Copertina
Autore Stefano Apuzzo
CoautoreSerena Baldini, Barbara Archetti
Titolo Lettere al di là del muro
SottotitoloDai bambini palestinesi dei campi profughi
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2008, Ecoalfabeto , pag. 168, ill., cop.fle., dim. 12x16,8x1,1 cm , Isbn 978-88-6222-046-0
LettoreSara Allodi, 2008
Classe paesi: Palestina , bambini
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Indice


Prefazione

Smontare l'iconografia del palestinese cattivo
— di Stefano Apuzzo                               5
Educare alla pace e alla convivenza
— di Gabriele Arosio                             13

Bambini, muri e campi profughi                   23

La voce dei bambini                              24
Un po' di storia                                 28
Il Muro                                          38
I campi profughi                                 43
I valori                                         55
Dalla realtà ai sogni                            60

Fotografie e disegni dalla Palestina             64


Le lettere dei bambini                           81

Un sogno (7 lettere)                             82
La vita di tutti i giorni (7 lettere)            89
La scuola (4 lettere)                            97
La paura (6 lettere)                            104
Essere profughi (14 lettere)                    111
Resistere, resistere (4 lettere)                126

Fotografie dalla Palestina                      132

Note                                            145
Bibliografia                                    155
Sitografia                                      156
Filmografia                                     157

Schede

Vento di Terra Onlus                            159
Ass. Artistico-Culturale M'Arte                 160
ProAfrica Onlus                                 162
Amici della Terra Onlus                         164

 

 

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Pagina 2

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Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons "Attribution-NonCommercial-NonDerivs 2.5", consultabile all'indirizzo http://creativecommons.org. Pertanto questo libro è libero, e può essere riprodotto e distribuito, con ogni mezzo fisico, meccanico o elettronico, a condizione che la riproduzione del testo avvenga integralmente e senza modifiche, a fini non commerciali e con attribuzione della paternità dell'opera.
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Pagina 5

Prefazione
Smontare l'iconografia
del palestinese cattivo
di Stefano Apuzzo



Decenni di filmografia americana sono riusciti a trasformare le vittime in carnefici e viceversa.

Gli Apache, gli Iroki e le altre Nazioni indiane indigene, nell'immaginario collettivo, non erano più vittime del maggior genocidio compiuto nella storia dagli europei.

No, questi popoli erano diventati, agli occhi del mondo, "i cattivi" coloro che assaltavano carovane e villaggi dei "bianchi" ("i buoni') sgozzando, stuprando e tagliando lo scalpo. Anche questa ultima gentilezza, al pari del taglio della testa, diffusa e praticata nel vecchio continente dai Celti e in Asia dagli Sciiti, diventava un marchio registrato degli "indiani" del Nord America.

Il cinema ieri e oggi la televisione riescono a stravolgere la storia e la realtà a furia di un martellamento propagandistico di messaggi semplici ed efficaci.

Al pari degli indiani d'America, riscattati dalla filmografia ufficiale e dall'immaginario collettivo dopo decenni di menzogne e falsità, oggi tocca ai palestinesi e agli arabi in generale vestire i panni dei "cattivi", dei kamikaze e dei terroristi.

Hollywood detta legge alle opinioni pubbliche mondiali.

La potenza della televisione e dei mass media – i nostri Hollywood – ha un ruolo fondamentale nella divulgazione e nello stravolgimento delle ragioni delle parti in conflitto.

Israele occupa, dal 1967, illegalmente e militarmente, i Territori Palestinesi con una politica criminale che nega i diritti umani di milioni di palestinesi e, a malapena, "tollera" i propri cittadini arabi con un evidente atteggiamento razzista nei loro confronti.

I cittadini israeliani di origine palestinese non possono essere arruolati nell'esercito e nelle forze di polizia e sono considerati, a tutti i livelli, "cittadini di serie B", da quella che è, generalmente, considerata dai media occidentali "l'unica democrazia del Medio Oriente".

Un Muro di cemento armato alto 9 metri, dichiarato illegale da tutti gli organismi internazionali, cinge, come una enorme galera a cielo aperto, tutti i Territori Palestinesi Occupati.

Gaza è una prigione ormai perennemente sotto assedio militare e senza vie d'uscita, dove oltre un milione di palestinesi vive nella disoccupazione e nella ormai cronica carenza di acqua, cibo, medicinali ed elettricità.

