Copertina
Autore Hannah Arendt
Titolo Verità e politica
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2004 [1995], Temi 143 , pag. 100, cop.fle., dim. 115x195x9 mm , Isbn 978-88-339-1556-2
OriginaleBetween Past and Future. Eight Exercises in Political Thought
EdizioneViking Press, New York, 1968
TraduttoreVincenzo Sorrentino
LettoreRiccardo Terzi, 2004
Classe filosofia , politica
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Indice


  7 Introduzione, di Vincenzo Sorrentino

 29 Verità e politica

 79 La conquista dello spazio e la statura dell'uomo


 

 

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Verità e politica


L'oggetto di queste riflessioni è un luogo comune. Nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l'una con l'altra e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche. Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista. Perché è così? E che cosa significa ciò, da un lato, per la natura e la dignità dell'ambito politico e, dall'altro lato, per la natura e la dignità della verità e della sincerità? È forse proprio dell'essenza stessa della verità essere impotente e dell'essenza stessa del potere essere ingannevole? E che genere di realtà possiede la verità se essa è priva di potere nell'ambito pubblico, il quale, più di ogni altra sfera della vita umana, garantisce la realtà dell'esistenza agli uomini che nascono e muoiono, cioè a degli esseri i quali sanno che sono apparsi dal non-essere e che dopo un po' scompariranno di nuovo in esso? Infine, la verità impotente non è forse disprezzabile quanto il potere che non presta ascolto alla verità? Si tratta di questioni scomode, ma che sorgono necessariamente dalle nostre convinzioni correnti in materia.

Ciò che rende questo luogo comune altamente plausibile può ancora essere riassunto nell'antico adagio latino: Fiat justitia, et pereat mundus (sia fatta giustizia, anche se il mondo può perire). A parte il suo probabile autore nel secolo XVI (Ferdinando I, successore di Carlo V), nessuno l'ha utilizzato se non come una domanda retorica: deve essere fatta giustizia se è in gioco la sopravvivenza del mondo? E l'unico grande pensatore che ha osato affrontare diversamente la questione è stato Immanuel Kant, il quale audacemente spiegò che «il detto proverbiale [...] in linguaggio semplice significa: "La giustizia deve prevalere anche se come risultato dovessero perire nel mondo tutti i furfanti"». Dal momento che gli uomini trovano che non varrebbe la pena di vivere in un mondo completamente privo di giustizia, questo «diritto umano deve essere ritenuto sacro, senza considerare il sacrificio richiesto all'autorità costituita [...], senza considerare le conseguenze fisiche che ne potrebbero risultare». Ma questa risposta non è forse assurda? La preoccupazione per l'esistenza non precede chiaramente qualunque altra cosa, ogni virtù e principio? Non è forse evidente che essi diventano delle mere chimere se è in pericolo il mondo, nel quale soltanto possono essere manifestati? Il secolo XVII non aveva forse ragione quando, quasi all'unanimità, dichiarò che ogni Stato ha il dovere di riconoscere, secondo le parole di Spinoza, che non esiste «nessuna legge superiore alla propria sicurezza»? Senza dubbio, ogni principio che trascende la semplice esistenza può essere messo al posto della giustizia, e se vi mettiamo la verità - Fiat veritas, et pereat mundus - l'antico detto ci sembra ancora più plausibile. Se concepiamo l'azione politica nei termini della categoria mezzi-fine, possiamo anche giungere alla conclusione, soltanto in apparenza paradossale, che la menzogna può servire molto bene a stabilire o a salvaguardare le condizioni della ricerca della verità (così come ha indicato molto tempo fa Hobbes, la cui implacabile logica non manca mai di portare le argomentazioni a quegli estremi in cui la loro assurdità diventa evidente). E le menzogne, dal momento che sono spesso utilizzate come sostituti di mezzi più violenti, tendono a essere considerate degli strumenti relativamente inoffensivi all'interno dell'arsenale dell'azione politica.

