Copertina
Autore Claudia Attimonelli
Titolo Techno: ritmi afrofuturisti
EdizioneMeltemi, Roma, 2008, Melusine 78 , pag. 240, cop.fle., dim. 12x19x2 cm , Isbn 978-88-8353-643-4
LettoreLuca Vita, 2009
Classe musica , semiotica
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Indice


  7 Ringraziamenti

  8 Introduzione
    L'arte dei rumori

  9 Ricorrenti problemi terminologici:
    dall'underground al mainstream
 16 "Ragazza Myspace":
    oggetti superficiali o oggetti sottoculturali?
 32 Dalla disco al northern soul: l'aura del cool
 39 House
 43 Techno


 51 Capitolo primo
    Le città, i luoghi, i generi

 51 Architetture urbane digitali
 64 Ritmi discordi e discorientanti
 66 Chicago 1979: razzismo e omofobia
 75 God Save the Disco!
 81 Urhouse music, Chicago
 88 Dancing the body electric
 99 Mind the Gap: il suono house sbarca in Inghilterra
104 Techno, Detroit
108 Afrofuturismo: black sci-fi e diaspora afroamericana
126 Techno rebel
144 Diaspora afrofuturista a Berlino
150 Rave: un Luna Park Traumatico


160 Capitolo secondo
    I millepiani della techno

160 "When you cut the groove": strutture
170 Un poco di tempo allo stato puro:
    Proust, paesaggi sonori e ritmi
173 Ripetizione
18o Artefatti e vascelli perduti
184 Techno transgender music e sensualità


190 Capitolo terzo
    Il futuro immaginato: distopie, erotismo, tecnologia

190 Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
200 Fascino, fascismo, feticismo: Dopplereffekt
210 The Second Summer of love: dell'amore e dell'ecstasy
216 Drexciya, l'ultima utopia techno-futurista


223 Bibliografia
233 Sitografia
234 Discografia
238 Filmografia


 

 

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Pagina 8

Introduzione

L'arte del rumori


Circa un secolo fa Russolo sosteneva, ne L'Arte dei Rumori (1913), che, in virtù del "moltiplicarsi delle macchine che collaborano dovunque con l'uomo" (p. 92), Si stesse sviluppando una complessa polifonia volta alla ricerca "di complicate successioni di accordi dissonanti" (p. 93). Se da questa evoluzione poteva esser colto impreparato un uomo del Settecento, il cui orecchio "non avrebbe potuto sopportare l'intensità disarmonica di certi accordi prodotti dalle nostre orchestre" (ib.), il futurista Luigi Russolo riteneva invece che il nostro orecchio se ne compiacesse, educato com'era ai rumori della vita moderna.

Sulla traccia di questa suggestione si delinea l'ipotesi di una educazione al suono: i pionieri della musica techno sarebbero nati udendo un'onda sonora che solo adesso avrebbe raggiunto le orecchie del mainstream. Muovendo da qui diviene interessante osservare le strutture paradigmatiche della techno, le sue matrici politiche e culturali e il suo universo visuale, secondo gli strumenti della sociosemiotica. Le neotribù metropolitane, gli artisti e i media costituiscono l'oggetto di studio privilegiato per la ridefinizione della cartografia urbana novecentesca, seguendo il filo rosso del panorama culturale connesso con gli stili e le espressioni musicali.

L'introduzione intende mostrare la cassetta degli attrezzi adoperati nel corso della ricerca, individuandone punti di forza e debolezza. Questa prima parte svolge anche il compito di ricostruire filologicamente le matrici della techno e i suoi antecedenti musicali, la disco-music, il northern soul e la house, con particolare riferimento alla genealogia dei loro nomi. Allo stesso tempo, ho cercato di non perdere mai le tracce della diaspora afroamericana da un lato, e del sorgere della scena gay dall'altro; entrambe le componenti, infatti, hanno incarnato, insieme a quella femminile, il paradigma dei paria della società, in cammino verso l'acquisizione dello status di outsider. Θ proprio in seno a questi gruppi che si sono formate, a latere della cultura ufficiale, le culture e le pratiche culturali elettroniche contemporanee.

Nell'intento di mettere in pratica il principio dell'alterità e della dialogicità quali modalità espressive e interpretative dell'intero studio, i piani di lettura sono eterogenei: il livello semiotico, sociologico e filosofico trovano nei riferimenti letterari, cinematografici e, naturalmente, musicali validi apparati su cui dispiegarsi. Lo stesso aneddoto e il ricordo personale concorrono alla comprensione delle dinamiche sociali, talvolta la soccorrono: in questo genere di indagini è sempre in agguato il rischio di isolare fenomeni sociali, connessi con stili musicali, in astratte gabbie analitiche.

Una tale molteplicità di percorsi interpretativi è irrinunciabile affinché dal magma molteplice dell'underground emergano delle forme riconoscibili.


Ricorrenti problemi terminologici: dall'underground al mainstream

In conclusione, signori, è meglio non far nulla! Meglio una cosciente inerzia! E dunque, evviva il sottosuolo! Sebben abbia detto che invidio l'uomo normale con tutto il mio livore, però nelle condizioni in cui lo vedo non vorrei scambiarmi con lui (pur senza cessare d'invidiarlo). No, no il sottosuolo è in ogni caso più vantaggioso. Qui almeno si può... Eh, ma io sto mentendo anche ora! Sto mentendo perché, lo so da me come due e due quattro, non è che sia meglio il sottosuolo, ma qualcosa d'altro, di tutt'altro, cui agogno ma che non potrò mai trovare in nessuna maniera. Al diavolo il sottosuolo (Dostoevskij 1864, pp. 58-59).

