Copertina
Autore Alberto Asor Rosa
Titolo La guerra
SottotitoloSulle forme attuali della convivenza umana
EdizioneEinaudi, Torino, 2002, Gli struzzi 555 , pag. 240, dim. 115x194x16 mm , Isbn 978-88-0616431-77
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe politica , guerra-pace
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Indice


    Parte prima. Il «modo»

  5 Una potenza umana smisurata

    Parte seconda. Parlar prima

 17 Prefàzio, Profàzio, Profezia

    Parte terza. Vedere attraverso

    La «guerra giusta» (Irak, 1991)

 37 Fuori dall'Occidente
    ovvero Ragionamento sull'«Apocalissi»

 37 I.   Un solo Occidente, un solo mondo
 49 II.  Apocalissi, Rivelazione
 56 III. Guerra, «nuovo ordine» del mondo
 60 IV.  Fumo, fuoco, sangue, veleno, abisso
 66 V.   Macellai, bene organizzati
 73 VI.  Un piccolo libro aperto
 80 VII. Memorie del passato, conoscenza del
         futuro
 86 VIII.I sette segni
 97 IX.  Occhio per occhio, dente per dente
103 X.   «Magna meretrix»
109 XI.  Re-ligione, non com-passione
119 XII. Caduta di Babilonia
125 XIII.Fuori dall'Occidente
135 XIV. Gerusalemme celeste
141 XV.  Etica della responsabilità ed etica
         della fede, ovvero: «Filius hominis»

    La «guerra umanitaria»
    (Kosovo e Serbia, 1999)

155 Il disegno dell'Impero
161 Pedagogia della guerra
167 Il senno di poi

    Il Terrore e la «guerra preventiva»
    (New York, Afghanistan..., 2001...)

173 Una modesta voce umana
173 I.   Il Terrore
178 II.  L'imbroglio
186 III. La divaricazione speculare degli
         opposti
189 IV.  Barbari e Controbarbari
195 V.   Economia e politica, democrazia e
         capitalismo
201 VI.  Guerra e democrazia
207 VII. La dottrina dell'Impero
217 VIII.L'era dei fondamentalismi
223 IX.  Il «Nuovo Ordine»
227 X.   La «terza parte del Mondo»

    Parte quarta. Parlar dopo

235 Epi-logo

 

 

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Pagina 5

Una potenza umana smisurata


A piú di un anno di distanza dall'11 settembre il quadro resta opaco. L'unico dato certo resta l'atrocità dell'evento. Per il resto ne sappiamo piú o meno quanto nelle settimane successive all'accaduto. Questa è la prima considerazione: se guerra c'è, è una guerra che si svolge, a quanto sembra, tra una potenza smisurata, ben consistente e visibile, e un popolo di ombre, che appaiono e scompaiono si direbbe a comando. La prima considerazione dunque è che, mentre la combattiamo, sappiamo della nostra guerra meno, molto meno di quanto non ne abbiano mai saputo i popoli di tutta la terra in ognuna delle innumerevoli occasioni in cui hanno avuto a che fare con strumenti e logiche di guerra, da Troia in poi. Come questo sia possibile in un mondo governato dall'informazione planetaria, è un quesito che andrebbe meglio affrontato dagli esperti. Nei limiti delle mie competenze, sarei tentato di dire che, oggi, al massimo dell'informazione sembra corrispondere il minimo di verità. Tra informazione e verità si è aperta una divaricazione: tutti sanno, anzi, tutti vedono (credono, s'illudono di vedere) tutto; ma quel tutto è sempre spostato di qualche grado rispetto al vero centro del problema. Nonostante questi dubbi di fondo, - per non spingermi sul terreno paludoso e al tempo stesso sterile delle supposizioni e delle inquisizioni (per le quali, oltretutto, mi mancano i mezzi), - gli scritti raccolti in questo libro accettano in via d'ipotesi la tesi ufficiale, secondo cui c'è un mondo occidentale, che è il regno della libertà e del benessere, e c'è una minaccia, che viene dall'esterno ed è allo stato attuale delle cose di matrice islamica, minaccia che è realmente in grado di scuotere alle fondamenta il regno della libertà e del benessere, che è il mondo occidentale. L'ipotesi si compone, come si vede, di tre elementi, di tre fattori, che vanno sempre visti in relazione fra loro esattamente nel modo in cui ci vengono continuamente proposti e riproposti: il mondo occidentale è il regno della libertà e del benessere; la minaccia viene dall'esterno, in gran parte, per ora, dall'integralismo islamico; essa potrebbe, se lasciata fare, abbattere il regno della libertà e del benessere, nonostante l'enorme sproporzione delle forze, che non può sfuggire a nessun osservatore dotato di un minimo di buonsenso.

