Copertina
Autore Emanuele Artom
Titolo Diari di un partigiano ebreo
Sottotitologennaio 1940 - febbraio 1944
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2008, Nuova cultura Introduzioni 181 , pag. XVIII+230, cop.fle., dim. 13x19,2x1,6 cm , Isbn 978-88-339-1855-6
CuratoreGuri Schwarz
PrefazioneMichele Sarfatti
LettoreElisabetta Cavalli, 2009
Classe biografie , storia contemporanea d'Italia , citta': Torino , paesi: Italia: 1940
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Indice


 1X Presentazione di Michele Sarfatti
 XI Nota introduttiva di Guri Schwarz


    Diari di un partigiano ebreo

  3 Parte prima     Diario
                    (1 gennaio 1940 - 10 settembre 1943)

 59 Parte seconda   Diario partigiano
                    (novembre 1943 - 23 febbraio 1944)


153 «Una disciplina morale». Ritratto di Emanuele Artom
    di Guri Schwarz

219 Bibliografia degli scritti di Emanuele Artom

221 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 16

16 ottobre 1941 Copia di due manifesti incollati per le vie centrali di Torino.

Mattina del 16 ottobre; il secondo c'era già il 15.

Giudei sono: Da Verona, Pitigrilli, Moravia, Loria, Segre, Momigliano, Terracini, Franco, Levi Montalcini, Einstein, Blum, La Passionaria, Alvarez del Vajo, Carlo Marx, Litvinof, Lenin, Mordavisi, Voronof, Modigliani, Maestro, Roosevelt, Jachia, Bombacci, Artom, il Negus, De Benedetti, Dario Disegni.

Giudei sono tutti i capi della Massoneria e tutti i manutengoli della Borsa. Giudei sono i vigliacchi più spregevoli, i propalatori delle notizie allarmanti, gli accaparratori e gli affamatori del popolo, i denigratori più impenitenti, i disfattisti più perversi, gli sfruttatori di donne e di uomini. Giudei sono gli omosessuali, quelli che non hanno mai sudato, mai lavorato, quelli che han sempre tradito la patria, quelli che han voluto le sanzioni.

Dunque vogliamo finirla una buona volta? Non ai campi di concentramento, ma al muro con i lanciafiamme. Viva il Duce! Viva Hitler!

P.S. Faremo i conti anche con i complici degli Ebrei, i cosiddetti Giudei onorari.


Italiani,

Mentre in Russia i nostri fratelli combattono, muoiono e vincono, mentre in Africa Settentrionale i nostri figli preparano la più fulgida delle vittorie, mentre a Gondar il sangue del nostro sangue insegna al mondo intero come l'Italia può combattere, resistere e vincere con poche munizioni e tirando la cinghia anche oltre l'ultimo buco, qui in patria l'Ebreo la cui unica passione è l'oro, il cui unico sentimento è la pancia, il cui unico credo è l'egoismo, vive tranquillo e indisturbato incettando i nostri viveri, seminando falsità e calunnie, insidiando le nostre donne.

Italiani, il nostro nemico pubblico N. 1 è l'Ebreo; il nostro nemico pubblico N. 2 è l'Ariano che protegge l'Ebreo. Non diamo quartiere a questi due nemici, più pericolosi degli altri perché vivono tra noi, tradiscono tra noi.

Italiani, al motto Vincere uniamo il motto Morte all'Ebreo. Solo così accelereremo la vittoria, solo così ci renderemo degni di chi al fronte combatte, soffre e muore. Vincere! A morte il Giudeo!


La notte dal 14 al 15 un certo T. chiama Fernex; questi va fuori e vede le fiamme. Avevano gettato la benzina presso il portone principale del Tempio scavalcando il cancello, la hanno sparsa su tutti i gradini per poter incendiare di fuori e poi, usciti, han dato fuoco. T. spegne col panno fregando il pavimento bagnato. Si telefona alla polizia. I due incendiari scappano appena colti: due latte di benzina. Un quarto d'ora dopo c'era già il giornalista della «Gazzetta del Popolo», ma sul giornale non esce niente. Il Prefetto e il Questore promettono di vigilare, consigliando la Comunità di assoldare anche una guardia giurata. Nella notte seguente la sorveglianza è tenuta dalla forza pubblica e da un gruppo di fascisti del circolo rionale vicino. Si suppone che l'iniziativa venga dal Consolato Tedesco.

Quanto ai manifesti le autorità dicono che sono troppi per poterli eliminare.