I Ricordi dal Sottosuolo sono stati pubblicati nel 1864, pertanto se sono citati non è per la loro prossimità all'epoca della musica elettronica, né per il loro contenuto. Cionondimeno le parole citate e le loro implicazioni, dal punto di vista linguistico e della poetica di cui si fanno portatrici, sono preziose e uniche. A chiarire il senso della loro insostituibilità interviene, da un lato, il loro valore semiotico – che emerge in maniera evidente se alla versione italiana dello scritto di Dostoevskij affianchiamo quella originale e quella inglese – e, dall'altro, l'intromissione dell'autore che svela importanti riferimenti. Il passo citato riproposto in inglese suona così: "No, no; anyway the underground life is more advantageous. (...) Damn underground!" (trad. ingl., p. 78).

A emergere, con una trasparenza del significante alla quale si associa l'immediata ambiguità del significato, è il termine underground, prima traduzione dell'italiano "sottosuolo" e del russo podpol. Nella lingua italiana, la parola "underground" ha però assunto un valore autonomo, tant'è che nessuno userebbe mai "sottosuolo" per indicare:

in musica, letteratura, arti, costumi (...) quelle manifestazioni di rottura con il sistema vigente, che, rifiutando i canali normali di informazione, si diffondono tra gli adepti senza essere conosciuti dal grande pubblico (DIR 1988).

Attualmente la valenza di questo termine inglese, che viene adottato anche da altre lingue, è sufficientemente nota, rendendo superflua e disorientante qualsiasi altra traduzione.

Intendiamo con underground, nelle arti, ciò che non è e non intende essere sponsorizzato categorialmente né pubblicamente; la sua accezione, se usata come aggettivo, è vicina al significato di indipendente. Non è a questo contesto che fa riferimento Dostoevskij nelle sue Notes from Underground, tuttavia risulta rilevante lo slittamento di senso cui è portato il lettore contemporaneo dinanzi al sintagma del titolo, così come di fronte alle diverse ripetizioni del vocabolo nel corso del testo. A testimonianza della prolificità dell'espressione nel tempo si parano in rete una gran quantità di siti che prendono il nome dal titolo del racconto, pur trattando oggetti diversi – dalla musica delle scene underground, agli artisti alternativi, alle riviste elettroniche sulle culture indipendenti.

Seguendo le tracce percorse da chi come noi ha avvertito la seduzione di questa parola, ci accostiamo lentamente al nostro tema, volto alla scoperta dell'universo del sottosuolo musicale elettronico e delle componenti sociali all'interno delle quali è nato. Lawrence (2003), ricostruendo la storia della dance music americana ricorda che il termine underground ha forgiato la sua identità quando alcuni afroamericani sfuggiti alla schiavitù cercarono salvezza nei sotterranei della rete ferroviaria – the Underground Railroad –, creando le basi per le connessioni clandestine durante la Rivoluzione americana e la guerra civile. Come vedremo, il sottosuolo strictu sensu è il luogo e l'humus nel quale si aprono i proto club notturni tra la prima e la seconda guerra mondiale a Parigi: realtà che, sin da subito, si sono configurate come antagoniste alla cultura ufficiale e pertanto esistenti sulla soglia della legalità e a tratti clandestine.

Il magazine americano «Village Voice», nato nel 1955, riportava come sottotitolo "The World's first Underground Newspaper"; si può dire che a metà degli anni Sessanta il termine fosse, benché poco usato, comunque conosciuto. Θ però con il movimento hippy e le controculture culminate nell'evento di Woodstock che la sua diffusione aumenta fino a emergere dall'underground in superficie, acquisendo le connotazioni che gli attribuiamo oggi.

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Pagina 32

Dalla disco al northern soul: l'aura del cool

Θ necessario partire dall'evoluzione del luogo di maggior consumo di dischi, la discoteca, per conoscere le culture elettroniche contemporanee. L'antecedente che incarna la maggior parte dei tratti distintivi del mondo disco è rintracciabile ai tempi del Terzo Reich in una fascia di giovani alternativi tedeschi che, mentre Hitler fondava la Hitlerjugend, si costituì nello Swing Jugend. Si trattava di ragazzi e ragazze non propriamente organizzati in un movimento, ma accomunati dalla passione per lo swing e per i ritmi vietati del jazz, che ascoltavano ad alto volume da grammofoni sistemati in locali scovati all'ultimo per feste clandestine dove il divertimento era lo sfrenarsi a suon di musica. Naturalmente questi eventi si accompagnavano a uno stile di vita giudicato promiscuo, perché nel ballo uomini e donne si trovavano particolarmente vicini, a uno stile vestimentario eccentrico e decisamente inviso ai nazisti, e, quel che era peggio, a una passione per una musica degenerata, composta e suonata da afroamericani e "diffusa dall'industria dei media dominata dagli ebrei" (Shapiro 2005, p. 22).

La repressione hitleriana della vita notturna tedesca si estese anche a quella parigina, durante l'occupazione nazista della capitale francese. All'inizio del 1940, i tedeschi giunti a Parigi si preoccuparono di chiudere tutti i nightclub dove si suonava il jazz, importato dai neri americani in seguito alla prima guerra mondiale, sull'onda del movimento primitivista e di quello della negritude. Durante la drammatica occupazione, molti neri fecero ritorno in America, mentre altri, tra cui Thelonious Monk e la danzatrice Josephine Baker, combatterono a fianco della resistenza francese. La vita notturna parigina, i suoi cabaret, jazz club e café chantant rappresentavano tutto quanto Hitler doveva eliminare.