Ognuna di queste tre condizioni è discutibile, - dico discutibile, non errata, tanto per mantenermi nel quadro della mia piú prudente ipotesi, - e ancor piú discutibile è la sintesi che esse presentano nella versione strategica ufficiale dominante; e, tuttavia, ripeto, io non ne metto realmente in discussione nessuna, perché quel che mi interessa di piú è cercare di capire cosa ci accadrebbe, - fondamentalmente quel che accadrebbe ai sudditi del mondo della libertà e del benessere, ove, date per scontate le tre condizioni e persino la sintesi che ne scaturisce, fossimo per ciò stesso disponibili a ricavarne l'unica lezione che ce ne viene oggi proposta, e cioè la guerra infinita. Io non mi occupo, se non implicitamente, delle condizioni della guerra ma delle sue conseguenze, per ora essenzialmente potenziali, ma già oggi ampiamente visibili: e delle sue conseguenze non tanto sui rapporti di forza e sulla dislocazione delle grandi potenze, quanto sulle coscienze e sulle intelligenze di coloro che ne saranno protagonisti o vittime (e talvolta in successione, o magari insieme, le due cose). Ne potrebbe risultare alla fine un saldo paurosamente negativo tra i benefici e il prezzo di un uso sistematico, parcellizzato e globale al tempo stesso, della guerra, quali che siano gli effetti sul piano dei rapporti di forza (che sono invece largamente prevedibili, anzi in gran parte scontati).

Mi limito a constatare, per meglio focalizzare il discorso, che è venuta rapidamente meno l'illusione che, con la caduta verticale del mondo bipolare, cessassero, forse per sempre, la necessità e l'uso della guerra. Anzi: fino al 1989, e per tutto il periodo del conflitto fra grandi sistemi, la guerra è stata considerata da ambedue le parti extremum remedium, da usarsi solo se tutte le altre strade fossero risultate impraticabili. E infatti, anche se la minaccia allora era di tipo atomico, ben peggiore di quella terroristica (o forse proprio per questo), alla guerra fra i due grandi sistemi non si ricorse mai, e il terrore atomico restò solo virtuale (l'«equilibrio del terrore»). Non a caso quel periodo è stato chiamato con il nome davvero insolito di «guerra fredda», che è quasi un ossimoro: le guerre, infatti, sono calde per definizione e «guerra fredda», perciò, ha definito una situazione in cui, per determinate condizioni eccezionali, non c'è stata guerra tra i sistemi, ossia c'è stato (in certi momenti non senza il timore che tutto saltasse in aria) un lungo, anomalo e insolito periodo di pace, e le guerre, che pure ci sono state, sono state anch'esse insolite ed eccezionali, rispondenti a esigenze e logiche, che si collocavano ai margini dei due grandi sistemi (Cina, Corea, Vietnam).

Ora, spezzato l'equilibrio, si è tornati, - si direbbe, - all'antica, ossia all'uso della «guerra calda».

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Pagina 37

Fuori dall'Occidente, ovvero Ragionamento sull'«Apocalissi»


                    Ai soldati irakeni
                    massacrati dall'Occidente
                    per una causa
                    che non conoscevano.