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Pagina 33

21 novembre 1942 Ieri sera quando suonarono le sirene andammo nel rifugio. Dopo mezz'ora di silenzio, le prime bombe dirompenti e incendiarie. Uno schianto e la luce si spegne. Presosi l'incarico di calmare l'inquietudine, un coinquilino dice ad ogni colpo rumoroso: «È caduta una bomba; che cosa c'è di speciale?» Verrebbe voglia di rispondere: «Niente; è la cosa più naturale del mondo». A un certo punto quando gli spari cessano, qualcuno si affaccia al portone e torna dicendo che tutta Torino brucia. Allora salgo con papà e vedo una visione impressionante. Il cielo tutto rosso per chilometri e chilometri. Le serrande dei negozi divelte e contorte, in terra larghe macchie bianche, il fosforo lasciato cadere dagli inglesi. Sembra che una nuvola di fuoco, resa ancora più luminosa dall'oscurità, gravi su Torino. Così si possono immaginare le ultime ore di Sodoma e Gomorra. Questa notte ho assistito a uno spettacolo che molti non hanno mai visto; pareva il rogo di una città di seicentomila abitanti.

Stamani mi sveglio verso le sette e scendo con la mamma. Le vie sono cosparse di frammenti di vetro e biancheggianti di fosforo, i negozi sembrano saccheggiati, ma abbiamo l'impressione che gli incendi di questa notte lasciassero prevedere di peggio. Per la strada grande animazione, crocchi presso i luoghi colpiti. Sembra anche ci sia più gente perché i tranvai non funzionano. Piazza S. Carlo brucia ancora ed è piena di gente. Ero in Corso Vittorio quando incontro una mia alunna che mi dice che il Tempio è bruciato. Viene appunto di là e mi riferisce che qualche passante diceva: «Sta bene agli ebrei che hanno voluto la guerra». Vado a vedere. L'interno è tutto distrutto e coperto di calcinacci. Tutt'intorno quasi intatte le mura con le quattro torri. Anche la Comunità è incendiata e la scuola pericolante. Sul primo momento non mi commossi, ma poi mi fece pena pensare di non entrare più nel Tempio e di non vedere mai più i libri che avevamo nel cassetto. Quando sarò vecchio mi ricorderò delle funzioni come di una cosa passata per sempre.

Tornato a casa discuto con papà e la mamma sul testamento da fare, perché potremo venire uccisi. Faccio fissare lasciti forti ai miei più cari amici. Questa sensazione che si può perdere tutto, anche la vita, già cominciata con la campagna antisemita e ora divenuta più forte con l'aumentare delle probabilità, è molto educativa, perché insegna che siamo delle particelle trascurabili del mondo e che dopo la nostra morte il tutto procederà come prima.

Per via ebbi un incontro curioso: avevo la tuta e un signore mi fermò e mi disse: «Lei è un ebreo». «Sì, mi conosce?» «No, ma vedendo un operaio con un aspetto così signorile, capii che doveva trattarsi di un ebreo precettato».

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Pagina 59

Parte seconda
Diario partigiano
(novembre 1943 - 23 febbraio 1944)



[prima metà di novembre] La vita di un bandito è molto complicata e succedono infiniti incidenti. Per esempio ieri tre: avevo scritto di un aviatore Guerraz che minacciò colla rivoltella un ragazzo perché era stato asportato un ritratto di Muti. Nella notte cercarono di ucciderlo, senza riuscirci, ma poi si rifugiò presso i carabinieri con tanta paura che ha promesso che se lo si lascia partire, non tornerà mai più: voleva fondare la sede del Fascio repubblicano di B. [Barge]. Altri 2 episodi: un partigiano ubriaco litiga con un carabiniere e vien portato in carcere per qualche ora, poi rilasciato: un altro ingravida una ragazza: bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova rettorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi: siamo quello che siamo: un complesso di individui in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania, in parte spinti dal desiderio di avventura, in parte da quello di rapina. Gli uomini sono uomini. Bisogna cercare di renderli migliori e a questo scopo per prima cosa giudicarli con spregiudicato e indulgente pessimismo. In quasi tutte le mie azioni sento un elemento più o meno forte di interesse personale, egoismo, viltà, calcolo, ambizione, perché non dovrei cercarlo anche in quelle degli altri? Perché ritrovandolo dovrei condannarlo severamente?

Oggi pomeriggio sono andato a vedere l'infermeria di prossima installazione. Spero di non starci male. Scrivo una cartolina a casa. G. [Giorgio Segre] mi legge una lettera di Vanda, molto affettuosa per me. Mi fa piacere, in questo tempo di turbini e di delusioni, in cui il passato sembra remotissimo e irrimediabilmente perduto, sentire la parola di qualcuno che mi ricorda con affetto.