C'erano tutti gli ingredienti con i quali i nazisti non volevano avere a che fare: americani, ebrei, neri, così misero tutto al bando facendo in modo che questa diventasse la musica ufficiale della resistenza nei club. Le discoteche ebbero inizio in questa atmosfera di illegalità, non erano tollerate dallo stato e non hanno mai perduto quell'appeal underground (Braunstein 1998).

La scena artistico-musicale iniziò dunque la sua storia letteralmente sotto terra, underground. Sia gli Swing Kids tedeschi che gli appassionati francesi di jazz subivano l'ostracismo dello Stato e della società: il primo per le ragioni politiche già citate, la seconda invece perché li giudicava degli scapestrati o degli snob edonisti (Shapiro 2005). Gli eventi notturni a cui questa gioventù prendeva parte sopravvissero esclusivamente in virtù del passaparola, di una lista segreta di persone all'ingresso, di una password e del continuo nomadismo delle locations. Sulla necessità inderogabile della segretezza, Quela Robinson osserva che da essa dipendeva la vita stessa dei frequentatori di questi eventi: "Quelli che oggi sono i biglietti d'ingresso nei club, nel 1941 sarebbero stati un biglietto di sola andata per i campi di concentramento".

Principiando dall'etimo stesso di discoteca, ci imbattiamo nel termine francese "bibliothéque", sulla cui falsariga è stato coniato "discothéque". Si deve all'apertura illegale nel 1941 di un vero e proprio locale, denominato Le Discothéque, a Parigi in rue Ruchette l'assunzione del termine per indicare qualsiasi night-club che, invece delle performance live dei musicisti, offriva un fonografo per suonare i dischi e un disc jokey per selezionarli. Questi primi locali raccoglievano partigiani, ballerini, musicisti e simpatizzanti della Resistenza; erano luoghi piccoli e raccolti, con una stretta pista da ballo e un sistema di amplificazione molto semplice (Braunstein 1998).

Con la fine dell'occupazione, la scena jazz ottenne un riconoscimento maggiore e, da alternativa, divenne quasi elitaria. Fiorirono così, successivamente anche in America, locali denominati Whiskey au Go-Go, dove ci si riuniva per ballare. In queste discoteche francesi avevano accesso in aree esclusive filosofi esistenzialisti, attrici e VIP.

Con il lancio da parte di Charlie Parker, Dizzie Gillespie e Thelonious Monk dei ritmi veloci del be-bop, da molti ritenuti incomprensibili, e l'atteggiamento cool inaugurato dai neri be-boppers (completi eleganti, occhiali scuri e linguaggio allusivo), si affacciava per la prima volta, idealmente, il concetto di IDM (Intelligent Dance Music); cinquanta anni dopo, tale sintagma sarà recuperato per distinguere la techno dozzinale da quella intellettuale eppure ballabile.

Si può dire che in questo clima si aprì la strada alla discoteca come la intendiamo oggi. All'era del divertimento giudicato illecito dalle autorità si andava sostituendo l'edonismo della proto disco gay degli anni Sessanta, col lancio dei primi ritmi soul e rhythm and blues.

Alla genealogia della discoteca ha contribuito in maniera essenziale anche lo sviluppo della tecnologia dei supporti musicali. La stessa storia del vinile, la sua aura e le discussioni che ha innescato sono di sommo interesse. Nel contesto fin qui esplorato della nascente scena dance è sufficiente asserire che tale oggetto, da simbolo dell'inautenticità, passa a status di opera, "è l'originale" (Fabbri 1996, p. 37) con cui si misurano le conoscenze musicali, il capitale sottoculturale dei giovani che discutono di musica, così come dei dj che collezionano rarità discografiche.

Con l'avvento del disco cambia inesorabilmente anche lo scenario radiofonico: nei primi anni Quaranta la radio diventa lo strumento principale di diffusione della musica e delle novità discografiche. Anche questo ambiente è attraversato da episodi xenofobi e di censura, il più noto dei quali riguarda la messa al bando delle musiche nere in America dalle emittenti ufficiali e la loro conseguente segregazione, ristretta alle produzioni definite race records; tale denominazione viene abbandonata nel 1947 a favore di "rhythm and Blues" o "R&B" (Spaziante 2000).

I dischi etnici, puntualmente rifiutati dai bianchi proprietari di emittenti, i quali talvolta ritengono di non dover trasmettere nemmeno alcuna musica italiana, confluiscono pertanto, in maniera del tutto naturale, nella selezione del juke box. Diretto erede del fonografo di Edison, il juke box è il primo strumento di distribuzione indipendente della musica di origine black su grande scala: funziona a gettoni e sostituisce ben presto la funzione del fonografo, pensato per un uso domestico; il juke box favorisce nell'immediato l'ascolto dei dischi in pubblico.

Sebbene siano in circolazione sin dagli anni Trenta, in Gran Bretagna i locali si dotano capillarmente di juke box solo a partire dai Cinquanta. Il nome di questo strumento deriva dal verbo to juke o to jook, che sta a indicare, in gergo afroamericano, il movimento pelvico compiuto dal corpo sia nel ballo sia nell'atto sessuale ed è indicativo, come fa notare la Thornton, del portato simbolico con cui il juke box si è presentato, sin dalla sua comparsa, sul mercato. Lo svago promesso dal ballo dopo la settimana lavorativa diviene sempre più appetibile; è sufficiente pensare che, se inizialmente le discothéques aprono a Parigi qualche altra sede oltre a quella originaria, sul finire degli anni Sessanta in America se ne contano già migliaia.

