Autore Fernando Aramburu
Titolo Patria
EdizioneGuanda, Milano, 2017, Narratori della Fenice , pag. 640, cop.fle., dim. 14x22x4 cm , Isbn 978-88-235-1910-7
OriginalePatria
EdizioneTusquets, Barcelona, 2016
TraduttoreBruno Arpaia
LettoreGiovanna Bacci, 2017
Classe narrativa spagnola , narrativa basca , paesi: Spagna












 

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Indice


1.     Tacchi sul parquet                     7
2.     Ottobre mite                          11
3.     Con il Txato a Polloe                 15
4.     A casa di quelli                      19
5.     Trasloco al buio                      24
6.     Txato, entzun                         27
7.     Pietre nello zaino                    32
8.     Un lontano episodio                   36
9.     Rosso                                 40
10.    Telefonate                            44

       [...]

116.   Salone arabo                         576
117.   Il figlio invisibile                 582
118.   Visita non annunciata                588
119.   Pazienza                             592
120.   La ragazza di Ondàrroa               597
121.   Conversazioni in parlatorio          604
122.   La tua prigione, la mia prigione     609
123.   Chiudere il cerchio                  614
124.   Bagnata                              618
125.   Domenica mattina                     622


Glossario                                   627


 

 

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Pagina 7

1
Tacchi sul parquet



Eccola lì, la poverina. Va a infrangersi su di lui. Come s'infrange un'onda sugli scogli. Un po' di schiuma e ciao. Non vede che non si prende nemmeno la briga di aprirle la portiera? Sottomessa, più che sottomessa.

E quelle scarpe con i tacchi e quelle labbra rosse a quarantacinque anni? Con la tua classe, figlia mia, con la tua posizione e i tuoi studi, cos'è che ti fa comportare come un'adolescente? Se l' aita fosse vivo...

Al momento di salire in macchina, Nerea rivolse lo sguardo alla finestra; immaginò che, dietro la tenda, sua madre la stesse come al solito osservando. E sì, anche se lei dalla strada non poteva vederla, Bittorí la stava guardando con tristezza e con le sopracciglia aggrottate, e parlava da sola e sussurrò eccola lì, la poverina, solo un ornamento di quel vanitoso a cui non è mai passato per la testa di far felice qualcuno. Non si rende conto che una donna dev'essere proprio disperata per cercare di sedurre il marito dopo dodici anni di matrimonio? In fondo è meglio che non abbiano avuto figli.

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Pagina 32

7
Pietre nello zaino



Mise la bici in cucina. È leggera, da corsa. Un giorno qualunque, Miren, davanti a una montagna di piatti da lavare:

«Per quel giocattolino di lusso i soldi ce li hai, eh?»

Risposta di Joxian:

«Sì, e allora? Ce li ho, va bene? E ho anche lavorato tutta la vita come un mulo, cazzo».

La porta dentro senza difficoltà, senza urtare le pareti, dalla cantina. Meno male che viviamo al piano terra. Se la mette in spalla come quando da giovane partecipava alle gare di ciclocross. Ed erano le sette del mattino ed era domenica. Lui avrebbe giurato di non aver fatto rumore. Eppure Miren era li, seduta al tavolo, in camicia da notte, ad aspettarlo con un'espressione di rimprovero.

«Si può sapere cosa ci fai con la bici in casa? Vuoi sporcarmi il pavimento?»

«Prima di uscire devo aggiustare il freno e passare lo straccio.»

«E perché non la pulisci in strada?»

«Cazzo, perché non si vede quasi niente e fa un freddo becco. E tu perché sei alzata a quest'ora?»

Due notti di seguito in bianco e non c'era bisogno di dirlo. Lo spiattellavano le occhiaie. Il motivo? La luce tra le stecche delle persiane, a casa di quelli là. Non solo venerdì, anche ieri e, sai cosa ti dico?, d'ora in avanti tutti i giorni. In modo che poi dicano che le povere vittime eccetera eccetera e che noi andiamo a spasso belli sorridenti accanto a loro. La luce, la tapparella, la gente che aveva visto Bittori per la strada e non aveva avuto idea migliore che venire a raccontarglielo, le avevano portato vecchi pensieri, brutti pensieri, ma brutti-brutti.

«Nostro figlio ci ha reso la vita difficile.»

«Sì, così, invece, appena ti sentono in paese ce la rendono facile.»

«Lo dico a te. Altrimenti con chi parlo?»

«Con l' abertzale che sei diventata. Sempre la prima, quella che strilla di più, la rivoluzionaria dei miei coglioni. E quando nel parlatorio del carcere mi veniva da piangere, arrivava il cazziatone. Non fare il mollaccione» le faceva il verso, «non piangere davanti al ragazzo, che me lo deprimi.»

Molti anni prima, quanti?, più di venti, avevano cominciato a sospettare, a scoprire, a capire. Arantxa, un giorno, in cucina: «Su, su. Tutti quei manifesti alle pareti della sua camera. E la statuetta di legno che teneva sul comodino, quella con il serpente attorcigliato all'ascia, cos'è? »

Un pomeriggio, Miren era arrivata a casa inquieta/contrariata. Avevano visto Joxe Mari a una manifestazione in strada a San Sebastián. Chi lo aveva visto?

«E chi dev'essere? Bittori e io. O pensi che esco con qualcuno?»

«Va bene, calmati. È giovane, ha il sangue caldo. Gli passerà.»

Miren, sorsi da una tisana di tiglio che si era preparata in tutta fretta, aveva invocato sant'Ignazio chiedendo protezione e consiglio. E mentre puliva uno spicchio d'aglio per infilarlo nella pancia di un pagello, si era fatta il segno della croce senza mollare il coltello. Durante la cena non aveva smesso di monologare davanti alla famiglia muta, paventando guai seri, attribuendo l'andazzo di Joxe Mari all'influenza delle cattive compagnie. Dava la colpa al figlio della Manoli, a quello del macellaio, a tutta la combriccola.

«È diventato uno sciamannato, con quell'aria e quell'orecchino che mi dà ai nervi. Si copriva la bocca con un fazzoletto.»

A quell'epoca, Bittori e lei erano amiche? Di più, sorelle. Qualsiasi cosa si dica è poco. Si erano quasi fatte suore insieme, però era comparso Joxian, però era comparso il Txato, coppia al tavolo da gioco al bar, amici di cene, in genere al sabato, del circolo gastronomico e di biciclettate domenicali. Ed entrambe si erano sposate in bianco nella chiesa del paese, con aurresku all'uscita, una in giugno, l'altra in luglio dello stesso anno, il '63. Due domeniche di cielo azzurro come se l'avessero ordinato per l'occasione. E si erano reciprocamente invitate. Miren e Joxian avevano organizzato il banchetto in una sidreria che non era male, va detta la verità, alla periferia del paese; però, insomma, economica e con un odore campagnolo di erba falciata e di sterco di vacca; Bittori e il Txato in un ristorante raffinato con camerieri in abito nero, perché al Txato, che da bambino girava per il paese con delle espadrillas scucite, le cose andavano bene con l'impresa di trasporti che aveva fondato.

Miren e Joxian avevano passato la luna di miele a Madrid (quattro giorni, pensione economica a poca distanza da plaza Mayor); Bittori e il Txato, dopo un soggiorno iniziale a Roma, con saluto del nuovo papa alla folla, avevano visitato diverse città italiane. Miren, mentre ascoltava dalle labbra dell'amica il racconto del viaggio:

«Si vede che hai sposato uno ricco».

«Non me ne sono neanche accorta. Siccome l'ho sposato per le orecchie...»

