Copertina
Autore Stefano Ardito
Titolo 101 storie di montagna che non ti hanno mai raccontato
EdizioneNewton Compton, Roma, 2011, 101 132 , pag. 286, ill., cop.fle., dim. 12x22,5x2,1 cm , Isbn 978-88-541-3327-3
LettoreRenato di Stefano, 2012
Classe montagna
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Indice


  7      Introduzione

         STORIE DI NATURA

 11   1. Yeti mito e realtà
 13   2. La leggenda dell'Homo Selvadego
 16   3. Gorilla, un cugino da salvare
 19   4. I dinosauri del Pelmo
 21   5. Gli stambecchi di re Vittorio Emanuele
 23   6. Edelweiss, simbolo delle Alpi
 26   7. Il leopardo di Ernest Hemingway
 28   8. Il pino corazzato del Pollino
 31   9. Il ritorno del lupo
 33  10. Sulle tracce del leopardo delle nevi
 36  11. L'orsa Jurka e i suoi fratelli
 38  12. Avvoltoi alla riscossa
 40  13. Naranjo de Bulnes, la Spagna verticale

         STORIE DI LUOGHI E DI VETTE

 45  14. Il Cavallo Bernardo e i suoi vicini
 48  15. GR20, l'anima della Corsica
 50  16. I murales di Cibiana
 52  17. L'urlo pietrificato di un dannato
 54  18. Gli abissi del Burèl
 57  19. Il Triglav, simbolo della Slovenia
 59  20. Kalymnos, l'Egeo verticale
 62  21. Olimpo, lasciamo un po' di spazio agli dei
 64  22. Svolvaergeita, la capra verticale
 67  23. La misteriosa Garet el Djenoun
 69  24. Una vetta per il compagno Lenin
 71  25. Nanga Parbat, montagna tragica
 73  26. Annapurna, la dea dei camminatori
 76  27. Namche, la capitale degli Sherpa

         STORIE DI PREGHIERA E DI FEDE

 81  28. Preghiere sul Fujiyama
 83  29. Kinabalu, la giungla verticale del Borneo
 86  30. Mount St. Helens, ovvero l'inferno
 89  31. El Capitan, l'oceano verticale
 91  32. L'Aconcagua e la sua mummia
 93  33. Mount Vinson, il Polo del freddo
 95  34. San Lucano e la sua valle
 98  35. Fra' Pietro, il papa della Majella
101  36. Il lago maledetto dei Monti Sibillini
103  37. Streghe in Val Camonica
106  38. Ujop Freinademetz, il Santo dei Ladini
108  39. Pellegrini intorno al Kailas
111  40. Il Papa che amava sciare

         STORIE DI STORIA DELL'UOMO

117  41. Sinai, da Mosè al turismo di massa
119  42. I graffiti dei Camuni
121  43. L'ultima camminata di Oetzi
125  44. Tiscali, la Sardegna di pietra
127  45. L'ultimo fendente di Orlando
129  46. Saraceni nelle valli occitane
131  47. Attraverso il Gran San Bernardo
134  48. Conquistadores sul Popo
137  49. Glen Coe, il massacro e le montagne
139  50. La strana roccia di Monsieur de Dolomieu
141  51. Fenestrelle, la Grande Muraglia del Piemonte
144  52. La baita di Andreas Hofer
147  53. John Muir, l'uomo della wilderness
149  54. L'osservatorio del professor Janssen
152  55. Colonnata: cave, anarchici e lardo
154  56. Sempione, la ferrovia e la strada
156  57. Indiana Jones e la suffragetta
159  58. Lagazuoi, talpe umane ed esplosivo
162  59. Re Alberto, che amava le montagne
164  60. Fuga sul Monte Kenya
167  61. Luis Trenker, il cinema della montagna
169  62. Valli e vette di Dino Buzzati
172  63. La terribile memoria del Vajont
175  64. Il sentiero che unisce le Dolomiti
177  65. Cannonate a seimila metri di quota
179  66. Un castello in cima all'Abruzzo
183  67. Torino, il museo delle Alpi
185  68. Alla caccia della nube marrone

         STORIE DI NEVE E DI SCI

191  69. Quei "legni" arrivati dal nord
193  70. Toni Sailer, il fulmine di Kitzbuhel
195  71. Le tre Coppe del Mondo di Gustav Thoeni
199  72. Il passo alternato di Stefania
201  73. Armin Zöggeler: muscoli, coraggio e medaglie