I. Un solo Occidente, un solo mondo.

Con la guerra del Golfo, per la prima volta nella storia, tutto l'Occidente è compatto, - da Seattle a Vladivostock, - e tende sempre di piú a coincidere con il mondo. La direzione di marcia degli ultimi cinque secoli, dal 1492 a oggi, si rivela: il simbolo, l'elemento espansivo presente embrionalmente nel processo fin dall'inizio, ha ormai un corpo intero, diviene la realtà. Cinquecento anni di stragi, di guerre e di nefandezze, perché il seme attecchisse, diventasse messe folta e continua. Unum imperium, unus rex. Anche gli arabi, anche gli arabi che vogliono o dicono di voler combattere questo processo, si sono occidentalizzati, - non democratizzati. E la stessa cosa accade per la grande maggioranza dei popoli del Terzo Mondo. Anche i neri, anche i gialli, vogliono diventare Occidente, non possono fare a meno di diventare Occidente.

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Pagina 42

[...] Ora ci accorgiamo che cosa significa non poter piú «sognare» il sogno piú grande che l'umanità abbia mai sognato nel corso della sua storia: si è verificata come un'amputazione dell'immaginazione umana, con la quale tutti i «riformatori» d'ora in poi dovranno fare i conti. La manifesta impossibilità di piegare la natura urmana alla voce della ragione e del diritto chiude dunque un'epoca, che va dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione francese fino ai giorni nostri, da un '89 a un altro '89.

Un momento di riflessione. Non è cosa da poco ammettere che non ci sarà mai piú un governo degli sconfitti della storia e che è diventata addirittura impensabile una «rivoluzione dei valori», - che, anzi, di conseguenza, è male pensare come possibile o, peggio, perseguibile l'una come l'altra cosa.

Lo scenario con cui oggi ci misuriamo è il capitalismo come «sistema naturale», con le medesime carratteristiche, dunque, che poteva avere il Monarca assoluto in tempi di Ancien Régime. Non a caso si torna così frequentemente a parlare del capitalismo come di un «valore in sé», non piú come di una delle tante forme possibili della razionalità umana, ma come dell'espressione migliore e piú autentica della razionalità umana (in taluni casi, come della Razionalità umana). Non diversamente si parlava un tempo del «potere assoluto del Monarca», e in taluni casi perfino del suo «corpo», come della sintesi piú adeguata delle piú ordinate qualità umane, considerate, oltre tutto, nel loro rapporto con il divino. Un corteggio apologetico accompagna sempre il carro del vincitore, e gli ex nemici sconfitti somo spesso tra i buccinatori piú entusiastici e intolleranti del nuovo Potere: e questo, del resto, ha una sua spontanea, facile e accomodante evidenza.

Una volta, infatti, che il «diritto rivoluzionario» sia morto, sia fuori sia dentro l'Occidente, ciò che resta è appunto il «diritto naturale», che, com'è ovvio, coincide né piú né meno con il diritto del piú forte (la natura, infatti, è ciò che s'impone a dispetto di tutti i tentativi di correzione). Ed ecco che sono tutti lí, contenti, a sbavare di gioia perché finalmente la «natura delle cose» (a cui la «natura umana» piú facilmente si adegua, e che per certi versi ne costituisce anche un presupposto) riprende il sopravvento contro il criminoso disegno umano, di rifare la storia secondo un'idea, un'intenzionalità, una volonta di miglioramento: e nessuno che dica, anche dalla parte del vincitore, che il disegno, per quanto criminoso e dunque deprecabile, esprimeva il lato umano della storia piú di quanto non possano fare oggi i vincitori con tutte le loro bronzee leggi della produzione e del mercato. Capite quel che s'è perso insieme con quel sogno? (e, naturalmente, vale forse la pena di precisare che quel sogno s'è perduto da sé, fondamentalmente perché, traducendosi da sogno in realtà, s'era fatto anch'esso cattivo, aveva mostrato anch'esso i segni, apparentemente inevitabili, della malvagità umana). Abbiamo perso tutti, - vincitori e vinti, - il diritto di pensare che la funzione fondamentale del pensiero umano consista essenzialmente nel lottare contro la «deriva» spontaneamente barbarica delle cose, contro la soggezione meramente passiva alla naturalità preistorica.

