Copertina
Autore Hannah Arendt
Titolo L'immagine dell'inferno
SottotitoloScritti sul totalitarismo
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2001, Il cerchio , pag. 144, dim. 140x210x10 mm , Isbn 978-88-359-5024-0
OriginaleThe Image of Hell... [1946]
CuratoreFrancesco Fistetti
TraduttoreFrancesco Fistetti, Anna Tagliavini
LettoreGiovanna Bacci, 2002
Classe storia contemporanea
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Indice

  7 L'epoca dei totalitarismi è davvero finita?
    Una rilettura di Hannah Arendt
    di Francesco Fistetti

 97 L'immagine dell'inferno

111 Le tecniche della scienza sociale e lo
    studio dei campi di concentramento

133 Quando la nazione si mangiò lo Stato

 

 

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Pagina 7

L'epoca dei totalitarismi è davvero finita? Una rilettura di Hannah Arendt


        Ai miei amici polacchi Tomasz Sobczak,
        Czeskaw Bogacz e Wiktor Ostrowski che hanno
        combattuto per la libertà del loro paese



1. Comprendere l'inconcepibile

I saggi che qui presentiamo in traduzione italiana - L'immagine dell'inferno (1946), La Nazione (1946), Le tecniche della scienza sociale e lo studio dei campi di concentramento (1950) - possono essere considerati una sorta di materiale grezzo dalla cui rielaborazione la Arendt ricaverà la prima edizione del 1951 del suo capolavoro su Le origini del totalitarismo, che era stato già ultimato nell'autunno del 1949. L'articolo sui campi di concentramento, rimaneggiato ed ampliato, confluí come sezione finale nella terza parte del libro dedicata specificamente al «totalitarismo»: una sezione che per la seconda edizione allargata del 1958 subí ulteriori revisioni. Gli altri due articoli sono delle recensioni, pubblicate rispettivamente sulle riviste «Commentary» e «Rewiev of Politics», relative l'una al «libro nero» sull'Olocausto - The Black Book: The Nazi Crime Against the Jewish People, curato da varie associazioni sioniste, prima fra tutte il World Jewish Congress - e al libro di M. Weinreich, Hitler's Professors, sulla responsabilità degli intellettuali sotto il regime nazista, e l'altra al testo in due volumi di J.-T. Delos, La Nation.