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Pagina 66

25 [novembre] Stamane ricevetti una lettera di papà che preannunzia una sua prossima visita, che forse si prolungherà qualche tempo. Per questo mi sarebbe piaciuta la casetta di Mondarello, dove avremmo potuto stare insieme, anche se scomoda. Oggi il proprietario mi disse che voleva due mesi di affitto anticipato perché nessun inquilino ha potuto resistere più di 15 giorni. La presenza di papà mi farebbe molto piacere da un lato, ma dall'altro penso che se avessi da compiere qualche missione pericolosa, sarebbe meglio che fosse lontano e non avesse da preoccuparsene. Domattina sarò in infermeria e comincerò il mio lavoro. Pare che nelle bande sia stato rimesso un poco di ordine. Moretta, che brinda sempre alla libertà, oggi prediceva la caduta di Hitler per il 15 dicembre; io, al più tardi, per l'autunno venturo. Significativo che gli scioperi di Torino si prolunghino e che il governo non li sappia arginare; significativo pure che né i Tedeschi né i fascisti abbiano iniziato azioni di rappresaglia contro le bande dopo l'impresa di Crissolo. Oggi c'è stato il Consiglio dei Ministri: un provvedimento sugli Ebrei, cioè l'obbligo di consegnare le opere d'arte, mentre tutti ci aspettavamo il campo di concentramento: si è mai vista una simile buffonata? D'altra parte è una legge molto facile da eludere perché il concetto di opera d'arte non è definito e perché non esistono dei cataloghi delle opere d'arte. A proposito di Ebrei, domani G. [Giorgio Segre] andrà a Torino da E. M. che gli consegnerà alcune decine di migliaia di lire per la banda. Così questo bandierista emerito, questo venduto a Mussolini, cerca di rifarsi la verginità sacrificando un po' del suo denaro per salvare il resto. Si possono accettare i suoi soldi ripetendo quanto diceva Vespasiano: non olent. Ad ogni modo meglio della signora L. sfollata a Torre Pellice, che un mese fa mi diceva di non voler dar nulla perché il comitato è ricco a milioni - non si avevano poche migliaia di lire per pagare le patate - e mi consigliava di non espormi per non far danno agli Ebrei.

A proposito ancora di Ebrei, l'altra sera ho avuto una lunga conversazione sull'Ebraismo con quell'antisemita di Tramalino. È uno di quegli Ebrei che odiano l'Ebraismo, ma per una strana nemesi ha tutti i difetti che rendono tradizionalmente antipatico l'Ebreo: è pigro, sofistico, trasandato. Quando può dare torto ad uno è felice e se coglie in errore chi parla con lui - giacché discute sempre ed è sempre di parere contrario - il suo viso sorride maligno e soddisfatto. Per questo una sera Nipro mi disse: «L'altro giorno l'ho chiamato Samuelino, perché è odioso; te o G. [Giorgio Segre] non oserei mai chiamare così perché siete simpatici!» Gli risposi piuttosto seccato che l'origine dell'antisemitismo sta appunto nel rilevare i caratteri degli Ebrei solo quando dispiacciono e che mi pareva molto strano trovare un seguace di Hitler nell'esercito che combatte il nazismo. Quest'oggi la signora S. [Segre] ha fatto una sciocchezza e G. [Giorgio] ha reagito con una scena scandalosa; tra l'altro le ha detto: «se ti aprissi la testa, invece del cervello si troverebbe una materia completamente diversa e studiandola potrei preparare una pubblicazione per divenire professore di Università». Ora mi pare che non stia bene fare dell'umorismo sul contenuto nel cranio della propria madre.

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Pagina 86

9 [dicembre] Questa fu una giornata di sistemazione nella nuova sede. Mi procurai inchiostro e zucchero, ebbi in regalo un bel pezzo di cioccolato e, per la prima volta in vita mia, mi comprai una scopa: 15 lire. Uscendo commisi due gravi imprudenze. Non nascosi le carte e non chiusi la porta. Così rabbrividii quando, tornato a casa, la trovai spalancata e mi sentii svenire non trovando un documento della massima segretezza: l'elenco dei banditi coi nomi veri. Mezz'ora di profonda disperazione, tanto più che la lampada a petrolio non faceva luce. Fregavo i fiammiferi tremando, ma, siccome sono poco abituato, li rompevo senza accenderli; quando dopo 2 o 3 tentativi, ne avevo acceso uno, la lampada restava spenta. Allora ebbi un'idea: alzai un po' lo stoppino e subito venne una bella fiamma. Allora ripresi la ricerca con maggior calma e rinvenni la carta, ma d'ora in poi dovrò essere più ordinato. Mi preparavo il discorso per confessare la perdita al comandante, ma comprendevo di non avere scuse; pensavo alle conseguenze per tutti e prevedevo che stanotte i Tedeschi sarebbero venuti a prendermi e mi avrebbero torturato. Mi proponevo di dir loro: sono Ebreo e non ho ideali politici, se salvate i miei genitori, vi aiuterò. Poi avrei cercato di riferire al comandante tutto quello che essi mi avrebbero fatto sapere: piani delirici in una mezz'ora di angoscia. Appena ebbi trovato l'elenco fui subito un altro: allegro e sereno non come prima, ma, naturalmente, molto di più. Scrissi a macchina certe dichiarazioni che dovevo fare. Ho trovato il modo di farmi fare qui il pane con la farina che mi procurerà la banda e così mi renderò sempre più autonomo: questa è la necessità di ogni base, perché tutto funzioni bene e senza complicazioni. I problemi della vita quotidiana mi diventano sempre più semplici: fra quindici giorni sarò abile come quelli che sono sempre vissuti nei lavori pratici e casalinghi, che, in un mese e mezzo, non imparerebbero però nemmeno una piccola parte di ciò che so io. Ecco la differenza fra intellettuali e operai. Oggi ho rivisto la Gina. Mi pare che valga sempre meno. Pettegola come una portinaia borghese, in poche sere ha esaurito tutto quello che ha pensato in 32 anni di vita. «Voi comunisti», le ho detto, «ammirate molto Pietro il Grande». «Certo», mi ha risposto, ma non ha saputo dirmi il perché e mi ha lasciato capire che di lui sa un'unica cosa: che bisogna parlarne bene, se si vuole essere buoni comunisti. Parimenti Trotzky è una specie di Anticristo e se si osserva che era il primo collaboratore del grande Lenin non sanno che cosa rispondere. Così avviene quando un partito si diffonde nella massa e diviene religione.

