Copertina
Autore Stanley Aronowitz
Titolo Post-Work
SottotitoloPer la fine del lavoro senza fine
EdizioneDeriveApprodi, Roma, 2006 , pag. 304, cop.fle., dim. 14x23x2 cm , Isbn 978-88-88738-90-1
CuratoreBruno Gullì
LettoreGiorgia Pezzali, 2007
Classe sociologia , politica , lavoro
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Indice

Prefazione                                    7
di BRUNO GULLÌ

Post-Work

Tempo e spazio nella teoria delle classi     17

Futuro senza lavoro?                         49

Manifesto del post-lavoro                    85

Marx, Braverman e la logica del capitale    131

Marxismo e democrazia                       183

È possibile una democrazia?                 233

La violenza e il mito della democrazia      251

Verso il radicalismo                        271


 

 

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Pagina 17

Tempo e spazio
nella teoria delle classi
2003



Condizioni della formazione di classe

Le classi sono realtà storiche, e gli effetti della loro esistenza sono connessi a questa storicità. Dire che le classi sono realtà storiche significa affermare che la loro composizione varia a ogni livello della struttura sociale, dai gruppi dominanti ai gruppi subordinati. Le classi si formano quando producono una differenza storica. Così, in un certo periodo il corpo militare può essere integrato nelle cerchie dominanti, ed esserne un interlocutore fondamentale, e in altri essere nettamente subordinato al potere politico ed economico. Nel secolo scorso, come ha sottolineato C. Wright Mills, il cuore culturale e politico della nazione americana — la vecchia classe media di piccoli industriali e commercianti — è stata relegata ai livelli medi del potere. Il suo potere e la sua influenza si sono ulteriormente ridotti negli anni successivi alla ricerca di Mills, che risale alla metà degli anni Cinquanta. Sin dal tardo XIX secolo i più importanti circoli di potere sono stati costituiti prevalentemente da grandi imprese — la forma istituzionale del capitale — e dai potentati politici nazionali. La classe politica dirigente costituisce il livello più alto; essa è quella «classe» per la quale la politica è una vocazione, e che sembra rappresentare una costante nello sviluppo dello Stato-nazione. Ma le cerchie dominanti sono sempre più permeabili. Dopo la Prima guerra mondiale i vertici della burocrazia di Stato e i politici hanno giocato a un continuo scambio di poltrone con il comando della burocrazia imprenditoriale, e queste formazioni sociali sono sempre più intercambiabili.

[...]

Le donne, come formazione sociale distinta, divennero un movimento per la formazione di classe nel corso degli anni Sessanta e Settanta — quando l'ala radicale del movimento propose un programma di liberazione che andava al di là della questione giuridica — rivendicando la fine del tradizionale dominio degli uomini sulle donne. Tale obiettivo si concretizzava in una serie di lotte relative a una costellazione di problemi: il diritto al controllo sul proprio corpo, inclusa la libertà sessuale; le leggi sul divorzio; la divisione del lavoro di cura e domestico; il diritto all'aborto volontario. Le conseguenze di questo programma si ripercossero su ogni aspetto della vita economica, politica e culturale. Dopo il culmine del movimento, raggiunto intorno al 1973 con il pronunciamento della Corte suprema a favore del diritto all'aborto nella sentenza Roe vs. Wade, si è assistito a un considerevole arretramento, e molte delle questioni originariamente sollevate sono rimaste irrisolte. Tuttavia, che le quotidiane relazioni di potere tra uomini e donne siano state profondamente trasformate è evidente, ed è testimoniato dalla violenza del contrattacco sferrato dai conservatori contro alcune delle conquiste del femminismo, soprattutto il diritto all'aborto. Quando l'ala liberazionista fu sconfitta da quella moderata, il movimento delle donne si ridusse in gran parte a un gruppo di interesse, in particolare all'interno del Partito democratico. Il movimento smise di occuparsi della questione sociale e cominciò a lottare per l'inclusione delle donne nelle gerarchie del mondo del lavoro, nelle università più esclusive e nell'establishment politico liberale. Nei fatti, alcune delle figure di spicco del primo movimento femminista – come ad esempio Betty Friedan, il cui libro La mistica della femminilità giocò un ruolo decisivo nel rendere visibile l'oppressione sociale delle donne – spesero gran parte degli anni Ottanta e Novanta rinunciando ad alcune pretese femministe in cambio di nuovi rapporti di potere.

[...]