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Pagina 10

[...] Fin da quando cominciano a filtrare le prime notizie sui campi - relative non solo alla cifra immane delle vittime della «soluzione fìnale», ma soprattutto al «metodo» adoperato, cioè la «fabbricazione dei cadaveri» (the fabrication of corpses) -, la Arendt si rende subito conto che era come se effettivamente un «abisso» si fosse spalancato all'interno della razionalità occidentale un evento che mai sarebbe dovuto accadere. In L'immagine dell'inferno mette a fuoco il paradosso che porrà al centro del saggio del '50 e di Le origini nelle sue edizioni a partire dal 1958, vale a dire il fatto che l'esperienza incomunicabile del dolore allo stato puro - che è stato il risultato congiunto di una «perversità al di là del vizio» creata dai nazisti e di una «innocenza al di là della virtú», in cui le vittime sono state precipitate - non ha alcun rapporto con la realtà politica. Nessuna narrazione - sia di cronaca che storiografica - può trasformare sei milioni di morti in un «argomento politico». Eppure, proprio questo si tratta di spiegare: in che modo l'invenzione di «una perversità al di là del vizio» - o, come anche la Arendt ben presto si esprimerà con una formula kantiana, di un «male radicale» o di un «male assoluto» - è stata funzionale alla politica nazista. È questo interrogativo che di per sé sottrae il «fenomeno» dei campi di sterminio ai paradigmi esplicativi della narrazione storica e delle scienze sociali, che dal punto di vista epistemologico presuppongono la «normalità del mondo normale» e, quindi, sono ben immunizzati rispetto alla «scoperta dei crimini di massa totalitari». Mutuando da Rousset una locuzione che in seguito impiegherà piú volte, la Arendt scrive: «"Gli uomini normali non sanno che tutto è possibile"; si rifiutano di credere ai loro occhi e ai loro orecchi di fronte al mostruoso... La ragione per cui tali regimi possono spingersi cosí oltre nella realizzazione di un mondo fittizio capovolto è che il mondo esterno, comprendente gran parte della popolazione dello stesso paese totalitario, indulge alla pia speranza che non sia vero e rifugge dalla realtà davanti alla follia pura e semplice». Ecco allora da dove nasce la «difficoltà» dello storico e dello scienziato sociale: dal «mondo fittizio capovolto» che è stato costruito, - quasi sperimentalmente, dal regime totalitario e di cui i campi di concentramento sono il «laboratorio» in cui viene «scientificamente» condotto «l'orrendo esperimento di eliminare... la spontaneità stessa come espressione del comportamento umano e di trasformare l'uomo in un oggetto, in qualcosa che neppure gli animali sono; perché il cane di Pavlov che, com'è noto, era ammaestrato a mangiare, non quando aveva fame, ma quando suonava una campana, era un animale pervertito». Questo mondo fittizio, governato da un «supersenso ideologico», non risponde a nessun criterio utilitaristico, a nessuna logica della produttività e del profitto, a nessuna forma del «principio di ragione», e, ciò che piú conta, taglia i ponti con il senso comune, inteso come capacità di condividere con gli altri un mondo comune. Pertanto, la «difficoltà» dello storico e dello scienziato sociale nel comprendere e spiegare i campi di sterminio ha la stessa radice di quella del superstite che intende testimoniare la sua esperienza di internato: anche se collocati su terreni opposti, ma l'uno all'altro simmetrici, essi sperimentano l'impossibilità di rompere la cortina fumogena che chiude nel suo assoluto isolamento quel mondo fittizio, circondato da «un'atmosfera d'irrealtà», che è l'universo totalitario.

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Pagina 97

L'immagine dell'inferno


«Si potrebbe a giusta ragione chiedere agli ebrei, in qualità di accusatori ufficiali del popolo tedesco di fronte al tribunale del mondo civilizzato, di preparare... un formale atto d'accusa. Sarebbe una cosa facile da fare... Il sangue delle vittime di Hitler leva il suo grido dalle viscere della terra. Scopo di un tale atto d'accusa è di articolare in parole questo grido.»

Ma se gli autori del Libro nero hanno pensato che la storia di questi ultimi dieci anni era facile da raccontare, purtroppo si sono sbagliati. Lo dimostra, nonostante tutte le buone intenzioni, la goffaggine del loro libro. Beninteso, non è questione di competenza tecnica. In verità, i materiali si potevano organizzare meglio, lo stile essere meno giornalistico e selezionare in modo piú scientifico le fonti. Ma simili miglioramenti sarebbero serviti solo a porre ancor piú in risalto la discrepanza tra i fatti in sé e l'uso che se ne può fare a fini politici. Il Libro nero fallisce completamente il suo obiettivo, perché gli autori, sommersi dai dettagli, non sono stati in grado di comprendere o di chiarire la natura dei fatti con cui sono chiamati a misurarsi.

Ecco i fatti: sei milioni di ebrei, sei milioni di esseri umani sono stati condotti a morire, senza potersi difendere e, nella maggior parte dei casi, senza averne il minimo sospetto. Il metodo utilizzato fu l'accumulazione del terrore. Dapprima ci furono l'abbandono calcolato, le privazioni e l'umiliazione, allorché coloro che erano di debole costituzione fisica morivano insieme con quelli che erano abbastanza forti e ribelli per togliersi la vita. In seguito venne la fame, a cui si aggiunse il lavoro forzato, quando le persone morivano a migliaia, ma a intervalli diversi di tempo a seconda della loro resistenza. Poi vennero le fabbriche della morte e tutti morirono insieme: giovani e vecchi, deboli e forti, malati e sani. Morirono non come individui, non come uomini e donne, bambini o adulti, ragazzi o ragazze, buoni o cattivi, belli o brutti, ma furono ridotti al minimo denominatore comune della vita organica, sprofondati nell'abisso piú cupo dell'eguaglianza primaria. Morirono come bestiame, come cose che non avevano né corpo né anima e nemmeno un volto su cui la morte avrebbe potuto apporre il suo sigillo.