Il pomeriggio degli scontri, le due amiche venivano da una churreria della città Vecchia di San Sebastián. Si erano fermate all'imbocco di una via che dava sul Bulevar. Un autobus bruciava in mezzo alla strada. Il fumo nero si sfregava contro la facciata di un palazzo, nascondeva le finestre. Avevano picchiato l'autista. Il tipo era lì, cinquanta, cinquantacinque anni, seduto a terra, il volto insanguinato, la bocca aperta come se non riuscisse a respirare, e accanto a lui due passanti che lo accudivano e lo consolavano, e un ertzaina che, a giudicare dai gesti, stava dicendo che non potevano rimanere lì.

Bittori:

«Ci sono tafferugli».

Lei:

«Meglio che prendiamo calle Oquendo e facciamo una deviazione fino alla fermata dell'autobus».

Prima di girare l'angolo si erano voltate a guardare. In fondo si scorgeva una fila di furgoni della Ertzaintza, parcheggiati accanto al Municipio. Gli agenti, caschi rossi, volti coperti con i passamontagna, avevano preso posizione. Sparavano proiettili di gomma ai ragazzi ammassati di fronte a loro, che li insultavano lanciando in coro l'abituale repertorio: sbirri, assassini, figli di puttana, a volte in euskera, altre in castigliano.

E l'autobus continuava a bruciare stoicamente nel bel mezzo della battaglia di strada. E il fumo nero. E l'odore di gomma bruciata, che si propagava nelle strade vicine, feriva le mucose, pizzicava negli occhi. Miren e Bittori avevano sentito alcuni passanti lamentarsi a bassa voce: gli autobus li paghiamo tutti; se questo è difendere i diritti del popolo, chiudi il gas e andiamocene. Una moglie aveva detto al marito:

«Zitto che ti sentono».

All'improvviso l'avevano visto, uno fra i tanti incappucciati, la bocca coperta da un fazzoletto. Uh, Joxe Mari. Cosa ci fa lì? Per poco Miren non lo chiama. Il ragazzo era uscito dalla città Vecchia lungo la stessa via da cui erano uscite loro pochi minuti prima. Si erano fermati in sei o sette, anche il figlio del macellaio e quello della Manoli, all'angolo della pescheria. E Joxe Mari era uno di quelli che correva con uno zaino fra le braccia. Li avevano depositati sul marciapiede, e tutti loro, più altri che si erano avvicinati, allungavano la mano per prendere Miren non sapeva cosa. Bittori aveva una buona vista, glielo aveva detto: pietre. E sì, erano pietre. Le tiravano con tutte le loro forze agli ertzainas.

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12
Il muro



Costruirono il muro. Chi? Joxian, Gorka, che aveva promesso di portare un amico che poi non era venuto, e Guillermo (Guillermo!), a quei tempi un genero ancora simpatico e collaborativo.

Anni prima, Arantxa, in cucina:

«Ama, ho un fidanzato ».

«Ah, sì? Qualcuno del paese?»

«Vive a Renteria.»

«E come si chiama?»

«Guillermo.»

«Guillermo! Non sarà mica una guardia civile?»

Però, senza l'aiuto del Txato non ci sarebbero riusciti. Col cazzo che ci sarebbero riusciti! Il fatto è che il Txato, oltre a prestargli i casseri, gli procurò una betoniera che Joxian non seppe quanto fosse costata né se l'operaio che la manovrava fosse stato pagato o no. Il Txato gli disse: stai tranquillo, l'impresa di costruzioni mi deve dei favori. Così Joxian dovette pagare soltanto il cemento. Non aveva ancora finito di ripulire l'orto e non aveva sistemato il casotto e già gli rallegrava gli occhi un muro di cinta fiammante a prova di piena, almeno, secondo il Txato, di piene come quella del mese prima.

Un problema: davanti al muro c'era un avvallamento in cui c'entrava uno stagno con i pesci. La storia dei pesci l'aveva detta Joxian soppesandone in aria uno immaginario della grandezza di un tonno. L'altro: bah, si poteva risolvere. Il Txato mantenne la promessa fatta al Pagoeta. Ci mise un po' a mantenerla. Quanto? Be', un paio di settimane. Finché non gli spuntò fuori un viaggio a Andosilla, in Navarra. Al ritorno, ordinò all'autista di portare un carico di terra coltivabile. A quanto pareva, gli dovevano dei favori anche in Navarra. Al Txato molta gente doveva dei favori. E Joxian, naturalmente, riconoscente. E se bisogna pagare, si paga.

Altro problema: scaricarono la terra, il Txato al volante, la terra di una tonalità più rossastra di quella della zona, a quanto pareva buona per i vitigni, e si accorsero che la quantità trasportata non bastava per riempire l'avvallamento.

Joxian:

«Ci vorrebbero almeno altri tre camion».

Soluzione: terrazzare il terreno.

«Dividi l'orto in due livelli, collegati da qualche gradino o da una rampa per la carriola. Così, se si ripete l'inondazione, l'acqua si raccoglie nella parte bassa del terreno. Con un po' di fortuna, ti rovina soltanto metà dell'orto e non tutto come stavolta.»

Il Txato era veloce a pensare, aveva idee. Su questo erano tutti d'accordo. Gli stava bene il vecchio elogio: più furbo della fame. Joxian, invece, mancava di agilità mentale. Le cose come stanno. Se fosse stato più sveglio avrebbe potuto essere socio nell'affare dei camion; ma esitava, gli mancava slancio, Miren l'aveva dissuaso. Intraprendente e coraggioso, il Txato. In paese lo dicevano tutti finché dalla sera alla mattina, TXATO ENTZUN PIM PAM PUM, smisero di fare il suo nome nelle conversazioni, come se non fosse mai esistito.

Sì, aveva idee e aveva anche un problema. Quale? Questo:

«Mi hanno mandato un'altra lettera ».


ETA, organizzazione armata per la rivoluzione basca, si rivolge a lei per reclamare la consegna di venticinque milioni di pesetas a titolo di contributo per il mantenimento della struttura armata necessaria nel processo rivoluzionario basco verso l'indipendenza e il socialismo. Secondo i dati in possesso dei servizi d'informazione dell'organizzazione, eccetera.


La faccenda gli toglieva il sonno. Joxian: era normale, a chi non lo avrebbe tolto?

«E la famiglia?»

«Non lo sa.»

«Meglio.»

Per risparmiarle gli incubi e perché all'inizio, che ingenuo, ma che ingenuo, aveva pensato che il problema fosse di rapida soluzione, come se si trattasse di un semplice affare. Pago e sono tranquillo. Le lettere, firmate con il serpente avvolto sull'ascia e con i simboli dell'ETA, gliele avevano mandate alla ditta. La prima: 1.600.000 pesetas. Senza dire nulla a nessuno, era salito in macchina ed era andato all'appuntamento in Francia con il Signor Oxia di turno. Era tornato in paese sollevato, ascoltando la musica in autostrada. Una bastardata, ma cosa vuoi. Giorni dopo c'era stato un attentato con un morto, vedova desolata, orfani e dichiarazioni di netta condanna, e il Txato aveva sentito una fitta di colpa, porco diavolo, pensando che i suoi soldi potevano essere serviti per finanziare esplosivi e pistole, e Joxian aveva detto che sì, che lo capiva. Però, insomma, lui aveva pagato e aveva creduto che per un periodo, magari per qualche anno, l'avrebbero lasciato in pace. Sì, come no. Non erano trascorsi nemmeno quattro mesi quando gli era arrivata la seconda lettera.

«Adesso mi chiedono venticinque milioni. È tanto, è uno sproposito.»

Joxian, solidale:

«Queste cose, tra baschi, non dovrebbero succedere».