         STORIE DI MONTAGNE E DI ALPINISTI

207  74. Un ingegnere sul Gran Sasso
209  75. Sul Mont Aiguille, per volere del re
211  76. La vittoria e i litigi di Paccard e Balmat
215  77. Henriette e Marie sul Monte Bianco
217  78. La corda spezzata di Edward Whymper
220  79. Tita Piaz e il tricolore
222  80. Competizione sul Campanile Basso
224  81. Paul Preuss, il cavaliere solitario
228  82. Collezionisti di 4000
230  83. Il mistero di Mallory e Irvine
232  84. Civetta, la nascita del sesto grado
236  85. Eiger, alla conquista dell'Orco
237  86. Riccardo Cassin, mani da strapiombi
239  87. Un apicultore e uno sherpa sull'Everest
242  88. Il tricolore sventola sul K2
245  89. Tragedia sul Pilone Centrale
247  90. L'enigma del Cerro Torre
250  91. Il Cervino di Walter Bonatti
252  92. Un sindacalista in verticale
254  93. Galen Rowell, fotografo d'alta quota
256  94. Tre ore e un quarto sul Dru
260  95. Jerzy, dalle ciminiere all'Himalaya
262  96. Aria sottile sull'Everest
264  97. Manolo, la danza in verticale
266  98. Alison Jane, una mamma sulle grandi pareti
269  99. Nives, la donna degli "ottomila"
271 100. Alex Huber, pianoforte e strapiombi
274 101. L'ultimo ottomila? È un museo

277      Bibliografia


 

 

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1. YETI, MITO E REALTÀ


Nome: dremo o tschemo in Tibet, mi-ti nelle valli degli Sherpa, migio e beshung nell'Himalaya cinese, almas in Mongolia, yeti o "abominevole uomo delle nevi" in Occidente. Segni particolari: peloso e dall'andatura dondolante. Età: almeno uguale a quella dell' Homo sapiens. Dimensioni e peso: superiori a quelle di un uomo, come dimostra la profondità delle impronte nella neve e nel fango.

Il carattere, invece, è mutevole. Normalmente timoroso di un incontro ravvicinato con l'uomo, il misterioso abitante dell'Himalaya può anche diventare aggressivo. Ne sa qualcosa Lhakpa Sherpeli, diciassettenne nepalese aggredita nel 1974 insieme ai suoi yak sui pascoli della valle di Gokyo.

L'elenco delle vittime del bestione prosegue con gli ingegneri norvegesi Aage Thorberg e Jan Frostis, azzannati nel 1948 tra i monti del Sikkim. E con Reinhold Messner, l'eroe degli "ottomila", che nel 1986, nel Tibet orientale, viene attaccato da «una figura gigantesca su due gambe», dotata di «braccia possenti che pendevano fino a toccare le ginocchia», come racconta nel libro Yeti. Leggenda e verità.

L'Occidente sa dello yeti da millenni. «Sui monti orientali dell'India si incontrano creature agilissime che camminano a quattro zampe o erette. La loro figura è simile a quella umana, e sono così veloci che è impossibile catturarli», scrive duemila anni fa Plinio il Vecchio. Misteriosi uomini coperti di pelo compaiono nelle cronache di viaggio in Asia pubblicate tra il Sei e il Settecento.

Nel 1832, B.H. Hodson, primo residente britannico a Kathmandu, riferisce in una relazione che un cacciatore nepalese è stato spaventato da «un uomo selvaggio che si muoveva su due zampe, era coperto da un lungo pelo e non aveva coda». Tra i primi occidentali a scoprirne le tracce da vicino è l'alpinista ed esploratore britannico Eric Shipton, che nel 1961 fotografa delle grandi orme sul ghiacciaio di Menlung, nell'Himalaya nepalese. Fanno incontri analoghi, negli anni, alpinisti famosi come Walter Bonatti, il polacco Andrzej Zawada e l'inglese Don Whillans.

Nel 1959, Edmund Hillary, conquistatore sei anni prima dell'Everest, organizza una spedizione scientifica, liquida come un falso in pelle di antilope lo "scalpo di yeti" conservato nel monastero di Pangboche e conclude che lo yeti è una creatura mitologica. Poco dopo, però, l'americano Peter Byrne ruba due dita della "mano di yeti" conservata nello stesso monastero e le fa analizzare a Londra, dove vengono definite "non totalmente umane".

Qualcuno parla di un uomo di Neanderthal, altri del piccolo orso che tibetani, bhutanesi e baltì chiamano dremo (o tshemo). Ma la popolarità universale dello yeti rimane. Basta una passeggiata per le vie di Kathmandu, la capitale politica del Nepal e "capitale turistica" dell'Himalaya, per imbattersi in alberghi, agenzie di viaggio e trekking, ristoranti e negozi dedicati allo yeti.

