Autore Alberto Asor Rosa
Titolo Scrittori e popolo 1965 - Scrittori e massa 2015
EdizioneEinaudi, Torino, 2015, Piccola Biblioteca 640 , pag. 430, cop.fle., dim. 13,5x20,8x2,6 cm , Isbn 978-88-06-22597-1
LettoreRenato di Stefano, 2015
Classe critica letteraria , storia letteraria , teoria letteraria , storia sociale












 

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Indice


VII Cinquant'anni


    Scrittori e popolo
    Saggio sulla letteratura populista in Italia

  3 Introduzione alla prima edizione
  8 Prefazione alla seconda edizione

    Parte prima
    Il populismo nella letteratura italiana contemporanea

 19 Le premesse: da Gioberti a Oriani

 71 Dalla prima alla seconda guerra mondiale:
    interventismo, fascismo, antifascismo

124 La Resistenza e il gramscianesimo: apogeo e crisi del populismo

    Parte seconda
    La crisi del populismo

225 Cassola
277 Pasolini


    Scrittori e massa
    Saggio sulla letteratura italiana postmoderna

357 1.  «Scrittori e popolo»: 1965-2015

363 2.  Popolo/Massa

370 3.  Il tramonto del moderno

374 4.  Criteri dell'indagine

277 5.  Mappe della ricerca

380 6.  Raccontare il disagio, scendere in profondità (il piú possibile...)
        Gli esploratori del magma

396 7.  Aumenta la dispersione, crescono i mondi e le possibilità,
        qualche risposta arriva

404 8.  Letteratura di massa «tout court». Oppure no?

406 9.  Letteratura in lingua italiana scritta da non-italiani:
        il (o una parte del) nostro futuro?

411 10. Si può rispondere alla massa, abbassando, invece di alzare,
        il tono di voce? C'è chi ci prova: la poesia

419 11. «Scrittori e massa»: 2015-1965


423 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 7

Cinquant'anni


Raccolgo in questo volume Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia, pensato e scritto nei primi anni '60, e pubblicato nel 1965, e Scrittori e massa. Saggio sulla letteratura italiana postmoderna, pensato e scritto nel corso degli ultimi anni e pubblicato ora per la prima volta. Il fine di questo accostamento non è quello di favorire improbabili riflessioni sulla (estrema) diversità delle situazioni e dei risultati. Ma piuttosto di suggerire (ovviamente dal mio punto di vista, che ovviamente è limitato e parziale) una maggiore attenzione al dato storico, che scivola inesorabilmente sul binario del tempo e muta in maniera e misura tali da cambiare radicalmente persino gli assi fondamentali dell'operare letterario (come io cercherò di dimostrare nell'analisi delle opere e degli autori trattati nel secondo, piú recente saggio).

Un lettore benevolo potrebbe osservare che la medesima cosa - e non altro - io avrei tentato di fare nel primo, e piú lontano, saggio. Anch'io la penso cosí. E però può darsi che io mi sbagli, come e quanto il lettore benevolo. Cinquant'anni sono tanti, sono troppi, per giudicare quello che abbiamo fatto, e soprattutto quello che avremmo voluto fare. Ci si può provare, tuttavia, se ci sono ancora le forze per farlo - senza nessuna esibizione vitalistica, per carità.

A questo proposito: anche il confronto tra un individuo pensante e imperiosamente giudicante di trent'anni, e un altro, presumibilmente pensante, e rispettosamente giudicante, di ottanta, potrebbe avere qualche circoscritto interesse aneddotico e, entro certi limiti, persino piacevolmente umoristico. Ma questo lo rimanderò a occasione piú conveniente.

Infine, vorrei dire che operazioni di lunga durata come questa, che mettono ordinatamente in sequenza interventi cosí lontani nel tempo, sono possibili se c'è una casa editrice in grado di assumerle e farle proprie. Scrittori e popolo non è apparso la prima volta nel 1965 presso la Giulio Einaudi editore (no, questo non sarebbe stato proprio possibile). Però, già nel 1975 — esattamente dieci anni dopo — usciva presso Einaudi, perfettamente consapevole dell'azzardo che stava compiendo, il mio volume sulla Cultura dell'Ita1ia contemporanea (Storia d'Italia, IV/2), che io, scrivendolo, consideravo allora, e continuo a considerare (non illegittimamente, credo), il «fratello maggiore», anche se nato dopo, di Scrittori e popolo: e nel 1988 Einaudi ristampava per la prima volta Scrittori e popolo, rimettendolo vigorosamente nel circuito del dibattito letterario e politico-culturale nazionale (la prima edizione aveva avuto anch'essa un numero imprecisato, ma sicuramente molto alto, di ristampe, diverse fra loro anche dal punto di vista tipografico; non ho mai saputo quante siano state e quale tiratura abbiano avuto, a causa delle difficoltà di quella piccola casa editrice di far fronte ai diritti d'autore).