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Pagina 45

Nella storia dell'Occidente, almeno da quando è comparso il Vangelo, c'è sempre stato un tragico conflitto interno: Cristo e Cesare, Francesco e Bonifacio, Lutero e Carlo, Moore ed Enrico, Machiavelli e Spinoza, Amleto e Fortebraccio, Kant e Pietro il Grande, Hitler ed Erasmo, Macbeth e Lenin. Ma il conflitto in realtà c'era anche prima, viene da piú lontano, è in radice: Orfeo e l'Averno, Giove e Prometeo, Socrate e l'Areopago, Seneca e Nerone, Dionigi e Platone. Da una parte, la promessa, la lotta, l'idea, il pensiero (e poi magari, la mortificazione, l'avvilimento, la sconfitta, l'autocritica, l'autopunizione, la rinuncia, l'abiura, la frustrazione...); dall'altra, il realismo, la ragion di Stato, l'oppressione, la violenza, le gerarchie e le differenze.

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Pagina 167

Il senno di poi


A distanza di tre anni non si sono sciolti i dubbi e le perplessità manifestati a suo tempo sulla «guerra umanitaria». Potremmo dire che siamo ancora nell'onda lunga, catastrofica, provocata dalla dissoluzione della vecchia Iugoslavia: uno di quegli organismi che, nati dall'ideologia internazionalista del comunismo occidentale, avevano praticato per cinquant'anni la possibilità di tenere insieme, in vista di fini comuni, popoli di razza e religione diverse. L'esperienza ha dimostrato, ancora una volta, che non si può imporre una «ragione astratta» a delle «concrete identità»: anche se, come nell'ex Unione Sovietica, potenti volontà soggettive sono nel frattempo intervenute ad accelerare quella dissoluzione, favorendo la rinascita anche violenta (che su di un piano puramente astratto potremmo giudicare anti-storica) delle identità. Nel processo dissolutivo e ricompositivo nessuno dei protagonisti può essere giudicato esente da colpe. La liberazione dal giogo unitario terzinternazionalista ha comportato che commettessero reciprocamente atrocità sia i serbi sia i croati sia gli albanesi, i cristiani ortodossi come i cristiani cattolici come i musulmani. La presenza delle forze militari della Nato sul territorio ha impedito l'ultimo show down: ma non ha rimosso le cause dei conflitti, che restano latenti, come dimostrano le perduranti fortune dei partiti e degli orientamenti nazionalisti in ogni punto della tormentata carta geopolitico-razziale dei Balcani. Sul piano storico gli specialisti hanno ormai ricostruito con sufficiente esattezza e attendibilità i retroscena del conflitto, prima, durante e dopo l'apertura delle ostilità. Ne risultano confermate, mi pare, le obiezioni mosse a suo tempo allo stesso concetto di «guerra umanitaria». Già allora, come oggi di fronte al problema Irak, si avanzò l'ipotesi, e per un certo periodo fu anche praticata, che, di fronte ai gravi motivi d'intervento, potesse essere aggirata la necessaria sanzione Onu, e già allora, come oggi, il fronte piú intransigente, fu angloamericano. Scrive Joze Pirjevec: «Grazie all'intervento del premier laburista Tony Blair, interessato a migliorare i rapporti con l'amministrazione Clinton, resi difficili dal suo predecessore John Major, l'incidente fu composto secondo i desideri degli americani, nella convinzione che la catastrofe umanitaria in atto nel Kosovo costituisse una base legale sufficiente per dare carta bianca a un intervento della Nato, anche senza la benedizione dell'Onu». Aggiunge Pirjevec: «La tesi violava in maniera evidente il principio della sovranità degli Stati e non trovava conferma nella Charta delle Nazioni Unite, che giustificava l'uso della forza solo in caso d'autodifesa o previa un'esplicita autorizzazione del Consiglio di sicurezza, per "mantenere o restaurare, la pace"; nelle settimane successive, fu tuttavia elaborata, non senza opposizioni interne, da "giuristi" compiacenti e fatta propria da Javier Solana, il segretario generale della Nato».