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Stranamente, tuttavia, non è cosí, poiché lo scontro tra verità di fatto e politica, di cui siamo oggi testimoni su cosí larga scala, almeno sotto certi aspetti presenta tratti molto simili. Probabilmente nessuna epoca passata ha tollerato tante opinioni diverse su questioni religiose o filosofiche; la verità di fatto, però, qualora capiti che si opponga al profitto o al piacere di un dato gruppo, è accolta oggi con un'ostilità maggiore che in passato. Senza dubbio, i segreti di Stato sono sempre esistiti; ogni governo deve classificare determinate informazioni, non renderle pubbliche, e colui che rivela degli autentici segreti è sempre stato trattato come un traditore. Qui non mi occuperò di questo. I fatti che ho in mente sono pubblicamente conosciuti, eppure lo stesso pubblico che li conosce può con successo, e spesso spontaneamente, proibirne la discussione pubblica e trattarli come se fossero ciò che non sono, cioè dei segreti. Che la loro pubblicizzazione debba rivelarsi tanto pericolosa quanto in epoche passate era pericoloso, per esempio, predicare l'ateismo o qualche altra eresia, sembra un fenomeno curioso che aumenta d'importanza quando lo incontriamo in paesi che sono governati tirannicamente da un governo ideologico (anche nella Germania di Hitler e nella Russia di Stalin era più pericoloso parlare dei campi di concentramento e di sterminio, la cui esistenza non era un segreto, che avere ed esprimere delle vedute «eretiche» sull'antisemitismo, il razzismo e il comunismo). Ciò che appare ancora più allarmante è che nei paesi liberi, nella misura in cui delle verità di fatto sgradite sono tollerate, esse sono spesso, consciamente o inconsciamente, trasformate in opinioni; come se fatti quali il sostegno a Hitler da parte della Germania o il crollo della Francia davanti all'esercito tedesco nel 1940 o la politica del Vaticano durante la seconda guerra mondiale, non fossero dei fatti storici documentati, ma delle questioni d'opinione. Dal momento che tali verità di fatto concernono dei problemi di immediata rilevanza politica, vi è qui in gioco più della tensione, forse inevitabile, tra due modi di vivere all'interno della struttura di una realtà comune e comunemente riconosciuta. È questa stessa realtà comune e fattuale a essere qui in gioco, e ciò costituisce davvero un problema politico di prim'ordine. E dal momento che la verità di fatto - anche se si presta molto meno della verità filosofica alla discussione ed è così chiaramente alla portata di tutti - sembra spesso subire un destino simile quando è esposta in pubblico - sembra cioè essere contraddetta non da menzogne e deliberate falsità, ma dall'opinione - vale forse la pena di riaprire l'antica e apparentemente obsoleta questione dello scontro tra verità e opinione.

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Ma esistono fatti indipendenti dall'opinione e dall'interpretazione? Generazioni di storici e di filosofi della storia non hanno forse dimostrato l'impossibilità di constatare dei fatti senza interpretarli, poiché essi devono prima di tutto essere individuati ed estratti da un caos di puri avvenimenti (e i princìpi di scelta certamente non sono dei dati di fatto), e in seguito essere inseriti in una storia che non può essere raccontata se non da una certa prospettiva, la quale non ha nulla a che vedere con ciò che è accaduto in origine? Senza dubbio, queste e moltissime altre difficoltà inerenti alle scienze storiche sono reali, ma esse non costituiscono un argomento contro l'esistenza della materia fattuale, né possono servire come giustificazione per offuscare le linee di demarcazione tra un fatto, una opinione e una interpretazione, o servire allo storico come una scusa per manipolare i fatti a suo piacimento. Anche se ammettiamo che ogni generazione ha il diritto di scrivere la propria storia, ammettiamo soltanto che essa ha il diritto di riordinare i fatti in armonia con la propria prospettiva, non ammettiamo il diritto di toccare la materia fattuale in quanto tale. Per illustrare questo punto, scusandoci di non approfondire ulteriormente la questione: si dice che Clemenceau, durante gli anni venti, poco prima della sua morte, si trovò coinvolto in una conversazione amichevole con un rappresentante della Repubblica di Weimar in merito alla questione della responsabilità per l'esplosione della prima guerra mondiale. A Clemenceau fu chiesto: «A suo avviso, che cosa penseranno gli storici futuri di questo problema fastidioso e controverso?» Egli rispose: «Non lo so, ma so per certo che non diranno che il Belgio ha invaso la Germania». Noi ci occupiamo qui di dati brutalmente elementari di questo tipo, la cui indistruttibilità è stata data per scontata anche dai più estremi e sofisticati credenti nello storicismo.

