Copertina
Autore Hannah Arendt
Titolo La banalità del male
SottotitoloEichmann a Gerusalemme
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2001 [1964], Saggi UE 1640 , pag. 316, dim. 125x195x18 mm , Isbn 978-88-07-81640-6
OriginaleEichmann in Jerusalem [1963]
TraduttorePiero Bernardini
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe storia , storia contemporanea , diritto , shoah , paesi: Israele , paesi: Germania , guerra-pace
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Indice


  9  Nota alla presente edizione

 11  Capitolo primo
     La Corte

 29  Capitolo secondo
     L'imputato

 44  Capitolo terzo
     Un esperto di questioni ebraiche

 64  Capitolo quarto
     La prima soluzione: espulsione

 76  Capitolo quinto
     La seconda soluzione: concentramento

 91  Capitolo sesto
     La soluzione finale: sterminio

120  Capitolo settimo
     La conferenza di Wannsee, ovvero
     Ponzio Pilato

142  Capitolo ottavo
     I doveri di un cittadino ligio alla legge

158  Capitolo nono
     Deportazioni dal Reich - Germania, Austria
     e Protettorato

169  Capitolo decimo
     Deportazioni dall'Europa occidentale -
     Francia, Belgio, Olanda, Danimarca, Italia

187  Capitolo undicesimo
     Deportazioni dai Balcani - Jugoslavia,
     Bulgaria, Grecia, Romania

201  Capitolo dodicesimo
     Deportazioni dall'Europa centrale -
     Ungheria e Slovacchia

213  Capitolo tredicesimo
     I centri di sterminio dell'Europa
     orientale

227  Capitolo quattordicesimo
     Prove e testimonianze

241  Capitolo quindicesimo
     Condanna, appello ed esecuzione

260  Capitolo sedicesimo
     Epilogo

285  Appendice. Le polemiche sul caso Eichmann

301  Bibliografia

305  Indice dei nomi

 

 

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Pagina 29

Capitolo secondo


L'imputato



[...]

Per tutto il processo Eichmann cercò di spiegare, quasi sempre senza successo, quest'altro punto grazie al quale non si sentiva "colpevole nel senso dell'atto d'accusa". Secondo l'atto d'accusa egli aveva agito non solo di proposito, ma anche per bassi motivi e ben sapendo che le sue azioni erano criminose. Ma quanto ai bassi motivi, Eichmann era convintissimo di non essere un innerer Schweinehund, cioé di non essere nel fondo dell'anima un individuo sordido e indegno; e quanto alla consapevolezza, disse che sicuramente non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato - trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte - con grande zelo e cronometrica precisione. Queste affermazioni lasciavano certo sbigottiti. Ma una mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato "normale", e uno di questi, si dice, aveva esclamato addirittura: "Piú normale di quello che sono io dopo che l'ho visitato," mentre un altro aveva trovato che tutta la sua psicologia, tutto il suo atteggiamento verso la moglie e i figli, verso la madre, il padre, i fratelli, le sorelle e gli amici era "non solo normale, ma ideale"; e infine anche il cappellano che lo visitò regolarmente in carcere dopo che la Corte Suprema ebbe finito di discutere l'appello, assicurò a tutti che Eichmann aveva "idee quanto mai positive". Dietro la commedia degli esperti della psiche c'era il fatto che egli non era evidentemente affetto da infermità mentale. (Le recenti rivelazioni di Hausner, che sulle colonne del Saturday Evening Post ha parlato di cose che non aveva potuto "esporre al processo", contraddicono però questa tesi. Hausner ci dice ora che secondo gli psichiatri Eichmann era "un uomo ossessionato da una pericolosa e insanabile mania omicida," "un individuo perverso e sadico": nel qual caso avrebbe dovuto essere ricoverato in un manicomio.) Peggio ancora, non si poteva neppure dire che fosse animato da un folle odio per gli ebrei, da un fanatico antisemitismo, o che un indottrinamento di qualsiasi tipo avesse provocato in lui una deformazione mentale. "Personalmente" egli non aveva mai avuto nulla contro gli ebrei; anzi, aveva sempre avuto molte "ragioni private" per non odiarli. Certo, tra i suoi piú intimi amici c'erano stati fanatici antisemiti, per esempio quel Lászlo Endre, sotto-segretario di Stato addetto agli affari politici (problema ebraico) in Ungheria, che fu impiccato a Budapest nel 1946; ma secondo lui questo equivaleva piú o meno a dire: "Alcuni dei miei migliori amici sono antisemiti".

Ahimé, nessuno gli credette. Il Pubblico ministero non gli credette perché la cosa non lo riguardava; il difensore non gli dette peso perché evidentemente non si curava dei problemi di coscienza; e i giudici non gli prestarono fede perché erano troppo buoni e forse anche troppo compresi dei principi basilari della loro professione per ammettere che una persona comune, "normale", non svanita né indottrinata né cinica, potesse essere a tal punto incapace di distinguere il bene dal male. Da alcune occasionali menzogne preferirono concludere che egli era fondamentalmente un "bugiardo" - e cosi trascurarono il piú importante problema morale e anche giuridico di tutto il caso. Essi partivano dal presupposto che l'impurato, come tutte le persone "normali", avesse agito ben sapendo di commettere dei crimini; e in effetti Eichmann era normale nel senso che "non era una eccezione tra i tedeschi della Germania nazista", ma sotto il Terzo Reich soltanto le "eccezioni" potevano comportarsi in maniera "normale". Questa semplice verità pose i giudici di fronte a un dilemma insolubile, e a cui tuttavia non ci si poteva sottrarre.

Eichmann era nato il 19 marzo 1906 a Solingen, una città della Renania famosa per i coltelli, le forbici e gli strumenti chirurgici che vi si fabbricano. Cinquantaquattro anni piú tardi, indulgendo alla sua vecchia passione di scrivere memorie, cosí descrisse quel memorabile evento: "Oggi, quindici anni e un giorno dopo l'8 maggio 1945, comincio a riandare con la mente a quel 19 marzo dell'anno 1906 in cui, alle ore 5 di mattina, vidi la luce di questa terra, in forma di essere umano".

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Pagina 44

Capitolo terzo


Un esperto di questioni ebraiche

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Tuttavia c'erano sempre parecchi problemi che potevano essere risolti soltanto nel corso dell'operazione, e qui effettivamente Eichmann, per la prima volta in vita sua, si accorse di avere doti speciali. C'erano due cose che egli poteva far meglio di altri: organizzare e negoziare. Appena arrivato intavolò trattative con i rappresentanti della comunità ebraica, dopo averli fatti liberare dalle prigioni e dai campi di concentramento, giacché lo "zelo rivoluzionario" in Austria, superando di gran lunga gli "eccessi" verificatisi in Germanía, era sfociato nell'imprigionamento di quasi tutte le maggiori personalità ebraiche. Dopo questa esperienza, i funzionari ebraici non avevano bisogno di Eichmann per convincersi dell'opportunità di emigrare. Anzi, gli esposero le enormi difficoltà che incontravano. A parte il problema finanziario, già "risolto", l'ostacolo principale era costituito dalla gran massa di documenti che ogni emigrante doveva procurarsi per lasciare il paese. Poiché ciascun documento era valido soltanto per un breve periodo di tempo, di regola accadeva che quando l'ultimo era pronto il primo era già scaduto da un pezzo. Una volta capito come funzionavano o meglio come non funzionavano le cose, Eichmann "rifletté" e partorì "l'idea che a mio avviso doveva render giustizia a entrambe le parti". Progettò una specie di "catena di montaggio": "all'inizio c'è il primo documento, poi vengono gli altri documenti, e al termine si dovrebbe avere il passaporto, come prodotto finale". Per far questo bisognava che tutte le istanze interessate - il ministero delle finanze, il fisco, la polizia, la comunità ebraica, ecc. - fossero ospitate tutte sotto lo stesso tetto e costrette a lavorare sul posto, in presenza del richiedente: il quale non avrebbe piú dovuto correre da un ufficio all'altro e probabilmente non avrebbe piú dovuto sottostare a svariate angherie, evitando anche di dover pagare mance per sollecitare la sua pratica. Quando tutto fu pronto e la "catena di montaggio" cominciò a funzionare speditamente, Eichmann "invitò" i funzionari ebraici di Berlino a ispezionarla. Quelli rimasero di sasso: "È come una fabbrica automatica, come un mulino collegato a una panetteria. A un capo s'infila un ebreo che possiede ancora qualcosa, una fabbrica, un negozio, un conto in banca, e questo percorre l'edificio da uno sportello all'altro, da un ufficio all'altro, e sbuca all'altro capo senza un soldo, senza piú nessun diritto, solamente con un passaporto in cui si dice: 'Devi lasciare il paese entro quindici giorni, altrimenti finirai in un campo di concentramento.'"

Questa, nelle sue grandi linee, era la vera procedura; ma c'era ancora qualcos'altro. Gli ebrei non potevano essere lasciati completamente "senza un soldo", per la semplice ragione che in tal caso nessun paese straniero, a quell'epoca, li avrebbe accettati. Avevano quindi bisogno di un Vorzeigegeld, di una somma da mostrare per ottenere i visti d'ingresso e superare i controlli dei paesi dove immigravano. A tale scopo dovevano avere della valuta straniera, ma il Reich non intendeva sprecare la sua valuta straniera a questo modo. Né si poteva contare sui capitali che gli ebrei possedevano all'estero, poiché era difficile mettervi sopra le mani, dato che da vari anni erano congelati. Perciò Eichmann mandò in vari paesi emissari ebrei perché chiedessero fondi alle grandi organizzazioni ebraiche, e questi fondi furono poi venduti dalla comunità ebraica a coloro che dovevano emigrare, con notevole profitto: un dollaro, per esempio, era venduto per 10 o 20 marchi mentre il suo valore sul mercato era di appena 4,20 marchi. Fu soprattutto per questa via che la comunità si procurò non solo il denaro necessario per gli ebrei poveri e per quelli che non avevano capitali all'estero, ma anche i fondi che le occorrevano per le proprie attività, in fase di grande espansione. Naturalmente, prima di arrivare a tanto, Eichmann incontrò forte resistenza da parte delle autorità finanziarie tedesche, poiché il ministero delle finanze e il Tesoro si rendevano ben conto che queste transazioni si risolvevano in una svalutazione del marco.