È in questa eguaglianza mostruosa, senza fraternità né umanità - un'eguaglianza che i cani e i gatti avrebbero potuto condividere -, che si scorge, come riflessa in uno specchio, l'immagine dell'inferno.

La perversità inaudita di coloro che hanno stabilito una tale eguaglianza si trova al di là delle capacità dell'umana comprensione. Ma l'innocenza di quelli che sono morti in questa eguaglianza è altrettanto mostruosa e si colloca al di là della giustizia umana. Le camere a gas erano qualcosa di peggio rispetto a ciò che chiunque avrebbe potuto meritare, e di fronte a questo fatto il piú spregevole criminale era innocente quanto un bambino appena nato. Né la mostruosità di questa innocenza viene attenuata e resa meno intollerabile da antichi adagi come: «È meglio subire il male anziché commetterlo». L'importante non era tanto il fatto che coloro che un accidente della nascita aveva condannato a morte, abbiano fino alla fine obbedito e giocato il loro ruolo in modo altrettanto docile quanto coloro che un accidente della nascita aveva condannato a vivere (questo è ben noto e non serve a nulla nasconderlo). Al di là di ciò, c'era il fatto che l'innocenza e la colpa non erano piú prodotti del comportamento umano; che nessun crimine umano immaginabile avrebbe potuto essere commisurato a una tale punizione, né alcun peccato avrebbe potuto coincidere con un tale inferno in cui il santo come il peccatore si trovavano ugualmente ridotti allo status di potenziali cadaveri. Una volta entrati nelle fabbriche della morte, tutto diveniva accidentale e sfuggiva completamente al controllo di coloro che pativano le sofferenze e di coloro che le infliggevano. E in molti casi coloro che il giorno prima infliggevano le sofferenze, il giorno dopo divennero vittime a loro volta.

Non c'è storia piú difficile da raccontare in tutta la Storia dell'umanità. L'eguaglianza mostruosa nell'innocenza che è il suo inevitabile leitmotiv distrugge le basi stesse a partire da cui la storia viene prodotta, cioè la nostra capacità di comprendere un evento, per quanto distante da noi esso sia.

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Pagina 111

Le tecniche della scienza sociale e lo studio dei campi di concentramento


Ogni scienza si fonda necessariamente su un certo numero di postulati impliciti, elementari ed assiomatici, che vengono formulati e portati allo scoperto solo quando si trovano a misurarsi con fenomeni imprevisti che non possono essere piú spiegati nel quadro delle sue categorie. Le scienze sociali e le tecniche che esse hanno sviluppato nel corso dell'ultimo secolo non fanno eccezione a questa regola. La tesi di questo saggio è che l'istituzione dei campi di concentramento e di sterminio - vale a dire, sia le condizioni sociali all'interno dei campi che la loro funzione nel piú vasto apparato del terrore proprio dei regioni totalitari - potrebbe probabilmente risultare quel fenomeno imprevisto, quella pietra d'inciampo sulla via di una comprensione adeguata della politica e della società contemporanee che dovrà costringere gli studiosi di scienze sociali e gli storici a riconsiderare le concezioni fondamentali sull'evoluzione del mondo e del comportamento umano che per loro costituivano finora un presupposto indiscutibile.