E basta un sondaggio alla buona tra i camminatori che visitano l'Himalaya per scoprire qual è il loro sogno segreto.

Più che vedere da vicino l'Everest o entrare nei monasteri buddhisti, i trekker vorrebbero trovarsi davanti a una sagoma avvolta nella nebbia, o a un'impronta misteriosa nella neve. Forse lo yeti non esiste. Ma gli uomini ne hanno tremendamente bisogno.

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2. LA LEGGENDA DELL'HOMO SELVADEGO

Anche la Valtellina ha il suo Yeti. Nel più noto affresco che gli è stato dedicato, ha l'aspetto di un uomo dal corpo peloso, con una lunghissima barba, che tiene in mano una lunghissima clava. Accanto al volto è una specie di fumetto che recita: «E sonto un homo selvadego per natura, chi me ofende ghe fo pagura».

L'affresco che ritrae l'Homo Selvadego è una delle opere d'arte più singolari delle montagne di Lombardia. Dipinto nel 1464, fa parte di un magnifico ciclo di affreschi (notevoli anche una Deposizione e un arciere) che ornano un palazzetto di Sacco, il più basso abitato della valle del Bitto di Gerola. L'edificio sorge in Contrada Vaninetti, a poche centinaia di metri dalla chiesa, sulla cui facciata si trovano altre notevoli pitture della stessa epoca. A realizzarlo sono stati Simone e Battistino Baschenis, esponenti di una famiglia di pittori originari di Averara, e che hanno lavorato in Valtellina, nella Bergamasca e in Trentino.

Il palazzetto, dimenticato per secoli, è stato abitato da una famiglia contadina fino agli anni Ottanta, poi è stato acquisito dalla Comunità montana che ha sede nella vicina Morbegno, e adibito a museo. L'affresco è nella stanza che è stata utilizzata a lungo come fienile. Al riparo dalla luce del sole, in un ambiente asciutto grazie al fieno, ha mantenuto dei colori quasi inalterati nel tempo.

La presenza anche sulle Alpi lombarde di una figura simile allo Yeti himalayano non deve stupire più di tanto. Anche in altre zone della Valtellina si sono conservate leggende che riguardano irsuti "uomini delle montagne" simili a quelli delle montagne nepalesi e tibetane. In altre valli, e in un affresco moderno a San Martino Val Masino, compare invece il Gigiàt, un incrocio fra un caprone e un camoscio, dal pelo lunghissimo, dal carattere irascibile e dalle dimensioni gigantesche.

Nel più documentato studio dedicato all'Homo Selvadego, Il sapiente del bosco: il mito dell'uomo selvatico nelle Alpi, l'antropologo Massimo Centini ricorda come la leggenda del bestione sia presente in molte zone della catena montuosa. Il Selvadego della Valtellina diventa Sarvàn nel Cuneese, Urcat nel Canavese, Fanès oppure Om pelòs tra i Ladini delle Dolomiti, Omeon del Bosch a Bormio.

Secondo Centini si tratta di una figura di origine celtica, presente in tutti i versanti della grande catena, che simboleggia la religiosità precristiana del mondo dei valligiani, e il loro rapporto privilegiato con le forze primordiali della natura.

Intorno alla casa dell'Homo Selvadego, altre costruzioni conservano degli eleganti portali di pietra. Sacco, a pochi chilometri da Morbegno, può essere raggiunta anche a piedi lungo un piacevole sentiero segnato. Sul percorso si toccano le case di Campione, patria della Bona Lombarda, una pastorella fatta rapire nel 1432 dal capitano di ventura Brunoro da Parma, che si trasformò in una famosa combattente al soldo della Repubblica di Venezia. Oltre allo Yeti, la valle del Bitto ha anche la sua Giovanna d'Arco.

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14. IL CAVALLO BERNARDO E I SUOI VICINI


Metropoli d'arte e cultura, Barcellona è anche una città dello sport. Sono state le Olimpiadi del 1992 a trasformare la metropoli catalana, prima sonnolenta, in un centro proiettato sul futuro. Scudetti, Coppe del Re, Champions League fanno del Barcelona Futbol Club - il Barca per chi sa di calcio - un mito a livello mondiale. Non tutti sanno, invece, che Barcellona è una città di escursionisti e alpinisti. Dagli anni Sessanta, cordate catalane hanno raggiunto l'Everest e gli altri "ottomila", hanno aperto vie nuove sul Monte Bianco e in Patagonia, e hanno lasciato il segno in tutte le catene montuose della Terra. Le pareti pirenaiche della Pedraforca e degli Encantats distano un paio d'ore di viaggio dalle Ramblas.