La millanteria era il peggior difetto di Eichmann: il difetto che lo rovinò. Era una pura e semplice rodomontata la frase che disse ai suoi uomini negli ultimi giorni di guerra: "Salterà nella tomba ridendo, poiché il fatto di avere sulla coscienza la morte di cinque milioni di ebrei [ossia di "nemici dei Reich", come amava dire] mi dà una soddisfazione enorme". In realtà, non saltò nella tomba, e se qualcosa aveva sulla coscienza, non era l'assassinio, ma il fatto di avere un giorno schiaffeggiato il dott. Josef Löwenherz, capo della comunità ebraica di Vienna, che poi era divenuto uno degli ebrei da lui piú apprezzati. (In quell'occasione si era scusato in presenza del suo stato maggiore, ma il ricordo dell'incidente continuava ad amareggiarlo.) Vantarsi di avere ucciso cinque milioni di ebrei, quasi il totale degli ebrei soppressi grazie agli sforzi combinati di tutti gli organismi e di tutte le autorità naziste, tra naturalmente ridicolo, lui lo sapeva benissimo; tuttavia seguitò a ripeterlo fino alla nausea a tutti coloro che lo volevano ascoltare, anche dodici anni dopo, in Argentina, e questo perché "lo esaltava il pensiero di uscire dalla scena in quel modo". (Un testimone della difesa, l'ex-consigliere di ambasciata Horst Grell, che lo aveva conosciuto in Ungheria, dichiarò che a suo avviso si trattava di una vanteria: il che era ovvio per chiunque lo aveva sentito fare quell'affermazione.) E fu una semplice vanteria quando sostenne di avere "inventato" il sistema dei ghetti o di aver "partorito" l'idea di trasportare tutti gli ebrei d'Europa nel Madagascar. Il ghetto di Theresienstadt, di cui egli si attribuiva la "paternità", fu creato quando già da vari anni il sistema dei ghetti era stato introdotto nei territori occupati dell'Europa orientale, e l'istituzione di un ghetto speciale per certe categorie privilegiate era, al pari del sistema dei ghetti, un'"idea" di Heydrich. Il progetto dei Madagascar era "nato", a quanto pare, negli uffici del ministero degli esteri del Reich, e il contributo personale di Eichmann era in buona parte frutto della mente del suo diletto dottor Löwenherz, da lui incaricato di mettere sulla carta "alcune idee basilari" sul modo di deportare dopo la guerra circa quattro milioni di ebrei - probabilmente in Palestina, dato che il piano del Madagascar era segretissimo. Al processo, quando gli fu messo dinanzi il rapporto di Löwenherz, Eichmann non negò che Löwenherz ne era l'autore, e fu quello uno dei pochi momenti in cui apparve veramente imbarazzato. Ciò che finí col condurre alla sua cattura fu la mania di dir cose grosse - era "stufo di essere un anonimo pellegrino" - e questa mania doveva essersi rafforzata in lui col passare del tempo, non solo perché non aveva nulla da fare che gli piacesse, ma anche perché nel periodo postbellico la sua figura era divenuta inaspettatamente "famosa".

Ma la millanteria è un vizio comune, mentre un tratto piú personale, nonché piú importante, del carattere di Eichmann era la sua quasi totale incapacità di vedere le cose dal punto di vista degli altri. Ciò risulta con tutta chiarezza dal racconto che fece del periodo viennese. A questo proposito dichiarò che lui, i suoi uomini e gli ebrei "si appoggiavano" a vicenda, e che i funzionari ebrei, quando incontravano qualche difficoltà, correvano da lui per "sfogarsi", per riferirgli tutte le loro preoccupazioni e per chiedergli aiuto. Gli ebrei "desideravano" emigrare, e lui, Eichmann, era li ad aiutarli, dato che le autorità naziste, dal canto loro, avevano espresso il desiderio di vedere il loro Reich judenrein, "ripulito dagli ebrei". I due desideri coincidevano, dunque, e lui poteva "render giustizia a entrambe le parti". Al processo egli non recedette mai da questa posizione, pur ammettendo che, ora che "i tempi erano tanto cambiati", gli ebrei non dovevano ricordare con molto piacere quel "reciproco appoggio", e affermando che personalmente non voleva "ferire i loro sentimenti".

Il testo tedesco dell'interrogatorio, registrato su nastro, a cui fu sottoposto durante l'istruttoria e che si protrasse dal 29 maggio 1960 al 17 gennaio 1961 (ogni pagina fu riveduta e approvata da Eichmann), è una vera miniera per lo psicologo - purché questi sappia capire che l'orrido può essere non solo ridicolo ma addirittura comico. Alcuni dettagli non possono essere resi convenientemente in altra lingua, perché sono strettamente legati alla disperata lotta di Eichmann con la lingua tedesca - lotta da cui usciva sempre sconfitto. Comica è l'espressione geflügelte Worte, "parole alate" (un colloquialismo tedesco per indicare frasi famose di classici) da lui usata qua e là nel senso di "modi di dire" (Redensarten) o di "slogan" (Schlagworte). E comico fu il termine kontra geben che usò al processo durante l'interrogatorio sui documenti Sassen (interrogatorio condotto in lingua tedesca dal presidente), per dire che si era opposto ai tentativi di Sassen di fargli raccontare la sua storia; il giudice Landau, che evidentemente non conosceva i misteri dei giochi di carte, non capì, e Eichmann non seppe in che altro modo esprimersi: vagamente consapevole di un difetto che già doveva averlo tormentato quando andava a scuola - difetto che sfociava in una forma mite di afasia -, si scusò dicendo: "Il linguaggio burocratico (Amtsprache) è la mia unica lingua". Il fatto è però che il gergo burocratico era la sua lingua perché egli era veramente incapace di pronunziare frasi che non fossero clichés. (Erano forse questi clichés che gli psichiatri trovavano cosí "normali" e "ideali"? Sono queste le "idee positive" che un religioso spera di riscontrare nelle anime che cura? La migliore occasione per mostrare il lato positivo della sua mentalità Eichmann la ebbe quando a Gerusalemme il giovane poliziotto incaricato di salvaguardare il suo benessere mentale e psicologico gli dette da leggere Lolita, come svago; dopo due giorni Eichmann gli restituí il libro dicendo con aria indignata: "Ma è un libro proprio sgradevole!".) Certo, i giudici non ebbero torto quando alla fine dissero all'imputato che tutto ciò che aveva detto erano "chiacchiere vuote": ma essi pensavano che quella vacuità fosse finta e cie egli cercasse di nascondere altre cose, odiose, sí, ma non vuote. L'ipotesi sembra confutata dalla sorprendente coerenza e precisione con cui l'imputato, malgrado la sua piuttosto cattiva memoria, ripeté parola per parola le stesse frasi fatte e gli stessi clichés di sua invenzione (quando riusciva a costruire un periodo proprio, lo ripeteva fino a farlo divenire un clichés) ogni volta che qualcuno accennava a un incidente o a un evento che lo riguardava direttamente. Sia che scrivesse le sue memorie in Argentina, sia che le scrivesse a Gerusalemme, sia che parlasse al giudice istruttore, sia che parlasse alla Corte, disse sempre le stesse cose, adoperando sempre gli stessi termini. Quanto piú lo si ascoltava, tanto piú era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata a un'incapacità di pensare, cioé di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano.

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Di tanto in tanto la commedia sfociava nell'orrido, in storie - probabilmente abbastanza vere - il cui macabro umorismo superava ampiamente la fantasia di un surrealista. Tale fu la storia che Eichmann raccontò in istruttoria a proposito dell'infelice consigliere commerciale Storfer, di Vienna, rappresentante della comunità ebraica. Eichmann aveva ricevuto da Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, un telegramma in cui lo si informava che Storfer era stato internato e aveva chiesto di vederlo con urgenza. "Dissi tra me: In fondo quest'uomo si è sempre comportato bene e merita che io gli dedichi un po' del mio tempo... Andrò di persona a vedere che cosa vuole. E cosi vado da Ebner [capo della Gestapo a Vienna], ed Ebner dice (ricordo solo vagamente): 'Se non fosse stato cosí scemo! Si è nascosto e ha cercato di scappare,' o qualcosa del genere. E la polizia lo aveva arrestato e mandato nel campo di concentramento, e secondo gli ordini del Reichsführer [Himmler] nessuno poteva uscire, una volta entrato. Non si poteva far nulla: né io né il dott. Ebner né alcun altro poteva far nulla. Io andai ad Auschwitz e chiesi a Höss di vedere Storfer. 'Già, già [disse Höss], è in una delle brigate di lavoro'. Con Sterfer, dopo, andò bene, fu una cosa normale e umana, avemmo un incontro normale, umano. Lui mi raccontò tutti i suoi guai. Io dissi: 'Sí, mio vecchio caro Storfer, è proprio una scalogna!' E gli dissi anche: 'Vede, purtroppo non La posso aiutare perché secondo gli ordini del Reichsführer nessuno può uscire. Io non posso farla uscire; il dott. Ebner neppure. Ho sentito dire che Lei ha fatto uno sbaglio, che si è nascosto o voleva scappare, eppure non c'era bisogno che Lei facesse una cosa simile' [in quanto funzionario ebraico, Storfer non poteva essere deportato]. Non ricordo che cosa mi rispondesse. E poi gli chiesi come stava, e lui mi disse che voleva sapere se poteva essere esonerato dal lavoro, era un lavoro duro. E allora io dissi a Höss: 'Lavoro - Storfer non vuole lavorare'. Ma Höss disse: 'Tutti lavorano qui,' e allora io dissi: 'Se è cosi, dissi, farò un discorsino perché Storfer debba tenere in ordine i viottoli con la scopa (c'erano pochi viottoli, lì) e perché abbia il diritto di sedersi con la scopa su una panca'. Dissi [a Storfer]: 'È, contento, signor Storfer? Le va?' Lui era tutto soddisfatto, ci stringemmo la mano, e poi gli fu data una scopa e si sedette sulla panca. Fu una gran gioia per me potere almeno rivedere l'uomo con cui avevo lavorato per tanti anni, e poterci parlare". Sei settimane dopo questo incontro normale e umano Storfer era morto - non nelle camere a gas, a quanto pare, ma fucilato.

È questo un esempio di malafede, un ingannare se stesso, congiunto a un'enorme stupidità? O è semplicemente l'eterna storia del criminale che non si pente (nelle sue memorie Dostojevskij ricorda che in Siberia, tra tanti assassini, ladri e violenti non ne trovò mai uno solo disposto ad ammettere di avere agito male), del criminale che non può vedere la realtà perché il suo crimine è divenuto una parte di essa? Eppure il caso di Eichmann è diverso da quello del criminale comune. Questo può sentirsi ben protetto, al riparo dalla realtà di un mondo retto, soltanto finché non esce dagli stretti confini della sua banda. Ma ad Eichmann bastava ricordare il passato per sentirsi sicuro di non star mentendo e di non ingannare se stesso, e questo perché lui e il mondo in cui aveva vissuto erano stati, un tempo, in perfetta armonia. E quella società tedesca di ottanta milioni di persone si era protetta dalla realtà e dai fatti esattamente con gli stessi mezzi e con gli stessi trucchi, con le stesse menzogne e con la stessa stupidità che ora si erano radicate nella mentalità di Eichmann. Queste menzogne cambiavano ogni anno, e spesso erano in contraddizione tra loro; inoltre, non erano necessariamente uguali per tutti i vari rami della gerarchia dei partito o della popolazione. Ma l'abitudine d'ingannare se stessi era divenuta cosí comune, quasi un presupposto morale per sopravvivere, che ancora oggi, a vent'anni dal crollo del regime nazista, oggi che ormai il contenuto specifico di quelle menzogne è stato dimenticato, ogni tanto si è portati a credere che il mendacio sia divenuto parte integrante del carattere tedesco. Durante la guerra la menzogna piú efficace per incitare e unire tutta la nazione tedesca fu lo slogan della "lotta fatale" (der Schicksalskampf des deutschen Volkes). Coniato che fosse da Hitler o da Goebbels, quello slogan serviva a convincere la gente che, innanzitutto, la guerra non era guerra; in secondo luogo, che la guerra era venuta dal destino e non dalla Germania; e in terzo luogo che per i tedeschi era una questione di vita o di morte: o annientare i nemici o essere annientati.

