

Per le strade di Gorbals, poi, le agitazioni erano acuite da una componente razziale, poiché la popolazione del quartiere era per gran parte composta da immigrati: per lo più italiani, irlandesi ed ebrei. Anche la famiglia Shulman era per metà ebrea, da parte del padre, benché i figli non abbiano mai avuto una vera e propria educazione religiosa.

Parlando delle sue esperienze formative, Phil ci tiene a sottolineare di essere cresciuto come un ragazzo ebreo con forti influenze scozzesi, culturalmente legato a una visione del mondo anticapitalista e profondamente di sinistra.

L'undici febbraio del 1947, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nasce Derek Shulman. Ma il fratello di Phil respirerà l'aria di Glasgow per un solo anno, in quanto l'intera famiglia si trasferirà in Inghilterra, a Portsmouth, dove l'otto dicembre del 1949 vedrà la luce il terzo dei fratelli Shulman: Ray.

Ray — in un'intervista del 1975 — ricorda che il padre lavorava di giorno, come commesso viaggiatore, mentre di notte suonava la tromba in un gruppo jazz. E dava anche lezioni di musica. «La nostra casa era sempre piena di musicisti».

Ed è proprio Ray, il più giovane degli Shulman, ad avere un'educazione musicale di base, con le prime lezioni di tromba (a cinque anni), quelle di violino (a sette), e infine il primo approccio con la chitarra (a dieci). «In realtà la prima idea era quella di diventare un violinista classico», ricorda ancora Ray, «ma per raggiungere questo obiettivo devi dedicarti interamente allo studio dello strumento. Così, appena si affacciò la possibilità di suonare in una band di rock'n'roll, l'idea svanì».

I tre fratelli crebbero in contesti diversi — Phil da una parte, Derek e Ray dall'altra —, separati dalle differenze d'età, ma accomunati da un'educazione piuttosto rigida.

Nella famiglia Shulman, infatti, il duro lavoro e la grande applicazione erano valori imprescindibili, che i tre osservarono con rigore e orgoglio. Per dirla in altro modo: erano tipi tosti!

Le origini ebraiche del padre non ebbero una grande influenza sui tre, anche se Derek finirà per abbracciarne la fede. Al contrario, la passione del genitore per il jazz e la sua attività musicale come semiprofessionista furono per loro decisive.

Quando Derek e Ray, ancora studenti, decidono di mettersi a suonare sul serio, hanno rispettivamente 16 e 14 anni. La loro prima band di rhythm'n'blues si chiama Howling Wolves. Coinvolgono anche Phil, nel frattempo prossimo a diventare docente, affidandogli il ruolo di manager. «Eravamo naturalmente attratti dal rhythm'n'blues», ricorda Derek, «in particolare ci piacevano i Rolling Stones».

Il gruppo, da Howling Wolves, diventa Road Runners, e matura una certa esperienza professionale con una serie di concerti in Inghilterra. Phil, su richiesta di Derek e Ray, lascia l'incarico di manager per unirsi alla band in veste di sassofonista, così da conferirle un sound più vicino a quello tipico del rhythm'n'blues.

Il gruppo ha ora bisogno di un altro manager: dopo un tentativo andato a vuoto, trovano l'uomo che cercano in John King, produttore della BBC e loro cognato.

«Ci dissero di cambiare nome alla band, e di chiamarla Simon Dupree & The Big Sound. Noi accettammo, anche se quel nome suonava alquanto falso». È il 1966: inizia così l'avventura. La formazione è composta da Simon Dupree, alias Derek Shulman alla voce, Phil Shulman ai fiati, Ray Shulman alla chitarra, Eric Hine alle tastiere, Pete O'Flaherty al basso e Tony Ransley alla batteria.