In realta il criterio più comunemente invocato per misurare il potere di classe, tanto dai marxisti quanto dai conservatori come Francis Fukuyama – la rivoluzione –, raramente pone dal principio l'obiettivo della presa del potere politico. Nel 1917, un gruppo malconcio di lavoratori, soldati russi e contadini iniziò a chiedere «pace, pane e terra», unendosi a intellettuali liberali e rivoluzionari che guidavano i partiti di opposizione in una lotta politica che condusse a una nuova formazione sociale. Il vecchio regime crollò solo quando il governo zarista rifiutò di porre fine alla guerra, anche a fronte di massicce diserzioni militari, e di piegarsi alle richieste popolari di riforma agraria e redistribuzione materiale. Quando il regime liberale di Alexander Kerensky decise di rimanere fedele agli obiettivi bellici degli Alleati, condannando il suo esercito di leva allo sterminio da parte delle superiori forze tedesche, suggellò il proprio destino politico e cadde di fronte alla sollevazione bolscevica. Non c'era nulla di inevitabile in questa catena di eventi. Se Kerensky si fosse ritirato dalla guerra, ne sarebbe potuto seguire un periodo relativamente lungo di sviluppo economico capitalistico, e i bolscevichi sarebbero stati solo una delle correnti dell'opposizione.

Le possibilità della formazione di classe furono considerevolmente alimentate dall'affermazione storica di una cultura politica che valorizzava il concetto di trasformazione sociale a partire da nuove forme democratiche di potere popolare. In contrasto con i modelli, tanto autoritari quanto liberali, di un forte Stato centrale affiancato da una debole assemblea rappresentativa, durante la rivoluzione russa del 1905 i lavoratori organizzarono dei consigli, la nuova forma di governo sociale che intendevano realizzare. A differenza della struttura verticale dello Stato liberale, si trattava di istituzioni orizzontali di delegati eletti dai lavoratori nelle fabbriche, che fungevano da volano tanto dell'azione rivoluzionaria quanto dell'amministrazione, abrogando quindi il modello verticale della separazione tra Stato e società civile. Nel 1917 la riorganizzazione dei consigli, consapevolmente organizzati dai partiti di sinistra, spinse i bolscevichi, che avevano conquistato l'egemonia nei soviet delle città principali, a coniare prima lo slogan del «doppio potere» con il governo liberale e poi «tutto il potere ai soviet» contro il governo formato all'indomani della rivoluzione di febbraio.

Gli eventi del maggio '68 in Francia ebbero inizio con una protesta contro il rifiuto da parte del Ministero dell'Istruzione di venire incontro alla rivendicazione degli studenti dell'Università di Paris-Nanterre, che chiedevano un maggior controllo sulle questioni interne; il conflitto fu esacerbato dal rifiuto, da parte dell'amministrazione, di istituire dormitori misti. Quando furono organizzate le manifestazioni, nel mese di marzo, gli studenti dovettero fronteggiare la polizia in assetto anti-sommossa, che ricorse alla forza per porre fine alla protesta. Due mesi dopo gli studenti avrebbero eretto barricate nelle strade di Parigi e i lavoratori indetto uno sciopero generale, paralizzando l'economia nazionale e costringendo il presidente Charles de Gaulle alla ritirata. In realtà, l'evoluzione della lotta verso l'insurrezione rivoluzionaria è stata verosimilmente arrestata non dalla forza dello Stato, ma dall'interno dei ranghi dell'insurrezione, in primo luogo dai comunisti. Il partito e i suoi quadri sindacali, giunti sull'orlo del precipizio, esitarono con un'incredibile mancanza di coraggio; e proprio quando l'efficacia degli apparati repressivi di Stato, i cui precedenti eccessi avevano favorito l'espansione delle lotta, si era ridotta, si offrirono di porre fine allo sciopero generale in cambio di miglioramenti salariali.

Gli eventi del maggio '68 possono essere considerati la prima sollevazione post-scarsità della storia moderna. L'impeto iniziale della protesta – il disagio della vita contemporanea – presupponeva che il bisogno materiale fosse superato e relegato ai margini, per lo meno in Francia. Se il compito storico del capitalismo era di rendere disponibili i beni (materiali), la sua missione era compiuta. Il movimento di maggio mise in discussione la capacità del sistema di tenere fede alle sue promesse di libertà. Studenti, intellettuali e un significativo segmento di lavoratori tecnici di imprese altamente automatizzate si unirono ai lavoratori industriali in una lotta a più livelli contro l'autorità stabilita. Lottarono all'ombra di bandiere che andavano da quelle del vecchio movimento dei lavoratori – giustizia economica e sociale – alle nuove rivendicazioni di libertà culturale, avanzando richieste che ricordavano i programmi per il controllo operaio della Comune parigina e della Rivoluzione russa. Il fatto che la rivolta non sia mai giunta a mettere davvero in pratica la presa del potere, per quanto la questione fosse stata posta, non sminuisce il suo carattere di movimento di classe. Il motore della rivolta era la costruzione di nuove relazioni di autorità e potere, un nuovo stile di vita che avrebbe liberato i soggetti dalla schiavitù di un crescente consumismo e, come nel caso della controparte studentesca americana, dalla macchina tecnocratica. Nello stesso tempo, nell'abbracciare vecchi settori della società, quali quelli operai, la rivolta portava con sé la promessa di una libertà più generalizzata. Studenti e intellettuali invasero le strade, costruirono barricate con macchine rovesciate e detriti, e usarono pietre come armi, come avrebbe fatto dopo un altro movimento, l'Intifada palestinese. Il fervore del movimento si estese infine ad alcuni settori industriali, dove gli operai presero possesso delle fabbriche, espulsero i padroni dagli stabilimenti e li occuparono per settimane, assumendo in alcuni casi il controllo della produzione.