È vero, ci vorrebbe molto di più dei capricci degli storici per eliminare dalla storia il fatto che nella notte del 4 agosto 1914 le truppe tedesche hanno varcato la frontiera del Belgio; ciò richiederebbe non meno di un monopolio del potere sull'intero mondo civilizzato. Ma un tale monopolio è tutt'altro che inconcepibile, e non è difficile immaginare quale sarebbe il destino della verità di fatto se gli interessi di potere, nazionali o sociali, avessero l'ultima parola in tali questioni; il che ci riporta al nostro sospetto che possa appartenere alla natura dell'ambito politico l'essere in guerra con la verità in tutte le sue forme e, dunque, alla questione del perché anche il rispetto della verità di fatto sia percepito come un'attitudine antipolitica.

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Il contrassegno della verità di fatto è che il suo contrario non è né l'errore né l'illusione né l'opinione - che non si riflettono sulla sincerità personale - ma la falsità deliberata, o menzogna. Naturalmente, l'errore in riferimento alla verità di fatto è possibile e anche comune; in tal caso, questo tipo di verità non è in alcun modo diverso dalla verità scientifica o razionale. Ma il punto essenziale è che, per quanto concerne i fatti, esiste un'altra alternativa e che questa alternativa, la deliberata falsità, non appartiene alla stessa specie delle proposizioni che, siano esse giuste o errate, intendono soltanto dire ciò che è, o come mi appare qualcosa che è. Un'affermazione fattua1e - la Germania ha invaso il Belgio nell'agosto del 1914 - acquista delle implicazioni politiche soltanto se viene posta in un contesto interpretativo. Ma la proposizione contraria - che Clemenceau, non ancora al corrente dell'arte di riscrivere la storia, considerava assurda - non necessita di alcun contesto per avere una rilevanza politica. Essa è chiaramente un tentativo di cambiare la storia documentata e, in quanto tale, è una forma di azione. Accade lo stesso quando il bugiardo, mancandogli il potere necessario per far stare in piedi le sue falsità, non insiste sulla sacrosanta verità della sua affermazione, ma pretende che si tratti della sua «opinione», per la quale egli invoca il suo diritto costituzionale. Ciò è frequentemente attuato da gruppi sovversivi, e in un pubblico politicamente immaturo la confusione che ne risulta può essere considerevole. L'offuscamento della linea di demarcazione che separa la verità di fatto dall'opinione appartiene alle numerose forme che può assumere la menzogna, le quali sono tutte delle forme di azione.