Il presente volume, nel quale la medesima questione viene affrontata a cinquant'anni di distanza con differenti criteri e punti di vista, testimonia che quell'interesse non si è esaurito col tempo, anzi, ha preso nuove forme e si è rifatto, in un certo senso, militante. Non avrei potuto desiderare di meglio. Tenendo conto perciò di tutto questo, dedico questo libro a Giulio Einaudi e alla Casa editrice che da lui prende il nome.

ALBERTO ASOR ROSA

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Pagina 355

SCRITTORI E MASSA

Saggio sulla letteratura italiana postmoderna


Ai compagni che verranno




1. «Scrittori e popolo»: 1965-2015.


Scrittori e popolo nacque nei tre anni successivi al grande sciopero Fiat del luglio 1962 (culminato negli scontri in Piazza Statuto a Torino, intorno alla sede della Uil, colpevole di aver firmato un accordo al ribasso con il padrone) e venne pubblicato dall'editore Samonà e Savelli di Roma, di chiaro orientamento estremista (trotzkista, per l'esattezza), all'inizio del gennaio 1965 (non escludo che ci siano copie con la data 1964). Di queste vicende, dei loro presupposti e del loro contesto, ho parlato a lungo recentemente, soffermandomi anche sull'intreccio, estremamente robusto e significativo, che passò fra la mia - la nostra - ricerca intellettuale e politica e la nascita e la storia di riviste come «Quaderni rossi» (primo numero: ottobre 1961) e «Classe operaia» (primo numero: gennaio 1964). Non mi pare il caso di tornarvi sopra, anche se tener presenti contemporaneamente i due testi - questo e quello - servirebbe alla loro reciproca comprensione. Mi limiterò ad alcune considerazioni aggiuntive.

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Pagina 370

3. Il tramonto del moderno.


Quale che sia la considerazione in cui dobbiamo tenere l'ipotesi della trasmigrazione semisecolare dal «popolo democratico» alla «massa post-democratica», non v'è dubbio che i cinquant'anni trascorsi abbiano cambiato radicalmente le strutture primarie del sapere, della conoscenza e della creazione artistica e letteraria. Son venuti meno i capisaldi di quello che, in altri tempi, si sarebbe definito un sistema democratico-culturale fondato sul moderno. Alcuni esempi.

È venuta meno, innanzitutto, una «società letteraria» degna di questo nome. Intellettuali e scrittori navigano a vista, depositando ognuno il proprio tassello, faticosamente pensato, nell'immenso mosaico della produzione culturale, artistica e letteraria, la quale, almeno apparentemente, «si fa da sé».

La fine della «società letteraria» comporta necessariamente la fine della «tradizione letteraria», ossia di quello strumento della elaborazione intellettuale che richiede, sempre e necessariamente, un rapporto con il passato. Altrove ho definito tre nostri grandi scrittori - Fortini, Pasolini, Calvino - «gli ultimi classici». Intendevo che essi, in pieno Novecento, fossero altamente rappresentativi di una tendenza letteraria addirittura plurisecolare, e cioè l'idea, la persuasione, che in letteratura e nelle arti, come del resto in ogni altra attività mentale umana, per partire in una qualsiasi, nuova direzione, sia necessario guardare innanzitutto al passato, ripensarlo e superarlo, ma mai ignorarlo. La «novità» oggi, nella grande maggioranza dei casi, consiste nel pensare il «nuovo» come sciolto da qualsiasi debito con il passato, mentre il vero «nuovo», letterariamente parlando (forse anche politicamente?), secondo i vecchi criteri, consiste sempre nel pagare il proprio debito al passato. La cosa è sensibile, piú che in campo tematico, in campo linguistico e stilistico. Non c'è lingua, non c'è stile, nella creazione letteraria e artistica, che non nasca dal ripensamento di una lingua e di uno stile di qualcuno che c'era prima.