Non e mai possibile determinare in anticipo se i governanti saranno in grado di integrare l'opposizione nel sistema di potere dominante. L'integrazione dipende dal grado di surplus sociale disponibile per la redistribuzione, dalla tempestività dei poteri costituiti nell'intraprendere finanziamenti in passivo degli ammortizzatori sociali quando le risorse sono relativamente scarse, ma anche dalla capacità dell'opposizione di rilanciare anziché accontentarsi delle briciole, forzando i limiti di flessibilità del sistema. Queste scelte dipendono spesso da variabili psicologiche oltre che politiche: i gruppi subordinati temono la libertà che accompagna un'assunzione di responsabilità per l'intera compagine sociale? Le persone sono preparate a resistere e a cercare di sconfiggere le forze armate e la polizia nel corso di manifestazioni e scioperi? Il cinismo supera la speranza? Sussistono modelli alternativi di governo in grado di sostituire le strutture gerarchiche dello Stato autoritario o liberale? E le varie componenti del movimento sono preparate a consultarsi l'una con l'altra prima di trattare separatamente con i poteri costituiti? Di converso, la cosiddetta coscienza rivoluzionaria non si dispiega quasi mai del tutto a priori, e può svilupparsi solo nel corso delle lotte per raggiungere obiettivi importanti ma limitati.

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Pagina 36

Tre assiomi della teoria delle classi

Il primo assioma della teoria delle classi qui proposta consiste nel primato del tempo sociale sullo spazio sociale. Gli ordinamenti spaziali sono gli esiti sedimentati delle lotte per la formazione della classe e, poiché il tempo sociale non è irreversibile, sono segnati dalla contingenza. Perciò, se le cartografie della classe rappresentano un valido strumento di identificazione entro una specifica congiuntura storica, qualora vengano intese come substrato della teoria esse nascondono più di quanto non rivelino. Il compito della teoria è offrire una descrizione tanto delle trasformazioni quanto dell'integrazione sociale; ma il concetto di trasformazione dovrebbe essere specificato in relazione a spostamenti od oscillazioni – quelle che Bourdieu considera conseguenza del conflitto – come anche all'ambiguo termine di cambiamento. A questo proposito, vorrei richiamare l'attenzione sulle originali trasformazioni occorse negli Stati Uniti degli anni Sessanta nella musica, nella moda, nei gusti alimentari: trasformazioni che negli ultimi trent'anni si sono estese alle nazioni postcoloniali come a quelle a capitalismo avanzato. Il concetto di distinzione proposto da Bourdieu è necessario ma non sufficiente per comprendere il significato di quanto accaduto. Cio che si definiva cultura «giovanile» - relativamente alla musica e alla moda, un ibrido di musica afro-americana ed esperienza generazionale di impoverimento culturale tardo-capitalistico – ha ridefinito le regole dell'accumulazione di capitale culturale. Gli ambiti tradizionali della cultura elevata, in particolare la musica classica e la pittura, hanno perso la loro efficacia estetica, la loro audience (capitale sociale) e buona parte della loro base economica. Sebbene tali cambiamenti non comportino la scomparsa di tali espressioni culturali, la loro posizione sociale è stata danneggiata. La perdita di controllo non è limitata ai gruppi tradizionalmente più danarosi. Le ultime generazioni di intellettuali, un tempo componente robusta dell'audience di questi ambiti, li hanno disertati. I giovani accademici e gli intellettuali indipendenti solitamente sanno poco o nulla di queste forme; gli artisti non si formano più al loro interno né vi gravitano attorno. Senza una nuova generazione di produttori, esecutori e pubblico, esse potranno a malapena sopravvivere e avranno perso gran parte del loro lustro.