Per un verso, il juke box e, per l'altro, la radio – anche nella forma delle emittenti illegali, le radio pirata – stabiliscono la consuetudine di trasmettere e favorire la vendita di dischi afroamericani e finiscono per sollecitare la gente alla frequentazione dei locali dove quella stessa musica è proposta. Θ in quel periodo che si fanno strada le prime ibridazioni di generi musicali diversi, dalle quali sono nati poi stili distinti fra loro. La Robinson fa notare che:

Il suono dell'R&B anni Cinquanta aveva legami molto tenui con la disco però l'enfasi sulla narratività del cantato, i temi spensierati e le sperimentazioni con la struttura del blues sarebbero stati mantenuti per i futuri 30 anni.

La connessione tra R&B e disco music non passa però solamente per queste caratteristiche di tipo musicologico; la più importante e produttiva dal punto di vista delle contaminazioni sociosemiotiche è rappresentata dal culto del collezionismo e dell'archiviazione. Il fenomeno e le sue derive, studiati anche da Benjamin (1955), nello scritto del '37 su Fuchs e il collezionismo storico, evidenzia bene come la propensione a collezionare opere – in questo caso dischi – favorisca il culto degli oggetti collezionati e trasferisca su di essi un'aura di autenticità attribuita agli autori dell'opera posseduta dal collezionista.

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Pagina 43

Techno

Con la techno l'interesse mostrato per le esplorazioni delle possibilità non musicali dei media tecnologici raggiunge il suo apice; nel 1991 gli Underground Resistance portano a segno un nuovo attacco alle consuete tecniche di vendita sul mercato discografico: sotto lo pseudonimo di X-101 esce .cor Sonic Destroyer. Il vinile è costituito da solchi che non seguono la normale conformazione concentrica e centripeta, bensì la stravolgono costringendo la puntina a inaspettati e incredibili percorsi, dovuti all'improvviso raggruppamento e concentrazione di solchi iniziali che poi, diradandosi, fanno eseguire al braccio del giradischi evoluzioni a spirale. Un disco talmente alterato rispetto alla sua conformazione naturale – come suggerisce Mills – non fa che contribuire alla tesi che gli UR intendono sostenere: vale la pena di prestare attenzione a quanto si ascolta e a come i mezzi e i discorsi testuali si possano ribaltare, non seguendo più il corso prestabilito o normalmente previsto. Naturalmente dischi così sono destinati a divenire feticci per i fan europei. L'uscita successiva degli UR è firmata solo da Jeff Mills, che inizia la sua produzione da solista remixando The Punisher, otterrà un successo riconosciutogli in tutto il pianeta Terra.

Gli inospitali anelli di Saturno e i mondi lontani cui anelano gli UR, e in generale gli artisti a loro vicini, sono senza dubbio parte di un'iconografia derivata dall'afrofuturismo, che scorge nell'attrazione verso lo spazio la realizzazione del desiderio profondo di fuggire dalla realtà di Detroit: vacancy, demolition, burning, construction.

In quest'ottica va ascoltato il concept-album siglato X-102, Discovers the Rings of Saturn (1992), dalle sonorità dure e inumane, decisamente lontane dalla techno più eterea delle future produzioni. Vista l'ispirazione legata a Saturno, i solchi del vinile sono "disposti in modo da corrispondere alla larghezza relativa degli anelli e alla distanza tra di essi" (Reynolds 1998, p. 252); nella copertina interna, un Saturno rossastro di cui si vede solo la metà è attorniato da ipotesi circa la misteriosa natura degli anelli.

Nella techno è considerato da molti artisti un privilegio quello di poter seguire, nei laboratori dove vengono prodotti i dischi, tutte le fasi, sino alla post-produzione. Così avveniva ad esempio nel laboratorio di incisione Sound Enterprise, a Wayne, nel Michigan, di proprietà di Ron Murphy (1948-2008), il quale, a dispetto dei tempi e dei criteri di velocità imposti dal mercato, ha continuato a offrire un lavoro artigianale fino alla fine dei suoi giorni. La Sound Enterprise – prima del 1989 denominata National Sound Corporation – attirò l'attenzione dei pionieri della techno di Detroit: Juan Atkins, Derrick May e Jeff Mills.

Quando ho messo su lo studio era l'epoca dell'R&B e del soul (...) in un certo senso la techno è la stessa cosa. (...) Quando vennero questi ragazzi erano in grado di tirar fuori il suono che volevano (Sicko 1999, p. 159).

La strumentazione adottata da Murphy sin dagli albori della techno ha conferito al sound di Detroit quella specificità udibile nel confronto con le produzioni effettuate in altri studi, ripagando gli sforzi dei primi musicisti techno con il conferimento di una sorta di alone mistico alla loro musica. Murphy era dell'idea che a questo risultato contribuissero l'unicità e l'antichità dell'equipaggiamento adottato nel suo studio, tale da cifrare il sound con dei tratti che lo distingueranno sottilmente dagli altri. Murphy sostenne anche la diffusione dei messaggi politici dell'Underground Resistance, così come della Plus 8, "suggerendo che [i messaggi] fossero iscritti direttamente nei solchi esterni dei dischi" (ib.).

L'operato del proprietario della Sound Enterprise è stato inestimabile nel mondo della techno; alla sua morte sono comparsi ovunque nel web tributi in suo onore, fra i quali un sito e un myspace che ne ripercorrono le tappe. Il procedimento e la passione di Murphy hanno suscitato interesse in sé, in quanto metalinguaggio, piuttosto che intorno alla musica prodotta. Il riconoscimento del suo lavoro avveniva di volta in volta da parte degli stessi artisti; Octave One, intervistato sul suo grado di soddisfazione per il risultato delle fasi di produzione discografica, ha detto:

Con Ron (Murphy), ti senti veramente parte del processo — insegnava alla gente come lavorare i propri dischi. (...) E assistevi al momento in cui il disco veniva stampato... è una cosa quasi spirituale (p. 160).