«Dimmi la verità, ho la faccia di uno sfruttatore? Per tutta la vita non ho fatto altro che lavorare come un bue e dare lavoro. Adesso ho quattordici dipendenti. Cosa faccio? Porto la ditta a Logroño e li lascio a piedi, senza stipendio, né previdenza, né un cazzo?»

«Magari si sono sbagliati e ti hanno mandato una lettera che era per qualcun altro.»

«Non sono povero, quello no. Tra le spese, le tasse dello Stato, e adesso le tasse di questi qua e altre cose che non ti dico per non romperti le scatole, ma te lo puoi immaginare: riparazioni, combustibile, crediti pendenti e stronzate varie, alla fine non credere che navigo nell'oro. Che cazzo devo navigare! Io non so la gente cosa crede. Ho ancora la stessa macchina di dieci anni fa. Alcuni camion si sono fatti vecchi, ma dove li prendo i soldi per altri nuovi? Poco tempo fa ho chiesto un credito per comprarne due. E quello che mi fa più male è che qualcuno di quelli a cui do lavoro sarà andato dai terroristi a raccontargli: lo sai, questo qua è pieno di grana.»

Scuoteva la testa, nervoso, la faccia con le occhiaie per quanto dormiva male.

«Ma non è per me, occhio. A me quella banda di assassini non mi fa paura. Che mi sparino un colpo e pace. Morto, ma in pace. Nella lettera citano Nerea e il posto dove studia e altri particolari.»

«Cazzo.»

«È questo che mi distrugge. Tu cosa faresti?»

Joxian si era grattato la nuca prima di rispondere.

«Non lo so.»

Erano all'ombra del fico, fumavano, e c'era bel tempo e su un sasso una lucertola prendeva il sole. Il camion, in mezzo all'orto, con le ruote semiaffondate nella terra molle. E dall'altra parte del fiume arrivava il costante ciac-ciac di qualche macchina dell'officina degli Arrizabalaga.

«Tu credi che paghino anche loro?»

«Chi?»

«Gli Arrizabalaga.»

Joxian si strinse nelle spalle.

«Ci sono soltanto tre opzioni. Paghi, emigri o te la giochi. Quello che non mi entra in testa è perché si accaniscono con me dopo che ho pagato quello che mi hanno chiesto e senza farli aspettare.»

«Io di queste cose non ne capisco, però per me c'è stato un equivoco.»

«Ti ho già detto che fanno il nome di Nerea.»

«Magari ti hanno mandato senza rendersene conto la lettera dell'anno prossimo.»

Ciac-ciac. Il Txato, dopo aver gettato il mozzicone a terra e averlo schiacciato:

«Posso chiederti un piacere?»

«Certo, quello che vuoi.»

«Vedi, ci ho pensato. Mi converrebbe parlare con loro, con qualche capo o con il responsabile delle loro finanze, e chiarire la mia situazione. Il prete con cui mi sono incontrato è soltanto un intermediario. Magari abbassano la cifra richiesta o mi fanno pagare a rate, capisci?»

«Mi sembra una buona idea.»

Ciac-ciac. Si sentivano anche degli uccelli e il mormorio dei motori delle auto e dei camion che attraversavano il ponte vicino.

«Ho bisogno di parlare con Joxe Mari. E questo il piacere che ti chiedo.»

Joxian, con aria sorpresa:

«Cosa c'entra mio figlio con tutto questo?»

«Ho bisogno di qualcuno che mi procuri un contatto.»

«Joxe Mari non è mica dell'ETA. Macché. E poi è via. Dove? Be', non lo sappiamo. Joxe Mari è un deficiente e un fannullone. Ha lasciato il lavoro e Miren dice che se la sarà svignata per andare in giro per il mondo con gli amici. Magari adesso sarà in America.»

Ciac-ciac-ciac.

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23
Corda invisibile



Pensò che sono solo cinque minuti. Scendo e torno su. Si era informato prima sull'ora del suo arrivo. E quando era ormai sul punto di entrare nel corridoio che conduce alla sala di fisioterapia, da dietro lo chiamò Itziar Ulacia. La dottoressa era allarmata e agitava le braccia come per dargli l'alt. Si conoscono, si danno del tu.

«Ti avverto che oggi non l'accompagna la badante, ma la madre. Vedi tu.»

Xabier la ringraziò e se ne tornò da dove era venuto. Il giorno dopo, più o meno alla stessa ora, la dottoressa Ulacia lo chiamò al cellulare. Se voleva vedere Arantxa poteva scendere tranquillamente, perché stavolta era venuta con Celeste.

«Con chi?»

«Con la badante ecuadoriana.»

Stavolta Xabier non era deciso come il giorno prima. Vado, non vado? Da una parte, sua madre andava in paese tutti i giorni, scendeva dall'autobus in una via del centro, entrava nei negozi; in una parola, si mostrava. E adesso io prendo e approfitto delle sedute di fisioterapia per avvicinarmi alla figlia. Poi lei lo racconterà a casa. Con l'iPad comunica senza problemi. Cosa penseranno i suoi? Magari gli verrà il sospetto che abbiamo elaborato un piano per tormentarli e prenderci qualche tipo di vendetta.

La compassione tirava forte Xabier, una corda invisibile che aveva annodata al collo. Non negarlo. Ti fa pena perché è intimamente parte del tuo passato. Non ti starai autocommiserando per interposta persona, vero? Parlava con sé stesso senza rendersi conto di attirare l'attenzione. Due camici bianchi che l'avevano incrociato lo interruppero sorpresi. Se c'era qualche problema. No, niente. E cercò, anche se aveva del lavoro da sbrigare, un po' di solitudine nel suo studio.

Caldo. Sbottonati i bottoni superiori della camicia, tentò di allentare la corda che stringeva sempre di più, ma fu inutile. La corda non smetteva di tirarlo, ora con forza, ora dolcemente, e alla fine non gli rimase altra scelta che lasciarsi trascinare. Sembra impossibile: tutto il giorno fra corpi malridotti, corpi spesso agonizzanti, corpi senza speranza, corpi con le ore contate, madri di due o tre figli che non sarebbero arrivate vive al prossimo Natale, ragazzi (per lo più motociclisti) designati dalla morte nel fiore degli anni, tutta quella carne con nomi e cognomi che ben presto si sarebbero potuti leggere nei necrologi dei giornali, e lui lì, immune alla compassione, che conserva la calma, che consola austero, professionale, parenti desolati, che esercita la sua professione (sii giusto, sii onesto, sii integro) con la maggiore diligenza possibile. Eppure adesso provava una sensazione diversa, anche se non aveva alcuna responsabilità medica nei confronti di Arantxa. O era per quello, perché non gli era dato stabilire con lei lo stesso rapporto che aveva con un paziente qualunque, che il caso gli aveva suscitato una così profonda impressione? La domanda rimase ad aleggiare nell'aria, alla luce pallida dei neon. Per una risposta non ci fu tempo, perché era già uscito dall'ascensore e si era addentrato, con il passo svelto che gli imponeva lo strattone incessante della corda, nel reparto di riabilitazione.