Da tutte le dichiarazioni degli Shulman su questo periodo della loro vita artistica — che va dal 1966 al 1969 — trapela un certo imbarazzo e una profonda insoddisfazione per una produzione musicale che non corrispose minimamente alle loro aspettative iniziali. Volevano essere una rock band con forti influenze rhythm'n'blues, ma la loro musica non andò mai oltre un linguaggio pop piuttosto convenzionale: basti pensare che il loro primo 45giri, I See The Light, una cover dei Five Americans in stile beat, vide la luce nello stesso anno in cui i Beatles pubblicavano il rivoluzionario REVOLVER.

Fu proprio il demo di questo brano, però, a procurargli un'audizione presso la potente EMI, la stessa casa discografica che lanciò i Beatles.

«Suonammo circa un'ora, davanti a tre produttori», rammenta Derek, «fu ridicolo e imbarazzante, ma ci offrirono un ottimo contratto».

Il repertorio della band era in gran parte composto da cover e brani di autori proposti dallo stesso John King, ma non mancavano le prime composizioni dei fratelli Shulman. Per la EMI, tra il 1966 e il 1969, il gruppo registrò un LP, WITHOUT RESERVATION (1967), e una serie di singoli, tra cui Kites (1967).

Ecco come si espresse Derek, quando John King propose al gruppo di incidere il brano: «gli dicemmo che era una cacata pazzesca e che non volevamo inciderlo perché ci consideravamo una rock band». Ma il pezzo fu inciso lo stesso, e con grande incredulità degli Shulman raggiunse un insperato ventunesimo posto nelle classifiche inglesi dei singoli più venduti.

WITHOUT RESERVATION fu registrato negli studi di Abbey Road, nello stesso periodo di SGT. PEPPER'S LONELY HEARTS CLUB BAND, con Simon Dupree & The Big Sound impegnati durante il giorno e i Beatles di notte, utilizzando la stessa strumentazione.

La band ebbe un altro involontario incontro ravvicinato con i Fab Four, nel 1968, quando incise sotto falso nome We Are The Moles, un 45giri prodotto da George Martin. Grazie a una trovata pubblicitaria della EMI, venne fuori la notizia che sotto il falso nome di Moles si sarebbero potuti nascondere proprio i Beatles. Ci pensò Syd Barrett, l'anima artistica dei primi Pink Floyd, a svelare il mistero; Derek invece ricorda ancora con un certo imbarazzo l'intera vicenda.

Nel 1968, Eric Hine fu sostituito per un breve lasso di tempo da un certo Reginald Dwight, futuro Elton John, il quale registrò con il gruppo soltanto tre brani, pubblicati dopo lo scioglimento della formazione. Tra questi spicca I'm Going Home, una delle prime canzoni firmate da una coppia destinata a diventare celebre: Elton John e Bernie Taupin.

All'interno di Simon Dupree & The Big Sound, gli Shulman ebbero comunque modo di acquisire una buona esperienza concertistica; registrarono anche diversi programmi televisivi, tra cui un documentario di trenta minuti per la serie Man Alive della BBC. Ma questo non riuscì a tamponare la crisi d'identità artistica che gli Shulman attraversavano. Derek, in particolare, era sempre più insofferente, completamente a disagio nei panni di un personaggio inesistente cui era stato dato il nome di Simon Dupree.

La musica incisa da Simon Dupree & The Big Sound svela evidenti agganci con il beat, grazie a brani quali I See The Light, Thinking About My Life, composto da Derek e Ray, e Day Time Night Time. Ascoltando questi ultimi due pezzi si viene colpiti dall'inserimento di strumenti inusuali (una scelta che tornerà spesso nella storia della famiglia) come i timpani e il corno, suonati entrambi da Phil.

Kites, il loro principale successo, e For Whom The Bell Tolls sono due ballate che si possono collocare nel solco di una certa musica psichedelica. Del resto, le nuove sonorità fornite dal mellotron (Derek ricorda che il gruppo fu tra i primi a usarlo stabilmente dal vivo), la presenza di un vibrafono, l'utilizzo di differenti effetti timbrici (quali il suono delle campane o un cinguettio di uccelli impreziosito, nel secondo brano, da un intervento di Phil alla tromba), sono le componenti originali di una visione musicale curiosa e aperta alle novità.