La stupefacente disposizione di Eichmann, sia in Argentina che a Gerusalemme, ad ammettere i propri crimini, era dovuta non tanto alla capacità tipica del criminale d'ingannare se stesso, quanto alla atmosfera di sistematica menzogna che era stata l'atmosfera generale, e generalmente accettata, del Terzo Reich. "Naturalmente" egli aveva contribuito allo sterminio degli ebrei; naturalmente, se lui non li avesse trasportati "essi non sarebbero finiti nelle mani del carnefìce". "Che cosa c'è da 'ammettere'?" diceva. Ora, aggiunse, gli sarebbe piaciuto "rappacificarsi con i nemici di un tempo" - un'idea, questa, già espressa da Himmler durante l'ultimo anno di guerra, e dal leader del "Fronte dei Lavoro" Robert Lev, che prima di uccidersi a Norimberga aveva proposto un "comitato di riconciliazione" costituito da nazisti responsabili dei massacri e da ebrei sopravvissuti; ma una idea condivisa anche, cosa incredibile, da molti tedeschi comuni, che alla fine della guerra furono uditi pronunziare frasi quasi identiche. Questo slogan insolente non era piú imposto dall'alto; quei tedeschi se l'erano fabbricato da sé, ed era uno slogan vuoto e astruso come quelli su cui tutta la nazione aveva vissuto per dodici anni. Ed è facile supporre che, nel momento in cui esprimevano quel concetto, essi si "esaltassero" al pensiero della loro grandezza d'animo.

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Pagina 76

Capitolo quinto


La seconda soluzione: concentramento



Fu soltanto quando scoppiò la guerra (1° settembre 1939) che il regime nazista divenne scopertamente totalitario e criminale. Uno dei passi piú importanti in questa direzione, sul piano organizzativo, fu un decreto, firmato da Himmler, che fuse il Servizio di sicurezza delle SS, che era un organo del partito e a cui Eichmann apparteneva fin dal 1934, con la polizia di sicurezza dello Stato, cioè con la polizia regolare, che comprendeva anche la polizia segreta dello Stato o Gestapo. Da questa fusione nacque l'Ufficio centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA), il cui primo capo fu Reinhardt Heydrich; dopo la morte di Heydrich, avvenuta nel 1942, il posto fu occupato dal dott. Ernst Kaltenbrunner, vecchio amico di Eichmann, che l'aveva conosciuto a Linz. Tutti gli ufficiali di polizia, non solo quelli della Gestapo, ma anche quelli della polizia criminale e della polizia dell'ordine, ricevettero nuovi titoli - i titoli in uso tra le SS - corrispondenti ai gradi che avevano a quella data, fossero o non fossero iscritti al partito: e ciò significa che da un giorno all'altro uno dei piú importanti settori dei vecchi servizi civili fu inquadrato nell'organizzazione nazista piú estremista. Nessuno, a quanto ci consta, protestò o si dimise. (Sebbene Himmler, capo e fondatore delle SS, rivestisse dal 1936 anche la carica di capo della polizia tedesca, fino a quel momento i due apparati erano rimasti distinti.) L'RSHA, inoltre, era soltanto uno dei dodici uffici centrali delle SS: i piú importanti erano l'Ufficio centrale dell'ordine pubblico, diretto dal generale Kurt Daluege, che si occupava di rastrellare gli ebrei, e l'Ufficio centrale dell'amministrazione e dell'economia (Wirtschafts-Verwaltungshaupt-amt, o WVHA), diretto da Oswald Pohl, che si occupava dei campi di concentramento e piú tardi s'interessò degli aspetti "economici" dello sterminio.

Questa "concretezza" o "oggettività" (Sachlichkeit) - parlare dei campi di concentramento in termini di "amministrazione" e dei campi di sterminio in termini di "economia" - era tipica della mentalità delle SS, ed era una cosa di cui Eichmann, al processo, si mostrò ancora quanto mai fiero. Grazie ad essa, le SS si distinguevano da certi tipi "emotivi" come Streicher, "poveri idioti" che non avevano una visione realistica, e anche da certi "pezzi grossi teutonico-germanici" del partito, che "si comportavano da caproni". Eichmann ammirava Heydrich, che detestava simili stupidità, e aveva in antipatia Himmler che, sebbene capo di tutti gli uffici centrali delle SS, "se ne era lasciato per lungo tempo influenzare". Al processo, tuttavia, non fu l' Obersturmbannführer a. D. a riportare la palma dell'"oggettività"; fu invece il dott. Servatius, avvocato di Colonia esperto in questioni fiscali e commerciali, il quale, benché non avesse mai aderito al partito nazista, tenne alla Corte una lezione su ciò che significa non essere "emotivi": lezione che, chi la udí, difficilmente dimenticherà. L'episodio - uno dei pochi avvenimenti memorabili di tutto il processo - si verificò durante la breve arringa finale del difensore, dopo la quale la Corte si ritirò per quattro mesi per stilare la sentenza. Servatius disse che l'imputato non era responsabile delle "collezioni di scheletri, sterilizzazioni, uccisioni mediante gas e analoghe questioni mediche". Il giudice Halevi lo interruppe: "DottQr Servatius, suppongo che Lei sia incorso in un lapsus linguae quando ha detto che l'uccisione mediante gas era una questione medica"; al che Servatius rispose: "Era proprio una questione medica, perché era preparata da medici; si trattava di uccidere, e anche uccidere è una questione medica". E come se non bastasse, quasi per essere sicuro che i giudici di Gerusalemme non dimenticassero in che modo i tedeschi (quelli comuni, non gli ex-membri delle SS o gli ex-membri del partito nazista) ancor oggi intendono certi atti che in altri paesi sono chiamati omicidio, ripeté la frase nei suoi "Commenti alla sentenza di prima istanza," stilati in vista della revisione del processo dinanzi alla Corte Suprema; ripete anche che non Eichmann, ma uno dei suoi uomini, Rolf Günther, "si occupava sempre di questioni mediche". (Il dott. Servatius s'intende molto di "questioni mediche" del Terzo Reich: a Norimberga difese infatti Karl Brandt, medico personale di Hitler, plenipotenziario per l'igiene e la sanità e capo del programma di eutanasia.)

Ciascuno degli uffici centrali delle SS era diviso, al tempo della guerra, in sezioni e sottosezioni, e cosí anche l'RSHA finí col comprendere sette sezioni principali. La IV Sezione era quella della Gestapo ed era capeggiata da Heinrich Müller, il quale in base alla nuova terminologia era ora Gruppenführer (maggior generale). Suo compito era combattere "gli avversari dello Stato", e questi erano divisi in due categorie di cui si occupavano due distinte sottosezioni: gli "oppositori" accusati di comunismo, sabotaggio, liberalismo e omicidio erano di competenza della sottosezione IV-A; la sottosezione IV-B si occupava invece delle "sette", cioè cattolici, protestanti, massoni (per questi il posto rimase vacante) ed ebrei. Ciascuna sottosezione aveva a sua volta tanti uffici quante erano queste sottocategorie, le quali erano indicate con numeri arabi, e cosí Eichmann fu alla fine assegnato (nel 1941) all'ufficio IV-B-4 dell'RSHA. Poiché il suo diretto superiore, il capo della sottosezione IV-B, era una nullità, il suo vero padrone era sempre Müller. E il superiore di Müller era Heydrich (piú tardi Kaltenbrunner), che a sua volta dipendeva da Himmler, e quest'ultimo riceveva i suoi ordini direttamente da Hitler.

Oltre ai dodici uffici centrali, Himmler dirigeva un apparato che era del tutto diverso ma che ebbe anch'esso un ruolo importantissimo nell'attuazione della "soluzione finale". Si tratta della rete dei comandanti superiori delle SS e della polizia. Questi ufficiali comandavano organizzazioni regionali, ma non erano legati all'RSHA, bensí rispondevano del loro operato direttamente a Himmler, e nella scala gerarchica erano sempre superiori ad Eichmann e ai suoi uomini. Dal canto loro, gli Einsatzgruppen dipendevano da Heydrich e dall'RSHA - il che però non significava necessariamente che Eichmann avesse a che fare con loro. Ma anche i comandanti degli Einsatzgruppen erano sempre, gerarchicamente, piú in alto di Eichmann. Dal punto di vista tecnico e organizzativo la posizione di Eichmann non era dunque di primissimo piano; se si rivelò cosi importante fu solo perché durante la guerra la lotta antiebraica acquistò di mese in mese, di settimana in settimana, di giorno in giorno un peso sempre maggiore, finché negli anni della disfatta (dal 1943 in poi) assunse proporzioni fantastiche. Quando ciò accadde, ufficialmente il IV-B-4 era ancora il solo a occuparsi esclusivamente degli "oppositori, gli ebrei", ma in realtà aveva perduto il monopolio perché ormai tutti gli uffici e tutti gli apparati, lo Stato e il partito, l'esercito e le SS, erano impegnati a "risolvere" il problema. Anche se limitiamo la nostra attenzione al meccanismo poliziesco trascurando tutti gli altri uffici, il quadro è terribilmente complesso, e questo perché agli Einsatzgruppen e al corpo dei comandanti superiori delle SS e della polizia dobbiamo aggiungere i comandanti e gli ispettori della polizia di sicurezza e del Servizio di sicurezza. Ognuno di questi gruppi costituiva una catena gerarchica diversa, e anche se tutte queste catene gerarchiche facevano capo a Himmler, ognuna era pari alle altre e chi apparteneva a un gruppo non doveva obbedienza ai funzionari, anche se superiori, di un altro gruppo. È impresa ardua - bisogna riconoscerlo - raccappezzarsi in questo labirinto d'istituzioni parallele, e perciò l'accusa si trovò in seria difficoltà ogni volta che dovette avventurarvici per attribuire ad Eichmann qualche responsabilità precisa. (Se il processo avesse avuto luogo oggi, la cosa sarebbe stata molto piú facile, poiché Raul Hilberg nel suo libro The Destruction of the European Jews è riuscito finalmente a darci una descrizione chiara di quello spaventoso meccanismo.)

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Capitolo sesto


La soluzione finale: sterminio

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Non è né provato né verosimile che Eichmann entrasse mai personalmente in contatto con gli uomini del 20 luglio, e del resto sappiamo che in Argentina egli li considerava ancora una massa di infami traditori. Eppure, se Eichmann avesse avuto la possibilità di conoscere le "originali" idee di Goerdeler in merito alla questione ebraica vi avrebbe probabilmente scoperto dei punti accettabili anche per lui. È vero che Goerdeler proponeva di "pagare un risarcimento agli ebrei tedeschi per le perdite e i maltrattamenti loro inflitti" (questo nel 1942, in un'epoca in cui gli ebrei, e non solo quelli tedeschi, non erano propriamente maltrattati e derubati, ma assassinati col gas); ma a parte queste questioni tecniche, Goerdeler aveva a mente qualcosa di piú costruttivo, e cioè una "soluzione permanente" che "salvasse" tutti gli ebrei d'Europa dalla loro "indecorosa posizione di 'popolo-ospite' piú o meno indesiderato" (nel gergo di Eichmann questo si chiamava "porre un po' di terraferma sotto i loro piedi"). A questo scopo Goerdeler auspicava "uno Stato indipendente in un paese coloniale" (Canadà o Sud-America), insomma una sorta di progetto del Madagascar, progetto di cui certo aveva sentito parlare. Tuttavia faceva anche qualche concessione; non tutti gli ebrei dovevano essere espulsi. Perfettamente in linea con la mentalità del primo nazismo e con il sistema allora corrente delle categorie privilegiate, era disposto a "non negare la cittadinanza tedesca a quegli ebrei che potessero dimostrare d'aver fatto da militari speciali sacrifici per la Germania, o che appartenessero a famiglie di solide tradizioni tedesche". Orbene, qualunque cosa significasse la "soluzione permanente" di Goerdeler, è sicuro che non era una soluzione "originale" (come invece ha sostenuto ancora nel 1954 il Professor Ritter, sviato dall'ammirazione per il suo eroe), e Goerdeler avrebbe potuto trovare anche per questa parte del suo programma numerosi "alleati potenziali" in seno al partito e perfino tra le SS.