In fondo al corridoio, seduta su una panca addossata alla parete, scorse l'ecuadoriana. La donna bassina, dai lineamenti andini, sorvegliava la sedia a rotelle. Quando il dottore le arrivò accanto, lei si alzò rapidamente in piedi e lo salutò con una leggera riverenza. Xabier rispose ieratico, cerimonioso, evitando di guardarla in viso. Ed entrò. Due giovani fisioterapiste scherzavano con un bambino di dieci o dodici anni. Legato con delle cinghie a una barella, l'avevano messo in posizione verticale. Xabier ipotizzò con occhio clinico: citomegalovirus. Salutò e fu salutato, il bambino lo guardò con gli occhi ingranditi dietro gli occhiali, e un po' più in là Xabier vide Arantxa prima che lei vedesse lui, stesa su una barella. La ragazza che la assisteva fece un gesto come per indicargli che era stata avvisata della sua visita. Faceva con la paziente un esercizio leggero di allungamento e contrazione di un ginocchio. E Xabier, via via che si avvicinava, notò: ipertonia, obesità. Vista di profilo, i capelli corti, non riuscì a riconoscerla a prima vista. Dopo sì, quando si mise di lato alla barella e poté osservare da vicino i suoi lineamenti. Forse per mitigare l'effetto sorpresa, la fisioterapista ebbe l'accortezza di annunciare ad Arantxa, in tono disinvolto, il suo arrivo.

«Hai visite dalle alte sfere.»

Xabier attese la reazione di Arantxa prima di tenderle la mano. Il primo secondo fu di stupore, forse di paura. Poi lei gli regalò un sorriso, frutto di una brusca contrazione del viso. Nella parte destra del corpo disponeva di un'accettabile mobilità. Strinse la mano di lui con la sua da quel lato. Poi fece una smorfia che Xabier non seppe interpretare.

«Come stai?»

Arantxa, stesa, scosse la testa, mentre con le labbra disegnava una parola alla quale la fisioterapista diede voce:

«Rovinata».

Lui, goffo, inibito, senza fluidità di parola: gli dispiaceva molto per quello che le era successo, la dottoressa Ulacia lo aveva messo al corrente. Arantxa lo ascoltava con gioia, con un'espressione di innegabile fascinazione, come se non riuscisse a credere che quel signore educato e in camice bianco che aveva davanti fosse Xabier.

«Ti trattano bene?»

Annuì.

Xabier rivolse alla fisioterapista una domanda di circostanza sull'esercizio che stava svolgendo con la paziente, e mentre lei forniva le opportune spiegazioni, Arantxa cercava di dire qualcosa e scuoteva la mano sana. All'inizio non la capivano; però una delle fisioterapiste che si stavano occupando del bambino a pochi metri di distanza si accorse che Arantxa stava chiedendo il suo iPad e, uscendo in corridoio, pregò la donna ecuadoriana di portarlo. Sollevata sulla barella, Arantxa tolse la cover e scrisse con dito agile: «Mi sei sempre piaciuto, bastardo».

E sorrideva con tutta la forza dei suoi muscoli facciali. Le si formò un grumo di saliva all'angolo delle labbra. Sembrava così felice, aveva un'aria così allegra. Perciò, ora o mai più, Xabier tirò fuori dalla tasca del camice il braccialetto di bigiotteria; prese la mano destra di Arantxa, come se le stesse sentendo il polso, e glielo infilò.

«Te l'ho conservato per tutti questi anni. Per favore, non restituirmelo mai.»

Rimase a guardarlo per un po', seria, prima di scrivere: «Cosa aspetti a darmi un bacio?» La baciò sulla guancia. Poi le disse che doveva andarsene, che le faceva i suoi migliori auguri e le rivolse altre parole di cortesia. Arantxa gli chiese a gesti di aspettare un momento. Scrisse, picchiettando con il dito sulla tastiera, e gli mostrò lo schermo: «Se ti viene un ictus ci sposiamo».

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38
Libri



A Gorka, negli anni in cui si era allungato, era venuta la mania della solitudine. I suoi fratelli in casa si vedevano poco; lui usciva soltanto per andare all' ikastola. Il motivo? I libri o, come diceva il padre con solchi cavillosi sulla fronte, quei maledetti libri. Il ragazzo aveva contratto la febbre della lettura.

Nei genitori cresceva la preoccupazione. Non esattamente a causa dei libri. E allora? Per le tante ore di reclusione nella stanza, anche il sabato e la domenica, spesso finché non arrivava Joxe Mari e gli ordinava di spegnere la lampada. Figlio strano, mormoravano. E Joxian:

«Che peccato che non abbia una finestrella nella testa per guardarci dentro».

Di notte, a letto, marito e moglie parlavano a bassa voce.

«È uscito?»

«Macché! È rimasto tutto il pomeriggio a leggere.»

«Avrà qualche esame.»

«Gliel'ho domandato e dice di no.»

«Quei maledetti libri.»

Una mattina, in cucina, in piedi davanti a lui, sua madre rimase a osservarlo mentre il ragazzo faceva colazione. Curvo sulla tazza, i capelli unti, le mani ossute, acne. Miren si mordeva la lingua, ma alla fine dovette dirglielo.

«Senti, non è che hai problemi psicologici?»

Quattordici anni. I suoi amici venivano a prenderlo e lui non usciva nemmeno a salutarli. Cosa gli succedeva, era malato o era arrabbiato con loro? Con il tempo avevano smesso di venire. E Joxian si angustiava.

«Porco diavolo. 'Sto figlio.»

Gli si avvicinava. Gli metteva una mano affettuosa sulla spalla. Gli offriva duecento, trecento pesetas.

«Dai, vai a divertirti.»

«Aita, non posso.»

«Chi te lo impedisce?»

«Non lo vedi che sto leggendo?»

«Dai, ti lascio fumare.»

«No, aita. Non insistere.»

A volte Joxian, tra il curioso e il solidale, gli domandava:

«Cosa leggi?»

«È di uno scrittore russo. Parla di uno studente che ha ucciso due donne con un'ascia.»

Joxian usciva dalla stanza confuso, preoccupato. Quattordici anni, tutto il giorno in casa come un monaco. È normale? Così pensando, si fermava in corridoio, fissava uno sguardo indagatore su un oggetto, non importava quale: sull'immaginetta di Ignazio di Loyola, sull'armadio a muro, su un battiporta, su qualunque cosa gli risultasse comprensibile a prima vista, e per qualche istante cercava nell'oggetto non sapeva bene cosa, un ordine, una risposta, una spiegazione a ciò che non capiva. Finché non arrivava al Pagoeta, non gli si cancellava dai pensieri l'immagine di Gorka chino sul libro, su quel maledetto libro.

La sera, a Miren, a letto:

«O è molto intelligente o è stupido. Non so da chi ha preso».

«Se è stupido, da te.»

«Parlo sul serio.»

«Anch'io.»

E si dà il caso che poi a scuola prendeva voti mediocri. Certo, non così bassi come quelli di Joxe Mari nei suoi anni da liceale. Joxe Mari e lo sport, sì; Joxe Mari e il lavoro manuale, anche; però Joxe Mari e lo studio (gli era successa la stessa cosa più tardi con le materie teoriche dell'azienda metalmeccanica dove aveva fatto l'apprendistato) erano come l'acqua e l'olio, il che non gli impediva di prendere in giro Gorka.

«Dai, non ci credo. Tutto 'sto tempo sui libri per poi essere promosso in matematica e inglese per culo?»

Era stata Arantxa a trasmettere al fratello minore la passione per la lettura. Come mai? È che di tanto in tanto, per il compleanno, per l'onomastico, per Natale o perché le andava, gli regalava fumetti; passati gli anni, qualche libro. Cosa, a proposito, che aveva fatto anche con Joxe Mari, ma senza risultati. Qui, secondo Arantxa, ci stava bene la famosa parabola del seme e della terra arida e di quella fertile. Joxe Mari era un deserto intellettuale. In Gorka, terreno propizio, era germinata la passione per la lettura.

C'è dell'altro. Ad Arantxa, quando Gorka era piccolo e lei appena una bambina di nove o dieci anni, piaceva leggere a voce alta al fratello, tutti e due seduti a terra, oppure lui a letto e lei al suo fianco, racconti tradizionali; anche storie illustrate della Bibbia in versione infantile.