Il secondo assioma è che l'integrazione sociale è il risultato di un processo di lotta e presuppone la disintegrazione dell'assetto sociale precedente, un processo che è una questione tanto teorica quanto empirica. Che ci sia integrazione nel sistema di potere dominante, o che le parti in lotta riescano solo a convivere in un'instabile tregua, è una questione empirica che non può essere determinata in anticipo. Quasi sempre, l'integrazione presuppone che la formazione dominante abbia fatto concessioni sostanziali alle classi subordinate in cambio della pace sociale. La domanda da porsi è: questi periodi di calma costituiscono un'integrazione, segnalata dalla lealtà e dalla complicità dei gruppi subordinati all'interno delle relazioni di dominio? O piuttosto il relativo silenzio dei subordinati è il prodotto della paura e un inquietante riconoscimento della superiorità del potere dominante? In quest'ultimo caso, ci si può aspettare che la tregua abbia fine nel momento in cui il capitale, non potendo più soddisfare le condizioni per la pace sociale poste dal lavoro e da altre formazioni sociali, sferra un'offensiva contro il patto sociale informale, inclusi il salario diretto e indiretto (il pacchetto di benefici dello stato sociale). Qui, il terreno del lavoro può includere coloro che sono culturalmente codificati dalle identità di genere, razziali e professionali, come anche le occupazioni nell'industria e nei servizi. La questione del lavoro comprende il lavoro salariato e quello domestico e ha dimensioni politiche e culturali oltre che un significato strettamente economico. Da questo punto di vista, la guerra funziona come un'indefinita posticipazione della resa dei conti, poiché chiama l'intera nazione al sacrificio e, per un certo periodo, la lotta di classe può essere soppressa con la forza o col consenso.

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Pagina 64

Verso una nuova politica del lavoro

Nella nostra epoca, in cui è più facile porre domande che trovare risposte, la percezione frammentaria della politica e dell'economia, da parte sia degli esperti sia di ciò che chiamiamo «opinione pubblica», rende difficile progettare soluzioni che siano ampiamente condivise. Per questo motivo, la classica domanda sul «che fare» diventa spinosa, perché porta con sé le tracce dei danni commessi in passato dalle ideologie di emancipazione. In effetti, parlare di liberazione o emancipazione del lavoro appare utopico, in senso negativo. Nella trasformazione della politica globale successiva alla caduta dell'Unione Sovietica, il marxismo è stato screditato intellettualmente, anche dai suoi passati sostenitori; in generale, il declino del socialismo porta alla mente immagini di tradimento.

In questa situazione, senza grandi alternative, ci autocondanniamo al presente stato delle cose. Questo è il dilemma fondamentale della Scuola di Francoforte, di alcuni filosofi e sociologi francesi e di coloro che sono arrivati a concludere che la nostra epoca è quella della morte del soggetto. Se intendiamo il soggetto come surrogato di Dio, come coscienza solipsistica o come governo dell'uomo sulla natura non è difficile essere d'accordo. Ma quando questa espressione implica la fine della possibilità di resistere o di agire in opposizione, allora tale fine si pone come una riconciliazione con l'ordine sociale esistente.

Questo scritto si pone in una prospettiva di emancipazione, in cui l'umanità, la libertà e la speranza si allineano con l'opposizione e le alternative con l'ordine esistente. I «nuovi» movimenti sociali (femminismo, ecologia, libertà sessuale) insieme a elementi di quelli precedenti, soprattutto i movimenti di liberazione afro-americani, dei latinos e degli asiatici e, chiaramente, il movimento operaio. Il nostro contributo si limita a suggerire alcuni possibili percorsi sul futuro del lavoro, tenendo in considerazione l'attuale rivoluzione scientifica e tecnologica. Come intellettuali, dialoghiamo con altri intellettuali e con chi può trovare utile il nostro punto di vista, ma non parliamo al posto loro.

Le nostre proposte si basano su un presupposto fondamentale: l'idea che la crescita economica radicata nell'innovazione tecnologica non porti necessariamente a un tasso di occupazione più alto, se non viene associata a una riduzione delle ore di lavoro; perfino questa riduzione può non essere sufficiente a sostenere un livello di pieno impiego, poiché gran parte delle nuove forme di lavoro sono part-time oppure a basso reddito e senza prospettive. Perciò sembra interessante proporre la tesi che oggi sia pienamente giustificabile la riduzione del lavoro. Non solo, la nostra proposta ha lo scopo di assicurare la possibilità del pieno sviluppo delle capacità individuali e sociali.