Siccome questo insieme di rapporti con il presente e con il passato non viene piú considerato essenziale all'elaborazione creativa dei letterati, viene meno conseguentemente anche la funzione della critica e della teoria letteraria (altri motivi li vedremo piú avanti), le quali, per definizione, servivano a discriminare, valutare e orientare i prodotti dell'invenzione letteraria e artistica. Che bisogno c'è di critica e di teoria, se i processi combinatori in base ai quali si scrive un libro piuttosto che un altro sono tutti consegnati a dinamiche completamente diverse? Si deve a questo, probabilmente, se alla superfetazione attuale della produzione letteraria (sulla quale ci soffermeremo piú avanti) non corrisponde un analogo fenomeno per la critica e la teoria letteraria. Il vincolo, anche in questo caso secolare, che stringeva i due ordini di fenomeni, si è rotto, suppongo per sempre, e quello dei due che fungeva, a torto o a ragione, da mentore e guida, è precipitato nel vuoto.

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Pagina 374

4. Criteri dell'indagine.


È del tutto ovvio che a una «società di massa» corrisponda una «cultura di massa». «Cultura di massa» significa una declinazione culturale, che obbedisce prevalentemente al bisogno di soddisfare i bisogni della «massa», cosí come, piú o meno, ho cercato di descriverla nelle pagine precedenti. Nel caso nostro, tuttavia, trattandosi di fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti, mi limiterei a segnalare solo quelli stricto sensu essenziali.

Per esempio: la sempre piú stretta connessione fra produzione letteraria e mezzi di comunicazione di massa. L'una e gli altri tendono a far parte in maniera indistricabile del medesimo universo comunicativo, scambiandosi a tale scopo linguaggi e tematiche. L'universale adozione degli strumenti informatici, sia compositivi sia comunicativi, ha reso questa giunzione ancor piú vincolante. Inoltre ha diminuito enormemente i tempi di elaborazione e di composizione, rendendo possibile da parte del singolo autore un innalzamento, per lo meno quantitativo, delle capacità produttive (si veda par. 5.1), impensabili ai tempi della macchina da scrivere o del brontosaurico pennino a sfera (per non parlare, ovviamente, del pennino da inchiostro o della penna d'oca, strumenti straordinari di riflessione e di posatezza).

Se del rapporto tra «cultura di massa» e «produzione letteraria» si può parlare in termini teoricamente ineccepibili, senza scomodare nessuno in particolare, piú impegnativo sarebbe parlare della funzione sempre piú decisiva che svolgono sui produttori di libri le redazioni interne alle case editrici. Il ruolo di queste ultime è enormemente aumentato negli ultimi tre decenni. Si può arrivare a parlare di un lavoro comune o almeno altamente collaborativo? In taluni casi, sí. In altri casi, l'imprinting collaborativo si solidifica in una sorta di «marchio di fabbrica» riconoscibile a vista d'occhio.

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Pagina 377

5. Mappe della ricerca.


Quel che sono andato finora sostenendo, mi ha portato a definire in partenza un limite, un confine, alla ricerca. L'ipotesi è questa. Di concerto con l'uscita di scena degli «ultimi classici» (Pasolini nel 1975, Calvino nel 1985, Fortini nel 1994: ma quella fase si chiude in realtà, e per giunta stentatamente e dolorosamente, anche prima, ossia nel corso degli anni '80), agisce e produce libri quella che io definirei la generazione degli «eredi», ancora immersi profondamente senza cesure visibili nel clima culturale e creativo della fase precedente. Sono, per citare solo i nomi più significativi, fra i narratori:

    Vincenzo Cerami (1940),
    Antonio Tabucchi (1943),
    Franco Cordelli (1943),
    Domenico Starnone (1943),
    Clara Sereni (1946),
    Ermanno Cavazzoni (1947),
    Aldo Busi (1948),
    Daniele Del Giudice (1949),
    Maurizio Maggiani (1951),
    Laura Pariani (1951),
    Andrea De Carlo (1952),
    Pier Vittorio Tondelli (1955),
    Michele Mari (1955),
    Eraldo Affinati (1956),
    Marco Lodoli (1956),
    Bruno Arpaia (1957);

fra i poeti:

    Dario Bellezza (1944);
    Giuseppe Conte (1945),
    Patrizia Cavalli (1947),
    Cesare Viviani (1947),
    Patrizia Valduga (1953),
    Franco Marcoaldi (1955),
    Enrico Testa (1956),
    Valerio Magrelli (1957).

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Pagina 378

5.1. «Scrittori di massa»... o «massa di scrittori»?


Alla domanda si può rispondere, preliminarmente e, per cosí dire, senza ulteriori quesiti teorici, che le due fenomenologie si corrispondono e s'integrano a vicenda. E cioè: la «massa» è una qualità intrinseca a un qualsiasi fenomeno. E però, affinché tale caratteristica penetri davvero nelle fibre del soggetto in questione, bisogna che di soggetti in questione, se non identici almeno molto simili, ne siano scesi in campo molti. Di fatto, però, i dati raccolti evidenziano una situazione estrema, che non ci saremmo aspettati di trovare prima d'iniziare questa indagine.