Nel periodo in cui il bambino si stava riprendendo dall'incidente con il furgoncino, Arantxa aveva preso l'abitudine di andare alla biblioteca municipale alla ricerca di letture per lui. Allora Gorka già leggeva per conto suo, bisbigliando le parole, e cominciava ad avere gusti precisi: Jules Verne, Salgari, ben presto i romanzi di guerra di Sven Hassel, poi altri di spie e detective, tutti in edizioni economiche tascabili.

In seguito, senza dirlo ai genitori, a che scopo?, Arantxa gli aveva prestato i suoi libri, una trentina che conservava in una scatola di cartone, in cima all'armadio. Soprattutto romanzi d'amore, oltre a un Guerra e pace in versione abbreviata, Fortunata e Giacinta e sei o sette di Álvaro de Laiglesia che Gorka non aveva gradito quanto lei, eppure li aveva letti con piacere.

E quando i genitori cominciarono a rimproverarlo perché rimaneva in casa a leggere invece di uscire a divertirsi con gli amici, Arantxa gli disse, quando erano soli, con voce misteriosa, di non starli a sentire.

«Leggi tutto quello che puoi. Accumula cultura. Più ne metti insieme, meglio è. Per non cadere nel buco in cui stanno cadendo in molti in questo paese.»

Buco o no, Gorka si dedicava alla lettura con passione e Joxe Mari, quando lo vedeva con un libro in mano, lo prendeva in giro:

«Ehi, già che ci sei, potresti leggermi le linee della mano?»

Una sera, ognuno nel suo letto, gli parlò con asprezza:

«Sarebbe meglio che la smettessi con i romanzi e ti unissi alla lotta per la liberazione di Euskal Herria. Domani alle sette c'è manifestazione. Spero che ci sarai. Alcuni amici miei mi hanno già domandato dove ti nascondi. Quelli della tua comitiva ci mettono la faccia, ma a te non ti si vede nemmeno. Cosa gli dico? No, è che è diventato delicato e passa la giornata a leggere. Domani alle sette voglio vederti in piazza».

E Gorka andò, che altro poteva fare? A farsi vedere. Salutò questo, salutò quell'altro e Joxe Mari, che era uno di quelli che reggeva lo striscione alla testa del corteo, gli fece l'occhiolino. Gorka, confuso tra la massa di ragazzi, urlò slogan con moderato entusiasmo. Allo stesso modo, pugno in alto, cantò l' Eusko Gudariak. Alle otto era già a casa a leggere.

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Turno pomeridiano



Tutto il santo giorno a piovere e gli toccava lavorare di pomeriggio. Sul punto di uscire per andare in fonderia, si affacciò alla finestra. Cielo coperto, la strada bagnata, poco traffico e un'unica nuvola che occupava tutto il cielo, così bassa che a tratti s'impigliava nel parafulmini della chiesa.

Joxian non aveva mai avuto la macchina, e nemmeno la patente. Al lavoro ci andava a piedi o in bici. Non la bici buona, ovvio. Nei giorni feriali ne usava una vecchia che non c'era bisogno di asciugare con cura, con una cesta dietro e il parafango. Miren lo avvertì che avrebbe fatto tardi. Macché tardi se mancava ancora mezz'ora. Le disse che era un'ansiosa. Bacio di saluto? Non ne avevano l'abitudine. Nell'ingresso si fermò davanti all'armadio a muro. Dilemma: impermeabile tipo poncho o ombrello. Il primo significava bici; il secondo, venti minuti di cammino in discesa fino alla fonderia. Scelse l'ombrello.

E partì, poca gente in strada, timbrò e come ogni giorno si mise la tuta, gli scarponi, i guanti, il casco, ed entrò nel calore del capannone buio. Pur senza essere al corrente dei segreti degli affari, lo notava. Prima si produceva di più, c'erano più ordini, l'organico era più numeroso. Gli rimanevano pochi anni prima della pensione. La sua lunga esperienza come operatore alla fornace lo rendeva un po' meno che insostituibile, o almeno così credeva. Un futuro peggiore aspettava i giovani se, come si diceva, i proprietari avessero chiuso l'azienda. Lui, in fin dei conti, aveva i figli già adulti e la pensione assicurata.

A metà pomeriggio un camionista portò la notizia. Più esattamente un brandello di notizia che aveva appena ascoltato alla radio mentre guidava. Fatto, ora, luogo. Dettagli? Pochi e vaghi. L'unica cosa sicura: che verso le quattro avevano sparato a una persona in una via centrale del paese. Non era chiaro se la vittima era morta.

A Joxian lo raccontarono quando era uscito a fumare. Domandò:

«Un poliziotto?»

«Neanche la più pallida idea.»

«Be', lo verremo a sapere.»

Terminata la giornata di lavoro, Joxian tornò a casa. Ogni giorno mi stanco di più. Gli anni, che non passano invano. Diceva/pensava frasi comuni per le strade deserte. I turni di mattina gli risultavano meno faticosi. Uno esce dal lavoro con il piacere delle ore libere che ha davanti, con l'incentivo del mus, degli amici, di qualche partita di pelota prima di andare a letto. Adesso, invece, non aveva altra scelta che cenare senza voglia con il pesce quotidiano, perché questa donna ha la mania del pesce; infilarsi nel fodero come se gli avessero dato una batosta di mazzate e il giorno dopo passare la mattina sveglio.

Era buio, continuava a piovere e lui non riusciva a fissare lo sguardo su nulla che non gli sembrasse ripetuto, ordinario, familiare: le facciate di sempre con le finestre e le luci accese, gli alberi della piazza appena illuminati da qualche lampione, quel rumore sibilante delle gomme sull'asfalto bagnato. Niente polizia, né sirene, né luci blu. Non vide, lungo il percorso verso casa, nessun segno dell'attentato delle quattro del pomeriggio. Qui le case non bruciano né sono in rovina. Vide le solite cose: portoni bui, lampioni, porte di bar da cui uscivano mormorii di conversazioni e qualche risata. Tentazione di entrare, di bersi due cicchetti e mangiucchiare un paio di sottaceti mentre fumava una sigaretta, una specie di premio alla giornata compiuta, però macché: a quell'ora, con quella stanchezza e poi la moglie con il muso lungo, meglio di no.

Miren non gli diede nemmeno il tempo di portare l'ombrello nella vasca da bagno. Glielo disse a bruciapelo:

«È morto il Txato».

Era da molto che non si pronunciava il soprannome dell'amico di altri tempi in quella casa.

«Non dire stronzate.»

Joxian rimase per un istante immobile. Come un palo della luce. Non sbatteva nemmeno le palpebre. E senza voltare lo sguardo verso la moglie, chiese com'era successo.

«Be', come succedono queste cose. Di sorpresa non l'hanno potuto prendere. Glielo stavano già annunciando con le scritte.»

«Era lui quello che hanno ammazzato oggi pomeriggio? Non è possibile.»

«Invece sì. Chiuso con il Txato. La guerra è così, fa dei morti.»

Porca puttana, Cristo di un dio. Non la smetteva di dire parolacce scuotendo la testa, negando disgustato. Cercò di cenare. Non ci riuscì. Gli tremava tanto la mano che non era in grado di reggere il cucchiaio e questo infastidì Miren.

«Ehi, non mi diventerai mica triste?»

Porca puttana eccetera. E anche:

«Un basco, uno del paese come te e me. Cazzo, se sarebbe un poliziotto, ma il Txato! Per me non è una cattiva persona».

«Non si tratta di buone o cattive persone. È in gioco la vita di un popolo. Siamo abertzale o cosa siamo? E non ti dimenticare che hai un figlio nella lotta.»

