Copertina
Autore Bruno Arpaia
Titolo L'Energia del Vuoto
EdizioneGuanda, Parma, 2011, , pag. 264, cop.fle., dim. 14x22x2,2 cm , Isbn 978-88-6088-538-8
LettorePiergiorgio Siena, 2011
Classe narrativa italiana , fisica
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Pagina 9

Soltanto provinciali. Niente autostrade, niente nazionali. Al massimo, stradine secondarie, di quelle colorate in giallo, o addirittura in bianco, sulla carta. Fino a Marsiglia, ci metterà del tempo, troppo. Gli toccherà passare tutti i paesini sparsi dal Padreterno per le campagne svizzere e francesi, rischiando di incrociare una pattuglia della polizia o qualche vigile un po' troppo zelante. Ma almeno, a quelli che l'inseguiranno, renderà il compito molto meno facile.

Pietro Leone guarda nello specchietto le luci di Ginevra sempre più lontane, poi Nico che dormicchia disteso sul sedile, con la console ancora tra le mani. Davanti a sé, solo la strada e il bosco, e i fari che fanno a fette il buio oltre i tornanti. Diosanto, il cellulare... Ma come ha fatto a non pensarci prima? Bisogna spegnerlo, e poi sconnettere anche la batteria. E il GPS? Pure. Non è sicuro che possa servire a rintracciarlo, ma è meglio, molto meglio non rischiare.

Quando è uscito di casa, trascinandosi Nico ancora mezzo addormentato, ha fatto solo in tempo a ricordarsi che non dovrà mai usare né bancomat né carte di credito. Ha raccattato cinque o seicento franchi e centottanta euro nascosti nei cassetti, più una bottiglia di acqua purificata mezza piena. Così è partito: in fretta e furia, quasi senza bagaglio, sudato come un pugile, con Nico che piagnucolava e gli chiedeva «Papa, ma dove andiamo? E mamma?», «Poi ci raggiunge, non ti preoccupare», la voce rotta mentre lo diceva, un temporale in testa e un morso di dolore nello stomaco quando pensava a Emilia. E ora le strisce gialle e il buio oltre la strada, e il caldo, già quasi trenta gradi. Cose da pazzi: a maggio, passata mezzanotte... Se non l'avessero messa fuorilegge due anni prima, avrebbe almeno acceso l'aria condizionata, e invece ora gli toccano le mani sudaticce sul volante, le ascelle umide, le folate di aria appiccicosa che lo assalgono attraverso il finestrino. «Papa, quando arriviamo?»

«Ci vuole ancora tempo, Nico. Dormi...» Hanno passato il confine da Chancy, poi Pietro, dopo Bellegarde, si è imbucato per le stradine interne lungo il Rodano fin quasi a Chambéry. Adesso viaggia sulla provinciale tra Saint-Bueil e Chirens, più o meno in direzione di Valence, un occhio alla cartina piegata sul sedile e un altro allo specchietto per controllare di non essere seguiti. Niente, nessuno, nemmeno un'automobile. L'unico guaio è che ormai ha le palpebre pesanti, l'adrenalina che sta lasciando il posto alla stanchezza. Quando sente la ruota sobbalzare sul ciglio della strada, quando è costretto a dare un colpo di volante per ritornare sulla carreggiata, Pietro si rende conto che ha molto, troppo sonno, che è arrivato il momento di fermarsi. Soltanto un riposino, dieci minuti, venti, e poi di nuovo in pista. Rischioso, ma non ha altra scelta.

La ghiaia dello spiazzo cricchia sotto le ruote, fin quando Pietro parcheggia accanto a un vecchio tiglio. Nico dorme ancora. Intorno, tranne l'insegna rossa del ristorante chiuso, c'è solo un fitto buio. Scende a pisciare, sale dall'altra parte e tira giù il sedile. Il tempo riprendersi, si dice; un quarto d'ora, venti minuti al massimo. Si sistema su un fianco e chiude gli occhi. La brezza, tra le foglie, è un sussurrare scuro, due labbra che trangugiano i rumori, fermi in agguato sotto il ciclo nero.

C'erano quasi. Gli ultimi calcoli, le ultime tarature con i raggi cosmici, altre simulazioni con dati Monte Carlo, le ultime verifiche dei calorimetri e delle camere a muoni, e poi, quando arrivava il benedetto fascio, sarebbero stati pronti per partire. Emilia sollevò lo sguardo dallo schermo e sbirciò Rudy con un sorrisino, ma a lui sembrò che sul suo viso ci fosse più stanchezza che soddisfazione.