Anche Part Of My Paste si muove nella stessa direzione: l'impostazione soul della voce di Derek è sostenuta da un arrangiamento a base di archi, vibrafono e squilli di tromba.

Non mancano riferimenti alla musica di consumo di matrice afroamericana, nel gospel-rock di Amen e nel rhythm'n'blues di Give It All Back, né momenti al limite del demenziale (Teacher, Teacher). D'altronde, lo stesso We Are The Moles non va oltre uno stile canzonettistico che resta nel complesso piuttosto anonimo.

Sintetizzando, la loro è una musica che non propone un indirizzo ben preciso, rimanendo sostanzialmente in bilico tra un pop di consumo e timidi tentativi di seguire direzioni innovative ancora non del tutto chiare. «Sfortunatamente, ascoltavamo le opinioni di altre persone», afferma Ray, «e non eravamo sufficientemente forti, all'epoca, per controllare il nostro futuro».

Le frustrazioni degli Shulman si comprendono meglio alla luce degli eventi musicali inglesi di quel periodo. Eventi che testimoniano trasformazioni epocali, che nel giro di pochi anni segneranno una svolta profonda nell'evoluzione della musica rock, a partire dall'ultima (e decisiva) produzione discografica dei Beatles. Un aspetto che invece va sottolineato — e che si può facilmente dedurre dalle registrazioni di alcuni filmati televisivi — è la ricchezza timbrica del gruppo, evidenziata dall'eclettismo del polistrumentista Phil (sassofono tenore, tromba, corno, percussioni) e dalla notevole presenza scenica (e vocale) di Simon Dupree, alias Derek Shulman.

Proprio Derek ricorda che il gruppo dava il meglio di sé nelle esibizioni dal vivo: «noi eravamo una killer live band, ricordo bene come ci davamo dentro, eravamo veramente potenti».

Nel 1969, la band incide il primo pezzo firmato Shulman, Shulman, Shulman: si tratta di She Gave Me The Sun. Nel frattempo, Tony Ransley veniva sostituito alla batteria da Martin Smith, batterista che conosceremo meglio nello sviluppo del nostro racconto.

La situazione generale del gruppo precipita definitivamente quando partecipa a uno spettacolo itinerante: una sorta di cabaret pop, con interventi di illusionisti, mangiatori di spade e attori comici. «Iniziammo a fare cabaret, e questo fu il colpo di grazia», commenta Derek. Fu un tour massacrante, pagato bene ma letteralmente orribile dal punto di vista musicale. Cosicché i tre decisero che era arrivato il momento: rispettarono gli ultimi impegni contrattuali e infine comunicarono agli altri componenti lo scioglimento definitivo della band.

Il 1969 volge quasi al termine quando i fratelli Shulman fanno calare il sipario su Simon Dupree & The Big Sound. Giusto in tempo per iniziare una nuova ed emozionante avventura.

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CAPITOLO 1

LA FORMAZIONE DEL GIGANTE


I fratelli Shulman sono ora decisamente pronti a intraprendere una nuova direzione. Sono mossi dal profondo desiderio di creare qualcosa di totalmente diverso rispetto al passato: qualcosa che tenga in debita considerazione i reali interessi artistici dei singoli, nel contesto di una scena musicale ricca di fermenti e cambiamenti continui.

Illuminanti, in tal senso, le dichiarazioni di Phil, contenute nelle note di copertina di KING ALFRED'S COLLEGE 1971. Sono parole che fotografano la situazione degli Shulman in quei mesi: attratti da band quali i King Crimson e i Mothers of Invention di Frank Zappa, sentivano il bisogno di una «trasfusione di nuovo sangue», per alimentare una nuova vita musicale.

«In quel periodo volevamo fare qualcosa che riflettesse di più i nostri interessi musicali», dice Phil, «provavamo una certa invidia nei confronti dei gruppi che stavano emergendo in quegli anni».