Mentre il bugiardo è un uomo d'azione, chi dice la verità, sia essa razionale o di fatto, non lo è in alcun caso. Se colui che dice la verità di fatto vuole avere un ruolo politico, e quindi essere persuasivo, il più delle volte cercherà in tutti i modi di spiegare perché la sua particolare verità serve meglio gli interessi di qualche gruppo. E come il filosofo ottiene una vittoria di Pirro quando la sua verità diventa una opinione dominante tra coloro che hanno delle opinioni, così chi dice la verità di fatto, quando entra nell'ambito politico e si identifica con qualche interesse parziale e con qualche gruppo di potere, compromette l'unica qualità che avrebbe potuto far apparire plausibile la sua verità, e cioè la sua sincerità personale, garantita dall'imparzialità, dall'integrità e dall'indipendenza. È difficile che esista una figura politica che abbia più probabilità di destare un giustificato sospetto di colui il quale per professione dice la verità e ha scoperto qualche felice coincidenza tra verità e interesse. Il bugiardo, al contrario, non necessita di tali dubbi adattamenti per apparire sulla scena politica; egli ha il grande vantaggio di essere sempre, per così dire, già al centro di essa. Egli è un attore per natura; dice ciò che non è perché vuole che le cose siano differenti da ciò che sono, e cioè vuole cambiare il mondo. Egli trae vantaggio dall'innegabile affinità esistente tra la nostra capacità di agire, di cambiare la realtà, e questa nostra misteriosa facoltà che ci consente di dire «il sole splende» quando sta piovendo a dirotto. Se nel nostro comportamento fossimo condizionati tanto profondamente quanto alcune filosofie hanno desiderato che fossimo, non saremmo mai capaci di compiere questo piccolo miracolo. In altri termini, la nostra capacità di mentire - ma non necessariamente la nostra capacità di dire la verità - appartiene ai pochi chiari e dimostrabili dati che confermano l'esistenza della libertà umana. Se possiamo cambiare le circostanze nelle quali viviamo, è perché siamo relativamente liberi da esse, e attraverso la menzogna abusiamo proprio di questa libertà snaturandola. Se la tentazione quasi irresistibile dello storico di professione è di cadere nella trappola della necessità e di negare implicitamente la libertà d'azione, la tentazione quasi altrettanto irresistibile del politico di professione è di sopravvalutare le possibilità di questa libertà e di giustificare implicitamente la negazione menzognera o la distorsione dei fatti.

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Dobbiamo adesso volgere la nostra attenzione al fenomeno relativamente recente della manipolazione di massa dei fatti e delle opinioni, così com'è diventato evidente nella riscrittura della storia, nella fabbricazione di immagini e nell'effettiva politica governativa. La menzogna politica tradizionale, così rilevante nella storia della diplomazia e dell'arte di governo, riguardava o dei veri segreti - dati che non erano mai stati resi pubblici - o delle intenzioni che, a ogni modo, non possiedono lo stesso grado di attendibilità dei fatti compiuti; come tutto ciò che accade esclusivamente all'interno di noi stessi, le intenzioni sono soltanto delle potenzialità, e ciò che voleva essere una menzogna alla fine può sempre risultare vero. Al contrario, le menzogne politiche moderne si occupano efficacemente di cose che non sono affatto dei segreti, ma sono conosciute praticamente da tutti. Questo è evidente nel caso della riscrittura della storia contemporanea sotto gli occhi di coloro che ne sono stati testimoni, ma è altrettanto vero nel caso della fabbricazione di immagini di ogni sorta, nella quale, di nuovo, ogni fatto conosciuto e stabilito può essere negato o trascurato se è probabile che danneggi l'immagine; un'immagine, infatti, a differenza di un ritratto di vecchio stampo, non è fatta semplicemente per migliorare la realtà, ma per offrire un completo sostituto di essa. E questo sostituto, a causa delle tecniche moderne e dei mass media, è naturalmente molto più in vista di quanto non lo sia mai stato l'originale. Ci troviamo così di fronte a uomini di Stato molto rispettati, come de Gaulle e Adenauer, che sono stati capaci di costruire le loro politiche di base su evidenti non-fatti, come quello che la Francia fa parte dei vincitori dell'ultima guerra e dunque è una delle grandi potenze, e quello che «la barbarie del nazionalsocialismo aveva colpito soltanto una percentuale relativamente piccola del paese». Tutte queste menzogne, che i loro autori lo sappiano o no, racchiudono un elemento di violenza; la menzogna organizzata tende sempre a distruggere ciò che ha deciso di negare, anche se soltanto i governi totalitari hanno consapevolmente adottato la menzogna come primo passo verso l'assassinio. Quando Trockij apprese di non aver mai svolto un ruolo nella Rivoluzione russa, deve aver capito che era stata firmata la sua sentenza di morte. È chiaro che eliminare una figura pubblica dagli archivi di storia è più facile se, allo stesso tempo, essa può essere eliminata dal mondo dei viventi. In altri termini, la differenza tra la menzogna tradizionale e la menzogna moderna equivale il più delle volte alla differenza tra il nascondere e il distruggere.