Il milite di Bagnolo che faceva la spia è stato condannato a morte e poi ucciso improvvisamente, senza che se ne accorgesse fino all'ultimo momento: questo è il metodo sovietico e, se si considera necessaria, almeno in guerra, la pena capitale, questo è il metodo più umano: si evita l'angoscia dell'inevitabile fine e pazienza se il condannato non ha modo di prepararsi ed esprimere le ultime sue volontà.

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Pagina 98

18 [dicembre] Ieri non scrissi niente perché andai a T. P. [Torre Pellice]; quando viaggio non ho tempo di scrivere. Mi trovai bene con Frida [Malan], nella mattina. Vidi anche Marcella: freddezza dalle due parti. Mi comunicò di aver dovuto distruggere le mie lettere, con suo rincrescimento; ma forse è un simbolo: prima ha distrutto la nostra amicizia, e poi i suoi resti. Dichiarò di volersi liberare della mamma e della zia, che sono un peso morto e trattò male F. [Frida]. Queste sue cattiverie una volta [non] mi irritavano, soprattutto se rivolte verso di me: trovavo un piacere sadico nella sua malvagità, mi pareva di lottare fisicamente con una amazzone spietata e violenta, che impiegasse su di me tutte le sue forze senza riguardo, ma questa morbosa passione è finita. Quando uscì, F. [Frida] osservò che M. [Marcella] è sempre sicura di sé, piena di energia e io lamentai che manchi di spiritualità il che coincide, perché la spiritualità sorge dal tormento interno, dal dubbio, dal rimorso della voce della coscienza che si sdoppia. M. [Marcella] manca di tutto questo. Sono troppo onesto e troppo intelligente per ripetere la storia della volpe che giudica immatura l'uva che non sa raggiungere. Mi ridico che non sposo M. [Marcella] perché M. [Marcella] non mi vuole, ma posso ammettere che ora le riconosco dei difetti irritanti che qualche mese fa non mi urtavano o addirittura mi attiravano. Allora scrivevo: «quando mi chiedi, amore, se ti sposo, sono un meschino che muore di sete e mi offri un frutto fresco e velenoso».

Ai M. [Malan] ripetei il mio concetto. Il P.d.A. deve essere un partito di azione. Ha delle ottime possibilità di prevalere: interpreta le necessità economiche e psicologiche della nazione, meglio del com. [comunismo], che è un partito mondiale, può avere con sé, come programma, borghesi, contadini, intellettuali, ma bisogna avere degli uomini e bisogna agire. Confrontiamo l'attività di Barge con quella di Torre Pellice; inoltre ho raccontato che quest'estate avevo costruito un centro a Castelnuovo e che, mentre il P.d'A. lo ha abbandonato, i com. [comunisti] ci sostituivano.

R. [Roberto Malan] mi ha detto che ieri sera si sarebbe deciso con Ag. [Agosti] la mia destinazione: o al Comando con incarichi politici, o in una valle vicina come Commissario. Il bello è che mi ritroverei di fronte a Fiore. Sono molto irritati coi Com. [Comunisti] e prevedono una prossima completa scissione, non solo dal P.d'A., ma dal Fronte Nazionale. La cosa si comprende, perché il Com. [Comunismo] è una religione e come ogni religione sinceramente professata, è intollerante. Un accordo duraturo è fatalmente e logicamente impossibile. Così quest'oggi G. [Giorgio Segre] mi ha raccontato che il tenente Carlo Long, in Val Varaita, ha dichiarato di non aderire più alle Bande di Barge; sua moglie è del P.d.A.: bisogna vedere se passa a noi o a Badoglio: oggi c'è stato un consiglio dei com. [comunisti] durato molte ore. Così quando ho salutato Bal. [Balestrieri], dicendogli che raggiungevo il P.d.A., mi ha risposto: «Come t'invidio!»