«Ora smettiamo» disse. «Siamo troppo stanchi. Meglio farle domani, le verifiche... Abbiamo ancora tempo...»

Erano le otto e mezza e fuori era già buio, ma lì, al centro di controllo provvisorio, a un centinaio di metri sotto terra, le stesse luci al neon perennemente accese facevano confondere le due di notte e le dieci del mattino.

«Va bene» si decise Emilia. «Però domani ricontrolliamo tutto dal principio.»

Emilia Vinas era di Madrid e Rudy Zoller era nato a Amburgo. Lei aveva fatto il dottorato al Mit e lui al Caltech. Lei, con il suo gruppo di fisici spagnoli, aveva messo a punto un rivoluzionario calorimetro per decifrare le energie di fotoni ed elettroni; lui, giovanissimo, era il migliore segugio europeo di particelle: gli bastava guardare una schermata per intuire a colpo d'occhio, in quella specie di complicato fuoco d'artifìcio di processi, tracce, decadimenti ed energie mancanti, che cosa era successo in quel mondo minuscolo e segreto, simile a quello che aveva dato inizio all'universo. Ora, lì al Cern, l'Organizzazione europea per la ricerca nucleare, erano i vicedirettori di uno degli esperimenti dell'Lhc, il Large Hadron Collider, il più potente acceleratore mai costruito al mondo, al quale lavoravano più di ottomila fisici, tecnici e ingegneri di una sessantina di paesi.

Nell'ascensore che li riportava in superficie, Rudy stette in silenzio mentre Emilia, le guance in dentro, le labbra strette in fuori, si scrutava la faccia nello specchio che aveva tirato fuori dalla borsa e si aggiustava i capelli con le dita.

«Oddìo, che occhiaie... E guarda queste zampe di gallina attorno agli occhi...»

«Colpa del neon, non ti preoccupare.» Emilia si voltò e sorrise.

«No, no: colpa degli anni, colpa del lavoro...»

Le porte si aprirono in un soffio prima che Rudy potesse architettare una risposta ironica e galante. Rimase zitto. Superarono le porte di sicurezza, misero a posto i caschi dentro l'armadietto, si sganciarono i badge per le radiazioni e percorsero l'hangar quasi vuoto, zeppo solo di cavi, bobine, variatori, di valvole e di giunti, di gru, ponteggi e pezzi di magneti: lei avanti, a passi svelti, lui dietro, con l'andatura lenta di chi non ha nessuno a casa che l'aspetti e non ha avuto il tempo di organizzarsi in qualche modo la serata. Fuori dal capannone, salirono sulla macchina di Emilia e attraversarono i paesini vuoti e silenziosi finché non videro le garitte del posto di frontiera con la Svizzera, le bandiere e i pennoni dell'ingresso, il parcheggio del Building 40. Lì Rudy scese. Nel buio illuminato dai lampioni, si sentivano solo i suoi passi sull'asfalto e il ringhio sordo del raffreddamento dei computers al Building 513.

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Pagina 46

«Davvero non vuoi rimandare? Guarda che io...» le disse dopo il primo sorso. «No, no. Meglio che mi distragga, ti assicuro. Meglio che ti racconti del Modello Standard. Ne sai qualcosa?» Nuria scosse la testa e si allungò per prendere le sigarette e l'accendino dalla borsa, poi si sedette di traverso sulla sedia, con una gamba appoggiata sul bracciolo. «Qualcosa, sì, ma vaga.,.» «Qui non si può rumare» avvisò Emilia. «Vero. Peccato. Vuoi dire che tra un poco esco... Allora, questo Modello Standard?» Emilia rigirò col cucchiaino lo zucchero rimasto nella tazza e lo portò alle labbra fissando Nuria come senza vederla, come se stesse raccogliendo a una a una le parole. «È la migliore descrizione che abbiamo oggi del mondo subatomico. È stato elaborato una trentina d'anni fa e, da allora, gli esperimenti l'hanno verificato con una precisione accuratissima. Per il Modello Standard il mondo è fatto di campi, le cui manifestazioni sono le particelle elementari, che interagiscono tra loro scambiandosi altre particelle. Ti ho già parlato dei due tipi di quark e degli elettroni, ti ricordi? I tre mattoni di cui siamo composti... E poi ci sono i piccolissimi neutrini, quelli che ci attraversano in continuazione. Con queste quattro, basta: ce ne sarebbe a iosa per fare noi, il caffè, il tavolo, le stelle, e via dicendo. Però, di particelle...» «Ce ne sono altre, vero?» «Quasi uno zoo, tantissime, perlopiù composte da diverse combinazioni di quark. Ma concentriamoci su quelle più importanti, quelle fondamentali, che sono raggnuppate in tre famiglie, o tre generazioni: per ogni quark, ogni elettrone e ogni neutrino, ci sono altre due 'copie', più pesanti: quark charm, strange, top e bottom, muoni, tau, neutrini muonici e tau... Insomma, un bel casino. Il guaio è che nessuno sa a che cosa servano queste particelle più pesanti, nessuno sa perché ci siano proprio tre famiglie e non quattro o quattordici, e neppure se ce ne siano altre. Non abbiamo la più pallida idea nemmeno del perché le loro masse sono così diverse, del perché, per esempio, un quark top pesa trecentocinquantamila volte più dell'elettrone... Boh. Mistero. Eppure, nonostante tutto, quel Modello Standard sembra andare bene. Sei ancora sveglia?»