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La conquista dello spazio e la statura dell'uomo


«La conquista dello spazio da parte dell'uomo ha accresciuto o diminuito la sua statura?» La questione è indirizzata al profano non allo scienziato, ed è ispirata dall'interesse dell'umanista per l'uomo, distinto dall'interesse del fisico per la realtà del mondo fisico. La comprensione della realtà fisica sembra richiedere non solo la rinuncia a una visione del mondo antropocentrica o geocentrica, ma anche una radicale eliminazione di tutti gli elementi e i princìpi antropomorfici derivanti sia dal mondo dato ai cinque sensi dell'uomo sia dalle categorie inerenti alla mente umana. La questione presuppone che l'uomo sia l'essere più elevato di cui siamo a conoscenza, un presupposto che abbiamo ereditato dai romani, la cui humanitas era così estranea alla disposizione di spirito dei greci che questi non avevano neanche una parola per indicarla. (La ragione dell'assenza della parola humanitas dalla lingua e dal pensiero dei greci sta nel fatto che essi, al contrario dei romani, non hanno mai creduto che l'uomo fosse l'essere supremo. Aristotele chiama tale credenza [...], «assurda»). Questa visione dell'uomo è ancora più estranea allo scienziato, per il quale l'uomo non è che un caso particolare di vita organica e l'habitat dell'uomo - la terra e le leggi terrestri - non è che un particolare caso limite di leggi universali assolute, cioè di leggi che governano l'immensità dell'universo. Certo, lo scienziato non può permettersi di porre la questione: «Quali conseguenze avrà il risultato delle mie indagini sulla statura dell'uomo o sul suo futuro?» È stata la gloria della scienza moderna l'essere stata capace di affrancarsi completamente da tali preoccupazioni antropocentriche, e cioè autenticamente umanistiche.

Alla questione qui proposta, nella misura in cui è indirizzata al profano, è necessario rispondere (se a essa è possibile rispondere) nei termini del senso comune e nel linguaggio quotidiano. È improbabile che la risposta convincerà lo scienziato, perché egli è stato costretto, sotto la coercizione dei fatti e degli esperimenti, a rinunciare alla percezione sensoria e quindi al senso comune, grazie al quale coordiniamo le percezioni dei nostri cinque sensi in una coscienza totale della realtà. Egli è stato anche costretto a rinunciare al linguaggio ordinario che, persino nelle sue più sofisticate raffinatezze concettuali, rimane inestricabilmente legato al mondo dei sensi e al nostro senso comune. Per lo scienziato l'uomo non è che un osservatore dell'universo nelle sue molteplici manifestazioni. Il progresso della scienza moderna ha dimostrato con molta forza fino a che punto questo universo osservato, l'infinitamente piccolo così come l'infinitamente grande, sfugge non solo alla grossolanità della percezione sensoria dell'uomo, ma anche agli ingegnosissimi strumenti che sono stati costruiti per il suo raffinamento. I dati di cui si occupa la ricerca fisica moderna appaiono come dei «misteriosi messaggeri dal mondo reale». Essi non sono, a rigor di termini, dei fenomeni, delle apparenze, poiché non li incontriamo in alcun luogo, né nel nostro mondo quotidiano né nel laboratorio; siamo a conoscenza della loro presenza soltanto perché essi hanno, in una certa maniera, un effetto sui nostri strumenti di misurazione. E questo effetto, secondo l'efficace immagine di Eddington, può «somigliare» a ciò che essi sono «come un numero di telefono a un abbonato». Il nucleo della questione sta nel fatto che Eddington, senza la minima esitazione, presuppone che questi dati fisici emergano da un «mondo reale», implicitamente più reale del mondo nel quale viviamo; il guaio è che qualcosa di fisico è presente, ma non appare mai.

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