Nel mondo campanilista dell'alpinismo spagnolo, baschi e aragonesi sono noti per la loro resistenza montanara. I catalani, invece, sono conosciuti per la loro eleganza su roccia. Un'arte che da generazioni si apprende su un massiccio dalla quota modesta, e molto più vicino dei Pirenei alla città. Il Montserrat, la "montagna segata" che si affaccia da ovest sulla città, e che culmina nei 1236 metri del Serrat de San Jeroni, una facile vetta che offre uno straordinario panorama.

Alto e severo, ma a portata di mano dalla strade per Saragozza e Madrid, il Montserrat è stato frequentato per secoli da monaci ed eremiti, che hanno scavato celle e romitori, e costruito nei pochi spazi pianeggianti chiese, conventi e monasteri. Oggi il Monastero (Monestir) del Montserrat, è uno dei luoghi della fede più frequentati di Spagna. Costruito poco dopo il Mille su un terrazzo naturale a settecento metri di quota, ospita l'immagine della Madonna Nera patrona della Catalogna.

Dal Monastero, che si raggiunge in funivia (l'Aeri), sentieri conducono verso le guglie di conglomerato dei Frares Encantats, delle Agulles, della Paret dels Diables e dei Flautats. Centinaia di torrioni formano un paesaggio spettacolare e fiabesco, che emoziona i turisti che arrivano da ogni parte del mondo.

La torre più bella, simbolo dell'alpinismo catalano, è però il Cavall Bernat ("Cavallo Bernardo"), una guglia affusolata che si alza per una cinquantina di metri verso l'altopiano, ma precipita con un'altissima muraglia verticale verso la valle del Riu Llobregat con un'altissima muraglia verticale. Primi a salirlo, nel 1935, furono Josep Costa, Josep Boix e Carles Balaguer, tre alpinisti catalani inghiottiti da lì a poco dalla fornace della guerra civile.

Chi è abituato alle fessure del granito o ai taglienti appigli del calcare non può che trovarsi a disagio sul conglomerato del Montserrat, che offre appigli levigati e arrotondati, e poche possibilità di assicurarsi. Chi ha imparato a salire su questa roccia sfuggente, però, è in grado di affrontare anche le pareti più delicate e friabili delle grandi montagne del mondo.

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25. NANGA PARBAT, MONTAGNA TRAGICA


Una delle montagne più belle e crudeli della Terra si affaccia sulle pianure del Pakistan e la valle dell'Indo, dove una delle carovaniere più importanti dell'Asia è stata sostituita negli anni Settanta dal nastro d'asfalto della Karakorum Highway. Il Nanga Parbat, 8125 metri, segna il limite occidentale dell'Himalaya e si affaccia verso l'Hindu Kush e il Karakorum. La vicinanza alla pianura fa sì che la montagna, ogni estate, venga investita con particolare violenza dal monsone.

Ben visibile anche dalla strada, straordinario spettacolo per i passeggeri degli aerei che collegano Islamabad con Gilgit e Skardu, il Nanga Parbat è una montagna relativamente accessibile. Comitive di trekker seguono il comodo sentiero che porta alla base della ciclopica parete Rupal. In varie valli sono nati dei piccoli lodge gestiti dalla gente del posto, intorno alla montagna sta nascendo uno dei più estesi parchi nazionali del Pakistan.

Il Nanga Parbat, prima vetta himalayana a essere tentata dall'uomo, ha svolto un ruolo importante nella storia dell'alpinismo. Spesso, sui suoi fianchi, si sono svolte delle tragedie. Nel 1895, l'inglese Albert Frederick Mummery arriva ai piedi della montagna dal versante di Rupal, passa su quello di Diamir, scompare insieme a due compagni oltre i seimila metri di quota.

Più tardi, l'epopea del Nanga parla soprattutto tedesco. Nel 1934, una spedizione austro-tedesca guidata da Willi Merkl e Willo Welzembach raggiunge i 7800 metri, poi una bufera uccide quattro alpinisti e sei sherpa. Quattro anni più tardi una gigantesca valanga seppellisce il campo-base di una nuova spedizione germanica, uccidendo sette alpinisti e nove portatori d'alta quota. Nel 1939, un altro team che vuole tentare la cima viene bloccato dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Tra gli alpinisti c'è Heinrich Harrer, che fuggirà da un campo di prigionia per dirigersi a piedi verso Lhasa. Nel 1953, è un grande alpinista tirolese, Hermann Buhl, a completare l'itinerario degli anni Trenta percorrendo, da solo, la interminabile cresta di neve e rocce che collega la Sella d'Argento alla cima. Il ritorno, scandito da allucinazioni e congelamenti, include un terribile bivacco. Tre bavaresi, Toni Kinshofer, Anderl Mannhardt e Sigi Löw, inaugurano nel 1962 sul versante di Diamir quella che oggi è la via più seguita della montagna.