«Scherzi? Sveglissima. Un po' incasinata con tutti questi nomi, ma sveglissima. Vai avanti.»

«D'accordo, vado. Tu non pensare ai nomi e bada al sodo. Quelle che ti ho elencato sono le particelle di materia, che oggi riteniamo stati eccitati, o 'quanti', di un campo di forze sottostante, che è la vera entità fondamentale. A ogni campo corrisponde il suo quanto: a quello elettronico, l'elettrone; a quello protonico, il protone; a quello del quark top, il quark top, appunto, e così via. Ma poi ci sono quelle che trasportano le forze...»

«Le forze? Quali forze?» Emilia sospirò con un sorriso, come se la domanda fosse troppo ingenua. Ripiegò il pollice e aprì la mano con le dita tese.

«Quattro. Le forze fondamentali dell'universo sono quattro. La prima: perché siamo ancorati a terra e non voliamo? Perché la Terra ruota attorno al sole e non se ne va in giro per lo spazio? Questa è la gravità. Per quanto tutti noi l'avvertiamo con molta evidenza, è una forza debolissima, però ha un raggio d'azione infinito. Un'altra forza che tutti conosciamo è quella elettromagnetica: la bussola, la luce, le lampade, i computer... È più forte di quella gravitazionale, ma agisce solo sulle particelle cariche. I neutrini, per esempio, non ne sono influenzati e per questo possono attraversarci senza che ce ne accorgiamo. Ne mancano altre due, quelle che nella realtà di tutti i giorni non vediamo: sono l'interazione forte e quella debole. L'interazione forte è quella che tiene insieme i quark e i protoni dentro il nucleo: è veramente forte, perché i protoni, che hanno tutti carica elettrica positiva, si respingerebbero e addio atomi, addio materia. Invece la forza forte è così forte, ma così forte, che li tiene insieme. Però ha un raggio d'azione molto limitato, non va più in là del nucleo atomico. Eppure, se viene liberata, produce reazioni ad altissima energia: quelle che avvengono nel sole, per esempio, o la stessa bomba atomica. Capito? Infine, c'è l'interazione debole, anche lei limitata a distanze subatomiche... Ma adesso non è il caso di approfondire troppo. Fin qui ci siamo?»

«Sì, più o meno. Ma tu parlavi delle particelle che trasportano queste quattro forze...»

«Esatto» annuì Emilia. «Ciascuna forza ha una o più particelle 'messaggere', anche loro associate al rispettivo campo: campo gravitazionale, campo elettromagnetico, eccetera eccetera. Si chiamano 'bosoni', mentre le particelle di materia sono 'fermioni'. A trasportare la forza elettromagnetica è il fotone, che non ha massa; l'interazione forte ha il gluone, dall'inglese glue, colla, perché 'incolla' i quark tra loro; la gravita ha il gravitone, che però non è stato ancora osservato; infine, quella debole ha tre 'facchini', i bosoni W+, W- e Z, che sono belli robusti e pesano addirittura un'ottantina di volte più dei protoni. Mi fermo o vado avanti?»