Per prima cosa servivano nuovi elementi. I tre decidono di coinvolgere Martin Smith, l'ultimo batterista di Simon Dupree & The Big Sound, e si mettono alla ricerca di un tastierista e di un chitarrista.

Martin era nato il 17 dicembre del 1946, a Southampton, e prima di approdare alla corte degli Shulman, aveva suonato in contesti blues e jazz, facendosi apprezzare per le sue doti d'accompagnatore. Batterista duttile e dal tocco morbido, era perfettamente in grado di sostenere il peso ritmico della nuova formazione.

Il primo, decisivo, incontro per la creazione del nuovo gruppo si verifica all'inizio del 1970; tramite un amico entrano in contatto con un giovane pianista, Kerry Minnear (Salisbury, 2 gennaio 1948), reduce da uno sfortunato tour in Germania e senza il becco di un quattrino. Lo invitano a Portsmouth, la città che era diventata la base organizzativa del nuovo progetto, e subito percepiscono di aver incontrato il musicista che cercavano: l'uomo giusto al momento giusto.

La biografia di Kerry Minnear ci restituisce l'immagine di un artista cresciuto in un ambiente musicale. Già all'età di sette anni fu avviato – dalla madre – allo studio del pianoforte, mentre con il padre – un tenore lirico – ebbe modo di cimentarsi anche nella pratica del canto. Dopo l'esperienza come timpanista nell'orchestra scolastica, frequenta la Royal Academy of Music, dove viene indirizzato ai corsi di armonia, contrappunto e composizione: corsi che frequenterà, con profitto, per tre anni e che gli permetteranno di acquisire, e sviluppare, le più svariate tecniche compositive.

«Non era un gran posto dal punto di vista sociale», dice Kerry, «c'era troppa competizione, soprattutto nell'àmbito dei corsi strumentali più comuni, tipo violino e pianoforte». Tuttavia, per lui sono anni importanti: lo stesso Minnear ricorda che, in quel periodo, la sua formazione musicale ebbe un'accelerazione formidabile. Gli studi accademici venivano poi integrati anche da nuovi ed eccitanti ascolti: «in quei giorni ebbi modo di ascoltare dal vivo gli Yes e i King Crimson. Rimasi impressionato da entrambi. Andavo spesso anche al Ronnie Scott, perché ero interessato al jazz».

Lo studio del pianoforte, le lezioni ricevute dal padre cantante, la pratica delle percussioni e la conoscenza delle tecniche compositive tipiche della musica cólta occidentale rappresentavano il background ideale del musicista che gli Shulman andavano cercando in quel momento. Kerry, infatti, risulterà decisivo nella definizione del linguaggio musicale adottato dalla futura band.

Non fu sempre così facile. La scelta del chitarrista richiese più tempo. Derek ricorda che, solo dopo averne ascoltati quarantacinque, riuscirono finalmente a trovare l'uomo giusto: Gary Green (Stroud Green, 20 novembre 1950). Anche Gary proveniva da un ambiente familiare particolarmente aperto alla musica. Aveva avuto modo di sviluppare il suo talento chitarristico in diversi gruppi semiprofessionali, dalla chiara matrice blues. Ma allo stesso tempo si era appassionato anche al jazz, e tramite il fratello maggiore Jeff — anche lui chitarrista, con i Just Us di Elton Dean — si era avvicinato anche alle sonorità provenienti da Canterbury. Da quella città che, con i Soft Machine a fare da capofila, aveva prodotto in pochi anni una musica di grande interesse, un po' intellettuale un po' irridente, un po' psichedelica e un po' tradizionalista. Rispondendo a un annuncio pubblicato su «Melody Maker», il giovane chitarrista, non ancora ventenne, si presentò all'audizione accompagnato dal fratello Jeff, in una tipica, nuvolosa giornata londinese.

La naturale tensione crebbe quando Gary, entrando nella sala, lesse Simon Dupree & The Big Sound scritto sulla cassa della batteria. Pensò di aver sbagliato posto, convinto di avere a che fare con un gruppo pop, lontano anni luce dai suoi interessi. Ma fu presto smentito dalla musica che Ray e gli altri componenti del gruppo gli proposero.