Per avere dati di fatto incontrovertibili, ho chiesto alle principali case editrici del settore (poesia, ma, com'è ovvio, soprattutto narrativa) di elencare gli autori e le autrici, nati dopo il 1960, operanti prevalentemente presso di loro. Il risultato è clamoroso. Si tratterebbe di circa 280-300 narratori e di 50-60 poeti. Poiché - e qui parlo solo dei narratori - il ritmo produttivo di ognuno di loro è con le nuove tecniche, sia compositive sia creative, enormemente aumentato, si potrebbe calcolare grosso modo (un calcolo matematico piú preciso non è stato fatto) che nel periodo che va dalla metà degli anni '90 al 2015 (vent'anni, in sostanza) siano apparsi, ad opera esclusivamente degli scrittori nati dal 1960 in poi, intorno ai 1000 titoli, con un gettito fra i 40 e i 50 titoli all'anno (ma il calcolo, senza ombra di dubbio, è per difetto). Ne discendono due conseguenze.

La prima è che la polverizzazione delle tendenze e delle identità trova una colossale conferma. L'ho già detto, ma lo ripeto. Ognuno va per proprio conto. Le linee di sutura e di confronto indubbiamente esistono (e di alcune fra esse cercheremo di occuparci piú avanti): ma sono, come dire (almeno nella grande maggioranza dei casi), a posteriori. Non precedono e determinano; ma seguono e scaturiscono, sulla base di processi che non sempre sono governati dai singoli autori (come del resto sempre succede, quando si tratta di processi di massa: ricordiamo Von Wiese). Teoricamente parlando, occorrerebbe scrivere un singolo saggio per ognuno degli scrittori contemplati; un saggio complessivo rischia di perdere gli elementi piú essenziali del discorso (ne sono ben consapevole, scrivendo questo).

La seconda merita un punto a parte.




5.2. L'impotenza della critica.


Se le dimensioni e la quantità dei fenomeni sono quelle che ho cercato finora di descrivere, è facile capire che la critica - attività sussidiaria, che ha sempre vissuto in funzione dei fenomeni letterari, che cerca d'interpretare e di valutare - viene rapidamente meno. La «massa» dei fenomeni è talmente grande che l'operazione piú consueta alla critica di tutti i tempi - cioè mettere ordine nella creazione dei testi e ragionarne all'esterno, perché qualcuno, lettore o scrittore che sia, ne tenga conto e se ne giovi - non è piú possibile. Forse solo un Wu Ming della critica potrebbe aver ancora qualcosa da dire in proposito. Ma ciò che soprattutto viene meno è l'idea che il colloquio fra critico e autore serva davvero in qualche modo all'autore che deve ancora scrivere il suo prossimo libro, o al critico che deve imparare a fare meglio il suo mestiere.

Se ne potrebbe concludere rapidamente - con il sollievo di tutti - che questo mio discorso - impotente di fronte alla massa inafferrabile dei materiali e inutile rispetto agli effetti che in altri momenti avrebbe potuto produrre (in fondo, persino Elio Vittorini senti il bisogno di rispondere e di spiegare a quell'ignoto interlocutore di trent'anni) - avrebbe tutti i motivi per chiudersi qui. Se ciò non avviene, è perché anche il vizio, soprattutto negli anziani, fa parte delle umane debolezze.

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Pagina 380

6. Raccontare il disagio, scendere in profondità (il piú possibile...) Gli esploratori del magma.


La cesura, anzi le innumerevoli cesure, rispetto all'immediato passato (parliamo in questo caso di una manciata di anni, fra gli '80 e i '90), si esprimono soprattutto in una perdita di contatto con la tradizione (della quale abbiamo abbondantemente ragionato nelle pagine precedenti, ma soprattutto al paragrafo 3). Di questa nuova situazione piú o meno tutti (io credo) sono consapevoli, ma qualcuno lo è piú di altri. Mi riferisco, ad esempio, alle dichiarazioni di Emanuele Trevi (che io definirei intelligentissime, ad onta delle mie dichiarazioni a favore, in questa occasione, di una totale avalutatività da parte mia nei confronti dei fenomeni esaminati), rese in un libro che rappresenta di per sé una malinconica (ma non piagnucolosa) confessione del distacco - del distacco, s'intende, per chi come lui lo avverte ancora come tale: è ovvio che altri, dopo o accanto a lui, non se ne accorgano neanche piú:

Gli anni di Petrolio sono gli stessi dell' Arcobaleno della gravità di Pynchon, per fare un esempio, o dell' Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, per farne un altro. Non c'è nulla, in queste opere cosí vaste ed ambiziose, che faccia minimamente sospettare la consapevolezza di essere, in qualche modo, un finale di partita. Finché è durata, la modernità ha convinto tutti di essere eterna. Ogni generazione alzava l'asticella, come un saltatore che si mette alla prova, e trovava la maniera di scavalcarla. Poi, all'improvviso, proprio nel periodo in cui lo scartafaccio di Petrolio aspetta nell'ombra il suo momento, questa prodigiosa macchina si arresta - forse per sempre. Non che la letteratura «muoia», come da piú di cent'anni si sperava o si temeva (o tutte e due le cose insieme). Rimane - ahimè - piú viva e vegeta che mai: se mai restringe drasticamente, una volta per tutte, le sue potenzialità e le sue prerogative. Questo ridimensionamento non va necessariamente e in ogni caso inteso come una decadenza. Fatto sta che a metà degli anni Ottanta, lo scrittore piú significativo della sua epoca è sicuramente Raymond Carver. Artista tutt'altro che modesto, autore di racconti indimenticabili come Cattedrale, Carver rappresenta alla perfezione lo straordinario cambiamento che si è verificato. Nei suoi libri, noi assistiamo allo sconcertante spettacolo di una letteratura che non pensa piú nulla. L'unico compito che lo scrittore si assegna è quello di essere uno storyteller.

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Pagina 382

Ma - per meglio delimitare il campo dell'osservazione agli occhi di chi ci segue, e cioè l'eterno, anche se ormai un po' disincantato, lettore di cose letterarie - di chi stiamo parlando? Stiamo parlando per ora - per arrivare ad una specificità ancora maggiore - soltanto degli scrittori, anzi dei narratori, nati nel corso del decennio '60, e cioè fra il 1960 e il 1969, riservando a quelli venuti piú tardi la trattazione successiva. E piú precisamente di chi? Non posso fare, come ho già detto, discriminazioni di qualità. Utilizzo invece, prevalentemente, quelli che riesco a collocare meglio nel filo del mio discorso. E sono:
    Franco Arminio (1960),
    Marcello Fois (1960),
    Margaret Mazzantini (1961),
    Andrea Canobbio (1962),
    Tommaso Pincio (1963),
    Tiziano Scarpa (1963),
    Luigi Guarnieri (1962),
    Diego De Silva (1964),
    Edoardo Nesi (1964),
    Francesco Piccolo (1964),
    Mauro Covacich (1965),
    Giuseppe Culicchia (1965),
    Niccolò Ammaniti (1966),
    Melania Mazzucco (1966),
    Antonio Pascale (1966),
    Giorgio Falco (1967),
    Aldo Nove (1967),
    Antonio Scurati (1969).

A questi io assimilerei, per vari motivi, Sandro Veronesi (che del resto è del 1959, una manciata di mesi prima dei primi degli altri). Carlo Lucarelli (1960) e Gianrico Carofiglio (1961), che hanno scelto senza remore la strada dell'invenzione di «massa» e di «successo», cadono perciò un po' fuori del nostro discorso (ma questo non significa, come vedremo, che siano irrilevanti). I Wu Ming richiedono una trattazione a parte, di cui mi occuperò in seguito.


Qualche osservazione di massima si può cominciare a fare. Ognuno di loro, come ormai abbiamo ripetuto a sazietà, racconta storie che difficilmente hanno tratti comuni con quelle di tutti gli altri. Domina dunque un atomismo individualistico, che fa riferimento peraltro - ma, direi, senza alcuna connessione necessitante - a tratti specifici dell'Italia contemporanea (l'Irpinia isolata e desolata di Arminio, la Ciociaria povera ed emigrante e la Roma piccolo-borghese e borghese di Mazzucco, la Sardegna archetipica di Fois, la Caserta «piccolo mondo antico» di Piccolo, la Prato industrial-operaia di Nesi, la Napoli sfrangiata e protestataria di De Silva e Pascale, la Trieste inedita e consumata di Covacich, ecc. ecc.), senza però che questi arrivino a costruire intorno al protagonista e ai personaggi poco piú che un abbozzo di tessuto sociale.

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Pagina 387

6.2. Il disagio va piú a fondo, ignora gli argini delle convenienze, irrompe nel vissuto quotidiano e vi sparge immondizia e malvagità (ma sempre con una punta di derisione...)