La descrizione del misticismo di questo momento riconduce al senso dell'aura dell'opera d'arte, colta nell'attimo in cui si stabilisce la sua unicità, attimo che, nel caso del disco, dura il tempo della prima incisione, sfuggendo alla logica della riproducibilità solo in quegli istanti durante i quali si decide quali tagli effettuare, come far suonare i dischi e in che direzione farli girare (alcuni dischi della UR, per opera di Murphy, infatti, giravano al contrario, cioè erano centrifughi).

Fra le sue innovazioni va annoverata anche quella per la quale i dj gli saranno sempre grati: il locked groove, un loop concluso in un disco che suona all'infinito.

L'ipertrofia nominalista, sfruttando il potere che possiede il nome nell'inverare le cose, agì sulla techno in modo diverso dalla house. Non ci furono dubbi su come chiamare il nuovo sound di Detroit; semmai il problema sorse quando la techno sembrò sfuggire di mano ai suoi propulsori, per finire sulla copertina di un'uscita discografica di due ragazzetti caucasici che con i pionieri black non avevano nulla a che spartire.

Ma di questa storia ci occuperemo in seguito. Per il momento soffermiamoci ancora sull'eccesso di nominalismo che caratterizza la techno-scene e che è capace di suscitare frustrazione o sarcasmo allorché eccede nell'esoterismo. In un articolo di Gholz (2005) apparso su «metrotimes.com» si mette in ridicolo questa attitudine (per ovvie ragioni leggiamo direttamente dall'inglese il brano incriminato dall'autore del pezzo):

"I thought that knarzy rockno was the deepest shit when I heard it last November, but now it sounds just like IDM from '99 played at 120 BPMs". Che diavolo significa, ti chiederai? Bene, ecco la traduzione: "That German stuff that sounded so good last year now sounds like old progressive rock played too fast".

Gholz ritiene, non senza un certo sarcasmo, che il glossario dell'elettronica si compiaccia del fatto di essere parte di una "music culture" che, come tale, vada vissuta e non necessariamente compresa.

I nomi dei generi musicali cui abbiamo fatto riferimento non sono altro che marchi, o lo diventano una volta pronunciati.

Scrivere "tekno" in un flyer significa evocare un preciso genere di "techno": la differenza è raccontata dalla consonante "k" ed è riservata a chi ne conosce l'uso. Sfogliare i dischi in un negozio specializzato in musica elettronica può costituire un disarmante momento di umiliazione personale allorché ci si accorge di stare scartando una serie di vinili dalla copertina completamente bianca, dal centrino assolutamente bianco, dove solo micro segni, a parte l'adesivo che indica il prezzo bianco su nero, cifrano l'oggetto misterioso misurandone il valore. Sono i preziosi white label, il cui possesso stabilisce il capitale sottoculturale del proprietario.

Certamente Benjamin non poteva immaginare l'evoluzione che un concetto come quello di unicità, nell'epoca della riproducibilita digitale, avrebbe conosciuto. Infatti, il vinile, sebbene riprodotto, acquisisce il valore dell'aura digitale nel possesso: il fatto di avere acquistato un disco che sono in pochi a conoscere, possedere e suonare diviene di per sé parte dello charme di cui alcune merci sono circonfuse.

L'ipotesi avanzata dalla Thornton, secondo la quale l'aura benjaminiana dell'oggetto d'arte è stata sostituita dalla presenza fisica dell'artista che performa – nel nostro caso il dj –, presenta delle affinità con le riflessioni di Benjamin quando, riferendosi al ritratto fotografico e alla sua esponibilità, afferma che in esso risiede l'ultimo barlume di aura, emanato "per l'ultima volta dalla fugace espressione di un volto umano riprodotta dalle fotografie" (Benjamin 1955, p. 28). La scomparsa del valore cultuale nel mondo della riproducibilità tecnica, dunque, non è assoluta; il residuo resistente è costituito, secondo il filosofo tedesco, dal volto dell'uomo fermato in una fotografia. Questa posizione trova conferme nella sottrazione del volto e della presenza fisica che i primi dj della techno hanno sostenuto con fermezza. In passato di un dj era più facile conoscere il nome e le produzioni che non il volto, ma dalla fine degli anni Novanta questa tendenza si è invertita, per seguire il meccanismo dello star system che vuole un volto sulla copertina del disco o sui manifesti che pubblicizzano un dj/live set. Di recente il perseguimento dell'invisibilità è stato ampiamente sfatato da una diffusione maniacale e feticista del volto e del corpo del/la dj: dal web ai booklet, sino ai flyers delle serate.

Come risultato si è ottenuto, per un verso, l'incremento dello charme emanato dall'espressione fuggevole dell'immagine, per l'altro, la fine della ricerca perseguita quasi ossessivamente da molti dj della scena techno, i quali avevano teorizzato l'ostensione della propria musica e non della propria immagine.

Ormai non è più così difficile trovare fotografie di Jeff Mills, ma di alcuni membri dell'Underground Resistance ne circolano un paio solamente, in cui comunque appaiono con il volto coperto; di James Stinton del progetto Drexciya ne gira solo una a bassa risoluzione.

Nello scritto benjaminiano su Fuchs e il collezionismo (1955) l'attenzione si concentra sull'idea di autenticità, attribuita ai pezzi da collezione; applicata al nostro discorso, la metafora diventa molto produttiva allorché si sostituisce l'aura dell'unicità con l'aura della rarità, legata al possesso di vinili quasi unici, i cui segni cifrati li rendono oggetti preziosi, autentici e da collezione. Secondo Eshun, teorico afrofuturista, tutto ciò ha a che fare con l'idea della scomparsa fantascientifica della techno: i produttori e i dj di questo genere musicale si sono posti agli antipodi della logica hip-hop della rappresentazione (reprezent), optando per la sparizione dalla strada, dal ghetto, dal bullismo. Invece di puntare sulla visibilità e sull'identità, hanno immaginato il proprio futuro nella scomparsa e nell'autoesclusione, che è anche esclusività. Θ così che nella scena techno, attraverso la capitalizzazione, di nomi, informazioni e conoscenze destinate a rimanere il più possibile di culto e ricercate, si fonda l'idea di coolness, lusso e riconoscimento.