Lo Stato di Israele non rispetta, da decenni, le risoluzioni dell'ONU e occupa illegalmente anche la parte araba della città santa di Gerusalemme, dove ha unilateralmente spostato la propria capitale politica che prima era a Tel Aviv. Un decennio fa, la diplomazia e i mass media avevano delle remore a citare Gerusalemme come capitale (contesa) dello Stato d'Israele. Oggi, senza alcun problema, si cita la Città Santa, occupata militarmente, come capitale politica d'Israele.

Forte dell'incontrastato sostegno degli Stati Uniti d'America e spesso anche di tutte le comunità ebraiche sparse nel mondo, Israele può fare ciò che gli pare senza l'imbarazzo di pur timide condanne da parte della comunità internazionale.

Le colpe degli europei e del mondo, che durante la Seconda Guerra Mondiale, chiusero gli occhi di fronte allo sterminio nazi-fascista degli ebrei, sono oggi pagate dalla popolazione civile palestinese.

La stragrande maggioranza del popolo di Israele vive una sorta di ossessione collettiva e di militarizzazione della società contro i "nemici arabi". Un'ansia collettiva, giustificata da millenni di persecuzioni e diaspora, che va oltre la realtà contingente e la stessa presenza o convivenza con la popolazione palestinese.

In questo contesto psicologico collettivo, i palestinesi erano e sono vissuti quasi alla stregua di un mero "ingombro" sulla strada del compimento dell'agognata meta: la costituzione e il consolidamento di Israele, un Paese a cavallo tra lo Stato laico e la realizzazione mistica e teologica di un'antica scrittura sacra.

Così è fin dalla nascita dello Stato d'Israele, nel 1948, con la "Nakba"; la cacciata dei palestinesi, a suon di fucilate, terrore e massacri, dai propri villaggi e con l'inizio della massiccia colonizzazione delle terre arabe di Palestina.

Oggi ancora centinaia di migliaia di palestinesi vivono, con lo status di profughi, in campi dell'ONU alle porte di Gerusalemme, in Libano e in Giordania.

Il mondo, come durante la Shoa, si gira dall'altra parte e fa finta di non vedere e di non sapere.

La stragrande maggioranza delle comunità ebraiche mondiali, prime tra tutte quella americana, sostengono acriticamente la politica di Israele, con un senso di militanza da tifoseria. Queste comunità non rendono un buon servizio a Israele e alla sua evoluzione politica. Gli amici che sbagliano, o che eccedono nelle azioni di difesa (ad esempio i razzi Kassam che piovono su Sderot), bombardando e uccidendo i civili, devono essere criticati e aiutati a cambiare strada.

La società civile israeliana è in larga maggioranza concorde con la soluzione militare proposta da ampia parte delle forze politiche nazionali, azioni che in realtà, dal 1947 ad oggi, non hanno risolto il problema della convivenza.

Il diritto di Israele a esistere è fuori discussione. È il diritto dei palestinesi ad avere un proprio Stato e un territorio dove vivere liberi, che è stato negato fin dal 1947.

Disegnare le vittime di oggi, i civili palestinesi, come carnefici, "terroristi" e disumani uomini bomba, pronti a uccidere giovani israeliani nei pub di Tel Aviv, è operazione necessaria al protrarsi della politica di negazione totale dei diritti umani da parte di Israele e dei suoi supporter.

Se il "nemico" è disumanizzato, reso crudele e risponde alle caratteristiche del "mostro" diventa molto più semplice giustificare ogni sorta di negazione, di violazione e di sopruso nei suoi confronti.

Questo libro non partecipa al gioco dei buoni e dei cattivi. I popoli non vogliono la guerra, sono i governi e gli attivisti politici, di una parte e dell'altra, che fomentano l'odio razziale e religioso.

I coordinatori di questo lavoro ritengono addirittura che, allo stato attuale della frammentazione territoriale, sarebbe forse più giusto ipotizzare non già "due popoli, due Stati" (che ormai, con amara ironia riferita alla situazione di Gaza e al debordare di Hamas, dovremmo commutare in "due popoli, tre Stati"), bensì "due popoli, uno Stato"; ovvero una forte Confederazione israelo-palestinese.

Sarà anche utopia dal punto di vista politico, ma leggendo le mappe, con i tanti, troppi, "Bantustan" palestinesi, rischia ormai di essere l'unica strada concretamente percorribile.

Mentre la diplomazia e la politica internazionale proseguono nella loro statica condizione onirica, o peggio, complice dell'arroganza dei più forti, alcune pregevoli iniziative di costruzione della pace, della comprensione e della convivenza dal basso, offrono un'ottica positiva e ottimista sul futuro dei due popoli.