Dal giovanile universo cannibalesco (e persino pre-cannibalesco) - Branchie (1994) e Fango (1996) - Niccolò Ammaniti ricava una serie di spunti per motivare piú in profondità - molto piú in profondità - la sua personale rottura rispetto a gran parte degli schemi precedenti: Io non ho paura (2001), Io e te (2010). Ne fanno parte: la discesa nel limbo (se non agli inferi) dei perdenti; la sussunzione di linguaggi diretti, fra turpiloquio e bestemmia, frutto di un'oralità turgida e primitiva; la pratica di uno stile prensile, immediato, fagocitante, che non lascia scampo né alle sospensioni di giudizio né - come si diceva una volta - alle bellurie complici di una riserva mentale e sentimentale «mitigante». E però... E però, come ho scritto recentemente, «Ammaniti ci fa vedere tutto: ma contemporaneamente ci fa un cenno con la testa: sí, è tutto vero ma, badate, bisogna che guardiate meglio. Se lo farete, vi accorgerete che io, oltre a raccontare, sono anche capace di scherzare e, se necessario, di prendervi un poco in giro. È per questo che ci so fare sul serio...». Tale notazione serve a far capire che in questi scrittori c'è spesso un doppio occhio - quello dichiarato e quello che guarda l'altro -, il quale pretende anche da parte del lettore un doppio occhio, quello che guarda e legge la storia e quello che guarda chi guarda e legge la storia. Le presenti difficoltà di lettura - di cui Ammaniti, come abbiamo visto, prende consapevolmente atto - si spiegano perché niente, o quasi niente, è davvero come sembra, e che quel che sembra spesso assume, anche di fatto, una realtà autonoma rispetto a ciò che è.

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Pagina 388

6.3. Il disagio entra nella mente e nel sesso, si fa corpo e anima, non ce se ne può liberare ma ci si può convivere.


Pietro Paladini, un benestante funzionario di industria, di quarantatre anni, vedovo, e con una figlia poco piú che decenne (Claudia), è il protagonista di Caos calmo (2005) di Sandro Veronesi. Lingua perfetta (non si è toscani a caso, nel bene e nel male), atteggiamento riflessivo, concentrato ma nonostante tutto volutamente incerto, ovvero problematico per la perdita di ogni sicurezza. Veronesi deposita le sue parole si direbbe l'una dietro l'altra, con cura e con calma (appunto), allo scopo di ottenere che in quella storia individuale - estremamente individuale - qualcosa si rifletta del disagio collettivo. Ci riesce? È Veronesi, non il lettore, non io, a colmare la sua storia di interrogativi non risolti. Qui il disagio si dirama in molte direzioni, investe personaggi di varia natura e «responsabilità». La domanda che ponevo non riguarda la qualità dell'opera: riguarda l'incertezza del momento, che è il vero tema del libro. Veronesi ne rappresenta gli svolgimenti e gli esiti finali, che non sono completamente negativi. Tutto sommato, di fronte al rischio che il magma prevalga, lui ci propone una soluzione moderatamente equilibrata (ma secondo lui non compromissoria).

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Pagina 390

Tiriamo un po' di somme. L'individualismo molecolare, che caratterizza questa fase di rinnovamento e di assestamento della nostra narrativa piú recente, sbarra la strada a tentativi piú impegnativi ma l'apre ad un narrare diffuso, ricco di potenzialità. Non tutti ne approfittano, ma alcuni sí. Padri di padri (1997) di Andrea Canobbio affonda lo sguardo in un universo familiare, al tempo stesso consueto e ignoto, per arrivare a concludere che, alla fine, la riscoperta degli affetti, perseguita e raggiunta anche con una buona dose di fatica e di dolore, qualche chance ancora la offre. I racconti - ma legati da un filo comune - de L'ubicazione del bene (2009) (bellissimo titolo, se non altro) di Giorgio Falco rappresentano altrettante stazioni di un percorso che vede dispiegarsi l'una dietro l'altra vite squallide, ma non perdute. C'è, insomma, una sorta di esplorazione permanente, che, anche quando si risolve, come spesso accade, in se stessa, dà qualche risposta di metodo, se non di sostanza, agli spettatori del dramma, che poi saremmo noi, lettori, e al tempo stesso potenziali protagonisti di questi libri.