Nella lettera sopra citata Goerdeler si appellava alla "voce della coscienza" del feldmaresciallo von Kluge, ma tutto ciò che sapeva dire era che anche un generale deve capire che "continuare la guerra senza alcuna speranza di vittoria è ovviamente un delitto". E tutto sta a dimostrare che la coscienza in quanto tale era morta, in Germania, al punto che la gente non si ricordava piú di averla e non si rendeva conto che il "nuovo sistema di valori" tedesco non era condiviso dal mondo esterno. Naturalmente, questo non vale per tutti i tedeschi: ché ci furono anche individui che fin dall'inizio si opposero senza esitazione a Hitler e al suo regime. Nessuno sa quanti fossero (forse centomila, forse molti di piú, forse molti di meno) poiché non riuscirono mai a far sentire la loro voce. Potevano trovarsi dappertutto, in tutti gli strati della popolazione, tra la gente semplice come tra la gente colta, in tutti i partiti e forse anche nelle file del partito nazista. Di pochissimi conosciamo il nome, come il sopra menzionato Reck-Malleczewen e il filosofo Karl Jaspers. Alcuni erano uomini profondamente miti, come un artigiano - di cui io ho sentito parlare - che preferí lasciar distruggere la sua attività indipendente e impiegarsi in una fabbrica come semplice operaio pur di non compiere la "piccola formalità" d'iscriversi al partito nazista; altri consideravano il giuramento una cosa seria e preferirono rinunziare per esempio alla carriera accademica anziché giurare fedeltà a Hitler. Piú numerosi erano quegli operai, specialmente berlinesi, e quegli intellettuali socialisti che cercavano di aiutare gli ebrei che conoscevano. E ci furono infine quei due ragazzi, figli di contadini, la cui storia è narrata da Günther Weisenborn in Der lautiose Aufstand (1953): arruolati a forza nelle SS alla fine della guerra, essi si rifiutarono di firmare, furono condannati a morte, e il giorno dell'esecuzione scrissero nella loro ultima lettera a casa: "Tutti e due preferiamo morire che avere sulla coscienza cose cosi terribili. Sappiamo che cosa fanno le SS". La posizione di queste persone, che sul piano pratico non poterono mai far nulla, era molto diversa da quella dei cospiratori. Essi avevano conservato intatta la capacità di distinguere il bene dal male, non avevano mai avuto "crisi di coscienza"; certo, potevano anche appartenere al movimento di resistenza, ma non è detto che fossero piú numerose tra i congiurati che tra la gente comune. Non erano né eroi né santi, tacevano. Soltanto in un'occasione la presenza di questi elementi isolati e muti si manifestò in pubblico, in un atto disperato: fu quando due studenti dell'Università di Monaco, gli Scholl, fratello e sorella, influenzati dal loro insegnante Kurt Huber distribuirono i famosi manifestini in cui Hitler era finalmente definito quello che era: un "assassino di massa".

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La memoria di Eichmann, difettosa per quel che riguardava gli ingegnosi slogan di Himmler, può dimostrare che esistevano anche altri e piú efficaci metodi per risolvere il problema della coscienza. Il fattore piú importante, come Hitler aveva calcolato e previsto, era lo stato di guerra in sé e per sé. Eichmann insisté piú volte sul fatto che l'"atteggiamento personale" nei confronti della morte non poteva non cambiare quando "si vedevano morti dappertutto" e quando ciascuno pensava con indifferenza alla propria morte: "Non c'importava morire oggi invece che domani, e talvolta maledivamo la luce del nuovo giorno che ci trovava ancora in vita". Data quest'atmosfera, non poco peso ebbe il fatto che nelle ultime fasi la soluzione finale venisse attuata non piú con le fucilazioni, ossia con la violenza bruta, ma con le camere a gas, che sempre erano state strettamente connesse al programma di eutanasia ordinato da Hitler già nelle prime settimane di guerra e applicato, fino all'invasione della Russia, ai tedeschi malati di mente. Il programma di sterminio iniziato nell'autunno del 1941 seguiva, per cosí dire, due binari completamente diversi. Uno conduceva alle camere a gas, e l'altro nelle mani degli Einsatzgruppen, i quali, specialmente in Russia, agivano nelle retrovie dell'esercito col pretesto di dover combattere i partigiani, e facevano strage non di ebrei soltanto. Oltre che dei veri partigiani, essi si occupavano dei funzionari russi, degli zingari, degli elementi asociali, dei malati di mente, e naturalmente degli ebrei. Questi ultimi erano inclusi nel programma in quanto "nemici potenziali", e, purtroppo, ci vollero dei mesi prima che gli ebrei russi se ne rendessero conto; quando se ne accorsero, era troppo tardi e non c'era piú scampo. (La vecchia generazione ricordava la prima guerra mondiale, quando i soldati tedeschi erano stati salutati come liberatori, e né i vecchi né i giovani avevano mai sentito parlare di come venivano trattati gli ebrei in Germania o magari a Varsavia: erano "malissimo informati", come riferí il servizio di spionaggio tedesco dalla Bielorussia [Hilberg]. Cosa ancor piú interessante, di tanto in tanto in queste regioni arrivavano ebrei tedeschi che erano convinti di essere stati mandati li come "pionieri" del Terzo Reich.) Queste unità mobili addette allo sterminio erano appena quattro, ciascuna delle dimensioni di un battaglione, e contavano in tutto non piú di tremila uomini: avevano quindi bisogno della collaborazione delle forze armate, e in effetti i rapporti con queste erano di regola "eccellenti" e in certi casi addirittura "cordiali" (herzlich). I generali si dimostravano di una "bontà stupefacente": non solo consegnavano agli Einsatzgruppen i loro ebrei, ma spesso distaccavano soldati regolari perché li aiutassero a massacrare. Secondo i calcoli di Hilberg il totale delle loro vittime ebree ammontò a circa un milione e mezzo, ma questa strage non era il risultato dell'ordine del Führer di sterminare fisicamente tutto il popolo ebraico: era il risultato dì un ordine precedente, quello dato da Hitler a Himmler nel marzo del 1941, che diceva di preparare le SS e la polizia ad "assolvere missioni speciali in Russia".

L'idea di sterminare tutti gli ebrei, e non soltanto quelli russi e polacchi, aveva radici molto lontane. Era nata non nell'RSHA o in qualcuno degli altri uffici di Heydrich o di Himmler, ma nella Cancelleria del Führer, cioè nell'ufficio personale di Hitler. Non aveva nulla a che vedere con la guerra e non fu mai giustificata con le necessità militari. Uno dei grandi meriti del libro The Final Solution di Gerald Reitlinger è quello di aver dimostrato, in base a documenti che non lasciano dubbi, che il programma di sterminare col gas gli ebrei dell'Europa orientale fu uno "sviluppo" del programma dell'eutanasia di Hitler, ed è deplorevole che il Tribunale di Gerusalemme, sempre cosi preoccupato della "verità storica", non abbia tenuto conto di questo concreto rapporto. Esso avrebbe aiutato a chiarire la tanto dibattuta questione se Eichmann, che apparteneva all'RSHA, fosse o non fosse implicato in Gasgeschichten. Probabilmente non lo era, anche se uno dei suoi uomini, Rolf Günther, se ne interessava per proprio conto. Globocnik, per esempio, colui che aveva eretto gli impianti a gas nella zona di Lublino, zona che Eichmann aveva visitato, non si rivolgeva né a Himmler né ad alcun'altra autorità della polizia o delle SS, quando aveva bisogno di nuovo personale; scriveva direttamente a Viktor Brack, della Cancelleria del Führer, il quale inoltrava poi la richiesta a Himmler.

Le prime camere a gas furono costruite nel 1939, in ottemperanza al decreto di Hitler, del 1° settembre di quell'anno, secondo cui alle "persone incurabili" doveva essere "concessa una morte pietosa". (Fu probabilmente questa origine a infondere nel dott. Servatius la sorprendente convinzione che lo sterminio coi gas dovesse essere considerato una "questione medica".) L'idea in sé, come abbiamo detto, risaliva a molto tempo prima. Già nel 1935 Hitler aveva spiegato al suo "Capo medico dei Reich" Gerbard Wagner che, se fosse venuta la guerra, avrebbe "ripreso e condotto in porto questa faccenda dell'eutanasia, poiché in ternpo di guerra è molto piú facile". Il decreto entrò immediatamente in vigore per ciò che riguarda i malati di mente, e cosí tra il dicembre del 1939 e l'agosto del 1941 circa cinquantamila tedeschi furono uccisi con monossido di carbonio in istituti dove le camere della morte erano camuffate in stanze per la doccia - esattamente come lo sarebbero state piú tardi ad Auschwitz. Il programma suscitò enorme scalpore. Era impossibile tener segreta l'uccisione di tanta gente; la popolazione tedesca delle zone in cui sorgevano quegli istituti se ne accorse e ci fu un'ondata di proteste, da parte di persone di ogni ceto che ancora non si erano fatte un'idea "oggettíva" della natura della scienza medica e dei compiti del medico. Nell'Europa orientale lo sterminio coi gas - o, per usare il linguaggio dei nazisti, il "modo umanitario" di "concedere una morte pietosa" - iniziò quasi il giorno stesso in cui in Germania fu sospesa l'uccisione dei malati di mente. Gli uomini che avevano lavorato per il programma di eutanasia furono ora inviati a oriente, a costruire gli impianti per distruggere popoli interi - e questi uomini erano scelti o dalla Cancelleria del Führer o dal ministero della sanità del Reich, e solamente ora furono messi, amministrativamente, sotto il controllo di Himmler.

Nessuna delle varie Sprachregelungen studiate in seguito per ingannare e camuffare ebbe sulle menti degli esecutori l'effetto potente di quel decreto hitleriano, contemporaneo allo scoppio della guerra, dove la parola "assassinio" era sostituita dalla perifrasi "concedere una morte pietosa". Eichmann, quando il giudice istruttore gli chiese se l'istruzione di evitare "inutili brutalità" non fosse un po' ridicola visto che gli interessati erano comunque destinati a morte certa, non capì la domanda, tanto radicata nella sua mente era l'idea che peccato mortale non fosse uccidere, ma causare inutili sofferenze. E durante il processo ebbe scatti di sdegno sincero per le crudeltà e le atrocità commesse dalle SS e raccontate dai testimoni, anche se là Corte e il pubblico quasi non se ne accorsero perché, fuorviati dal suo sforzo costante di non perdere l'autocontrollo, si erano convinti che egli fosse un uomo incapace di commozione e indifferente. A scuoterlo veramente non fu l'accusa di aver mandato a morire milioni di persone, ma soltanto l'accusa - mossagli da un testimone e non accolta dalla Corte - di avere un giorno picchiato a morte un ragazzo ebreo. Certo, egli aveva mandato gente anche nell'area dove operavano gli Einsatzgruppen, i quali non concedevano "una morte pietosa" ma fucilavano, tuttavia doveva poi aver provato un senso di sollievo quando ciò non fu piú necessario data la sempre crescente "capacità di assorbimento" delle camere a gas. Doveva anche aver pensato che il nuovo metodo rappresentava un decisivo miglioramento nell'atteggiamento del governo nazista verso gli ebrei poiché il beneficio dell'eutanasia, a regola, era riservato soltanto ai veri tedeschi. Col passare del tempo, mentre la guerra infuriava e dappertutto era morte e violenza (sul fronte russo, nei deserti africani, in Italia, sulle coste francesi, tra le rovine delle città tedesche), i centri di sterminio di Auschwitz e di Chelmno, di Majdanek e di Belzek, di Treblinka e di Sobibor, dovevano davvero essergli apparsi altrettanti "istitutì di carìtà", come li chiamavano gli esperti di eutanasia. Inoltre, a partire dal gennaio del 1942, sul fronte orientale avevano cominciato a operare "gruppi di eutanasia" che aiutavano i feriti" tra le nevi e tra i ghiacci, e questa uccisione di soldati feriti, sebbene anch'essa "segretissima", era nota a molti, sicuramente agli esecutori della "soluzione finale".