Naturalmente l'ho consigliato di rimanere sia perché oggi bisogna soprattutto cacciare i Tedeschi, sia perché l'unico modo che la banda non sia del tutto com. [comunista] è che gli ufficiali del nostro partito non la abbandonino, sia perché bisogna essere sempre dalla parte della ragione. Gli ho solleticato l'ambizione dicendo: «Gli areoplani di M. [Murello] li hai incendiati tu, non Pietro né Fiore. La banda è tua. Coi colleghi e coi migliori soldati ci raggiungerai, se sarà necessario, se scoppierà la guerra civile: ma speriamo che non sia necessario, speriamo che non scoppi. Ad ogni modo tienti sempre in contatto con G. [Giorgio Segre], che ora rappresenta il nostro movimento».

Mentre così parlavo sentivo un certo rimorso, sentivo che se i com. [comunisti] mi avessero ascoltato e cacciato via avrei dovuto dar loro ragione, ma mi avevano esasperato le intemperanze di Gina, che pochi minuti prima aveva dichiarato a G. [Giorgio Segre] e a me che se avessero i comunisti preso il potere e noi avessimo espresso opinioni contrarie sarebbe stato giusto sopprimerci. Anche G. [Giorgio] ne è rimasto molto colpito. Quando gli riferii il discorso fatto a Balestr. [Balestrieri] mi diede ragione e osservò che in questo mese avevo fatto al com. [comunismo] più male di quanto bene avessero fatto insieme Fiore, Antonio [Giolitti], Pietro e Giovanni messi insieme; avevo fatto comprendere agli ufficiali che c'erano altri movimenti e li avevo chiamati a me; feci da catalizzatore.

A T. P. [Torre Pellice] si temeva che G. [Giorgio Segre] divenisse com. [comunista] e mi si era raccomandato di occuparmi di lui; oggi diceva: «meglio un governo liberale di destra!» Ne son contento perché è il mio migliore amico.

La caccia agli Ebrei riesce male. Di amici o parenti è stato arrestato Aldo con la famiglia, mentre cercava di sconfinare in Isvizzera e che, mi risulti, basta. Poi so di una Ebrea, vedova di un Cristiano, convertita, che fu arrestata e poi liberata. Pare che a Torre P. [Pellice] un signor Treves, arrestato fu poi liberato e confinato in una sua villa, probabilmente perché, molto ricco, pagò. Invece a T. P. [Torre Pellice] due disgraziati furono vittime: una vecchia signora, che, disperata, si uccise con il veleno e un vecchio che ora è in carcere. Come sempre sono colpiti i vecchi, i poveri, gli incapaci di aggiustarsi, perché privi di denaro, di relazioni, di duttilità. Una forma crudele di selezione della specie.

«La Riscossa», giornalucolo fascista di Torino, osserva che gli E. [Ebrei] ci sono, ma non si vedono: non è possibile arrestarli. Credo che Mussolini abbia apposta fatto pubblicare sui giornali la minaccia di provvedimenti antisemiti perché avessimo tempo di prepararci a nasconderci.


19 [dicembre] L'intrigo mi nausea e mi eccita insieme. Ho l'impressione di essere come un ragno: lo schifo della tela bavosa e dei cadaveri delle mosche, la soddisfazione di possedere una fortezza [parola illeggibile] filiforme e tentacolare che agguanta animali più grandi. Certo ora dovrò abbandonare la banda mantenendo [parola illeggibile] i migliori rapporti con i capi comunisti. Fiore mi ha detto ingenuamente: sei un ingenuo - la sera che mi maltrattava in infermeria. Bisogna che tutti continuino a credermi tale, e che non suppongano il mio operato quel bel giorno che Balestrieri e gli altri ufficiali e io partiranno [sic] con soldati, armi, bagagli. Non mi pare di far male, perché i Com. [Comunisti] usano con noi le medesime armi e ne è prova l'episodio di Walter [Giai], anzi le hanno usate per primi. La vittoria, come ho già detto, sul terreno nazionale dovrà toccare a noi, se saremo ben condotti; su quello internazionale, che più conta, è ancora incerta, ma bisogna ricordare che la Russia non è in guerra col Giappone, perché teme la Cina, il popolo più numeroso del mondo e l'America, il popolo più potente. La sua vittoria non è ancora sicura. Il programma comunista è simile al mio, ma mi sembra più reazionario: la dittatura di una classe e la fede superstiziosa in certi dogmi che non si discutono sono elementi del passato.

Domani dovrà regnare la libertà. Inoltre si è sempre detto che la salvezza dell'Italia era il menefreghismo, l'indifferenza dei fascisti che attutiva ogni elemento radicale del fascismo. Cosa avverrebbe domani se un governo assoluto cadesse nelle mani di fanatici, incapaci di discutere e di dubitare, esasperati dalle persecuzioni, pronti a dare la vita, come hanno già sacrificato la propria personalità? I Fascisti fanno schifo, i Nazisti orrore, i Comunisti spavento.

Un anno fa moriva Lino Jona. Un anno oggi, a quest'ora, Drago Baum mi diceva che secondo le ultime notizie le sue condizioni erano disperate.