Si alzò da tavola, furiosa. Lavò i piatti della cena in silenzio e Joxian non si mosse dal suo posto, nemmeno quando dopo un po' lei venne in cucina a dirgli che alla televisione stavano parlando di quello che era successo. Che se voleva guardare e lui rispose di no con la testa.

«Be', io vado a letto.»

Joxian non si mosse dalla cucina. Si versò un bicchiere di vino dalla damigiana che teneva sotto l'acquaio e poi un altro e un altro. Bevendo e fumando si fece mezzanotte, l'una, le due. Quando finì il vino, andò a letto. Miren, con la luce spenta, la voce ferma, gli disse che:

«Se piangi per quello là, me ne vado a dormire in un'altra stanza».

«Io piango per chi cazzo mi pare.»

Passarono gli ultimi rimasugli neri della notte. Joxian, a letto vestito, dormì? Neanche mezzo minuto. Non appena le fessure della persiana si riempirono di chiarore, si alzò. Dove andava? Non ci fu risposta. Dal bagno, un lungo fiotto di urina infranse il silenzio della casa. E invece di tornare a letto, Joxian uscì senza fare colazione. A quell'ora, avendo il turno pomeridiano? Partì con la bicicletta, senza l'impermeabile, anche se pioveva, per questa strada, per quell'altra. Non gli importava dove andava, non gli importava niente. E a metà della salita di Orio, sul piccolo valico dove ai vecchi tempi faceva qualche garetta con il Txato, che quest'ultimo perdeva sempre perché, per quanto cuore ci mettesse nella pedalata, aveva meno gambe da ciclista di lui, si fermò a sfogarsi senza testimoni sul ciglio della strada, porca puttana.

Poco prima dell'una, arrivò a casa fradicio. Si lavò e mise dei vestiti puliti. E sulla tavola rimasero le lenticchie e il filetto con l'aglio fritto. Si portò una banana alla fonderia e decise, con le sopracciglia corrucciate, di non parlare con nessuno per tutto il giorno. Mantenne il proposito fino a pomeriggio inoltrato. Allora gli si avvicinò Herminio nella pausa per la sigaretta, quell'imbecille di Herminio, che prende e gli dice:

«Giurerei di aver visto Joxe Mari in paese ieri».

«Tu giuri troppo.»

«No, sul serio, mentre venivo al lavoro. Era in una macchina.»

«Comprati degli occhiali e smettila di rompermi le palle. Mio figlio è lontano. Non lontano quanto il tuo, ma diciamo abbastanza lontano.»

«E che così, dal profilo, mi è sembrato...»

«Ti sei confuso.»

Joxian gettò la sigaretta a terra, anche se non ne aveva fumato nemmeno la metà. Mentre la schiacciava mormorò una parola incomprensibile. Poi tornò nel capannone.

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I dottori con i dottori



Il Txato stava per andare a fare la siesta. Disse che l'avevano appena conosciuta, che era presto per giudicarla; però Bittori, severa, brusca, insisteva: i dottori con le dottoresse, gli infermieri con le infermiere. Subito dopo, il labbro sdegnato e un dimenamento del collo per parodia:

«La coppietta. Oddio, ma se ha tre anni più di lui. Quel pivellino, ha bisogno di una seconda madre o che?»

«Vabbe', vabbe'.»

«Ho ragione o no?»

«Se ti sente tuo figlio, vedrai.»

«Sto parlando con te. Non c'è bisogno che Xabier lo sappia.»

Se n'erano andati da pochi minuti, mano nella mano. Alla sua età. La coppietta felice! Di sicuro la gente del paese stava morendo dalle risate. Domenica e nuvole. La Real giocava alle cinque. Alla fine della partita, lei sarebbe andata a cercarlo/pescarlo, per continuare a tirare la lenza fino a far uscire il pesce dall'acqua e a metterlo nella cesta.

Bittori spalancò la finestra del balcone.

«Non si riesce neanche a respirare. Non dirmi che non è un'esagerazione. Perfino il brodo sapeva di profumo.»

«Io non me ne sono accorto. E non mi dirai che non è bella.»

«E tu che ne sai? Su, vattene a letto a sognare camion.»

Sarebbero potuti tranquillamente andare tutti e quattro in un ristorante. In un primo momento il Txato lo aveva suggerito. Con tutto che non gli piaceva mettere bocca se non glielo chiedevano. Poco dopo Xabier aveva fatto la stessa proposta al telefono, bisogna dire anche questo, per Aránzazu, che preferiva farsi conoscere «in territorio neutrale». Sia il padre sia il figlio si erano mostrati disposti ad accollarsi le spese; ma Bittori aveva detto che non se ne parlava nemmeno. Il motivo? Be', che, a suo modo di vedere, al ristorante tutti si comportano come ciò che non sono e che, per conoscersi bene, non c'è nessun posto come casa propria.

Il Txato:

«Preferisci passare tutta la mattina a cucinare?»

«E allora? Quando mi hai portato al casolare a conoscere la tua famiglia, anche tua madre ha preparato il pranzo. Zuppa di ceci e pollo fritto. Me lo ricordo ancora. E alla fine l'ho aiutata a rassettare. Invece, la signorona qui non si è nemmeno offerta di darmi una mano. Tanto raffinata e truccata e tutto il resto, ma quando ha visto che sparecchiavo non ha mosso un dito. Che educazione!»

Li aspettavano all'una e mezza. Un quarto d'ora prima, Bittori aveva messo il Txato di sentinella, senza farti vedere, eh?, accanto alla finestra del balcone con ordini rigorosi. Uno, che non gli venisse in mente di sfiorare le tende, ché le ho appena lavate; due, che l'avvisasse non appena li vedeva imboccare la strada, perché non voleva assolutamente ricevere quella donna con il grembiule addosso.

«Quella donna? Si chiama Aránzazu.»

«Non mi interessa come si chiama.»

E poi, voleva esaminarla prima delle presentazioni. Ah, e tre: che non mangiucchiasse niente di quello che c'era sulla tavola: asparagi con la maionese, prosciutto di Jabugo, crocchette di baccalà, percebes, mazzancolle.

«Ho tutto contato.»

Il Txato, di vedetta, che pazienza mi deve dare il Signore, sorvegliava la strada poco trafficata perché era domenica. E all'ora convenuta, puntuali, mano nella mano, li aveva visti comparire nel suo campo visivo, lei con un mazzo di fiori. Che alta, che bella, che elegante. Impressionato, aveva indugiato per qualche secondo nella contemplazione dell'immagine prima di avvisare Bittori, che era arrivata a passi nervosi dalla cucina, togliendosi in fretta e furia il grembiule.

«Le scarpe non stanno bene con il vestito.»

«A me sembra un monumento di donna.»

«Non toccare la tenda, fammi il favore.»

«Che presenza che ha! È alta quasi quanto nostro figlio.»

«Il nero dei capelli non è naturale. E la spilla sul risvolto, da qui, sembra una macchia d'unto. Direi che questa signora non ha molto gusto.»

Dopo il commiato della coppia ormai ufficialmente riconosciuta, il Txato, che aveva mangiato e bevuto per tre, fece la sua siesta? Ci provò. Bittori, indaffarata in cucina, non riusciva a calmarsi. Si confidava, madre monologante, madre addolorata, con la schiuma dell'acquaio. Suo figlio con quella donna, una semplice infermiera ausiliaria. Manifestò la propria contrarietà al pubblico composto da stoviglie sporche. Allo strofinaccio disse questo; al rubinetto quell'altro. Non riceveva risposte, non trovava la comprensione desiderata. Aveva bisogno a ogni costo di aver vicino orecchie umane. In casa, in quel momento, c'erano soltanto quelle del Txato. Allora, spiacente per la sua digestione e il suo riposo, entrò, quello era entrare?, be', fece irruzione nella stanza. Parlava da sola già dalla cucina, asciugandosi le mani sul grembiule. Senza smettere di parlare si sedette sul bordo del letto. Diede uno scossone al marito.