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Pagina 170

Ora, il punto è: la guerra per il Kosovo e contro la Serbia va considerata un caso a parte, una felice (si fa per dire) anomalia nel corso di questo decennio denso di conflitti, - oppure essa non è che un momento, e un tassello, di un' unica grande operazione strategica, che mira a un risultato sostanzialmente unitario? Io credo che la seconda ipotesi sia piú giusta della prima, pur non escludendo, - come ho detto fin dal 1999, - che motivazioni umanitarie fossero presenti accanto a quelle strategiche e geopolitiche (almeno in taluni dei protagonisti del conflitto). Ma nel complesso le costanti prevalgono sulle variabili, il periodo successivo al 1989, vero e proprio spartiacque epocale, può esser letto unitariamente, l'uso della guerra ha conosciuto di volta in volta specificazioni e varianti, ma lungo un asse che è stato mantenuto sostanzialmente fermo. Anzi, la rilettura decennale consente di vedere meglio nell'insieme quello che, a distanza piú ravvicinata, con l'occhio fisso nevroticamente ai particolari, poteva sfuggire. L'infittirsi delle «frequenze» (Irak, 1990-91; Kosovo e Serbia, 1999; Afghanistan, 2001; ora, - 2002-2003, - forse di nuovo l'Irak) dimostra che l'uso della guerra, dopo le prime esperienze nel mondo unipolare appena costituitosi, tende a diventare sempre piú sistematico. Ma con l'inizio del nuovo millennio il quadro si complica: non c'è piú soltanto la «guerra imperiale», omogeneizzatrice e normalizzatrice; entrano in gioco altri, imprevedibili e sconvolgenti, - nuovi «fattori».

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Pagina 173

Una modesta voce umana


                    Alle vittime innocenti
                    delle Twin Towers
                    e a tutte quelle
                    che seguiranno.

1. Il Terrore.

11 settembre 2001: questa volta l'atrocità si è abbattuta sulle tremila (o quattromila o cinquemila...) vittime innocenti delle Twin Towers di New York. Bisogna piangerle e invocare giustizia, ma bisogna sapere come, perché dalla nostra risposta dipende se saranno le ultime (o quasi) oppure solo le prime di una lunga catena. Dopo e in conseguenza dello sfacelo dell'Impero socialista, l'alacre, instancabile Impero residuo, - l' Unum imperium, unus rex, - ha preso a «rimodellare» l'esistente, agendo con il bisturi dov'era possibile e con l'accetta là dove c'erano zone di resistenza, retrograda e barbarica. Prima l'Irak; poi il Kosovo, la Serbia e i Balcani; ora, forse, di nuovo l'Irak; poi si vedrà. Nel '91 avevo scritto: «Poiché una terza guerra mondiale tra blocchi contrapposti sembra impensabile, [gli Stati Uniti] possono trasformare qualsiasi guerra locale in una guerra mondiale senza nessun pericolo» (cfr. supra, p. 59). Questa previsione era sbagliata. Si è visto, rapidamente ed efficacemente, che se il conflitto schierava da una parte l' Unum imperium e dall'altra gli Stati straccioni, gli Stati barbarici, gli «stati canaglia» (come significativamente li ha chiamati il presidente Bush jr), su questo terreno c'era poco da fare: l'Impero è in grado di mettere a tacere qualsiasi avversario di questo tipo, arretrato o avanzato che sia, barbarico o civilizzato, dalla Russia alla Francia alla Germania allo Zaire all'Indonesia, e forse anche tutti questi insieme.