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Capitolo settimo


La conferenza di Wannsee, ovvero Ponzio Pilato


Il nostro discorso sulla coscienza di Eichmann si è basato finora su fatti che egli, personalmente, aveva dimenticato. Stando alla sua versione, il momento cruciale fu non quattro settimane ma quattro mesi piú tardi, nel gennaio dei 1942, quando ebbe luogo la conferenza che i nazisti usarono chiamare dei segretari di Stato, ma che oggi è piú nota col nome di Conferenza di Wannsee, dal sobborgo di Berlino in cui fu convocata da Himmler. Come già indica la denominazione ufficiale, la riunione si era resa necessaria perché la "soluzione finale", se doveva essere applicata in tutta l'Europa, richiedeva qualcosa di piú che il tacito consenso dell'apparato statale: richiedeva la collaborazione attiva di tutti i ministeri e di tutti i servizi civili. Quanto ai ministri, questi, nove anni dopo l'ascesa di Hitler al potere, erano tutti nazisti della prima ora; e infatti quelli che nel primo periodo del regime si erano limitati ad "allinearsi" erano stati poco per volta congedati. Tuttavia la maggior parte di essi non erano completamente fidati: per esempio Heydrich o Himmler; e quei pochi che lo erano per aver fatto carriera esclusivamente grazie al nazismo, come Joachim von Ribbentrop, già commerciante di champagne e ora ministro degli esteri, erano delle nullità. Il problema tuttavia era molto piú acuto per quel che riguardava gli alti funzionari dei servizi civili, alle dirette dipendenze dei ministri, poiché questi uomini, che sono l'ossatura di ogni amministrazione governativa, non erano facilmente sostituibili: perciò Hitler in molti casi aveva dovuto chiudere un occhio, esattamente come avrebbe fatto piú tardi Adenauer, a meno che non fossero irrimediabilmente compromessi. È per questo che sovente i sottosegretari e gli esperti dei vari ministeri non erano neppure membri del partito, e si comprende quindi come Heydrich non fosse affatto sicuro di accapparrarsi l'appoggio concreto di queste persone per il programma di sterminio. Come disse Eichmann, Heydrich "si aspettava d'incontrare gravissime difficoltà". E invece, nulla di piú infondato di questo timore.

Scopo della conferenza era coordinare tutti gli sforzi diretti a realizzare la soluzione finale. La discussione verté dapprima su "complicate questioni giuridiche" come il trattamento dei mezzi ebrei e degli ebrei per un quarto: dovevano essere uccisi o soltanto sterilizzati? Seguì una schietta discussione sui "vari modi possibili di risolvere il problema", cioè sui vari metodi di uccisione, e anche qui si riscontra tra i partecipanti il piú "perfetto accordo"; tutti i presenti salutarono la soluzione finale con "straordinario entusiasmo", soprattutto il dott. Wilhelm Stuckart, sottosegretario agli interni, che pure era noto per essere piuttosto reticente ed esitante di fronte alle misure "radicali" e che, secondo la deposizione fatta dal dott. Hans Globke a Norimberga, era uno strenuo difensore della legalità. Qualche difficoltà, tuttavia, ci fu. Il sottosegretario Josef Bühler, l'uomo piú potente in Polonia dopo il governatore generale, si sgomentò all'idea che si evacuassero ebrei da occidente verso oriente, perché ciò avrebbe significato un aumento del numero degli ebrei in Polonia, e propose quindi che questi trasferimenti fossero rinviati e che "la soluzione finale iniziasse dal Governatorato generale, dove non esistevano problemi di trasporto". I funzionari dei ministero degli esteri presentarono un memoriale, preparato con ogni cura, in cui erano espressi "i desideri e le idee" del loro dicastero in merito alla "soluzione totale della questione ebraica in Europa", ma nessuno dette gran peso a quel documento. La cosa piú importante, come giustamente osservò Eichmann, era che i rappresentanti dei vari servizi civili non si limitavano a esprimere pareri, ma avanzavano proposte concrete. La seduta non durò piú di un'ora, un'ora e mezzo, dopo di che ci fu un brindisi e tutti andarono a cena - "una festicciola in famiglia" per favorire i necessari contatti personali. Per Eichmann, che non si era mai trovato in mezzo a tanti "grandi personaggi", fu un avvenimento memorabile; egli era di gran lunga inferiore, sia come grado che come posizione sociale, a tutti i presenti. Aveva spedito gli inviti e aveva preparato alcune statistiche (piene di incredibili errori) per il discorso introduttivo di Heydrich - bisognava uccidere undici milioni di ebrei, che non era cosa da poco - e fu lui a stilare i verbali. In pratica funse da segretario, ed è per questo che, quando i grandi se ne furono andati, gli fu concesso di sedere accanto al caminetto in compagnia del suo capo Müller e di Heydrich, "e fu la prima volta che vidi Heydrich fumare e bere". Non parlarono di "affari", ma si godettero "un po' di riposo" dopo tanto lavoro, soddisfattissimi e - soprattutto Heydrich - molto su di tono.

Ma anche per un'altra ragione quella giornata fu indimenticabile per Eichmann. Benché egli avesse fatto del suo meglio per contribuire alla soluzione finale, fino ad allora aveva sempre nutrito qualche dubbio su "una soluzione cosi violenta e cruenta". Ora questi dubbi furono fugati. "Qui, a questa conferenza, avevano parlato i personaggi piú illustri, i papi del Terzo Reich". Ora egli vide con i propri occhi e udí con le proprie orecchie che non soltanto Hitler, non soltanto Heydrich o la "sfinge" Müller, non soltanto le SS o il partito, ma i piú qualificati esponenti dei buoni vecchi servizi civili si disputavano l'onore di dirigere questa "crudele" operazione. "In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa". Chi era lui, Eichmann, per ergersi a giudice? Chi era lui per permettersi di "avere idee proprie"? Orbene: egli non fu né il primo né l'ultimo ad essere rovinato dalla modestia.

Cosi la sua attività prese un nuovo indirizzo, divenendo ben presto un lavoro spicciolo, di tutti i giorni. Se prima egli era stato un esperto in "emigrazione forzata", ora diventò un esperto in "evacuazione forzata". In un paese dopo l'altro gli ebrei dovettero farsi schedare, furono costretti a portare il distintivo giallo per essere riconosciuti a prima vista, furono rastrellati e deportati e i vari convogli vennero spediti a questo o a quel campo di sterminio dell'Europa orientale, a seconda del "posto" disponibile in quel dato momento. Come un carico di ebrei arrivava a destinazione, gli individui robusti venivano scelti e mandati al lavoro, che spesso consisteva nel far funzionare il meccanismo dello sterminio, e tutti gli altri venivano immediatamente soppressi. Ci furono intoppi, ma di poco conto. Il ministero degli esteri dei Reich si teneva in contatto con le autorità dei paesi stranieri occupati o alleati, esercitando pressioni perché deportassero i "loro" ebrei o, in certi casi, perché cercassero di non deportarli verso oriente a casaccio, senza un piano preciso, senza tener presente la capacità di assorbimento dei vari centri. (Cosí raccontò Eichmann, ma la situazione era assai piú complessa.) Gli esperti di diritto approntarono leggi per rendere apolidi le vittime, il che era molto importante per due ragioni: nessun paese poteva indagare sul loro destino, e lo Stato in cui risiedevano poteva confiscare i loro beni. Il ministero delle finanze e la Reichsbank presero le opportune misure per incamerare l'enorme bottino proveniente da ogni parte d'Europa, fino agli orologi e ai denti d'oro, era appunto la Reichsbank a scegliere gli oggetti da inviare alla Zecca di Stato prussiana. Il ministero dei trasporti, dal canto suo, mise a disposizione il necessario materiale rotabile, di solito vagoni-merci, anche in momenti di grande penuria, curando che l'orario dei treni usati per la deportazione non interferisse con quello degli altri. Eichmann o i suoi uomini comunicavano ai Consigli ebraici degli Anziani quanti ebrei occorrevano per formare un convoglio, e quelli preparavano gli elenchi delle persone da deportare. E gli ebrei si facevano registrare, riempivano innumerevoli moduli, rispondevano a pagine e pagine di questionari riguardanti i loro beni, in modo da agevolarne il sequestro; poi si radunavano nei centri di raccolta e salivano sui treni. I pochi che tentavano di nascondersi o di scappare venivano ricercati da uno speciale corpo di polizia ebraico. A quanto constava ad Eichmann, nessuno protestava, nessuno si rifiutava di collaborare. "Immerzu fahren hier die Leute zu ihren eigenen Begräbis" - "qui la gente parte continuamente, diretta verso la propria tomba", disse un osservatore ebraico a Berlino nel 1943.

La semplice condiscendenza non sarebbe mai bastata né ad appianare le enormi difficoltà di un'operazione che presto interessò tutta l'Europa occupata o alleata dei nazisti, né a tranquillizzare la coscienza degli esecutori, i quali in fondo erano stati educati al comandamento "Non ammazzare" e conoscevano il versetto della Bibbia "Tu hai ucciso e tu hai ereditato", versetto cosí a proposito citato nel verdetto del Tribunale distrettuale di Gerusalemme. Il "ciclone mortale", come lo chiamò Eichmann, che si abbatté sulla Germania dopo l'immenso salasso subito a Stalingrado - il bombardamento a tappeto delle città tedesche, la scusa fissa addotta da Eichmann e anche da molti tedeschi di oggi per giustificare i massacri di civili -, con le sue scene di terrore diverse ma non meno orribili di quelle di cui si parlò a Gerusalemme, avrebbe potuto contribuire ad attutire o meglio a soffocare i rimorsi, se ancora ci fosse stata un po' di coscienza. Ma questo non era il caso. Il meccanismo dello sterminio era stato progettato e studiato in tutti i particolari molto prima che gli orrori della guerra colpissero anche la Germania, e la sua complicata burocrazia funzionò con la stessa matematica precisione tanto negli anni delle facili vittorie quanto in quelli delle sconfitte. All'inizio, quando la gente poteva ancora avere una coscienza, le defezioni negli alti gradi e soprattutto tra gli ufficiali superiori delle SS furono molto rare; cominciarono ad avere un peso soltanto quando ormai era chiaro che la Germania avrebbe perso la guerra. Ma anche allora non assunsero mai proporzioni tali da pregiudicare il funzionamento del meccanismo; furono atti individuali, dettati non dal rimorso ma dalla corruzione, ispirati non dalla pietà ma dal desiderio di salvare un po' dì denaro o di crearsi un alibi per l'oscuro avvenire. L'ordine dato da Himmler nell'autunno del 1944, di sospendere lo sterminio e di smantellare gli impianti dei campi della morte, fu dovuto al fatto che egli era assurdamente ma sinceramente convinto che le potenze alleate avrebbero saputo apprezzare e ricompensare questo gesto. A un Eichmann alquanto incredulo, Himmler disse che grazie a quel provvedimento avrebbe potuto negoziare un Hubertusburger-Frieden, cioè una pace analoga a quella di Hubertusburg, che nel 1763 pose fine alla guerra dei Sette anni permettendo a Federico II di Prussia di conservare la Slesia, anche se aveva perduto la guerra.