Se è vero, come sosteniamo, che l'economia mondiale non può sostenere il pieno impiego nei prossimi decenni, e che le reti di sicurezza sociale si stanno disintegrando, è necessario ripensare il ritmo del cambiamento tecnologico e gli effetti delle riorganizzazioni aziendali, che negli ultimi anni hanno lasciato disoccupate decine di migliaia di lavoratori. Fino a quando non verranno introdotte, nelle legislazioni e nei contratti sindacali, misure come la drastica riduzione dell'orario di lavoro, qualche forma di reddito garantito, un vero servizio sanitario nazionale accessibile a tutti e un sistema fiscale progressivo, tutte le novità e le tecnologie che riducono il fabbisogno di manodopera, le manovre finanziarie, le acquisizioni e le fusioni dovranno essere valutate in base al loro impatto sul benessere dei lavoratori e della comunità. In quest'epoca di crescita incontrollata e stagnazione economica occorre bloccare i tentativi delle aziende di far pagare ai lavoratori i danni dovuti alla diminuzione dei profitti, perché hanno già causato troppo impoverimento.

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Pagina 69

La necessità di ridurre l'orario di lavoro

Dall'introduzione della giornata lavorativa di otto ore, risultato della contrattazione sindacale della legge federale sul lavoro e il salario del 1938, non ci sono state riduzioni significative dell'orario di lavoro. Da allora, il tempo di lavoro è aumentato, a dispetto del fatto che siamo entrati nell'era del più grande cambiamento tecnologico dai tempi della Rivoluzione industriale. Le persone dedicano al lavoro troppa parte della loro vita, cosa che è plobabilmente causa di problemi familiari e di salute molto seri, tanto quanto la disoccupazione e la povertà. Non solo, l'aumento delle ore di lavoro ha contribuito ad aumentare la disoccupazione e la povertà tra gli esclusi dal mercato del lavoro.

La necessità di ridurre la settimana lavorativa da quaranta a trenta ore, almeno inizialmente, è urgente. In molti settori produttivi la settimana lavorativa di trenta ore, senza alcuna riduzione dello stipendio, creerebbe nuovi posti di lavoro solo se si eliminassero contemporaneamente anche gli straordinari. Anche se alcuni possono preferire orari più flessibili, compatibili con la necessità di curare la famiglia e i figli, la giornata lavorativa dovrebbe comunque essere ridotta a sei ore, anche solo per garantire migliori condizioni di sicurezza e salute sul lavoro, oltre a una maggiore libertà di gestione della vita quotidiana. Infine, si ritiene che una riduzione progressiva delle ore di lavoro sia coerente con la trasformazione tecnologica e l'eliminazione del lavoro inutile nel settore pubblico e in quello privato, riducendo la quantità di lavoro necessaria per produrre beni e servizi. In altre parole, il guadagno derivante dalla produzione non sarebbe necessariamente condiviso, come in passato, tra lavoratori e proprietari attraverso un aumento salariale, ma attraverso la riduzione delle ore di lavoro.

Chiaramente, la riduzione delle ore di lavoro solleva alcune questioni importanti. Senza gli straordinari e altre forme di condivisione del lavoro, si ridurrebbe il salario; come farebbero le famiglie a mantenere gli standard di vita attuali? Il tempo a disposizione sarebbe usato per sviluppare pienamente le loro potenzialità o potrebbe essere usato in maniera distruttiva? Chi pagherà per il work-sharing? È possibile questa proposta in un'economia globale, in cui il capitale si muove alla ricerca di lavoro a basso costo? Quest'ultima domanda deve essere affrontata per prima perché, sebbene politicamente tormentata, pone meno problemi a livello concettuale.

L'esperienza del movimento operaio tedesco è utile in questo contesto. Nel 1985, la IG Metall, il sindacato metalmeccanici, propose la riduzione dell'orario di lavoro per il settore automobilistico e metallurgico. Dopo un breve periodo di scioperi che coinvolsero milioni di lavoratori in uno del settori più avanzati tecnologicamente dell'economia tedesca, gli industriali accettarono la richiesta del sindacato, introducendo la settimana di trentacinque ore su un periodo di cinque anni. Un po' per volta, altri settori hanno adottato l'orario ridotto, ma non è stata varata una legge nazionale per tutti, dato che il partito socialdemocratico, a cui il movimento operaio si appoggiava, nel 1993 non era al potere. Le industrie tedesche non hanno perso competitività, poiché il minor tempo di lavoro è stato compensato dall'attuazione di tecnologie di produzione avanzatissime che hanno reso la produttività dei lavoratori tedeschi molto alta.

Inoltre in Germania, dove il salario «sociale» include l'accesso ai servizi sanitari, alla pensione, al reddito minimo e al sussidio di disoccupazione, il costo del lavoro per i datori di lavoro è in certi casi minore che negli Stati Uniti, dove non ci sono misure statali di sussidio, anche se i salari sono più alti. Negli Stati Uniti il datore di lavoro si deve sobbarcare buona parte delle misure di sicurezza sociale, spendendo circa il 40% del salario per indennità accessorie.