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Pagina 190

Con alcuni di questi fenomeni la connessione è chiara, tant'è che oggi (con immenso, catastrofico ritardo) nessuno osa piú negarla. Qualcuno individua uno di questi fenomeni, forse il piú vistoso, nella creazione dello Stato d'Israle in terra araba. Io preferisco dirla in questo modo. È ormai un dato storico, difficilmente contestabile anche su questo piano, che la creazione dello Stato d'Israele ha rappresentato il risarcimento concesso al popolo ebraico dall'Occidente per il piú mostruoso dei crimini da questo commessi ai suoi danni nel corso della sua lunga storia, ossia l'Olocausto. Naturalmente trovo tipico che la realizzazione di questo risarcimento si sia anch'essa verificata ai danni di un soggetto «altro», il popolo arabo, che con l'Olocausto non c'entrava per nulla, come se l'Occidente non fosse in grado di compiere un gesto «generoso», senza farne pagare il prezzo a qualcun altro. Ma soprattutto l'Occidente, in cambio di questa concessione, ha chiesto al popolo ebraico di farsi Occidente, di diventare Occidente, come non era mai accaduto prima nella storia (quando, in un modo o nell'altro, spesso duramente e sanguinosamente, l'Occidente aveva marcato l'insormontabilità della sua differenza rispetto all'ebraismo, e l'ebraismo, a sua volta, pur accondiscendendo o talvolta subendo processi d'integrazione, aveva accettato di mantenere e coltivare tale differenza a difesa della propria identità). Dall'origine, dunque, di questa storia, che stiamo cercando d'interpretare, l'occidentalizzazione del diverso si presenta come una caratteristica imprescindibile per la sua salvezza: ci si può salvare, cioè, solo se ci si occidentalizza, solo se si assumono le forme e le fattezze dell'Occidente, altrimenti si resta ai margini, perseguibili e perseguiti. L'Occidente, oltre a essere un Impero, è una Scuola: la piú efficiente (può arrivare in ogni momento in ogni punto del globo, mentre gli altri hanno difficoltà a fare a modo loro anche in casa propria) e la piú dura che esista (allo stampo occidentale bisogna volenti o nolenti adattarsi, se si vuole tornare a contare qualcosa). L'ebraismo è stato aiutato dall'Occidente a sopravvivere e a risollevarsi, dopo l'ignominia nazista, ma in cambio gli è stato chiesto di «conformarsi» all'Occidente. E l'ebraismo vi ha acconsentito, perché il destino della violenza e della forza, il germe costitutivo del «principio di dominio», non consente alternative: per dominare bisogna usare la violenza, senza violenza non c'è dominio. Dopo duemila anni di distinzioni e di diversità l'ebraismo si è identificato nell'Occidente, - cosa, ripeto, mai avvenuta prima, - e dell'Occidente ha assunto metodi, tecnologie e valori. Il potere e le armi hanno pervertito una grande tradizione e una grande civiltà. Da razza deprivata, perseguitata e decisamente «diversa», è diventata una razza guerriera, persecutrice e perfettamente omologata alla parte piú consapevole e spregiudicata del sistema occidentale. La sua identità permane solo in quanto è componente costitutiva fondamentale del suo sistema di autodifesa contro e sopra le diversità altrui, del suo modo d'essere Stato-nazione in un territorio nemico (anche in questo caso in maniera non diversa da come vivono la propria diversità nei confronti degli ebrei gli arabi integralisti e fanatici). C'è stata dunque una doppia perdita: nei confronti dell'Occidente, che si è visto privato di un altro dei suoi fondamentali principi di antagonismo interno e di differenziazione culturale (in questo senso la «perdita» dell'ebraismo fa parte di questo lungo processo di omogeneizzazione e compattamento di sé da parte dell'Occidente, che corre parallelo ai suoi sforzi di omogeneizzazione e compattamento verso l'esterno); e nei confronti dell'ebraismo medesimo, che si è ritrovato a essere un elemento qualsiasi, anzi, un protagonista di punta, un'avanguardia estremamente dura e aggressiva del sistema occidentale, una sentinella dell'Occidente in un territorio ostile e comunque piú difficilmente controllabile. L'ebraismo, introiettando l'Occidente, ha perso se stesso, è diventato parte dell'Occidente e immediatamente (cioè come conseguenza naturale di questa scelta di fondo) è diventato un veicolo di controllo e di sopraffazione dell'Occidente verso il resto del mondo. Anche in questo caso la presenza di una tecnologia formidabile ha contato molto nell'adozione di una nuova mentalità e di una nuova cultura ebraica, ispirate a un principio di dominio. Gli Stati Uniti sono in grado di cambiare la natura dei popoli, dando loro armi superiori (accadrebbe anche agli italiani, se mai qualcuno gliene desse). Chi ha armi superiori cambia il proprio cervello e il proprio modo d'essere: comincia a pensare d'essere superiore. Quando è arrivato seriamente e definitivamente alla persuasione di essere superiore, usa le armi come se fossero la piú logica e legittima manifestazione di tale superiorità. L'anormalità, anche in questo caso, è diventata normale; il bisogno di difesa, istinto aggressivo. L'adozione plateale della violenza nel modo di gestire il proprio orizzonte esistenziale è la manifestazione piú clamorosa di questa modifica profonda della tradizione ebraica, pacifica e pacifista nella sua essenza piú di qualsiasi altra civiltà umana del passato. Non aggiungo altro su questo punto a quanto ho già osservato in Fuori dall'Occidente. Vorrei solo dire che, ovviamente, non si può neanche in questo caso reagire alla violenza con la violenza e pretendere che all'ingiustizia della fondazione dello Stato d'Israele faccia seguito l'ingiustizia della sua eventuale distruzione e cancellazione oggi. Se cosí dovesse accadere, non ci sarebbe fine, appunto, all'ininterrotta catena delle violenze umane, che è esattamente la prospettiva, la linea di tendenza, contro cui cerco di raccogliere argomenti in questa perorazione. Ma è altrettanto evidente, al tempo stesso, che, finché non ci sarà risarcimento, anzi, finché non ci sarà un risarcimento al risarcimento, finché la storia non verrà «corretta» secondo la ragione e il buonsenso, la piaga ebraico-palestinese continuerà a infettare il mondo intero.