Osservo che, come non c'è questione sociale e non c'è questione politica, e quindi non c'è satira, cosí in questi racconti della nostra Italia di oggi non c'è - pressoché mai - tragedia. Non sarei in grado di citare un solo racconto o romanzo che, per dirla in parole povere, finisca veramente «male». Come mai? Una risposta banale (ma non del tutto infondata) potrebbe essere che un pubblico sempre piú di massa non vuole che le «storie» - non solo quelle dei libri, ma anche quelle vere, reali - finiscano male (poi, in realtà, finiscono spesso male, come sappiamo: ma in molti casi tutti, o quasi, preferiscono far finta che non sia cosí). Ma soprattutto (soprattutto, soprattutto!) non c'è in giro neanche un grano di follia - quella follia senza la quale i tabú non vengono violati e la conoscenza non può spingersi oltre certi confini, quelli già noti da tempo. Ancora una conferma: siccome non c'è questione sociale e non c'è questione politica, e (di conseguenza, direi) non ci sono né satira né tragedia, né follia, è piú facile per il disagio individuale (di cui abbiamo finora parlato) occupare indisturbato, e senza traumi rilevanti, il posto centrale che questo modo e questa finalità del narrare attualmente ci propongono.

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Pagina 402

Gomorra (2006), sottotitolo: Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra, di Roberto Saviano, rappresenta una smentita ad alcune delle mie tesi dominanti - è un libro intriso di analisi sociale e di denuncia politica -, e al tempo stesso una loro clamorosa conferma: costituisce infatti, piú che un'eccezione, un unicum nel panorama finora delineato; non è stato preceduto né, soprattutto, accompagnato e seguito da tentativi consimili. E gli unica, si sa, vanno trattati con un certo rispetto.

Come spiega abbastanza esaustivamente il sottotitolo già richiamato, Gomorra - il luogo dove tutte le turpitudini e le bestialità si ammassano e s'intrecciano - è il frutto di un lungo lavorio d'inchiesta nelle zone storiche della camorra napoletana e campana. Non potrebbe esserci tematica - e testimonianza - piú rispondente all'insorgenza di quell'«anormalità», che, secondo la mia proposta, contraddistinguerebbe alcuni autori e alcuni aspetti della narrativa di questa prima decade del millennio. Solo che Saviano, anche in questo isolato e unico, invece di rintracciare questa anormalità nelle devianze individuali dei protagonisti e dei personaggi, la trasforma nel dato dominante di una grande storia collettiva.

Attenzione, però. Tutto ciò si potrebbe dire anche di un importante reportage giornalistico. La mia tesi è che Gomorra, pur non perdendo nulla della carica informativa e di denuncia che caratterizza una raccolta di buoni articoli giornalistici, è al tempo stesso qualcosa di diverso - e di piú. Come è potuto accadere? Attiro l'attenzione sulla vera e propria carica visionaria, che attraversa dall'inizio alla fine tutto il libro. Saviano non si limita prima a documentarsi e poi a narrare: ricostruisce «quello che sa» in una specie di visione d'inferno, in cui tutto è vero, ma, anche se non lo fosse, sarebbe come se lo fosse - anzi, in un certo senso, ancora di piú. Non è un caso che Saviano, diversamente anche in questo caso dalla maggior parte degli «ultimi», chiami in causa esplicitamente uno dei suoi numi tutelari, che è (ovviamente, direi, in questo contesto) Pier Paolo Pasolini: «Mi persi [...] Ma dopo aver vagato inutilmente riuscii a raggiungere via Valvasone [a Casarsa, in Friuli], il cimitero dov'è sepolto Pasolini e tutta la sua famiglia. Sulla sinistra, poco dopo l'ingresso, c'era un'aiuola di terra nuda. Mi avvicinai a questo quadrato con al centro due lastre di marmo bianco, piccole, e vidi la tomba. "Pier Paolo Pasolini (1922-1975)". Al fianco, poco piú in là, quella della madre. Mi sembrò di esser meno solo, e li iniziai a biascicare la mia rabbia, con i pugni stretti sino a far entrare le unghie nella carne del palmo. Iniziai a articolare il mio io so, l'io so del mio tempo».

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11. «Scrittori e massa»: 2015-1965.


Questo non è un discorso conclusivo: è uno sguardo rivolto al passato. Chi compie un'operazione del genere - e posso assicurare che da un certo momento in poi della propria storia essa diviene sempre piú frequente - si espone al rischio duplice della recriminazione e della nostalgia, che io vorrei evitare a tutti i costi. Tuttavia i cinquant'anni trascorsi - passati in un battibaleno - qualche riflessione consentono e, spero, autorizzano. Non un insegnamento, per carità! - ma qualche riflessione sí, se non erro. Nel 1988, quando licenziavo la prima edizione einaudiana di Scrittori e popolo, chiamavo in causa, per giustificare quella ripresentazione (in fondo erano passati poco piú di vent'anni dalla prima pubblicazione, e tutto già allora sembrava ed era cambiato), le Considerazioni inattuali di Friedrich Nietzsche. Era il facile espediente, con cui tutto - anche la ripresentazione di oggi, cosí piú lontana nel tempo - si vorrebbe e potrebbe giustificare. I «minoritari» - «minoritari» per scelta o per natura, ossia, nell'uno come nell'altro caso, per sempre - hanno avuto questa grande risorsa a disposizione: di considerarsi «attuali», in deroga a tutte le convenzioni e i pregiudizi dominanti, proprio in quanto «inattuali». Non vorrei inscrivere il mio «sguardo al passato» all'interno di questa categoria - o «forma mentis». Piuttosto, in un'amichevole riflessione su ciò che abbiamo - o pensiamo di avere - e su ciò che ci manca.