Non partecipiamo, si diceva, al gioco dei buoni e dei cattivi. L'intento di Lettere al di là del Muro è di restituire ai palestinesi, soprattutto ai bambini palestinesi, la più reale immagine di esseri umani, simili a noi.

Sono lettere di bambini che scrivono ad altri bambini. Piccoli nati dalla parte sbagliata e povera del Muro (e del mondo) che raccontano ai loro coetanei israeliani ed europei, come vivono, quali speranze hanno e che futuro immaginano per loro.

I bambini sono tutti uguali, vogliono vivere e crescere in pace, giocare, divertirsi.

Aiutiamoli a restare bambini e a non essere costretti a diventare, troppo prematuramente, dei piccoli adulti.


Vivere nel Paese che non c'è

Come si può vivere in un Paese che non esiste? Ci vuole tutta la fantasia e l'incoscienza di un bimbo. Il Paese che non c'è, invece, esiste davvero ed è popolato da almeno quattro milioni di persone, mentre altrettanti vivono dispersi nei 4 continenti: uomin, donne, bambini, am+nziani; soprattutto bambini.

Il Paese che non c'è è tutto nascosto dietro ad un alto Muro di cemento, i suoi abitanti non possono uscire e gli altri non possono entrarvi. Una volta era una terra verde ornata di ulivi centenari, ma molti di questi alberi, dal legno tortuosamente ricamato, sono stati tagliati. Nel Paese che non c'è si entra solo attraverso pochi passaggi guardati a vista dai soldati con i loro M16 a tracolla, presidiati dai metal detector, dai rilevatori di impronte digitali; circondati dal filo spinato e con le porte girevoli in acciaio.

Da quelle porte può passare solo chi ha in tasca un permesso speciale, la carta blu. Molti abitanti del Paese che non c'è hanno parenti e amici fuori dalle mura, coltivavano le terre rimaste oltre il filo spinato, ma non ci possono più andare.

I soldati non li fanno passare.

Gli abitanti del Paese che non c'è, rimasti fuori dal Paese che non c'è, sono privati della propria identità ed è vietato loro sventolare la bandiera quadricolore del Paese che non c'è.

Questo strano Paese, in bilico tra il sogno e l'incubo, ha sempre meno spazio, le terre sono requisite dai soldati, le case abbattute per ragioni di sicurezza o per fàr posto ai nuovi arrivati da fuori. Il commercio tra i villaggi è vietato, molti negozi sono stati chiusi dalle Autorità militari.

Anche i bambini che abitano, o che sono nati, nel Paese che non c'è portano il marchio indelebile di una colpa antica e ignota: la loro terra e le loro case erano state promesse, a loro insaputa, a un altro popolo. Un popolo perseguitato in terre lontane e sterminato a milioni. Un popolo che, migliaia di anni prima, viveva anch'esso nel Paese che non c'è e che oggi si è costruito un Paese tutto per sé, dove mai più nessuno potrà perseguitarlo o fargli del male. Per crudeltà del destino e della storia, però, chi abitava nel Paese che non c'è, prima di questo popolo oggi felice, è stato cacciato con la violenza dalle proprie terre e dalle proprie case e oggi vive recluso in riserve come quelle degli indiani d'America, circondati da un Muro di cemento, da filo spinato e da torrette militari.

Il mondo fa finta di non vedere come vivono i tanti abitanti che si accalcano nei villaggi del Paese che non c'è, stretti tra angherie e stenti che di frequente s'infliggono anche l'un l'altro.

E, d'altronde, come può vedersi un Paese che non c'è? Gli abitanti di questo Paese immaginato non sono né tristi né rassegnati. Nei mercati e tra le bancarelle, fanno sfoggio di mille colori e stoffe sgargianti: arancioni, terre e turchesi, i colori del magico Oriente. Tra le viuzze dei villaggi del Paese che non c'è, si respirano mille spezie profumate e incensi che si mescolano all'odore di polpette fritte e carne abbrustolita, puzzo di latrine e fogne mal funzionanti. I vestiti e la pelle s'impregnano di queste essenze forti che, tutte mischiate insieme, formano l'odore di un popolo vivo. I bambini giocano e studiano nella polvere, respirano i fumi dell'immondizia bruciata, sono quasi tutti poveri e non vanno mai in vacanza; non possono uscire dalla gabbia di cemento e se anche uscissero non saprebbero dove andare.