«Come fai a dormire così tranquillo?»

Addio, siesta. Con la lingua assopita, farfugliò: cos'hai, che succede. Bittori non rispose. Non sembrava nemmeno interessata a conversare. Non cercava un interlocutore, soltanto delle orecchie.

«Non credo che Xabier possa essere felice con quella signora. Lei avrà tutte le virtù che vuoi. Io, per la verità, non gliene vedo da nessuna parte. Mi è sembrata una maniaca dalla testa ai piedi. I frutti di mare non li ha assaggiati. Il prosciutto, nemmeno. Ho passato tutta la mattina ad arrostire un maialino, sono andata a Pamplona a comprarlo, e alla fine viene fuori che è vegetariana. Dimmi tu.»

A Bittori non era sfuggito un gesto dell'ospite. Quale? Be', che, credendo che nessuno la vedesse, aveva avvicinato di nascosto, goffamente, le sue labbra pittate all'orecchio di Xabier; ci aveva versato dentro rapide parole segrete che formavano una preghiera, un ordine? E l'ingenuo, quello che obbedisce a una subalterna, lasciando passare qualche secondo come per fingere che la richiesta fosse farina del suo sacco, aveva detto:

«Ama, ti dispiacerebbe portare via da tavola la testa del maialino?»

Tutti gli sguardi erano confluiti sul vassoio con il tostato, succoso, pacifico animaletto appena servito al centro della tavola. Mezzo maialino commissionato a un macellaio di Pamplona. I suoi bei soldi era costato a Bittori, oltre al viaggio di andata e ritorno in autobus. E tutto per accogliere l'ospite con un prodotto di prima qualità.

Prima comprava il maialino da Josetxo. Ci comprava di tutto. C'era fiducia, amicizia. Ora non si salutano nemmeno.

«Perché?»

«No, è che Aránzazu non è abituata.»

La difendeva, è chiaro. E lei ci considererà dei carnivori primitivi. Bittori non aveva potuto fare a meno di sentire la mediazione di Xabier come una pugnalata.

«Tu t'immagini nostro figlio a vivere con una persona del genere? Per Dio! In questa casa siamo da sempre amanti della carne e del pesce. Il fatto è che, per di più, questi mangiapiante sono persone strane, piene di manie. Che modo di parlare! Facendo la professoressa, dando continuamente spiegazioni. Una semplice infermiera ausiliaria! A me non me la fa. Quella ha visto il medico ingenuotto, che ne sa un sacco di interventi chirurgici, ma di vivere con una donna non capisce niente, e ha detto: questo qui è per me. Una divorziata più furba di una volpe. Una donna di seconda mano, che si è bagnata in tutte le acque passate, presenti e future. Mangia come un uccellino. Il pandispagna, neanche toccarlo. Le piacerebbe, ma stamattina ha già preso la sua dose quotidiana di carboidrati. È o non è svenevole? Non hai fatto caso alla faccia che ha fatto quando le ho detto che mi sono alzata alle sette per prepararlo? Non le interessiamo minimamente. Lei pensa al suo tornaconto, a beccare il chirurgo con casa di proprietà e buono stipendio. L'hai vista quando le ho chiesto se voleva portarsi via un pezzo di pandispagna in un contenitore? No, grazie, non si disturbi. Mi è venuta voglia di tirarglielo in faccia.»

«Quando hai finito lo sproloquio, avvisami. Vediamo se riesco ancora a dormire un po'.»

«E la storia di Roma, quanto mi puzza! Io non ci credo che hanno diviso le spese. Conosco Xabier. Metterei la mano sul fuoco che ha pagato tutto lui.»

Molti anni dopo, in visita al cimitero, seduta sul bordo della tomba come quel lontano giorno sul bordo del letto, Bittori girava ancora attorno alla faccenda.

«Certo che mi piacerebbe vedere Xabier sposato. Però ben sposato e non con la prima che gli fa quattro salamelecchi e gli sorride come quell'infermiera che ci aveva portato a casa una domenica, ti ricordi? Ho dimenticato come si chiamava. Che serpe! Avevo fiutato le sue intenzioni soltanto a vederla. Lo sai che ho occhio per queste cose. E, naturalmente, se devono rendere infelice nostro figlio, preferisco che rimanga scapolo.»

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Se il vento soffia sulla brace



Ne parlarono in una certa occasione, seduti a tavola, quando il Txato era già da qualche anno sottoterra. Noi andare agli incontri delle vittime del terrorismo? Mai. I due fratelli e la madre erano d'accordo su questo punto.

Bittori:

«Io, la mia pena non la metto in vetrina. Voi fate quello che volete».

Fu a Nerea che venne in mente l'immagine della brace che abbiamo dentro.

«E ciascuno deve decidere il modo in cui a poco a poco gli si deve raffreddare.»

L' ama aggiunse che se il vento soffia sulla brace, la fiamma si ravviva. In realtà, i tre, senza confessarselo, sentivano di nuovo la loro bruciatura interiore ogni volta che si verificava un attentato. Non era un argomento abituale delle loro conversazioni. Lasciavano passare i delitti dell'ETA senza commentarli, come se avessero stretto un accordo tacito di rimanere in silenzio. Sì, citavano spesso il Txato, ma raramente nella sua condizione di assassinato. Preferivano parlare, scherzosi, sorridenti, della sua cocciutaggine, delle sue orecchie a sventola, del buon cuore che aveva. Nessuno dei tre aveva l'intenzione di vivere il resto della vita essendo principalmente una vittima, nient'altro che una vittima. La mattina, vittima; il pomeriggio, vittima; la sera, vittima.

Xabier:

«Anche se non potete negare che siamo delle vittime».

Bittori mise il mestolo nel tegame:

«Sì, però iniziamo a mangiare perché la minestra si raffredda».

E passarono gli anni, le piogge, le bombe e gli spari. Giunse un nuovo secolo e, qualche tempo dopo, la mattina di novembre in cui Xabier scoprì, leggendo il giornale, che si sarebbero celebrate a San Sebastián le Giornate sulle Vittime del terrorismo e sulla Violenza terrorista, organizzate dal Collettivo delle Vittime del terrorismo dei Paesi Baschi. Lui non sarebbe andato perché non va mai a questo tipo di manifestazioni, timoroso/convinto di uscirne scoraggiato e di vagare per un periodo al buio nei suoi labirinti mentali.

A ogni modo, trovò nella lista dei partecipanti previsti per quel giorno il nome del giudice che aveva emesso la sentenza nel caso di suo padre, e ci pensò su, e gli crebbe la curiosità, e gli venne in mente che avrebbe potuto assistere alla sua relazione come spettatore inosservato. Dopo tutto, non mi conosce nessuno, sono passati tanti anni e posso prendere posto lontano dagli oratori.

Un'ora prima dell'inizio dell'evento, Xabier era ancora esitante: timore, dubbi e un abbozzo di ansia che cercò di combattere con una pastiglia. Uscì di casa senza sapere ancora in che direzione sarebbe andato. Il cielo già nero, le strade piene di veicoli, prese a camminare senza altro scopo che delegare ai propri piedi la scelta del percorso. Percorso che, dopo un non breve giro, si concluse davanti all'ingresso principale dell'Hotel Maria Cristina, in uno dei cui saloni al pianterreno, entro pochi minuti, il giudice, uno scrittore e altri oratori avrebbero preso a turno la parola. I piedi hanno deciso per me e Xabier, cuore palpitante, si bevve un cognac doppio e subito dopo un altro al bar Tánger, lì nei pressi. Come mai? Per calmare i nervi. Per trovare il coraggio. Qualcuno mi riconoscerà? Per guadagnare tempo ed entrare nel salone dell'albergo a evento già iniziato, quando l'attenzione dei presenti fosse stata concentrata sul palco.