La moltitudine di libri di narrativa, e quella, minore in termini assoluti, ma in termini relativi rivaleggiante con l'altra, di libri di poesia, testimonia (al di là delle occasioni socio-economiche e editoriali) un bisogno di dirsi, che travalica ogni impedimento e ogni steccato. Si tratta di un bisogno autonomo ed endogeno, che scaturisce dall'essenza stessa del fatto letterario, o deriva dalla scarsa, in taluni casi scarsissima, possibilità di dirsi in altri campi e con altri linguaggi? Le due cose insieme, probabilmente, come spesso capita in casi del genere. La straordinaria diffusione del «letterario» - che, se fosse sottoposta a un'indagine piú sistematica, si allargherebbe ad altri campi, che io non ho neanche toccato (dal fumetto alla televisione) - assume però spesso le sembianze di una macchia d'olio che si espande indiscriminatamente, senza sapersi e conoscersi, cammin facendo. Questo non è sempre vero - ho fornito alcuni esempi lampanti del contrario - ma è spesso vero: e comunque si ha l'impressione che anche queste sortite illuminanti e autoilluminanti vengano presto sommerse dall'onda irresistibile che sopravviene, tant'è vero che poco se ne parla; e assai rapidamente, quando accade che se ne parli, si smette di parlarne. Cos'è che impedisce al movimento di arrestarsi qui e là, e anche solo per qualche istante, per riuscire a dire, e a dirsi, ciò che sta accadendo?


Difficile immaginare una risposta a questa domanda, se, come io penso, è l'atomismo individualistico - come ho piú volte accennato - a dominare il contesto culturale (o ovviamente politico), salvo che poi, nelle grandi linee, è invece dominante il comando esterno di potenze che appaiono irraggiungibili e non sanzionabili, e spesso anche difficilmente conoscibili. E però non c'è altra scelta. In letteratura, come in qualsiasi altra operazione storica umana, non c'è disvelamento della verità senza conflitto. Solo l'«opposizione» - mentale, s'intende, non politica, e cioè euristica, interpretativa e... formale - consente il disvelamento delle apparenze e l'emergere dei tratti piú nuovi del reale - e del pensiero. C'è bisogno di fare degli esempi? Se non ci fossero stati opposizione, distinzione e conflitto, dove avrebbero tirato fuori le forze per dipingere a nuovo il mondo Kafka e Joyce, il primo Mann e Benn, Svevo e Gadda, fino a Pasolini e Calvino? Se non c'è conflitto, non c'è pensiero nuovo; e se non c'è pensiero nuovo non c'è nuova rappresentazione - il mondo resta una veste esteriore che ricopre a stento sempre le vecchie apparenze.

Ma, attenzione: il conflitto è il contrario del «nuovismo». Non c'è conflitto, se la contrapposizione e la sfida al nuovo (la sfida del nuovo) non s'innestano sulla consapevolezza piú elevata e complessa possibile di quanto, nel merito, è stato compiuto nei decenni (nei secoli...) passati. Come mai? Ma perché è un'illusione, destinata a svanire tragicamente - o piú spesso comicamente - in tutti i campi, che il presente basti a se stesso. Le «storie di storie» possono essere centomila - su questo non c'è dubbio - e possono per giunta - questo lo riconosco - essere tutte diverse fra loro, ma non essercene neanche una che intacchi poco piú dell'ingannevole superficie del magma. Il conflitto prevede una lunga educazione, e uno sguardo in grado di sfuggire in tutte le direzioni al presente: non solo al presente storico, ma al presente in tutti i sensi - in tutti i sensi, ma soprattutto come assenza di controllo orizzontale sulla propria vita; sulla propria vita, e, se si è scrittori, su quella di tutti gli altri attraverso la parola. Solo ciò che è «fuori misura», solo ciò che è «smisurato», può pretendere di generare nuova letteratura - grande letteratura (I. Calvino).

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