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Pagina 137

10.2.44 Comincia il periodo cruciale, dal 10 al 20 febb., il periodo dell'attesa dello sbarco. In questi 2 giorni sono stato a Villar e Bobbio, a discutere con i podestà, che cercano di salvare i paesi dai ted. [tedeschi] e dai fascisti. I fascisti hanno iniziato una campagna a sfondo razzista antivaldese (sui muri di Torre hanno scritto Morte ai Valdesi), minacciano bombardamenti aerei, gas asfissianti, 500 mongoli a saccheggiare i paesi. Noi dobbiamo prepararci all'insurrezione nazionale; perciò, senza comprometterci davanti agli altri partiti, favoriamo i contatti fra comuni e governo, approfittando di una tregua per prepararci. L'estrema debolezza del nemico, complicata dall'ostilità fra ted. e fascisti - il comandante ted. avrebbe detto: «mettendovi d'accordo con noi evitate i fascisti, ma mettendovi d'accordo con i fascisti, non evitate noi». Bisognava saper sfruttare questo dissidio, ma naturalmente non ci sono riusciti. Mentre la situazione con i fascisti è che la tacita tregua continua - loro non salgono oltre S. Margherita, se non accompagnati da noi, e noi non scendiamo a Torre - pare che presto Rob. [Roberto Malan] andrà a pranzo da un podestà e si troverà con un tedesco. La battuta contro di noi ha richiesto uomini da tutto il Piemonte e ora appare chiarissima l'estrema debolezza nemica. Qui è Italia libera. Si va in Municipio; si presidiano le strade con truppe armate, si parla forte negli alberghi, si distribuiscono fogli politici. (Aggiungo che l'ignoranza fascista su di noi è spaventosa: un ufficiale ha detto: «Dubito che finirà coll'avvicinarvi all'Interpartito»). Petralia ieri venne tutto preoccupato a chiedere informazioni sulla nostra tregua, da parte di Barbato, che era sdegnatissimo, ma l'abbiamo rassicurato: fortunatamente c'era anche Z. [Zama], che ha potuto difenderci in pieno da ogni accusa.

Il congresso di politica estera ha radunato tutte le personalità, di modo che è nato un altro congresso di politica interna, pieno di pettegolezzi, rancori, personalismi. Pare di nuotare a gara in uno stagno di acqua sporca, ma forse io sono quello che mi tengo più a galla. Tipico come episodio quello di Silvio [Baridon], che giorni fa fece molti elogi sul mio conto a Geo, il quale me li riferì; appena mi vide, mi chiese se Geo me li aveva riferiti. Poi scherzi su L. ecc. La gran questione è quella di Rob. [Roberto] e dei comandi. Ormai il colonnello [Giochino] è del tutto esautorato. Tutti vorrebbero Z. [Zama] ma Rob. [Roberto] gli ha fatto capire che alla vigilia della vittoria non vuole cedere ad altri il posto e la gloria. Grande inconveniente è che Z. [Zama] sia com. [comunista], io lo supererei dando prova di spirito di tolleranza, ma mettendogli alle costole G. [Giorgio Segre], che lo sorvegli sempre. Prevedendo che la caduta di Rob. [Roberto] deve essere imminente, io ho creduto opportuno ieri mattina di esporgli tutte le lagnanze degli altri cominciando: «sai che io sono l'unica persona che ti parla sinceramente» cosicché quando esporrò il mio parere, non potrà accusarmi di aver agito in modo non leale. Decine di colloqui con l'uno e con l'altro. Nello [Nuti?], offeso della sua defenestrazione, ieri si è accapigliato con Rob. [Roberto] in piazza e farà la sua relazione a Giorgio A. [Agosti]. Tra l'altro ha detto che l'ala protestante del P.d.A. protegge Rob. [Roberto]. Per evitare che l'opposizione si stacchi da me e si avvicini a Nello, ho esposto questa ipotesi a Silvio, aggiungendo che come Ebreo non credevo ai Protocolli dei Savi anziani di Torre Pellice. Ho anche esposto che il P.d.A. interpreta la carica di commissario in modo borghese, non rivoluzionario, dando, in questo particolare, pienamente ragione alle accuse dei comunisti, che dicono che siamo di sinistra solo nei programmi. Si dice che gli ufficiali non tollererebbero una maggiore inframmettenza, ma a Barge tutti erano anticomunisti, eppure si sottomettevano ai commissari. Esempio quello di Sala, che si è lamentato di P. [Prearo] che gli toglie le sue prerogative. P. [Prearo], da me interrogato, mi ha risposto che Sala è un intrigante e troppo severo con i soldati. Questa seconda accusa è giusta. Allora l'ho promosso da facente funzione di commissario a commissario e lo manderò a Prali, dove sarà trasferita la squadra degli Ivert.

Ora scenderemo a Villar per sentire la relazione di ieri fra Nello, Giorgio A. [Agosti] e gli altri.

Questo diario è molto mal scritto, ma ho pochi minuti al giorno da dedicargli e molte cose concrete da dire. Addio poesia, addio introspezione.