Eichmann spiegò che se riuscí a tacitare la propria coscienza fu soprattutto per la semplicissima ragione che egli non vedeva nessuno, proprio nessuno che fosse contrario alla soluzione finale. Tuttavia c'era stata un'eccezione che doveva avergli fatto profonda impressione, tanto che ne parlò piú volte. Era accaduto in Ungheria, mentre lui negoziava col Dott. Kastner sull'offerta fatta da Himmler: un milione di ebrei avrebbero potuto essere rilasciati in cambio di diecimila camion. Kastner, evidentemente imbaldanzito dalla nuova piega presa dagli avvenimenti, aveva chiesto ad Eichmann di fermare "i mulini della morte" di Auschwitz, e Eichmann aveva risposto che l'avrebbe fatto molto volentieri (herzlichn gern), ma che purtroppo la cosa non era di sua competenza e neppure di competenza dei suoi superiori - il che effettivamente era vero. Naturalmente egli non si aspettava che gli ebrei condividessero il generale entusiasmo per la loro distruzione, ma si aspettava qualcosa di piú che la condiscendenza: si aspettava - e la ebbe in misura eccezionale - la loro collaborazione. Questa era la "pietra angolare" di tutto ciò che faceva, cosi come era stata la pietra angolare della sua attività a Vienna. Senza l'aiuto degli ebrei nel lavoro amministrativo e poliziesco (il rastrellamento finale degli ebrei a Berlino, come abbiamo accennato, fu effettuato esclusivamente da poliziotti ebraici), o ci sarebbe stato il caos completo oppure i tedeschi avrebbero dovuto distogliere troppi uomini dal fronte.

("È fuor di dubbio che senza la collaborazione delle vittime ben difficìlmente poche migliaia di persone, che per giunta lavoravano quasi tutte al tavolino, avrebbero potuto liquidare molte centinaia di migliaia di altri esseri umani... Lungo tutto il viaggio verso la morte, gli ebrei polacchi di rado vedevano piú di un pugno di tedeschi". Cosi dice R. Pendorf, e ciò vale ancor piú per quegli ebrei che erano portati a morire in Polonia da altri paesi.)

È per questo che l'insediamento di governi-fantoccio nei territori occupati fu sempre accompagnato dalla creazione di un ufficio centrale ebraico e, come vedremo piú avanti, dove i nazisti non riuscirono a insediare un governo-fantoccio neppure riuscirono a ottenere la collaborazione degli ebrei. Ma mentre quei governi erano formati di solito da persone appartenenti ai partiti di minoranza, i membri dei Consigli ebraici erano di regola i capi riconosciuti delle varie comunità ebraiche, uomini a cui i nazisti concedevano poteri enormi finché, un giorno, deportarono anche loro, a Theresienstadt o a Bergen-Belsen se si trovavano nell'Europa centro-occidentale, ad Auschwitz se erano i capi di una comunità dell'Europa orientale.

Per un ebreo, il contributo dato dai capi ebraici alla distruzione del proprio popolo, è uno dei capitoli piú foschi di tutta quella fosca vicenda. La cosa è risaputa da tempo, ma ora Raul Hilberg, nella sua fondamentale opera The Destruction of the European Jews già da noi citata, ne ha esposto per la prima volta tutti i patetici e sordidi particolari. In fatto di collaborazione, non c'era differenza tra le comunità ebraiche dell'Europa centro-occidentale, fortemente assimilate, e le masse di lingua yiddish dei paesi orientali. Ad Amsterdam come a Varsavia, a Berhno come a Budapest, i funzionari ebrei erano incaricati di compilare le liste delle persone da deportare e dei loro beni, di sottrarre ai deportati il denaro per pagare le spese della deportazione e dello sterminio, di tenere aggiornato l'elenco degli alloggi rimasti vuoti, di fornire forze di polizia per aiutare a catturare gli ebrei e a caricarli sui treni, e infine, ultimo gesto, di consegnare in buon ordine gli inventari dei beni della comunità per la confisca finale. Quei funzionari distribuivano i distintivi con la stella gialla, e in certi casi, come a Varsavia, "la vendita delle fasce da mettere al braccio diveniva un vero e proprio commercio, poiché c'erano fasce comuni di stoffa e fasce di lusso, in plastica lavabile". Nei manifesti che essi affiggevano - ispirati, ma non dettati dai nazisti - avvertiamo ancora quanto fossero fieri di questi nuovi poteri: "Il Consiglio ebraico centrale annunzia che gli è stato concesso il diritto di disporre di tutti i beni spirituali e materiali degli ebrei, e di tutte le persone fisiche ebree", diceva il primo proclama del Consiglio di Budapest. Noi sappiamo che cosa provavano i funzionari ebrei quando divenivano strumenti nelle mani degli assassini: si sentivano come capitani "le cui navi stanno per affondare e che tuttavia riescono a condurle sane e salve in porto gettando a mare gran parte del loro prezioso carico"; si sentivano salvatori che "con cento vittime salvano mille persone, con mille diecimila". Senonché la verità era ancor piú mostruosa. In Ungheria, per esempio, il dott. Kastner salvò esattamente 1684 persone al prezzo di circa 476.000 vittime. Per non lasciare la selezione al "caso", occorrevano "principi sacrosanti" che guidassero "la debole mano umana che scrive sulla carta il nome di una persona sconosciuta e cosí decide della sua vita o della sua morte". Ma con questi "sacrosanti principi" chi si sceglieva di salvare? Coloro "che avevano lavorato per tutta la vita per lo zibur", cioè per la comunità, vale a dire i funzionari e gli ebrei "piú illustri", come dice Kastner nel suo rapporto.

Nessuno si prese mai la briga di far giurare ai funzionari ebrei che avrebbero mantenuto il segreto. Essi erano Geheimsträger volontari, vuoi per assicurare l'ordine e prevenire ondate di panico, come nel caso dei dott. Kastner, vuoi per considerazioni "umanitarie" (per esempio quella che "vivere nell'attesa di essere uccisi coi gas sarebbe stato soltanto piú penoso"), come nel caso dei dott. Leo Baeck, già caporabbino di Berlino. Al processo di Eichmann, un testimone parlò delle tragiche conseguenze di questo tipo di "umanità" - la gente chiedeva volontariamente di essere deportata da Theresienstadt ad Auschwitz e denunziava come "maniaci" coloro che cercavano di spiegare loro la verità. E noi conosciamo benissimo anche le fisionomie dei capi ebraici del periodo nazista: queste persone andavano da Chaim Rumkowski, anziano degli ebrei di Lódz, detto Chaim I, che emise banconote con la propria firma e francobolli con la propria effige e che circolava in una decrepita carrozza, giú giú fino a quel Leo Baeck, colto, fine, educato, il quale credeva che i poliziotti ebraici fossero "piú gentili e servizievoli" e piú capaci di "tenere l'ordine" (mentre naturalmente erano piú brutali e piú fanatici, dato che per loro era in gioco tutto), e fino a quei pochi che si uccisero, come Adam Czerniakow, presidente del Consiglio ebraico di Varsavia, che non era un rabbino ma un miscredente, che era ingegnere e parlava il polacco ma doveva ricordare il detto rabbinico: "Lasciate che vi uccidano, ma non oltrepassate la linea".

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Se ci siamo soffermati tanto su questo aspetto della storia dello sterminio, aspetto che il processo di Gerusalemme mancò di presentare al mondo nelle sue vere dimensioni, è perché esso permette di farsi un'idea esatta della vastità del crollo morale provocato dai nazisti nella "rispettabile" società europea - non solo in Germania ma in quasi tutti i paesi, non solo tra i persecutori ma anche tra le vittime. Eichmann, a differenza di tanti suoi colleghi, era sempre stato affascinato dalla "buona società", e la correttezza con cui spesso si era comportato con i funzionari ebrei di lingua tedesca era in gran parte dovuta a una specie di senso d'inferiorità. Egli non era affatto, come lo chiamò un testimone, una Landsknechtnatur, un mercenario smanioso di fuggire in regioni dove non vigono i dieci comandamenti e dove ciascuno puo sfogare i propri istinti. Se in una cosa egli credette sino alla fine, fu nel successo, il distintivo fondamentale della "buona società" come la intendeva lui. Tipico fu l'ultimo giudizio che espresse sul conto di Hitler - un argomento che assieme al suo camerata Sassen egli aveva deciso di "espungere" dalla sua storia. Hitler, disse, "avrà anche sbagliato su tutta la linea; ma una cosa è certa: fu un uomo capace di farsi strada e salire dal grado di caporale dell'esercito tedesco al rango di Führer di una nazione di quasi ottanta milioni di persone... Il suo successo bastò da solo a dimostrarmi che dovevo sottostargli". E in effetti la sua coscienza si tranquillizzò al vedere lo zelo con cui la "buona società" reagiva dappertutto allo stesso suo modo. Egli non ebbe bisogno di "chiudere gli orecchi", come si espresse il verdetto, "per non ascoltare la voce della coscienza": non perché non avesse una coscienza, ma perché la sua coscienza gli parlava con una "voce rispettabile", la voce della rispettabile società che lo circondava.

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Capitolo ottavo


I doveri di un cittadino ligio alla legge

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Il problema della coscienza di Adolf Eichmann, che è notoriamente complesso ma nient'affatto unico, non può essere paragonato a quello della coscienza dei generali tedeschi, uno dei quali, quando a Norimberga gli chiesero "Com'è possibile che tutti voi rispettabili generali abbiate seguitato a servire un assassino con tanta fedeltà?" rispose che non toccava a un soldato ergersi a giudice del suo comandante supremo: "Questo tocca alla storia, o a Dio in cielo". (Cosí il generale Alfred Jodl, impiccato a Norimberga.) Eichmann, molto meno intelligente e per nulla istruito, capí almeno vagamente che a trasformarli tutti in criminali non era stato un ordine, ma una legge. La differenza tra ordine e "ordine del Führer" era che la validità del secondo non era limitata nel tempo o nello spazio, mentre questo limite è caratteristica precipua del primo. E questa è anche la vera ragione per cui quando il Führer ordinò la soluzione finale esperti giuristi e consiglieri giuridici, non semplici amministratori, stilarono una fiumana di regolamenti e direttive: quell'ordine, a differenza degli ordini comuni, fu considerato una legge. Inutile aggiungere che tutti questi strumenti giuridici, lungi dall'essere semplice frutto della pignoleria o precisione tedesca, servirono ottimamente a dare a tutta la faccenda una parvenza di legalità.

E come nei paesi civili la legge presuppone che la voce della coscienza dica a tutti "Non ammazzare.", anche se talvolta l'uomo può avere istinti e tendenze omicide, cosí la legge della Germania hitleriana pretendeva che la voce della coscienza dicesse a tutti: "Ammazza", anche se gli organizzatori dei massacri sapevano benissimo che ciò era contrario agli istinti e alle tendenze normali della maggior parte della popolazione. Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai piú di riconoscerlo per quello che è - la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero esser tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa (che naturalmente, per quanto non sempre conoscessero gli orridi particolari, essi sapevano che gli ebrei erano trasportati verso la morte); e dovettero esser tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni.