Ogni tentativo di rendere la techno mainstream e alla portata di tutti l'avrebbe falsificata, poiché le pratiche di esclusività dei linguaggi sottoculturali, piuttosto che costituire motivo di mera ostentazione, si configurano, nelle stesse volontà di chi le attua, quale esercizio della prassi controculturale attraverso i discorsi.

Dall'atteggiamento diffidente nei confronti dei media, allorché questi tentano di diffondere e smerciare il bagaglio di informazioni riservate al grande pubblico, fino alla profusione di nomi di dj, gruppi, etichette, stili, locali, passando finanche per le strade dove essi si trovano, comprendiamo le strategie su cui si può basare la legittimazione di un genere musicale e la propria nel sentirsene parte.

Naturalmente questa prassi va scomparendo con la larga diffusione della digitalizzazione dei supporti; se prima era importante costruirsi una rete di conoscenze e un background cui attingere per immergersi nelle radici di certi movimenti musicali, attualmente è sufficiente, per i novelli della scena, atterrare sulle varie piattaforme del web e downloadare indifferentemente un brano di Model 500 o di Satoshi Tomiie, magari ignorandone il periodo di produzione e il luogo di provenienza.

Andrea Benedetti ha individuato una frontiera protettiva contro l'assimilazione della techno da parte del mainstream; essa consiste nella caratteristica che, sin dal principio, ha separato questo genere anche dalla house: la sua poliedrica inafferrabilità e il connubio profondo con il tecnologico, esperito attraverso la ricerca di rigore nel suono delle macchine.

La Techno più dell'House, quindi, era l'unica variante impazzita nel caos pianificato della fine degli anni Ottanta, un genere per sua natura mutevole e affascinante che sin dall'inizio aveva fatto diventare centrali elementi in passato considerati secondari (il ritmo) o addirittura facenti parte del mondo delle avanguardie (il rumore) (Benedetti 2006, pp. 150-151).

L'interesse mostrato per il tecnologico nella sua forma più immediata, i rumori della macchina resi suoni, decostruiti e ricostruiti per diventare tracce musicali così ritmate da muovere i corpi alla danza, sono l'essenza intorno alla quale si è creato l'immaginario della techno: una "marea senza ritorno, (...) devastante, struggente, disumana e romantica" (Mancassola 2005, p. 52).

Vorrei riportare qui di seguito una suggestiva evocazione elaborata da Bjirk, che Sicko cita nell'incipit al suo Techno Rebels; la musicista islandese, di ritorno da un lungo viaggio, descrive così le proprie sensazioni dinanzi al paesaggio:

Me ne andai a fare una passeggiata da sola e vidi che il ghiaccio si stava sciogliendo in campi di lava. Si sentiva solamente il chiacchiericcio del ghiaccio che produceva un'eco udibile per centinaia di miglia. Era buio pesto, le Luci del Nord giravano e sotto di loro c'era uno strato di pesanti nuvole. Riuscivo a vedere le luci di tutte le città della mia infanzia che si rispecchiavano nel riflesso delle nubi, con i campi di lava che scricchiolavano al di sotto. Era veramente techno... (Sicko 1999, p. 9).

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Pagina 210

The Second Summer of love: dell'amore e dell'ecstasy


                    Ascoltando, I want to be a machine, Ultravox!, 1978

            Non ho mai assunto sostanze (...),
            non ho nulla contro le droghe
            ma non capisco perché la gente (...)
            deve farsene così tanta per simulare il senso di euforia (May).


La città culla della techno, Detroit, e il suo nucleo fondatore non furono mai attraversati dalla scena rave né influenzati dall'estetica delle droghe; rigettando l'iconografia dello sballo, marcarono più volte la propria distanza da quel mondo: "non è necessario prendere una pasticca per sentire la funkyness" (May 1996).

L'ecstasy, demonizzata dai media e divinizzata come ostia religiosa dai suoi consumatori, ha svolto indubbiamente un ruolo di primo piano in certi ambienti, un ruolo ben evidenziato dallo studio di Reynolds sulla Generazione Ecstasy. Tuttavia, se si segue l'ermeneutica del puro ascolto, si può scindere la techno dall'assunzione di ecstasy.

Θ d'altra parte vero che il rave, come fenomeno di sparizione collettiva della durata variabile da una notte a tre giorni, si basa necessariamente sull'ausilio di sostanze psicoattive, che aumentano la resistenza fisica, così come accadeva decenni prima per i raduni dei mod a base di amfetamine. Ma il fenomeno del rave è limitato nel tempo e, a partire dagli anni Duemila, decisamente in calo; l'MDMA, attualmente tagliato con amfetaminici e/o medicine o direttamente sostituito da altre sostanze – anestetici scadenti e pericolosi ma più a buon mercato, come la ketamina –, oggi si può trovare in qualsiasi discoteca, club o party di lunga durata.