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Pagina 85

Manifesto del post-lavoro
1997
S. Aronowitz, D. Esposito, W. DiFazio e M. Yard



Introduzione

Stiamo toccando il fondo, e con noi il nostro senso di benessere. Per due secoli, nonostante le depressioni e le guerre, l'America è rimasta la «porta dorata» dietro la quale si coglievano i richiami allusivi della bella vita. Adesso, con l'approssimarsi del XXI secolo, è più accurato definire gli Stati Uniti come la terra della crisi occupazionale e della sicurezza perduta, delle aspettative e delle speranze deluse. Per molti, i recenti sviluppi economici e politici fanno presagire l'imminente scomparsa di una confortevole occupazione a tempo pieno e «con un futuro». A un futuro da disoccupati si accompagna anche il deterioramento e la perdita di molti benefici, quali un'assistenza sanitaria di qualità e la previdenza sociale, un tempo garantiti negli Stati Uniti (sia pur in minima parte) dal contratto di lavoro.

Se si consente all'attuale tendenza di fare il suo corso, solo pochi fortunati potranno godersi la vita senza l'assillo costante delle preoccupazioni economiche. Tutti gli altri saranno a tal punto oberati dal lavoro continuo e dal timore di non riuscire a procurarsi il necessario per vivere, che persino la libertà di immaginare un tipo di vita differente sarà considerata un lusso. È sempre più difficile trovare il tempo per riflettere, scrivere, provare delle emozioni, cambiare. Viviamo in un periodo in cui i datori di lavoro pubblici e privati chiedono ai dipendenti di accettare continue riduzioni del salario, dei benefici sanitari, delle prestazioni pensionistiche e delle ferie retribuite. Poiché la ricerca di un'occupazione stabile porta via una crescente porzione del nostro tempo, è l'ansia – e non l'economia – che viene sempre più democratizzata, accomunando gli individui provenienti dalle occupazioni e dagli strati sociali più disparati, dagli operai agli alti e medi dirigenti, come probabilmente non accadeva da secoli. Nessuno infatti può considerarsi immune dal crollo di queste distinzioni, che le immense trasformazioni socio-economiche tipiche della nostra epoca stanno rendendo sempre più insignificanti.

Probabilmente quasi tutti si rendono conto che i lavoratori industriali sono costantemente minacciati dal trasferimento degli impianti di produzione e dal progresso tecnologico. Trent'anni fa i lavoratori lottavano contro i tentativi dei datori di lavoro di allungare la settimana lavorativa e di ridurre il salario e il tempo libero. Ma alla fine del XX secolo, nel timore di restare disoccupati, questi stessi lavoratori subiscono in silenzio l'accelerazione dei ritmi di produzione, gli straordinari obbligatori e gli incidenti sul lavoro (sempre che il padrone non decida di trasferirsi altrove). Anche se le statistiche parlano di crescita economica, l'occupazione industriale legale continua a diminuire e quella illegale ad aumentare. Nel frattempo, nel corso dell'ultimo decennio, abbiamo assistito al ritorno di quel che speravamo fosse stato bandito per sempre: lo sweatshop. Molti individui lavorano «in nero» nell'economia sommersa, spesso per dieci o dodici ore al giorno, a un salario inferiore al minimo legale. In questi sweatshop, che producono una quantità crescente del nostro abbigliamento e dei nostri giocattoli, ha fatto di nuovo la sua comparsa il lavoro minorile. I bambini lavorano da soli o accanto ai genitori, e sono spesso picchiati, incatenati alle macchine o rinchiusi dai padroni in stanze poco ventilate.

Ma il processo di cambiamento non colpisce profondamente solo gli operai e i lavoratori industriali. I medici vengono assunti come salariati dalle Health maintenance organization (Hmo) e, nella corsa frenetica al taglio dei costi, stanno perdendo il controllo del proprio lavoro. Nell'universo delle Hmo sono i manager, e non i medici, a decidere chi è malato e chi non lo è, chi ha bisogno di un trattamento e chi no. Molte altre figure professionali sono vittime anch'esse del ritornello incessante dello snellimento della produzione. Ad esempio, gli accademici godono di maggiore libertà rispetto ad altre categorie di lavoratori, perché hanno più tempo per svolgere il proprio lavoro e la possibilità di esprimere le proprie opinioni durante le lezioni. Ma neppure la cattedra universitaria è più assicurata: trattandosi di una forma di reddito garantito, di una sorta di diritto, non sorprende che anche questa, come tutte le altre piccole garanzie di cui godevamo, cominci a essere minacciata. E proprio quando l'istruzione universitaria è diventata un prerequisito indispensabile per trovare un lavoro stabile, le rette dei college pubblici e privati sono andate alle stelle. Molti studenti non possono più permettersi di andare a scuola, né per piacere né per acquisire gli strumenti necessari per la loro carriera, perché anche i sussidi agli studenti vanno rapidamente scomparendo. Le rette universitarie nelle istituzioni pubbliche sono cresciute così velocemente che gli studenti della classe lavoratrice, molti dei quali appartengono a minoranze etniche, sono costretti a svolgere anche più di un lavoro a tempo pieno o parziale, sottraendo tempo prezioso allo studio. I college tornano a essere un ambito esclusivo per privilegiati.