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[...] La storia degli ebrei danesi è una storia sui generis, e il comportamento della popolazione e del governo danese non trova riscontro in nessun altro paese d'Europa, occupato o alleato dell'Asse o neutrale e indipendente che fosse. Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università ove vi sia una facoltà di scienze politiche, per dare un'idea della potenza enorme della non violenza e della resistenza passiva, anche se l'avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori. Certo, anche altri paesi d'Europa difettavano di "comprensione per la questione ebraica", e anzi si può dire che la maggioranza dei paesi europei fossero contrari alle soluzioni "radicali" e "finali". Come la Danimarca, anche la Svezia, l'Italia e la Bulgaria si rivelarono quasi immuni dall'antisemitismo, ma delle tre, di queste nazioni che si trovavano sotto il tallone tedesco soltanto la danese osò esprimere apertamente ciò che pensava. L'Italia e la Bulgaria sabotarono gli ordini della Germania e svolsero un complicato doppio gioco, salvando i loro ebrei con un tour de force d'ingegnosità, ma non contestarono mai la politica antisemita in quanto tale. Era esattamente l'opposto di quello che fecero i danesi. Quando i tedeschi, con una certa cautela, li invitarono a introdurre il distintivo giallo, essi risposero che il re sarebbe stato il primo a portarlo, e i ministri danesi fecero presente che qualsiasi provvedimento antisemita avrebbe provocato le loro immediate dimissioni. Decisivo fu poi il fatto che i tedeschi non riuscirono nemmeno a imporre che si facesse una distinzione tra gli ebrei di origine danese (che erano circa seimilaquattrocento) e i millequattrocento ebrei di origine tedesca che erano riparati in Danimarca prima della guerra e che ora il governo del Reich aveva dichiarato apolidi. Il rifiuto opposto dai danesi dovette stupire enormemente i tedeschi, poiché ai loro occhi era quanto mai "illogico" che un governo proteggesse gente a cui pure aveva negato categoricamente la cittadinanza e anche il permesso di lavorare. (Dal punto di vista giuridico, prima della guerra la situazione dei profughi in Danimarca non era diversa da quella che c'era in Francia, con la sola differenza che la corruzione dilagante nella vita amministrativa della Terza Repubblica permetteva ad alcuni di farsi naturalizzare, grazie a mance o "aderenze", e a molti di lavorare anche senza un permesso; la Danimarca invece; come la Svizzera, non era un paese pour se débrouiller.) I danesi spiegarono ai capi tedeschi che siccome i profughi, in quanto apolidi, non erano piú cittadini tedeschi, i nazisti non potevano pretendere la loro consegna senza il consenso danese. Fu uno dei pochi casi in tui la condizione di apolide si rivelò un buon pretesto, anche se naturalmente non fu per il fatto in sé di essere apolidi che gli ebrei si salvarono, ma perché il governo danese aveva deciso di difenderli. Cosí i nazisti non poterono compiere nessuno di quei passi preliminari che erano tanto importanti nella burocrazia dello sterminio, e le operazioni furono rinviate all'autunno del 1943.

Quello che accadde allora fu veramente stupefacente; per i tedeschi, in confronto a ciò che avveniva in altri paesi d'Europa, fu un grande scompiglio. Nell'agosto del 1943 (quando ormai l'offensiva tedesca in Russia era fallita, l' Afrika Korps si era arreso in Tunisia e gli Alleati erano sbarcati in Italia) il governo svedese annullò l'accordo concluso con la Germania nel 1940, in base al quale le truppe tedesche avevano il diritto di attraversare la Svezia. A questo punto i danesi decisero di accelerare un po' le cose: nei cantieri della Danimarca ci furono sommosse, gli operai si rifiutarono di riparare le navi tedesche e scesero in sciopero. Il comandante militare tedesco proclamò lo stato d'emergenza e impose la legge marziale, e Himmler pensò che fosse il momento buono per affrontare il problema ebraico, la cui "soluzione" si era fatta attendere fin troppo. Ma un fatto che Himmler trascurò fu che (a parte la resistenza danese) i capi tedeschi che ormai da anni vivevano in Danimarca non erano piú quelli di un tempo. Non solo il generale von Hannecken, il comandante militare, si rifiutò di mettere truppe a disposizione del dott. Werner Best, plenipotenziario del Reich; ma anche le unità speciali delle SS (gli Einsatzkommandos) che lavoravano in Danimarca trovarono molto spesso da ridire sui "provvedimenti ordinati dagli uffici centrali," come disse Best nella deposizione che rese poi a Norimberga. E lo stesso Best, che veniva dalla Gestapo ed era stato consigliere di Heydrich e aveva scritto un famoso libro sulla polizia e aveva lavorato per il governo militare di Parigi con piena soddisfazione dei suoi superiori, non era piú una persona fidata, anche se non è certo che a Berlino se ne rendessero perfettamente conto. Comunque, fin dall'inizio era chiaro che le cose non sarebbero andate bene, e l'ufficio di Eichmann mandò allora in Danimarca uno dei suoi uonùni migliori, Rolf Günther, che sicuramente nessuno poteva accusare di non avere la necessaria "durezza". Ma Günther non fece nessuna impressione ai suoi colleghi di Copenhagen, e von Hannecken si rifiutò addirittura di emanare un decreto che imponesse a tutti gli ebrei di presentarsi per essere mandati a lavorare.

Best andò a Berlino e ottenne la promessa che tutti gli ebrei danesi sarebbero stati inviati a Theresienstadt, a qualunque categoria appartenessero - una concessione molto importante, dal punto di vista dei nazisti. Come data del loro arresto e della loro immediata deportazione (le navi erano già pronte nei porti) fu fissata la notte del 1° ottobre, e non potendosi fare affidamento né sui danesi né sugli ebrei né sulle truppe tedesche di stanza in Danimarca, arrivarono dalla Germania unità della polizia tedesca, per effettuare una perquisizione casa per casa. Ma all'ultimo momento Best proibí a queste unità di entrare negli alloggi, perché c'era il rischio che la polizia danese intervenisse e, se la popolazione danese si fosse scatenata, era probabile che i tedeschi avessero la peggio. Cosí poterono essere catturati soltanto quegli ebrei che aprivano volontariamente la porta. I tedeschi trovarono esattamente 477 persone (su piú di 7800) in casa e disposte a lasciarli entrare. Pochi giorni prima della data fatale un agente marittimo tedesco, certo Georg F. Duckwitz, probabilmente istruito dallo stesso Best, aveva rivelato tutto il piano al governo danese, che a sua volta si era affrettato a informare i capi della comunità ebraica. E questi, all'opposto dei capi ebraici di altri paesi, avevano comunicato apertamente la notizia ai fedeli, nelle sinagoghe, in occasione delle funzioni religiose del capodanno ebraico. Gli ebrei ebbero appena il tempo di lasciare le loro case e di nascondersi, cosa che fu molto facile perché, come si espresse la sentenza, "tutto il popolo danese, dal re al piú umile cittadino", era pronto a ospitarli.

Probabilmente sarebbero dovuti rimanere nascosti per tutta la durata della guerra se la Danimarca non avesse avuto la fortuna di essere vicina alla Svezia. Si ritenne opportuno trasportare tutti gli ebrei in Svezia, e cosí si fece con l'aiuto della flotta da pesca danese. Le spese di trasporto per i non abbienti (circa cento dollari a persona) furono pagate in gran parte da ricchi cittadini danesi, e questa fu forse la cosa piú stupefacente di tutte, perché negli altri paesi gli ebrei pagavano da sé le spese della propria deportazione, gli ebrei ricchi spendevano tesori per comprarsi permessi di uscita (in Olanda, Slovacchia e piú tardi Ungheria), o corrompendo le autorità locali o trattando "legalmente" con le SS, le quali accettavano soltanto valuta pregiata e, per esempio in Olanda, volevano dai cinquemila ai diecimila dollari per persona. Anche dove la popolazione simpatizzava per loro e cercava sinceramente di aiutarli, gli ebrei dovevano pagare se volevano andar via, e quindi le possibilità di fuggire, per i poveri, erano nulle.

[...]

L'aspetto politicamente e psicologicamente piú interessante di tutta questa vicenda è forse costituito dal comportamento delle autorità tedesche insediate in Danimarca, dal loro evidente sabotaggio degli ordini che giungevano da Berlino. A quel che si sa, fu questa l'unica volta che i nazisti incontrarono una resistenza aperta, e il risultato fu a quanto pare che quelli di loro che vi si trovarono coinvolti cambiarono mentalità. Non vedevano piú lo sterminio di un intero popolo come una cosa ovvia. Avevano urtato in una resistenza basata su saldi principi, e la loro "durezza" si era sciolta come ghiaccio al sole permettendo il riaffiorare, sia pur timido, di un po' di vero coraggio. Del resto, che l'ideale della "durezza," eccezion fatta forse per qualche bruto, fosse soltanto un mito creato apposta per autoingannarsí, un mito che nascondeva uno sfrenato desiderio di irreggimentarsi a qualunque prezzo, lo si vide chiaramente al processo di Norimberga, dove gli imputati si accusarono e si tradirono a vicenda giurando e spergiurando di essere sempre stati "contrari" o sostenendo, come fece piú tardi anche Eichmann, che i loro superiori avevano abusato delle loro migliori qualità. (A Gerusalemme Eichmann accusò "quelli al potere" di avere abusato della sua "obbedienza": "Il suddito di un governo buono è fortunato, il suddito di un governo cattivo è sfortunato: io non ho avuto fortuna.") Ora avevano perduto l'altezzosità d'un tempo, e benché i piú di loro dovessero ben sapere che non sarebbero sfuggiti alla condanna, nessuno ebbe il fegato di difendere l'ideologia nazista.

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L'Italia era in Europa l'unica vera alleata della Germania, trattata da pari a pari e rispettata come Stato sovrano indipendente. L'alleanza si fondava probabilmente soprattutto sugli interessi comuni, interessi che legavano due nuove forme di governo, simili anche se non identiche; ed è vero che in origine Mussolini era stato grandemente ammirato negli ambienti nazisti tedeschi. Ma quando scoppiò la guerra e l'Italia, dopo una certa esitazione, si unì all'avventura tedesca, quell'ammirazione era ormai una cosa che apparteneva al passato. I nazisti sapevano bene che il loro movimento aveva piú cose in comune con il comunismo di tipo staliniano che col fascismo italiano, e Mussolini, dal canto suo, non aveva né molta fiducia nella Germania né molta ammirazione per Hitler. Tutto questo, però, rientrava nei segreti delle alte sfere, specialmente in Germania, e le differenze profonde, decisive tra il fascismo e gli altri tipi di dittatura non furono mai capite dal mondo nel suo complesso. Eppure queste differenze mai risaltarono con piú evidenza come nel campo della questione ebraica.

Prima del colpo di Stato di Badoglio dell'estate 1943, e prima che i tedeschi occupassero Roma e l'Italia settentrionale, Eichmann e i suoi uomini non avevano mai potuto lavorare in questo paese. Tuttavia avevano potuto vedere in che modo gli italiani non risolvevano nulla nelle zone della Francia, della Grecia e della Jugoslavia da loro occupate: e infatti gli ebrei perseguitati continuavano a rifugiarsi in queste zone, dote potevano esser certi di trovare asilo, almeno temporaneo. A livelli molto piú alti di quello di Eichmann il sabotaggio italiano della soluzione finale aveva assunto proporzioni serie, soprattutto perché Mussolini esercitava una certa influenza su altri governi fascisti - quello di Pétain in Francia, quello di Horthy in Ungheria, quello di Antonescu in Romania, e anche quello di Franco in Spagna. Finché l'Italia seguitava a non massacrare i suoi ebrei, anche gli altri satelliti della Germania potevano cercare di fare altrettanto. E cosí Dome Sztojai, il primo ministro ungherese che i tedeschi avevano imposto a Horthy, ogni volta che si trattava di prendere provvedimenti antiebraici voleva sapere se gli stessi provvedimenti erano stati presi in Italia. Il capo di Eichmann, il Gruppenführer Müller, scrisse in proposito una lunga lettera al ministero degli esteri dei Reich, illustrando questa situazione, ma il ministero non poté far molto perché sempre urtava nella stessa ambigua resistenza, nelle stesse promesse che poi non venivano mai mantenute. Il sabotaggio era tanto piú irritante, in quanto che era attuato pubblicamente, in maniera quasi beffarda. Le promesse erano fatte da Mussolini in persona o da altissimi gerarchi, e se poi i generali non le mantenevano, Mussolini porgeva le scuse adducendo come spiegazione la loro "diversa formazione intellettuale". Soltanto di rado i nazisti si sentivano opporre un netto rifiuto, come quando il generale Roatta dichiarò che consegnare alle autorità tedesche gli ebrei della zona jugoslava occupata dall'Italia era "incompatibile con l'onore dell'esercito italiano".