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Erano le otto e venti quando Rudy l'accompagnò all'ingresso del Foyer. Si erano detti tutto a colazione al Bristol, perciò si salutarono soltanto con un bacio rapido e una carezza leggera sulla guancia. Su in stanza, Nuria si consegnò alla doccia, anche se le pesava sciacquarsi via l'odore che si ritrovava addosso, abbarbicato alle ascelle o tra le cosce, quell'eccitante odore di una nottata lunga di umori e secrezioni, di Floris e Chanel.

Restava tempo, l'aereo era alle tre, ma prima di partire aveva ancora molte cose da sbrigare: innanzitutto, fare la valigia e procurarsi almeno un'altra borsa per trasportare il mucchio di giornali, libri e opuscoli che aveva accumulato in quei tre o quattro giorni. Quando fu pronta, la ragazza di turno alla reception le fece perdere una mezz'ora buona per prepararle il conto e solo allora potè salire al quarto piano del Building 40 per salutare Emilia, Duan, Verena, George e gli altri, senza riuscire nemmeno a ringraziare Eduard, che lavorava in un altro edificio, o a dare un bacio a Rudy, spedito all'improvviso in missione a Francoforte.

Mentre affannava lungo il vialetto della caffetteria, si sollevò il polsino per guardare l'ora: le undici passate, e Milanesi doveva avere già iniziato la lezione. Spense la sigaretta, attraversò la sala ristorante e si affacciò nell'atrio del Building principale. Incrociò Bruno e Alain che entravano nel bar. Li salutò di fretta, sali al primo piano e finalmente raggiunse l'Auditorium.

«... e se vi ricordate quello che abbiamo detto nelle lezioni scorse, dovrebbe esservi chiaro perché sia necessario elaborare una nuova fisica che vada oltre il Modello Standard...»

Esatto: Milanesi aveva già iniziato. E i portoghesi, sparsi nei loro scranni, erano tutti assorti ad ascoltarlo. Nuria si sistemò un'altra volta in alto, sempre discosta dal resto della truppa, e lui la salutò sbattendo appena gli occhi prima di proseguire.

«Alcuni, per risolvere i problemi del Modello Standard, hanno sondato il terreno circostante a passettini, altri si sono avventurati per strade un po' più impervie e immaginose, mentre altri ancora hanno inseguito addirittura la Teoria del Tutto, la magica equazione che metta finalmente insieme relatività e quantistica, il Big Bang e il mondo in cui viviamo, il mondo che vediamo e quello che è nascosto ai nostri sensi.» Pausa. Arte retorica, vecchia come il cucco. Ma funzionava ancora. «Nessuno ci è riuscito. Almeno, non ancora» sorrise Milanesi. «Anche perché, da una ventina di anni a questa parte, tutte le ipotesi che sono state fatte non hanno mai potuto avere una verifica dagli esperimenti: c'era bisogno di energie altissime, che gli acceleratori non riuscivano a raggiungere. Poco più sopra la massa del quark top, per noi si spalancava una regione ignota. E sopra, come nelle mappe medievali, c'era scritto: hic sunt leones. Ma adesso, con la partenza dell'Lhc, speriamo di esplorare quella terra incognita. Nessuno sa davvero cosa ci troveremo, però una cosa è certa: dopo, la fisica non sarà più la stessa.»

Marcelle Milanesi sì fermò e guardò in alto per controllare la slide sullo schermo. Subito dopo premette un tasto del telecomando e sopra la sua testa apparve un grafico con l'intensità delle quattro interazioni: gravitazionale, elettromagnetica, debole e forte.

«Vi ricordate» riprese Milanesi «che vi ho parlato del 'problema della gerarchia'? Un paio di lezioni fa vi ho detto che una maniera di formularlo è porsi la domanda: perché la gravita è così debole rispetto alle altre forze conosciute? Oppure, il che è lo stesso, ci possiamo chiedere perché, facendo i calcoli previsti dal Modello Standard, la massa del bosone di Higgs, e dunque quella dei bosoni della forza debole, risulta ben dieci milioni di miliardi di volte più grande di quella vera che otteniamo negli esperimenti. E vi ho già detto che, per far quadrare i conti, dobbiamo regolare i calcoli con una precisione letteralmente inverosimile. È come se volessimo preparare una torta mischiando due ingredienti che devono essere esattamente in proporzione. La proporzione deve essere esatta fino alla quindicesima cifra decimale, altrimenti la torta non riesce, o addirittura esplode.» Adesso Milanesi aveva preso il gesso e aveva cominciato a scrivere alla lavagna cifre sterminate. «Se ci mettiamo esattamente, che so, 300,767432198765432 grammi di farina, bene... Va tutto a meraviglia. Invece se ce ne mettiamo 300,767432198765431, oppure 33...» Pausa. Occhi a mezz'asta, labbra corrucciate, testa che si scuoteva. «Be', un disastro. La torta, come l'universo, non riesce. E allora è naturale chiedersi: è mai possibile che la natura sia stata programmata con questa strabiliante precisione? Perché, per il Modello Standard, se non fosse precisa in questo modo, non esisterebbe nulla: né voi, né io, né questa scrivania, né la galassia con cui stiamo viaggiando da miliardi di anni...»