Quasi ogni giorno qualcuno di loro muore, perché se lanciano i sassi, i soldati di fuori sparano oppure qualche aereo senza pilota e senza cuore, ma con occhi da lince, lancia un razzo per colpire un loro parente che ha sbagliato o che aveva intenzione di fare del male a quelli di fuori.

Si sa, nelle guerre i bambini non vincono mai.

In molti villaggi del Paese che nn c'è mancano l'acqua, le medicine e, a volte, il cibo. Ma i bambini che ci abitano, le loro sorelle, i fratelli più grandi e perfino i nonni, non hanno smesso di ridere, di scherzare e di sperare.

Sperano che un giorno il mondo si accorga di loro e li liberi, che il Muro si sgretoli, come altri prima di questo e che possano avere, come tutti i bambini del mondo, una terra dove crescere e giocare.

Finalmente un Paese che c'è.

Ramallah, 10 aprile 2007

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Pagina 82

Vorrei essere un ingegnere
Samah Abu-Asab — 12 anni


Sono la studentessa Samah Abu-Asab, frequento la classe sesta A e vivo nel campo di Shu'fat. Vado a scuola tutte le mattine, partecipo con la maestra alle lezioni e gioco con le mie amiche durante la pausa. Partecipo con le mie compagne nelle pulizie della classe. Alla fine dell'orario di scuola vado direttamente a casa.

Vorrei che nel campo ci fosse la libertà e che non ci fosse l'occupazione e i posti militari di blocco.

In futuro, vorrei essere un avvocato per difendere quelli che subiscono ingiustizie e vorrei essere anche un ingegnere per ricostruire le case demolite.

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Pagina 99

L'istruzione è l'arma della libertà
Rasha Al-Dwek — 11 anni


Sono una ragazza che ha undici anni, abita in una modesta casa con i genitori e i suoi fratelli. Mi sveglio tutte le mattine per andare a scuola per studiare e accrescere la mia istruzione, sto attenta alla mia maestra e alle lezioni: l'istruzione è l'arma della libertà, un'arma per battere l'ignoranza.

Dopo la scuola vado a casa e mi cambio e metto in ordine la mia stanza per poi dare una mano a mia madre nel mettere in ordine la casa, dopo faccio i miei compiti scolastici e dopo aver finito mi prendo una piccola pausa guardando il televisore o il computer. Nel tempo libero vado a trovare mia nonna per aiutarla, così passo la mia giornata in ordine.

Per sfortuna ci sono dei problemi a casa dove vivo: le case sono attaccate l'una all'altra e questo rende difficile l'ingresso dei raggi del sole e dell'aria nelle case; il Muro mi impedisce di muovermi liberamente e l'inquinamento dell'ambiente, i fumi che si sprigionano dall'incenerimento dei rifiuti provocano malattie. Ci sono anche delle cose positive: nel mio campo ci viene offerta l'istruzione grazie alla presenza di una grande scuola, dove si arriva fino alla decima classe e non manca la merce nei negozi, per cui non ci troviamo obbligati ad andare da un'altra parte.

Vorrei che si liberasse la Palestina e tornare al mio villaggio originario. Vorrei che non ci fosse il Muro di separazione che ci isola dal resto del mondo, vorrei che casa mia fosse un ambiente non inquinato. Vorrei che ci fossero giardini e biblioteche per i miei hobby e passare il tempo con le mie amiche.

Da grande vorrei essere una guida turistica per far conoscere i luoghi archeologici del mio Paese.

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Pagina 108

Una vita senza significato
Shuruq Al Joulani — 11 anni


Quello che è successo da noi a causa dell'occupazione israeliana, distruzioni, uccisioni, violenze, ci fa paura e ci fa sentire che la vita non durerà. Qui a Shu'fat i problemi sono: l'inquinamento dell'aria, i cattivi odori degli scarichi a cielo aperto e del fumo della spazzatura bruciata, i continui litigi tra la stessa gente del campo, le uccisioni, l'assenza di posti per giocare e la mancanza di spazio a causa della densità umana del campo.

Tutto questo causa molti problemi nella nostra vita. I bambini piccoli non possono giocare perché gli spazi sono molto stretti e non ci sono giardini. I grandi fanno quel che possono per rendere più felici i piccoli, cercano di fare l'impossibile, ma anche loro soffrono di vari problemi. Sono sempre a rischio di essere uccisi. Ogni giorno ci sono uccisioni, di uomini, donne e bambini.

In questo modo noi viviamo la nostra vita quotidiana, è una vita senza significato. Vorremmo liberarci di questi problemi.

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