«Ray mi sottopose a una serie di test musicali: "puoi suonare questo?". Era l'inizio di Bringing Me Down», rammenta Gary, «ma senza alcuna indicazione di tempo. Poi mi fece vedere altre cose con ritmi complicati, infine mi chiese "puoi suonare un accordo di Do6/9? La7sus4?". Alla fine, imparai una sequenza di accordi e suonammo. Quindi gli proposi di fare qualcosa che esemplificasse la loro musica, e si lanciarono in un vorticoso Giant. Mi piacque immediatamente ma non avevo nessuna idea di come inserirmi. Così scelsi di non suonare e mi concentrai sull'ascolto delle varie parti. Jeff, intanto, mi urlava nell'orecchio di provare a suonarci sopra». Gary fece del suo meglio, e sulle profetiche note di Giant entrò a far parte della band.

Un'altra figura chiave, nello sviluppo degli eventi che stiamo raccontando, è quella del manager Gerry Bron, amico degli Shulman sin dai tempi di Simon Dupree & The Big Sound. Secondo Bron, «i fratelli Shulman avevano sempre desiderato il successo. E visto quello che i Beatles e i Rolling Stones erano stati in grado di fare, anche loro volevano dimostrare di essere perfettamente capaci di creare e produrre la loro musica in modo altrettanto efficace e affascinante».

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CAPITOLO 2

GENTLE GIANT: IL PRIMO DISCO


Inciso negli studi della Trident, a Londra, nell'agosto del 1970, e pubblicato dalla Vertigo, GENTLE GIANT rivelò subito l'ampia coloritura strumentale a cui la band sapeva dare vita. Basta dare uno sguardo agli strumenti suonati da ciascun musicista, per farsene un'idea.


Gary Green – chitarre

Kerry Minnear – organo, mellotron, sintetizzatore, pianoforte, marimba, vibrafono, violoncello, basso, percussioni, voce solista e cori

Derek Shulman – voce solista e cori, basso

Phil Shulman – sax alto e tenore, tromba, flauto diritto, voce solista e cori

Ray Shulman – basso, violino, chitarra, percussioni e cori

Martin Smith – batteria e percussioni

Ospiti:

Claire Denize – violoncello

Paul Cosh – flicorno tenore

Roy Baker – tecnico del suono

Tony Visconti – produttore


Già in apertura troviamo Giant, il brano-manifesto su cui Gary si era fatto le ossa. Nell'introduzione, affidata all'organo, viene esposta una linea melodica suonata tre volte in crescendo. La prima in Fa, poi di seguito un tono sopra, fino a raggiungere la tonalità di La, con l'entrata della sezione ritmica sottolineata dagli ottavi ribattuti del basso elettrico.

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Il CD allegato, IBRIDO HOT SIX PLAYS ACQUIRING THE TASTE, propone l'ascolto delle otto composizioni tratte dal secondo lavoro discografico dei Gentle Giant, in una versione strumentale. Gianfranco Salvatore l'ha definita, sinteticamente, come una resa ben riuscita della vocazione cameristica del gruppo.

L'ensemble ha mantenuto un approccio fedele al materiale originale, scegliendo di utilizzare arrangiamenti puntuali e rigorosi, ma nello stesso tempo flessibili, aperti a inserimenti ed elaborazioni di natura improvvisativa.

La sequenza originale dei brani è stata integrata con quattro piccoli pezzi, composti da chi scrive, denominati Giant Links, pensati in chiave di collegamento, introduzione o coda. Le pagine che seguono rappresentano una guida all'ascolto, che parte dall'analisi delle strutture del disco dei Gentle Giant, impreziosita da alcune trascrizioni, per descrivere l'interpretazione dell'Ibrido Hot Six. Il testo e il disco insieme vogliono costituire un aiuto ulteriore all'approfondimento della musica del gigante gentile, oltreché un sincero tributo alla grandezza del gruppo.

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