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Pagina 183

Prima annunciarono che, per riparare il guasto, ci sarebbero voluti due o tre mesi. Poi il nuovo direttore, Rolf Dieter Heuer, disse che l'acceleratore sarebbe ripartito in tarda primavera. A marzo, invece, filtrò la notizia che tutto sarebbe stato pronto per settembre. Infine, si slittò a novembre, però a metà potenza. E intanto, mentre ingegneri e tecnici si dedicavano alle riparazioni, sostituivano 53 magneti, riesaminavano il sistema di raffreddamento, cambiavano le valvole dell'elio, stendevano chilometri di cavi più sicuri, Emilia e gli altri non se ne stettero con le mani in mano. O almeno, fecero il possibile. Approfittarono della lunga sosta per gli ultimi ritocchi ai rivelatori, per migliorare il software di ricostruzione degli eventi, per allineare e sincronizzare gli apparati, per studiare i possibili scenari a energie ridotte. Un lavoraccio. Poi, per un mese, giù a esercitarsi nella presa dati, ventiquattr'ore al giorno, con trigger casuali sovrapposti a quelli dei muoni cosmici per simulare quelli con il fascio di protoni. Ne uscirono sfiniti, però non soddisfatti. Un paio di maniche era divertirsi con gli eventi finti, tutt'altra storia studiare finalmente le collisioni vere. Non vedevano l'ora di partire, e tutti quei ritardi li stressavano. Ma soprattutto avevano il morale sotto terra perché, con l'acceleratore che avrebbe funzionato a metà dell'energia, diminuivano le possibilità di rilevare tracce della nuova fisica, qualche segnale di supersimmetria o delle particelle previste dalle dimensioni extra. E l'Higgs, ammesso che esistesse, neanche a parlarne di stanarlo dagli angoli remoti in cui si nascondeva.

Non li aiutarono a tirare su il morale le notizie dagli Stati Uniti: al Tevatron, l'acceleratore protone-antiprotone del Fermilab di Chicago, erano riusciti a stabilire quasi con certezza che il bosone di Higgs non poteva avere una massa troppo grande. Questo significava che la maggiore energia dell'Lhc non era più un vantaggio così forte, che il Tevatron poteva farcela, a trovare l'Higgs prima di loro, che diventava un serio concorrente anche grazie ai ritardi lì a Ginevra.

Aldo De Maio ci aveva lavorato, al Tevatron, e, anzi, collaborava ancora a uno degli esperimenti. Una mattina di giugno arrivò presto al Building 40, sali al quarto piano, si sistemò di fronte alla scrivania di Emilia e la aspettò. Lei entrò venti minuti dopo e lo trovò che si agitava inquieto sulla sedia, borbottando qualcosa tra sé e sé.

«Aldo, che ci fai qui? È successo qualcosa? Hai una faccia...» «Possono farcela... Emilia, ci precederanno...» «Chi? Cosa? Ma di che stai parlando?» «Il Tevatron, quelli di Chicago... Insomma, la notizia la pubblicheranno solo tra un po' di tempo, ma io so già che hanno visto i dibosoni Z, l'ultimo passo prima di arrivare all'Higgs... Hanno aumentato la luminosità dell'acceleratore e adesso i loro esperimenti stanno incrociando i dati, lavorando insieme... Ci sono vicinissimì...»

«Calmati, Aldo. Questa non è una corsa, non siamo alle Olimpiadi... Se lo trovano loro, vorrà dire che nessuno di noi andrà a Stoccolma, questo è tutto.»

Emilia appoggiò la borsa sulla scrivania e si sedette, cercando di assorbire la notizia e di mostrarsi calma, poi guardò fisso Aldo: la faccia era la stessa di un minuto prima, i denti stretti, le guance rigide, gli occhi che si muovevano come due falene attorno a un lampadario. Non l'aveva convinto neanche un poco.