Si sedette accanto a una delle porte, in penultima fila, fra estranei. Davanti a lui, uno schieramento di schiene e nuche, e parecchie sedie vuote. Quaranta, cinquanta persone? Non di più. Davanti alla parete sul fondo, il tavolo con gli oratori e i microfoni. Il giudice non c'era. Qualcuno finì di parlare, cedette la parola allo scrittore, risuonarono applausi tiepidi, formali. Lo scrittore prese la parola, salutando, ringraziando per l'invito. E disse che:

«Ci sono libri che ti crescono dentro nel corso degli anni in attesa dell'occasione opportuna per essere scritti. Il mio, di cui sono venuto a parlarvi oggi, è uno di questi. L'idea iniziale... »

Con la dovuta dissimulazione, dalla parte posteriore della sala Xabier si sforzava di identificare qualcuno dei partecipanti. Osservandoli da dietro, non era facile. A parte che lui non conosceva personalmente nessuna vittima dell'ETA né i suoi famigliari. Ne aveva presente, sì, qualcuna, quelle che riconoscono tutti per averle viste alla televisione o nelle foto dei giornali.

«E questo progetto di elaborare, attraverso la finzione letteraria, una testimonianza delle atrocità commesse dalla banda terrorista, nel mio caso nasce da una doppia motivazione. Da un lato, l'empatia che provo per le vittime del terrorismo. Dall'altro, il rifiuto senza remore che mi suscitano la violenza e qualunque aggressione rivolta contro lo Stato di Diritto.»

Subito dopo lo scrittore si domanda perché da giovane non è entrato nell'ETA. In tutta la sala si diffonde un silenzio stupefatto di respiri trattenuti.

«Dopo tutto, anch'io sono stato un adolescente basco e sono stato esposto, come tanti ragazzi della mia epoca, alla propaganda favorevole al terrorismo e alla dottrina sulla quale quest'ultimo fonda le proprie basi. Be', ci ho pensato molte volte e credo di aver trovato la risposta.»

Lì davanti, nella prima fila, riservata agli invitati, c'era il giudice in attesa del suo turno. Il giudice è famoso. Ha una testa monda, brunita, che lo rende facilmente riconoscibile. In quei giorni, inoltre, appariva spesso in tv e sui giornali per non ricordo quale processo. Che Xabier sapesse, a quell'epoca il giudice non faceva già più parte del Tribunale Nazionale.

«Ho scritto, dunque, contro la sofferenza inflitta da alcuni uomini ad altri, cercando di mostrare in cosa consista questa sofferenza e, ovviamente, chi la generi e quali conseguenze fisiche e psichiche provochi nelle vittime sopravvissute.»

E più o meno in terza o quarta fila, in un momento in cui la persona osservata inclinò un po' la testa, Xabier riuscì a distinguere un profilo conosciuto.

«Ho scritto anche contro il delitto perpetrato con un pretesto politico, in nome di una patria dove una manciata di persone armate, con il vergognoso sostegno di un settore della società, decide chi appartenga a quella patria e chi debba lasciarla o scomparire. Ho scritto senza odio contro il linguaggio dell'odio e contro la smemoratezza e l'oblio tramati da chi cerca di inventarsi una storia al servizio del proprio progetto e delle proprie convinzioni totalitarie.»

Non ne era sicuro. Una donna con un basco beige di lana, seduta proprio dietro, impediva a Xabier di vedere bene quell'altra, sì, che è così nota, la sorella di Gregorio Ordóñez. Come si chiama? María Ordóñez, Maite Ordóñez. Non riusciva a ricordare il nome. Di colpo: Consuelo Ordóñez. Cazzo, ce ne ho messo di tempo.

«Ma ho scritto anche, partendo dall'impulso di offrire qualcosa di positivo ai miei simili, a favore della letteratura e dell'arte, quindi a favore di ciò che di buono e di nobile l'essere umano alberga. E a favore della dignità delle vittime dell'ETA nella loro umanità individuale, non come semplici numeri di una statistica in cui si perdono i nomi di ciascuna, i loro volti concreti e le loro irriducibili caratteristiche personali.»

Che è esattamente quello che mia madre non vuole: che la sua sofferenza e quella dei suoi figli servano come materiale a uno scrittore affinché costruisca il suo libro o a un regista affinché giri il suo film, e poi li applaudano, e vincano premi, mentre noi restiamo con la nostra tragedia sulle spalle.

«Ho cercato di evitare i due pericoli che ritengo più gravi in questo tipo di letteratura: i toni patetici, sentimentalistici, da un lato; dall'altro, la tentazione di fermare il racconto per prendere in maniera esplicita una posizione politica. Per farlo, secondo me, ci sono le interviste, gli articoli o i dibattiti come questo.»

In seconda fila, verso l'esterno, capelli rossicci, Xabier riconobbe Cristina Cuesta, figlia, come lui, di padre assassinato. Era lei, non c'era dubbio. E alla sua sinistra, Caty Romero, la vedova di un sergente della Polizia municipale di San Sebastián, uno che a quanto pareva, non so dove l'ho letto, era impegnato a ripulire la polizia dagli agenti collaboratori e confidenti dell'ETA e, ovviamente, alla fine i terroristi l'avevano fatto fuori con due colpi.

«Ho voluto rispondere a domande concrete. Come si vive intimamente la disgrazia di aver perso un padre, un marito, un fratello in un attentato? Come affrontano la vita, dopo un delitto dell'ETA, la vedova, l'orfano, il mutilato?»

Lo scrittore parlava con calma. Xabier gli attribuisce buone intenzioni, ma non crede che qualcosa possa sostanzialmente cambiare perché qualcuno scrive un libro. Gli sembrava che, fino ad allora, gli scrittori baschi avessero prestato poca attenzione alle vittime del terrorismo. Interessano di più i carnefici, i loro problemi di coscienza, il loro retrobottega sentimentale e tutto il resto. E poi, il terrorismo dell'ETA non serve per attaccare la destra. Per quello è molto meglio la guerra civile.

«... cercando di tracciare un panorama rappresentativo di una società sottoposta al terrore. Forse esagero, ma ho la ferma convinzione che sia in corso anche la sconfitta letteraria dell'ETA.»

A questo punto, la donna seduta proprio dietro Consuelo Ordóñez, quella con il basco beige, girò leggermente la testa di lato, soltanto una frazione di secondo, ma abbastanza perché Xabier avesse un tuffo al cuore riconoscendo quei tratti per lui tanto familiari. Cosa ci fa qui mia sorella, quella che una volta ha detto che non avrebbe partecipato a una riunione di vittime del terrorismo neanche se l'avessero pagata? Be', la stessa cosa che ci faceva lui. Si rese conto dell'assurdità della domanda, a cui non concesse neppure mezzo istante di riflessione, assediato da altri pensieri più pressanti. Quali pensieri?

Be', per esempio, trovare il modo di non farsi vedere da Nerea. Calcolò i passi, non più di tre, che lo separavano dalla porta. Non esitò. Approfittando degli applausi allo scrittore, che avrebbero coperto il rumore dei suoi movimenti, si alzò dalla sedia, uscì in corridoio e prese a camminare a passo sostenuto, quasi correndo, verso l'uscita.

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