[...]

L'umanità italiana resisté inoltre alla prova del terrore che si abbatté sulla nazione nell'ultimo anno e mezzo di guerra. Nel dicembre del 1943 il ministero degli esteri tedesco chiese ufficialmente l'aiuto del capo di Eichmann, Müller: "In considerazione del poco zelo mostrato negli ultimi mesi dai funzionari italiani nel mettere in atto i provvedimenti antiebraici raccomandati dal Duce, noi del ministero degli esteri riteniamo urgente e necessario che l'adempimento di tali provvedimenti... sia controllato da funzionari tedeschi". Dopo di che, famigerati sterminatori come Odilo Globocnik furono spediti in Italia; anche il capo dell'amministrazione militare tedesca non fu un uomo dell'esercito, ma l'ex-governatore della Galizia polacca, il Gruppenführer Otto Wächter. Ormai non si poteva piú scherzare. L'ufficio di Eichmann diramò alle sue varie branche una circolare in cui si avvertiva che si dovevano subito prendere le "necessarie misure" contro gli "ebrei di nazionalità italiana". La prima azione doveva essere sferrata contro gli ottomila ebrei di Roma, al cui arresto avrebbero provveduto reggimenti di polizia tedesca dato che sulla polizia italiana non si poteva fare affidamento. Gli ebrei furono avvertiti in tempo, spesso da vecchi fascisti, e settemila riuscirono a fuggire. I tedeschi, come sempre facevano quando incontravano resistenza, cedettero e ora accettarono che gli ebrei, anche se non appartenevano a categorie "esentate", venissero non deportati, ma soltanto internati in campi italiani. Per l'Italia, questa soluzione poteva essere considerata sufficientemente "finale". Cosí circa trentacinquemila ebrei furono catturati nell'Italia settentrionale e sistemati in campi di concentramento nei pressi dei confine austriaco. Nella primavera dei 1944, quando ormai l'Armata Rossa aveva occupato la Romania e gli Alleati stavano per entrare in Roma, i tedeschi violarono la promessa e cominciarono a trasportarli ad Auschwitz: ne portarono via circa settemilacinquecento, di cui poi ne tornarono appena seicento. Tuttavia, gli ebrei che scomparvero non furono nemmeno il dieci per cento di tutti quelli che vivevano allora in Italia.

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L'esecuzione di questa "migrazione di popoli organizzata", come la chiamò la sentenza, era stata affidata ad Eichmann, in quanto capo della sottosezione IV-D-4 dell'RSHA, che si occupava di "emigrazione, evacuazione". E qui non sarà inutile ricordare che questa "politica demografica negativa" non era affatto un'improvvisazione, un'idea nata in seguito alle vittorie tedesche in oriente, ma era già stata tratteggiata nel novembre del 1937 nel discorso segreto che Hitler aveva tenuto al Comando supremo - vedasi il cosiddetto protocollo Hössbach. Hitler aveva detto che respingeva ogni idea tradizionale di conquista; ciò che gli occorreva era uno "spazio disabitato" (volkloser Raum) in oriente, per insediarvi tedeschi. I presenti - tra cui Blomberg, Fritsch e Räder - sapevano benissimo che uno spazio simile non esisteva e che perciò le parole del Führer non potevano significare che una cosa sola: a una vittoria tedesca sarebbe automaticamente seguita l'"evacuazione" di tutte le popolazioni indigene. Le misure contro gli ebrei dell'Europa orientale non erano soltanto un prodotto dell'antisemitismo, erano parte integrante di tutta una politica "demografica" che, se la Germania avesse vinto, avrebbe riservato al popolo polacco la stessa sorte degli ebrei - il genocidio. Non è una semplice congettura, poiché in Germania i polacchi erano già obbligati a portare un distintivo dove una "P" sostituiva la stella ebraica: e questo, come abbiamo visto, era il primo provvedimento che la polizia prendeva quando si cominciava ad attuare un programma di sterminio.

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[...] E cosi un ebreo, oggi residente in Israele e sposato a una donna polacca, aveva raccontato come sua moglie avesse nascosto lui e altri dodici ebrei per tutta la durata della guerra; e un altro come fosse fuggito da un campo trovando ospitalità presso un ariano che conosceva da prima della guerra, il quale poi era stato giustiziato. Un testimone dichiarò che i partigiani polacchi avevano fornito armi a molti ebrei e avevano salvato migliaia di bambini sistemandoli presso famiglie polacche. I rischi erano enormi; un'intera famiglia polacca, per esempio, era stata sterminata nel modo piú feroce per avere adottato una bambina. Ma Kovner fu il primo e l'ultimo a raccontare di essere stato aiutato da un tedesco. C'era, è vero, anche un altro episodio che riguardava un tedesco; ma di questi si parlava soltanto in un documento: si trattava di un ufficiale che aveva aiutato gli ebrei indirettamente, sabotando gli ordini della polizia; l'aveva fatta franca, ma la cosa era stata abbastanza grave da venir menzionata nella corrispondenza tra Himmler e Bormann.

Nei pochi minuti che accorsero a Kovner per raccontare come fosse stato aiutato da un sergente tedesco, un silenzio di tomba calò nell'aula dei tribunale; come se il pubblico avesse spontaneamente deciso di osservare i tradizionali due minuti di silenzio in memoria dell'uomo che si chiamava Anton Schmidt. E in quei due minuti, che furono come un improvviso raggio di luce in mezzo a una fitta, impenetrabile tenebra, un pensiero affiorò alle menti, chiaro, irrefutabile, indiscutibile: come tutto sarebbe stato oggi diverso in quell'aula, in Israele, in Germania, in tutta l'Europa e forse in tutti i paesi dei mondo, se ci fossero stati piú episodi del genere da raccontare.

Quella terribile penuria aveva naturalmente le sue ragioni, che sono state ripetute piú e piú volte. Noi le compendieremo rifacendoci a uno dei pochi libri di memorie veramente sinceri e appassionati che siano stati pubblicati in Germania dopo la guerra. Peter Bamm, un medico della Wehrmacht che era stato sul fronte russo, racconta in Die unsichtbare Flagge (1952) l'uccisione di un gruppo di ebrei di Sebastopoli. Gli ebrei furono rastrellati dagli "altri", come l'autore chiama gli uomini degli Einsatzgruppen per distinguerli dai soldati comuni, di cui invece esalta la rettitudine, e furono rinchiusi in un'ala sigillata dell'ex-prigione della GPU, contigua ai locali dove Bamm era acquartierato. Poi furono caricati su un furgone a gas, dove perirono nel giro di pochi minuti, dopo di che l'autista trasportò i cadaveri fuori città scaricandoli in trincee anticarro. "Noi lo sapevamo. Non facemmo nulla. Chiunque avesse protestato sul serio o avesse fatto qualcosa contro le unità addette allo sterminio sarebbe stato arrestato entro ventiquattr'ore e sarebbe scomparso. Uno dei metodi piú raffinati dei regimi totalitari del nostro secolo consiste appunto nell'impedire agli oppositori di morire per le loro idee di una morte grande, drammatica, da martiri. Molti di noi avrebbero accettato una morte del genere. Ma la dittatura fa scomparire i suoi avversari di nascosto, nell'anonimo. È certo che chi avesse preferito affrontare la morte piuttosto che tollerare in silenzio il crimine, avrebbe sacrificato la vita inutilmente. Ciò non vuol dire che il sacrificio sarebbe stato moralmente privo di senso. Ma sarebbe stato praticamente inutile. Nessuno di noi aveva convinzioni cosí profonde da addossarsi un sacrificio praticamente inutile in nome di un significato morale superiore". È ovvio che qui lo scrittore non si rende conto di quanto sia vuota la "rettitudine" da lui tanto esaltata quando manca quello che egli chiama il "significato morale superiore".

L'esempio del sergente Anton Schmidt sta però a dimostrare non tanto la vuotezza della rispettabilità (poichè in circostanze come quelle la rettitudine si riduce semplicemente a rispettabilità), quanto la vuotezza di tutto il ragionamento, che pure a prima vista sembra ineccepibile. È vero che il regime hitleriano cercava di creare vuoti di oblio ove scomparisse ogni differenza tra il bene e il male, ma come i febbrili tentativi compiuti dai nazisti dal giugno 1942 in poi per cancellare ogni traccia dei massacri (con la cremazione, con l'incendio in pozzi, con gli esplosivi e i lanciafiamme e macchine che frantumavano le ossa) furono condannati al fallimento, così anche tutti i loro sforzi di far scomparire gli oppositori "di nascosto, nell'anonimo", furono vani. I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo c'è troppa gente perché certi fatti non si risappiano: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. E perciò nulla può mai essere "praticamente inutile", almeno non a lunga scadenza. Per la Germania odierna, non solo per il suo prestigio all'estero, ma anche per le sue confuse condizioni interne, sarebbe di grande utilità pratica se fossero accaduti piú episodi come quello di Anton Schmidt. Che la lezione di quegli episodi è semplice e alla portata di tutti. Sul piano politico, essi insegnano che sotto il terrore la maggioranza si sottomette, ma qualcuno no, cosí come la soluzione finale insegna che certe cose potevano accadere in quasi tutti i paesi, ma non accaddero in tutti. Sul piano umano, insegnano che se una cosa si può ragionevolmente pretendere, questa è che sul nostro pianeta resti un posto ove sia possibile l'umana convivenza.

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Pagina 259

Adolf Eichmann andò alla forca con gran dignità. Aveva chiesto una bottiglia di vino rosso e ne aveva bevuto metà. Rifiutò l'assistenza dei pastore protestante, reverendo William Hull, che si era offerto di leggergli la Bibbia: ormai gli restavano appena due ore di vita, e perciò non aveva "tempo da perdere". Percorse i cinquanta metri dalla sua cella alla stanza dell'esecuzione calmo e a testa alta, con le mani legate dietro la schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie e le ginocchia, chiese che non stringessero troppo le funi, in modo da poter restare in piedi. "Non ce n'è bisogno", disse quando gli offersero il cappuccio nero. Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di piú: era completamente se stesso. Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole. Cominciò col dire di essere un Gottgläubiger, il termine nazista per indicare chi non segue la religione cristiana e non crede nella vita dopo la morte. Ma poi aggiunse: "Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l'Argentina, viva l'Austria. Non le dimenticherò". Di fronte alla morte aveva trovato la bella frase da usare per l'orazione funebre. Sotto la forca la memoria gli giocò l'ultimo scherzo: egli si senti "esaltato" dimenticando che quello era il suo funerale.

Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato - la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.

 

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Riferimenti

Bibliografia
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