Ma è possibile invertire il senso di marcia rispetto a quello che stiamo percorrendo. L'altra strada è quella che porta a orari di lavoro più brevi, a salari più elevati e soprattutto alla capacità di controllare meglio il nostro tempo. In un mondo diverso e migliore, sarebbe ancora possibile produrre i beni e i servizi di cui la società ha bisogno, ma lo si farebbe in tempi più rapidi. C'è molto da produrre: occorrono milioni di case a canoni d'affitto ragionevoli; è necessario bonificare, migliorare e preservare l'ambiente in cui viviamo, ripristinare le riserve di acqua potabile depauperate ed eliminare l'inquinamento. C'è anche molto da fare: i bambini richiedono cure e attività ricreative. Le persone comuni potrebbero gestire i canali televisivi e, in collaborazione con i registi e i produttori indipendenti, assumere un ruolo di primo piano nella produzione mediatica contemporanea. I quartieri avrebbero teatri, sale per concerti, impianti sportivi e luoghi di incontro collettivi. Le librerie tornerebbero a operare a tempo pieno, e gli individui avrebbero il tempo per usufruirne. E come in gran parte d'Europa, questi servizi sarebbero gratuiti o offerti a prezzi contenuti. Il sogno apparentemente impossibile di una giornata lavorativa più breve si tradurrebbe in uno stile di vita relativamente libero dalla tirannia del tempo così come oggi la conosciamo.

Siamo diretti all'inferno o al paradiso? L'attuale tendenza verso uno «snellimento» continuo nell'ambito della produzione, del governo e dell'istruzione è un fatto naturale, o è generata dagli esseri umani con un obiettivo ben preciso? Possiamo permetterci un «libero» mercato che crea due milioni di senzatetto, genera povertà per più di un quarto degli americani e spinge ogni anno oltre un milione di bambini sotto la soglia di povertà?

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Pagina 277

Parallelamente alle trasformazioni politiche ed economiche, si può osservare un profondo cambiamento del discorso pubblico, sotto il segno di un mutamento delle percezioni economiche e sociali. In molti paesi, l'idea di bene pubblico non è un principio universalmente accettato, eccezion fatta per l'ambito ecologico. Viceversa, la parola d'ordine della politica pubblica è gestire i termini della privatizzazione. Negli Stati Uniti, facendo seguito alla richiesta di pareggiare il bilancio riducendo la spesa e liberando il capitale per l'investimento privato, proveniente dal mondo aziendale, è tornato prontamente alla ribalta il discorso del darwinismo sociale, soprattutto nel campo dell'istruzione e della sanità. Poiché è opinione dominante che il governo sia sovradimensionato, molti oggi credono che un'iniezione di fondi per gli istituti scolastici fatiscenti, per gli ospedali pubblici e altri servizi sanitari per i poveri sia solo un cattivo investimento. Secondo la retorica conservatrice, se i poveri sono geneticamente o culturalmente incapaci di acquisire abilità «cognitive», perché sprecare il denaro dei contribuenti per farli studiare? («Contribuenti» è una parola in codice per indicare i piccoli proprietari della classe media). Da qui la tendenza prevalente, specialmente nelle città con nutrite popolazioni nere, latine e asiatiche, a ridurre l'onere fiscale e a pareggiare il bilancio, tagliando i finanziamenti alle scuole pubbliche e riducendo le aule scolastiche a veri e propri tuguri. Come sostiene Jerry Watts, il vero significato della recente polemica sull'intelligenza, sollevata da Richard Herrnstein e Charles Murray in The Bell Curve, è la spinta a naturalizzare l'oppressione dei neri negando loro lo status di vittime. In questa analisi, la questione in gioco non è l'uguaglianza ma se la società nel suo complesso abbia la responsabilità istituzionale di combattere il razzismo.