Nel 1970, i fratelli Messner, cordata di punta della spedizione diretta da Karl Herrigkofler, vincono la ciclopica parete Rupal, scendono senza materiale da bivacco né corda per il più facile ma pericoloso versante di Diamir. Alla fine della discesa il ventiquattrenne Günther scompare. Reinhold risale, lo cerca per un'intera giornata, riesce a stento a trascinarsi fino a valle. I poveri resti di Günther verranno individuati solo nel 2005. Tre anni dopo, una caduta in un crepaccio del versante di Rakhiot uccide l'alpinista gardanese Karl Unterkircher. Il soccorso ai suoi compagni di spedizione Walter Nones e Simon Kehrer commuove migliaia di italiani. Il volto della montagna crudele non cambia.

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99. NIVES, LA DONNA DEGLI "OTTOMILA"


Vive ai piedi delle Alpi Giulie, in una casa tra i boschi, tra Tarvisio e il confine sloveno. Ha il fisico scattante e minuto dei grandi alpinisti himalayani. Fuma, non ha figli, e su questi dettagli le interviste si soffermano spesso. A stupire chi incontra per la prima volta Nives Meroi, però, sono l'entusiasmo, il sorriso, e la sua voglia di raccontarsi e spiegare.

Nata alle porte di Bergamo, Nives arriva in Friuli a sette anni insieme alla famiglia. Si inserisce perfettamente in questa terra di frontiera, dove negli anni di Tito i graniciari, i militi di confine jugoslavi sono pronti ad arrestare gli alpinisti che varcavano senza permesso il confine. E dove invece le donne di Rate, il primo borgo sloveno al di là della frontiera, vengono a piedi a coltivare i loro campi rimasti in territorio italiano.

A Tarvisio Nives conosce Romano Benet, forestale specializzato in catture di camosci e stambecchi, che diventa suo marito e il suo compagno di cordata ideale. Sulle montagne di casa i due compiono salite importanti come la prima invernale del Pilastro Piussi alla parete nord del Piccolo Mangart di Coritenza (con Alberto Busettini) e della Cengia degli Dei dello Jôf Fuart.

L'avventura di Nives e Romano sugli "ottomila" inizia nel 1998 sul Nanga Parbat, e prosegue sullo Shisha Pangma e sul Cho-Oyu, saliti entrambi nel 1999. Nel 2003, la coppia sale l'Hidden Peak, il Gasherbrum II e il Broad Peak, tutti in Karakorum. Nel 2004, tocca al Lhotse, nel 2006 al Dhaulagiri e al K2, nel 2007 all'Everest e nel 2008 al Manaslu. Presso il grande pubblico diventa famosa grazie a Sulla traccia di Nives, un libro dello scrittore e alpinista Erri De Luca che esce nel 2005.

Dopo le vittorie sul Dhaulagiri e sul K2, sembra che la Meroi possa diventare la prima donna al mondo a completare la collezione degli "ottomila". Ma il destino si oppone. Nel 2009, Nives e Romano devono rinunciare all'Annapurna, uno degli "ottomila" più pericolosi, a causa delle condizioni proibitive della neve. Più tardi, a poca distanza dalla vetta del Kangchenjunga, Romano si sente male, e Nives deve riportarlo al campo base. Seguono mesi di cure e la tragica morte di Luca Vuerich, amico e compagno di ascensioni della coppia, che nel gennaio del 2010 viene ucciso da una valanga sulle Giulie.

Nell'aprile dello stesso anno, la collezione degli "ottomila" viene completata dalla coreana Oh Eun-Sun, che si aiuta con bombole di ossigeno sull'Everest e sul K2, e utilizza più volte elicotteri per spostarsi da una montagna all'altra. Un mese più tardi, e con uno stile migliore, arriva al traguardo la spagnola Edurne Pasaban. A Nives, che si è ritirata dalla gara nel 2009, il sorpasso non sembra pesare più di tanto.

«Nives è l'alpinista più forte di tutti i tempi, ha salito le sue cime asfissianti senza uso di bombole di ossigeno e senza impiego di portatori d'alta quota», commenta Erri De Luca sul «Corriere della Sera». «Il fatto che l'alpinismo himalayano femminile sia diventato una corsa con come unico obiettivo il risultato mi ha fatto decidere di non giocare più», aggiunge Nives.

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