Al di là delle ovvie difficoltà inerenti alla trattazione di un argomento dove la semplice enumerazione dei fatti è di per sé sufficiente a far passare qualcuno come «esagerato e poco credibile», e dove i resoconti furono scritti da persone che nel corso della loro esperienza non «riuscivano mai del tutto» a convincersi «che ciò che stavano vivendo era vero e non un incubo», incontriamo un problema molto piú grave, vale a dire il fatto che sulla base dei giudizi del semplice buon senso né le istituzioni stesse - e ciò che accadeva all'interno dei loro limiti ristretti -, né il loro ruolo politico appaiono dotati di senso. Se partiamo dall'ipotesi che la maggior parte delle nostre azioni sono di natura utilitaria e che le nostre cattive azioni derivano dall'«enfatizzazione» di un interesse personale (self-interest), allora siamo obbligati a concludere che questa istituzione peculiare che è il totalitarismo oltrepassa la nostra umana comprensione. Se, d'altra parte, facciamo astrazione da tutti i nostri criteri abituali di condotta e consideriamo soltanto le inverosimili pretese ideologiche del razzismo nella loro purezza logica, allora la politica di sterminio dei nazisti acquista tutto il suo significato. Dietro i suoi orrori si cela la stessa logica inflessibile che è caratteristica di certi sistemi paranoici ove tutto è concatenato secondo una necessità assoluta, una volta che è stata accettata la prima folle premessa. La follia di tali sistemi si fonda chiaramente non solo sulla loro premessa iniziale, ma sulla loro intrinseca logicità (logicality), che procede senza tener in alcun conto i fatti e senza preoccuparsi della realtà, la quale ci insegna che, qualunque cosa noi facciamo, non possiamo farlo in modo assolutamente perfetto. In altri termini, non è solo il carattere non-utilitario dei campi stessi - l'assurdità di «punire» delle persone completamente innocenti, l'impotenza nell'estorcere loro dei lavori utili in determinate condizioni di vita, l'inutilità di terrorizzare una popolazione già totalmente sottomessa - che conferisce loro dei tratti inconfondibili e sconcertanti, ma proprio la loro funzione anti-utilitaria, il fatto che nemmeno le urgenze prioritarie delle attività militari potevano interferire con queste «politiche demografiche». È come se i nazisti fossero convinti che amministrare le fabbriche della morte fosse piú importante che vincere la guerra.

È in questo contesto che il termine «senza precedenti», applicato al terrore totalitario, assume tutto il suo significato. Il cammino verso la dominazione assoluta passa attraverso numerose tappe intermedie che sono relativamente normali e del tutto intelligibili. Non è «senza precedenti» scatenare una guerra di aggressione; cosí pure, i massacri delle popolazioni nemiche o di ciò che si ritiene essere un popolo ostile sono moneta corrente nel passato sanguinoso della storia. Nel processo di colonizzazione e nell'insediamento di nuove colonie ha avuto luogo uno sterminio degli indigeni in America, in Australia e in Africa. La schiavitù è una delle piú antiche istituzioni dell'umanità e le unità di lavoro forzato impiegate dallo Stato per la realizzazione di lavori pubblici costituivano uno dei pilastri dell'impero romano. La stessa ambizione di governare il mondo, ben nota dalla storia dei sogni politici, non è monopolio dei governi totalitari e si può spiegare con la smisurata avidità di potere. Tutti questi aspetti del governo totalitario, per quanto orrendi e criminali essi siano, hanno un punto in comune che li distingue dal fenomeno che stiamo trattando: a differenza dei campi di concentramento, essi hanno uno scopo ben definito e arrecano dei benefici ai governanti cosí come un furto avvantaggia il suo autore. Qui i motivi sono chiari e i mezzi per conseguire il fine sono utilitari nell'accezione condivisa del termine. L'enorme difficoltà che incontriamo nel cercare di comprendere l'istituzione dei campi di concentramento e di collocarla nella memoria della storia umana consiste esattamente nell'assenza di simili criteri utilitari, assenza che, piú di ogni altra cosa, è responsabile della strana aria d'irrealtà che circonda questa istituzione e tutto ciò che vi è connesso.