Melechi, cha ha analizzato gli effetti del fenomeno rave e dell'ecstasy nella gioventù inglese alla fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, ha delineato un profilo politico segnato dal thatcherismo, la cui influenza opprimente sulla società in genere, e sulla gioventù e le culture metropolitane in particolare, è stata così profonda da provocare un fiorire di neotribù sotterranee mai visto prima. La tensione verso l'escapismo, che vedeva in Ibiza un paradiso terrestre relativamente raggiungibile, così come la fuga nelle campagne inglesi più remote durante il fine settimana, furono segnali di una forma di reazione al sistema vigente non connotata dalla resistenza politicamente organizzata, bensì dalla logica del surrender. Arrendevolezza e abbandono furono, infatti, le mete perseguite dai giovani raver dell'Acid House, durante The Second Summer of Love.

I Rave diventarono un crocevia di subculture diverse (tra le tante: football, indie e traveller). L'ecstasy figurava indubbiamente come il catalizzatore di questo incontro (Melechi 1993, p. 36).

All'empatia generata dell'ecstasy si deve, ad esempio, ciò che con l'uso di mezzi legali o ufficiali non si è mai verificato né in Gran Bretagna né altrove: una tregua tra il violento mondo degli hooligan e le neotribù metropolitane. Reynolds, a questo proposito, racconta:

In coincidenza con la conversione all'ecstasy e alla musica house dei tifosi di calcio, nel biennio '91-'92 gli episodi di teppismo degli ultrà (...) raggiunsero in Gran Bretagna il livello più basso degli ultimi cinque anni (Reynolds 1998, p. 266).

L'atmosfera estatica, infatti, ha il pregio di eliminare, tramite il propagarsi di un diffuso senso di comunione con gli altri, gli atteggiamenti elitari tipici dell'ambiente del club, così come gli episodi di intolleranza e di violenza; l'ecstasy ha agito in questo caso, come detto da alcuni suoi sostenitori, da omeostasi sociale.

Per la stessa ragione, non sono in pochi a giudicare questa sostanza come una prigione del piacere, utile a dissipare le tensioni accumulate dallo sfruttamento del lavoro o dalla mancanza di un'occupazione.

Indubbiamente l'aspetto meno incoraggiante riguarda l'abuso che, come per ogni genere di dipendenza, altera l'effetto positivo ottenibile da assunzioni limitate; l'uso continuativo di MDMA ne attenua gli effetti empatici, cedendo il posto alla componente amfetaminica, responsabile, al contrario, dell'insorgenza di atteggiamenti paranoico-aggressivi. Questo spiega come mai le neotribù dedite al consumo reiterato di MDMA siano destinate a diventare nicchie di consumatori di sole amfetamine – speed –, con la relativa perdita dell'ingrediente ottimistico, generatore del sentimento empatico così vicino all'estasi sensoriale.

La sempre più comune assunzione di droghe sintetiche nella scena rave e nella club culture, o il compulsivo ricorso a farmaci a cui è affidata la risoluzione di ogni minimo disturbo, ha fatto riflettere diversi intellettuali sulla necessità sociale di implementare le proprie capacità intellettive, fisiche e sensoriali attraverso la chimica. Il concetto di "potenziamento delle prestazioni" (Caronia 1985, p. 98) suggerisce l'idea che in esso rientri il potenziamento farmacologico – dunque anche le droghe. Simili argomenti, negli anni Sessanta, furono alla base del dibattito fra scienziati intorno al cyborg.

La cybernetica, com'è noto, nacque nel '48 nell'ambito delle ricerche militari, per spiegare processi di autoregolamento e relativo feedback organico – anche protesi quali la bicicletta o gli occhiali aumentano e modificano le abilità umane, ma, non essendo integrate nei meccanismi di feedback dell'organismo, non ne alterano le funzioni. Fu lo scienziato americano Norbert Wiener a inventare l'espressione cybernetics per indicare la scienza delle macchine capaci di autoregolarsi: kybernò in greco significa, infatti, "pilotare" e "regolare". Leggiamo dall'introduzione di Braidotti al Manifesto Cyborg di Donna Haraway:

L'obiettivo della cibernetica è studiare l'interazione tra uomini e macchine tramite il meccanismo del feedback. Lo scienziato cybernetico viene anche chiamato cybernaut, e il luogo dove avviene l'incontro tra tecnica e comportamenti umani viene definito cyberspace (Braidotti 1995, p. 10).

L'inizio del dibattito fra scienziati intorno al cyborg, negli anni Sessanta, riguardava dunque proprio quello che è stato poi definito il potenziamento delle prestazioni. La storia è abbastanza nota: Clynes e Kline, due medici che studiavano la fisiologia degli astronauti per conto della NASA, introdussero per primi la nozione di cyborg (Clynes, Kline 1960), stante a indicare, a partire dal nome, l'unione di cybernetica e organismo umano. Nello specifico, le loro ricerche vertevano sull'introduzione di dispositivi di controllo autonomi che, intervenendo sui processi organici, potessero migliorare le prestazioni e la qualità di vita degli esseri umani nei lunghi viaggi nello spazio. Realisticamente queste ricerche presero la strada del consumo di stimolanti, che alteravano le funzioni psico-fisiche per meglio sopportare le missioni spaziali. Tuttavia il seme era stato lanciato: mescolare la biologia con l'ingegneria, la farmaceutica con la fisiologia.

Questa prospettiva rivela come l'emergere del cyborg sia legato alla dispersione e disseminazione della chimica farmaceutica nel corpo umano, prospettiva che nulla condivide con la vulgata della nozione di cyborg: netta distinzione fra ciò che è macchinico da ciò che è organico, così come vuole l'iconografia cyborg prostetica alla quale siamo abituati, da Terminator alla Donna Bionica, innesti di protesi metalliche o tecnologiche su esseri umani.