Se questo legame tra la più ampia agenda politica della destra, la ristrutturazione economica e la ricomparsa del darwinismo sociale è troppo funzionalista per le papille dialettiche, è sempre possibile attribuire questo legame alla congettura, all'affinità elettiva o più semplicemente al caso. Eppure, è legittimo sospettare che esista ben più di una connessione casuale tra l'attacco spietato ai servizi urbani e il diffondersi delle nuove «prove scientifiche» dell'inferiorità nera. Da The Closing of The American Mind di Allan Bloom (La chiusura della mente americana, trad. it. P. Pieraccini, Frassinelli, Milano 1988) a The Bell Curve, abbiamo assistito a una continua razionalizzazione razzista dell'abbandono delle città. Come sempre, i liberal tirano in ballo la scienza per confutare argomenti la cui fallibilità scientifica non è in discussione; come sempre, un pubblico afflitto dall'insicurezza e dalla paura non è disposto a farsi confondere dai «fatti».

Negli Stati Uniti data la debolezza politica e ideologica del movimento dei lavoratori, e il traballante contratto sociale nel secondo dopoguerra, è stato relativamente facile violare l'accordo in base al quale i lavoratori promettevano la loro incrollabile fedeltà al capitalismo americano e alle sue politiche internazionali, in cambio di una versione corporativista dello stato sociale. La strategia, più o meno esplicita, è stata quella di guadagnare terreno intellettuale affermando un nuovo senso comune. Oltre a un revival delle ideologie che legittimano la disuguaglianza, si è affermata una «nuova» dottrina economica, caratterizzata da un attacco al keynesismo, il paradigma economico dominante nell'era della regolamentazione. Il discredito dell'intervento dello Stato nell'economia è stato accompagnato dalla riaffermazione del monetarismo e da una versione più elaborata della dottrina smithiana, un tempo derisa, della politica economica e sociale guidata dal mercato.

Queste teorie affermano che l'intervento dello Stato nell'economia debba essere limitato alla determinazione dei tassi di interesse e dell'offerta di moneta: strumenti di controllo che secondo gli economisti rappresentano una debole intrusione nelle dinamiche economiche ma riducono la minaccia dell'inflazione (leggi: riducono gli aumenti salariali). Nella maggior parte dei casi, l'investimento pubblico in ambito produttivo o sociale è fortemente sconsigliato in quanto interferenza ingiustificata nelle dinamiche del libero scambio di lavoro e merci. Teoricamente, questa dottrina si oppone a ogni forma di welfare, inclusa la previdenza sociale, fuorché nel caso di programmi assicurativi privati. La legislazione sul salario minimo e sull'orario di lavoro è considerata una restrizione al libero mercato, che scoraggerebbe le imprese dall'investire e assumere lavoratori, come quasi tutte le forme di regolamentazione aziendale, che sono rigettate per gli stessi motivi.

Il nuovo mantra della politica economica afferma che la crescita economica si ottiene limitando i servizi pubblici al minimo essenziale, e riducendo e pareggiando i bilanci pubblici, anche attraverso un emendamento costituzionale. Un tempo confinata all'ambito dell'intrattenimento leggero, la cosiddetta «scuola di Chicago», le cui teorie e prescrizioni nell'era della regolamentazione erano tenute nella medesima considerazione del marxismo, è salita alla ribalta in modo improvviso. Milton Friedman e i suoi seguaci divennero gli ospiti di punta di notiziari e programmi di informazione politica e, alla fine degli anni Settanta, le loro teorie guadagnarono il favore della politica istituzionale. L'equazione capitalismo-libertà e socialismo-totalitarismo promossa da Friedman, benché per nulla nuova, divenne il nuovo slogan di economisti e autorità politiche di tutti gli schieramenti.

L'obbligo di garantire la piena occupazione non è più alla base della politica. Infatti, in un ambiente in cui la protesta sociale è stata effettivamente arginata o incanalata nell'«apatia», e tutte le merci principali competono su scala globale, molti economisti e autorità politiche non considerano più la piena occupazione un obiettivo desiderabile, perché – sostengono – tende a produrre pressioni inflazionistiche aumentando i salari, riducendo i profitti e limitando gli investimenti.

L'adesione dell'amministrazione Clinton, come quella di Jimmy Carter alla fine degli anni Settanta, al paradigma economico neoclassico spiega perché, oltre all'erosione tangibile della sovranità economica nazionale e nonostante la maggioranza democratica al Congresso, nessuna delle due amministrazioni sia mai riuscita a estendere le tutele dello stato sociale. Ipotizzando la buona fede, il problema dei «nuovi» Democratici è che, essendo sinceramente convinti che ogni possibile intervento pubblico debba essere giustificato secondo criteri fiscali e di mercato, hanno rigorosamente escluso ogni politica sanitaria, sociale e lavorativa demercificata.

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