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Pagina 200

La democrazia, dunque, non è un connotato che identifica necessariamente in questa fase l'espansione imperiale. Anzi: essa, con la sua presenza o assenza, a seconda dei casi, rimarca duramente la differenza che passa fra il cuore dell'Impero e i suoi infiniti satelliti. In America Latina, in Africa, nei paesi arabi, in Pakistan, nel Sud-Est asiatico si può essere fedeli sudditi dell'Impero senza aver abbracciato, o di fatto o almeno in teoria (oppure, né in teoria né di fatto), il credo politico democratico. Se le cose stanno (o si manifestano) cosí, questo vuol dire che il sistema politico democratico non si presenta piu all'esterno come un «valore», necessariamente perseguibile in tutti i casi, ma solo come l'assetto storicamente dato di una certa parte del mondo, che per giunta è quella prepotentemente dominante: la democrazia è il sistema dei vincitori e, in molti casi, degli sfruttatori e degli oppressori (America Latina, Africa, Medio Oriente). Il risultalto è che, da una parte, quella occidentale, esso è visto, egoisticamente, come uno dei tanti segni della nostra superiorità sul resto del mondo (per esprimerci con le parole di uno dei nostri barbari piú rappresentati), cioè un bene «non partecipabile», una lussuosa esclusività dei ricchi e dei potenti; dall'altra, quella del resto del mondo, - che è, come ho già detto, ancora vastissima, - come uno dei tanti segni (e, talvolta, strumenti) del nostro dominio su di esso. La democrazia, buona o cattiva che sia, perdendo la sua pretesa di universalità, s'incorpora nell'immagine mostruosa e terrificante che molti, fuori dell'Impero, hanno dell'Impero. Se poi uno collega il sistema politico democratico all'esercizio sistematico della guerra, - operazione in sé illegittima, ma in pratica da almeno un decennio ben funzionante, - non avrà che da unire i punti estremi del ragionamento per arrivare a una conclusione distruttiva anche nei confronti di quella che dovrebbe costituire una delle «particolarità buone» dell'Occidente. Il «governo democratico» si presenta come la «forma politica» che assume il «dominio della guerra» da parte dell'Occidente sul resto del mondo.

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