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Pagina 153

«Una disciplina morale».
Ritratto di Emanuele Artom
di Guri Schwarz



L'ambiente familiare

Emanuele Artom nacque il 23 giugno 1915 ad Aosta, dove la famiglia risiedeva dal 1911, dopo che il padre Emilio aveva vinto il concorso di professore di matematica all'Istituto magistrale. Fu il primo figlio di Emilio Artom e Amalia Segre, insegnanti entrambi, esponenti di una piccola borghesia ebraica piemontese povera di mezzi, ma ricca di interessi culturali. Il padre, classe 1888, si era formato professionalmente come matematico: era stato assistente di Federico Enriques all'Università di Bologna dal 1908 al 1911, quando aveva lasciato le ambizioni accademiche per l'insegnamento secondario. Aveva tuttavia continuato a collaborare con l'antico maestro curando soprattutto lavori di tipo divulgativo, tra cui alcune voci per l' Enciclopedia Italiana. La sua cultura andava ben al di là delle competenze specialistiche: aveva infatti spiccati interessi per le discipline umanistiche, con una buona conoscenza del francese e del latino. La sua formazione era inoltre contrassegnata da solide radici ebraiche, che si fondavano in primo luogo sulla padronanza della lingua. Era cresciuto in una famiglia ebraica piemontese - proveniente da Asti - non dimentica delle tradizioni. Tuttavia, mentre il fratello maggiore Elia Samuele - formatosi al Collegio rabbinico di Firenze - si qualificò presto come importante figura di rabbino e studioso sia dei testi biblici sia della storia ebraica antica, Emilio aderì nella giovinezza a quel filone culturale scientista e razionalista che vedeva la religione e le pratiche del culto con un certo sospetto. Solo con la Grande Guerra la sua sensibilità cominciò a mutare ed egli si riavvicinò all'ebraismo, che sarebbe divenuto per lui anche una risorsa consolatoria nei tormentosi anni del fascismo.

Come in tanti altri nuclei familiari ebraici, particolarmente forti erano il radicamento nella cultura italiana, l'adesione ai valori del patriottismo risorgimentale e la venerazione per la monarchia sabauda. Sentimenti e convinzioni che non preludevano a una qualche forma di assimilazione, ma che si andavano intrecciando con motivi culturali ebraici, in cui famiglia e nazione, politica e religione, cultura moderna e tradizioni ebraiche potevano variamente comporsi in figurazioni culturali multiformi, costituendo quella peculiarissima subcultura ebraico-italiana (ed ebraico-piemontese in particolare) che si andò strutturando nell'arco di tre generazioni, salvo poi infrangersi drammaticamente sullo scoglio della persecuzione razzista.

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Un'icona della Resistenza

La notizia della sua cattura e della sua morte si sparse rapidamente nelle file degli antifascisti. Lo ricorda con commozione Ada Gobetti, che reagì alla notizia con «un urlo violento di ribellione», mentre alcuni compagni di lotta della Val Pellice - trasferitisi nel Comasco - avrebbero dato il suo nome alla loro brigata (la 52a GL) per onorarlo, elevandolo a simbolo della lotta. Dopo la guerra, Emanuele fu insignito della medaglia d'argento alla memoria; Torino gli dedicò una via e poi anche un parco; all'Università - presso la biblioteca della Facoltà di Lettere - fu posta una targa commemorativa e a lui fu intitolata anche la scuola ebraica di Torino. Il processo ai suoi aguzzini, in primo luogo quello al fascista Arturo Del Dosso - reo delle torture che subirono tra gli altri anche Willy Jervis e Jacopo Lombardini -, suscitò vasta eco sulla stampa dell'epoca.

Quella morte tanto drammatica aveva fatto di Emanuele Artom un martire; come scrive Ada Gobetti, la «spaventosa fine di Emanuele» gli aveva consentito di «elevarsi nel martirio al di sopra dei suoi aguzzini».

Quando giunse l'ora della ribellione, gli Ebrei entrarono nella Resistenza, la guidarono, in suo nome morirono. [...] Ma un'intera generazione era stata privata dei suoi esponenti migliori: uomini come Eugenio Colorni, il filosofo, Leone Ginzburg, il critico, Emanuele Artom, il giovane storico del giudaismo, e Sergio Diena, un sorridente eroe pieno di intelligenza e determinazione.

Con queste parole, pronunciate in occasione di una conferenza tenuta nel 1984 alla Brandeis University, Arnaldo Momigliano inserì Emanuele Artom in un suo personale pantheon di martiri ebrei della Resistenza, collocandolo accanto a figure più note - a personaggi più anziani e più influenti come Colorni e Ginzburg - ma anche a fianco del giovane Sergio Diena, che già abbiamo incontrato nelle pagine del diario partigiano, primo caduto della Resistenza nella Val Pellice. In effetti Emanuele divenne, suo malgrado, un simbolo della Resistenza, e della Resistenza ebraica in particolare.