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Pagina 121

Un'altra prerogativa dei campi, cosí come furono istituiti da Himmler sotto l'imperio delle SS, era il loro carattere permanente. Rispetto a Buchenwald, che nel 1944 ospitò piú di 80.000 prigionieri, tutti i campi precedenti persero d'importanza. Ancora piú evidente appare il carattere permanente delle camere a gas, il cui apparato costoso rendeva quasi indispensabile la ricerca dei nuovi «materiali» per la fabbricazione dei cadaveri.

Di grande importanza per lo sviluppo della società concentrazionaria si rivelò il nuovo tipo di amministrazione del campo. La crudeltà precedente delle SA, che avevano la libertà di uccidere a loro piacimento, fu sostituita da una quota pianificata di morti e da una tortura metodicamente organizzata, che mira non tanto a infliggere la morte quanto a gettare la vittima in una condizione di agonia permanente. Gran parte dell'amministrazione interna fu affidata agli stessi prigionieri, che erano costretti a maltrattare i loro compagni allo stesso modo che avevano fatto le SS. A mano a mano che passava il tempo e il sistema si andava istituzionalizzando, la tortura e i maltrattamenti divennero sempre piú la prerogativa dei cosiddetti Kapos. Queste misure non erano affatto accidentali, né erano dovute alle crescenti dimensioni dei campi. In molti casi, le SS ordinavano agli stessi prigionieri di occuparsi delle esecuzioni. Analogamente, il massacro collettivo - non solo nella forma del gassaggio ma anche in quella dell'esecuzione di massa - divenne una pratica quanto piú possibile meccanizzata. Di conseguenza, la popolazione nei campi SS viveva molto piú a lungo che nei primi campi; si ha come l'impressione che le nuove ondate di terrore e di deportazione verso i campi di sterminio si verificavano solo quando venivano garantiti dei nuovi arrivi.

L'amministrazione fu affidata ai criminali che costituirono l'aristocrazia incontestata dei campi fino agli inizi degli anni 40, quando Himmler cedette a malincuore alle pressioni esterne e acconsenti che i campi fossero sfruttati a fini produttivi. Poiché le SS si resero subito conto che era impossibile organizzare il lavoro dei detenuti in quelle condizioni caotiche che erano state create dalla precedente aristocrazia dei criminali, da allora in poi promossero i prigionieri politici, per la maggior parte anziani, al rango di élite dei campi. In nessun momento l'amministrazione fu affidata nelle mani del gruppo piú consistente e ovviamente meno pericoloso degli internati completamente innocenti. Al contrario, questa categoria occupò sempre il livello piú basso della gerarchia sociale interna dei campi, patí le perdite piú pesanti in termini di deportazione e fu la piú esposta alle crudeltà. In altre parole, in un campo di concentramento era molto piú sicuro essere un assassino o un comunista anziché semplicemente un ebreo, un polacco o un ucraino.

Per quanto riguarda i sorveglianti SS, bisogna purtroppo mettere da parte l'opinione diffusa secondo cui essi sarebbero stati una sorta di élite negativa di criminali, di sadici e di individui semifolli - un'opinione che, invece, risulta ampiamente vera per le vecchie SA, che di solito svolgevano volontariamente la loro funzione nei campi. Tutto tende a provare che gli uomini delle SS in servizio erano assolutamente normali; la loro selezione avveniva in base a criteri stravaganti di ogni sorta, nessuno dei quali era finalizzato a scegliere individui particolarmente crudeli o sadici. Inoltre, l'amministrazione dei campi era organizzata in modo tale che non c'era alcun dubbio che all'interno del sistema i prigionieri dovevano svolgere gli stessi «compiti» dei loro sorveglianti.

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