«Comunque» provò a risollevarlo, «non è mica detto che, dopo i bosoni Z, l'Higgs sia veramente dietro l'angolo. Sono supposizioni, ipotesi... E dopo l'Higgs ci sono ancora tante cose da scoprire...

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Pagina 233

Non sa quanti minuti, quante ore, quanti giorni abbia dormito quando lo svegliano il fracasso sulle scale, le due mandate della serratura, Juan Manuel e Nico che entrano in casa come due cicloni, battendo il cinque tra schiamazzi e urla.

«Tuo figlio è un grande» grida Juan Manuel, «un mito, un genio...»

Pietro fatica a emergere dal sonno, non vuole abbandonare quell'angolo di sé in cui non c'è più il mondo, però gli tocca scuotersi, cercare di capire chi è e dove si trova. Gli occhi a mezz'asta, vede Nico e Fajardo sedersi sul divano accanto a lui. Con un frastuono ovattato in sottofondo, sente Juan Manuel che gli ripete che suo figlio è un genio, che è ora di svegliarsi, che hanno la soluzione.

«La soluzione a che, di cosa?» riesce a borbottare. «Nico ha capito quello che Emilia ti voleva dire.»

È come se una raffica di vento spazzasse via quel velo di torpore che gli svolazza cupo sulla testa. Ora gli occhi di Pietro sembrano due tizzoni accesi, disposti perfino a sorvolare sulle mutande del figlio in bella mostra tra la schiena nuda e la cinta al livello dei coglioni. «Cioè? Me lo spiegate?» «Prima, all'inizio, Nico ha provato a riordinare i numeri di tutti quegli eventi» dice Juan Manuel, «però non ci è riuscito. Allora ha scritto un programmino che li confrontasse. E ha fatto tombola, li ha beccati subito: due eventi con lo stesso numero, il 115641... Li abbiamo esaminati, e sono diversissimi.» «E allora? Non capisco...» Nico scuote la testa.

«Papà, è facilissimo: a ogni collisione, a ogni evento nell'acceleratore, corrisponde un numero. Se ce ne sono due uguali, allora può significare solamente che uno è falso...»

«Falso? Cioè?» A scuotere la testa, ora sono sia Nico sia Fajardo. Sorridono, gli infami.

«Vuoi dire che qualcuno l'ha falsificato» spiega Juan Manuel con una faccia da santapazienza. «E infatti, in uno degli eventi, quello che Emilia deve aver recuperato, non succede praticamente niente, nell'altro ci sono tracce di supersimmetria. Ora hai capito?»

«Sì. Cioè no, non tutto...»

Sbuffano, adesso, Juan Manuel e Nico. Si guardano un istante per decidere chi dovrà armarsi di condiscendenza per farglielo afferrare. Tocca a suo figlio. «Papà, c'era qualcuno che imbrogliava, falsificando i dati dell'esperimento per dare credito alla sua teoria, e mamma a un certo punto l'ha scoperto. Fin qui mi segui?»

«Addormentato, sì, non scemo... Ma vai avanti...»

«Quello che viene dopo, non ci è ancora completamente chiaro. Però è sicuro che ha a che vedere con questa situazione...»

Nico allarga le braccia, come per inglobare se stesso, il padre, Juan Manuel, la stanza, Barcellona, il mondo, mentre gli occhi di Pietro schizzano qua e là, cercando di seguire il lavorio frenetico del suo cervello costretto a fare gli straordinari.

«E allora, che facciamo adesso?» chiede dopo un po'.

«Ora aspettiamo Nuria» gli risponde Nico.

«Nuria? La giornalista?»

Nico annuisce con la faccia seria.

«L'abbiamo chiamata dall'ufficio. Ha detto di non muoverci e aspettarla. Arriva da Madrid con un amico. Dice che forse, mettendo insieme quello che sappiamo, si può capire cos'è successo a mamma.»

Pietro gli stringe riconoscente il braccio, però si vede che non è convinto. Che cosa c'entra, quella giornalista? E che ne sa di Emilia, dell'acceleratore, di lui, di Nico, della loro vita? Il cielo, fuori, è diventato di un colore strano, sgranato nella luce del pomeriggio che si avvia a finire. Guardarlo, quel cielo strampalato, non lo aiuta. Pietro sospira a fondo. Ormai si è rassegnato. Non può far altro che rimanere lì e aspettare.

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