Nei primi anni del dopoguerra l'esigenza di elaborare il lutto da parte di parenti, amici e compagni di lotta si combinava con la costruzione del codice (o dei codici) del patriottismo antifascista e resistenziale; il nome di Emanuele Artom andò allora a occupare una sua nicchia nel sistema delle memorie dell'Italia repubblicana. La memoria azionista e quella ebraica, in qualche misura quella intellettuale e accademica, certo quella torinese, ritrovavano in Emanuele e nella sua testimonianza un punto di riferimento attraverso il quale manifestare la propria viva presenza nello spazio pubblico e inserirsi nel polisemico sistema di memorie dell'Italia del dopoguerra.


Emanuele si era peraltro dimostrato ben consapevole dei rischi della monumentalizzazione della Resistenza e, con impressionante lucidità e capacità di anticipazione, aveva scelto di aprire il diario partigiano dichiarando il suo intento di testimoniare limiti e difetti dei patrioti, nonché le vicende meno edificanti della lotta partigiana:

bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova rettorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi: siamo quello che siamo: un complesso di individui in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania, in parte spinti dal desiderio di avventura, in parte da quello di rapina. Gli uomini sono uomini.

Nei diari esprime più volte la chiara e determinata intenzione di documentare gli avvenimenti che segnano la vita nel tempo di guerra. «Raccolgo in questo diario i fatti e le voci come in un archivio», scrive il 4 ottobre 1942; e in effetti la prima parte del diario è una fonte preziosa per quanto ci racconta degli episodi di antisemitismo a Torino, degli effetti dei bombardamenti alleati e più in generale della vita culturale del capoluogo torinese. In quanto giovane storico, non gli mancava la consapevolezza che il suo diario sarebbe potuto divenire fonte e strumento per la ricostruzione del passato:

Certe volte penso che questo mio diario in futuro sarà una interessante testimonianza, anche perché credo che pochi siano i partigiani che lo tengono con tanta assiduità e, d'altra parte, per ovvie ragioni si scrivono poche lettere confuse e prive di notizie politiche. Così si hanno importanti documenti di altre epoche in scritti vivi e quotidiani, come giornali personali ed epistolari. Altre volte invece mi pare che la coscienza che queste mie pagine possano avere un significato storiografico toglie ad esse molto valore, dando un carattere riflesso e meno spontaneo. Parimenti da quando l'ambizione e il desiderio di comportarsi virtuosamente cominciarono ad agire nel cuore degli uomini, le azioni generose cambiarono il loro significato morale arricchendosi da una parte, impoverendosi dall'altra, insomma confondendosi e intorbidandosi. Ad ogni modo questo mio diario, se non documento di questo periodo, sarà una prova del nostro storicismo.

Queste riflessioni fanno tornare alla mente le considerazioni svolte poco tempo prima, nel chiuso di una cella, da Antonio Gramsci: «L'inizio dell'elaborazione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un "conosci te stesso" come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un'infinità di tracce accolte senza beneficio d'inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario». Senza proporre un indebito accostamento fra due figure tanto diverse, mi pare sia evidente qui una certa qual consonanza, frutto del comune storicismo. Quello storicismo che, nelle sue diverse declinazioni, aveva tanto impregnato la cultura italiana della prima metà del Novecento, si trova in questi due frammenti portato alle sue estreme conseguenze, divenendo invito imperativo a storicizzare se stessi. In questo, come in altri brani sparsi nel diario, Emanuele si sforza ripetutamente di redigere quell'«inventario» cui faceva riferimento Gramsci, ovvero si impegna in un serissimo gioco di continui smascheramenti del sé.

Il diario aveva per lui una duplice funzione: «serve come documentario e come strumento di disciplina morale». La consapevolezza del valore e del peso delle singole scelte, inclusa quella di stendere un diario; la piena comprensione che un primo atto rivoluzionario stava forse proprio nell'avere il coraggio di guardarsi dentro senza falsi pudori e reticenze, nell'esporsi a un costante e approfondito esame di coscienza nel tentativo di dare voce a una moralità nuova, autentica, capace di svelare il senso della lotta, sono i caratteri distintivi delle pagine più belle e più dense di questi diari. Il testo che Emanuele Artom ci ha lasciato - probabilmente l'unica sua opera che possa dirsi compiuta, «sia pure drammaticamente e forzatamente matura» - non è prezioso solo perché è ricco di riferimenti a persone ed eventi della guerra e poi della Resistenza, ma anche perché fu un autentico strumento di introspezione, di analisi e di autoanalisi; insieme taccuino di lavoro di uno studioso, laboratorio in cui sperimentare la sua passione per i versi, ma anche luogo in cui un giovane un po' impacciato sul piano sentimentale trovava il modo di sfogare le sue frustrazioni amorose, e infine strumento di autoeducazione politica e morale.

Ci appare oggi come testimonianza viva anche perché è evidente che l'autore si abbandonava alla sua scrittura con una certa qual gioia: «fra qualche tempo sarà bello rileggere queste orribili pagine sporche, macchiate, sgualcite, scritte con un vecchio pennino rotto».

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