Sadie Plant ha chiamato "interfaccia chimica" e "tecnologia morbida e avanzata" gli strumenti che fanno ravvisare l'emergere del cyborg così disseminato. Dal momento che la chimica si disperde nel corpo modificandone strutture e funzioni, questo cyborg è molto più insidioso di quello che potremmo immaginare e, com'è facile intuire, questa visione è ben diversa dall'idea più mostruosa, ma anche meno realistica, del cyborg inteso come organismo fatto di carne e circuiti.

Nei suoi studi, la Plant ha messo in relazione l'offuscamento della dipendenza da sostanze legali come psicofarmaci e alcol, attuato da un sistema proibizionista che la sostituisce con l'invenzione della categoria del tossicodipendente, con l'offuscamento – negli anni Sessanta – dei risultati della ricerca di Clynes e Kline sul cyborg chimico in ambito militare, che ha favorito il proliferare della visione mostruosa del cyborg metallico. Da un lato ingabbiato nell'icona fantascientifica – il mostro e l'alieno – e, dall'altro, in quella accademica che, seguendo le teorie sul post-umano, lo rappresentava quale nuovo golem, in lotta tra il confine umano e quello inorganico, si accantonò la riflessione sui cyborg chimici. Questa, infatti, metteva in gioco equilibri funambolici fra sistemi e stati: rispettivamente, si trattava delle questioni relative alla naturalità del corpo non adulterato e al controllo internazionale sul traffico di stupefacenti, sugli interessi delle multinazionali farmaceutiche e sulle ricerche relative alle armi chimiche.

Attualmente il consumo di sostanze psicoattive e la dance music costituiscono una nuova traccia nello studio dell'evoluzione simbiotica tra uso delle droghe e fruizione della tecnologia (...), le droghe sono riconosciute come sistemi di comunicazione a tecnologia avanzata (Plant 1998).

La funzione di potenziamento delle capacità organiche è stata intravista da Pierre Lévy (1997), che, nella sua prefigurazione del "corpo fiammeggiante", scrive:

Il mio corpo individuale è la temporanea attualizzazione di un immenso ipercorpo ibrido, sociale tecnobiologico. Il corpo contemporaneo assomiglia a una fiamma. Spesso è minuscolo, isolato, separato, quasi immobile. In seguito esce fuori da sé, reso più intenso dalle pratiche sportive o dalle droghe (...). Si fonde così col corpo collettivo e brucia del medesimo calore (...). Un giorno, esso si stacca completamente dall'ipercorpo e si estingue (p. 23).

La visione del corpo fiammeggiante proposta da Lévy, così come l'interfaccia chimica descritta da Plant, illuminano alcuni lati oscuri delle due possibili prefigurazioni del cyborg nella letteratura sci-fi, e poi cyberpunk, e nella riflessione filosofica.

Una di esse delinea il mostro preconizzato cinematograficamente da Tetsuo, protagonista dell'omonimo film, che è il risultato dell'innesto di protesi meccaniche nel corpo soffice. A livello letterario, l'archetipo è già ravvisabile in un luogo recondito dell' Hamlet shakespeariano, figlio della filosofia proto-meccanicista rinascimentale, citato, a questo proposito, dal drammaturgo berlinese Heiner Muller nella pièce Hamletmaschine (1978), musicata e recitata dagli Einstόrzende Neubauten. Il titolo dell'opera tedesca allude all'episodio contenuto nel secondo atto del dramma dialettico seicentesco, allorché Ophelia riceve una lettera d'addio da parte di Hamlet, che si firma così:

    Adieu. Thine evermore, most dear Lady,
    whilst this Machine is to him, Hamlet.
    (Shakespeare Amleto, atto II, scena 2, vv. 122-123).

La sostituzione del termine "corpo" con quello di "macchina", proposta nel 1600 da Shakespeare, era del tutto naturale: il protomeccanicismo credeva nell'esistenza di un corpo simile a quello di una macchina le cui parti sono armonicamente funzionanti – concetto ben diverso dall'idea cartesiana della separazione tra res extensa e res cogitans, di poco successiva.

Quasi quattro secoli dopo, nella capitale della Germania socialista, Mόller riflette sul ruolo degli intellettuali e sull'etica dell'eroe del lavoro, considerandoli simili piuttosto all'etica dell'automa robotico – lo schiavo – e individua in un Hamlet-macchinico l'icona dell'intellettuale contemporaneo. Adottando la prospettiva filosofica del corpo grottesco bachtianiano, l'autore popola le sue pièce di figure mostruose e scarnificate come mutoidi, che recano i segni dell'avvenuta unione del corpo con la macchina, "mostri fatti di ferraglia e materiale umano" (Mόller 1978, p. 51).

Il filosofo russo Bachtin, interrompendo il canone letterario classico, secondo il quale il corpo umano è delimitato, chiuso, cioè perfettamente dato, come una macchina epurata da ogni traccia di imperfezione, nell'iconografia rabelaisiana descrive le dinamiche di quei corpi che aderiscono al senso del grottesco: tali dinamiche "si svolgono sempre al confine tra due corpi, meglio ancora, nel loro punto d'intersezione" (Bachtin 1965, p. 352).

Questo sarebbe il cyborg, un ibrido che "ha sollecitato l'immaginario, non solo della fantascienza, incorporando il ruolo del mostro" (Combi 2000, p. 119). Non si tratta propriamente dell' essere cyborg, quanto del divenirlo: è cyborg l'insieme di processi che avvengono al confine tra due corpi, tra il corpo e la macchina, tra internità e esternità. In tal senso agisce la prospettiva negativa lungo la quale si sono snodati alcuni filoni della fantascienza, quando hanno, ad esempio, considerato il corpo umano e la società come i veri elementi generatori di caos nell'ordine delle macchine.

L'altro possibile scenario aperto dal cyborg è quello, per opposizione definito positivo, descritto dalla Plant e segnato dal merging: fusione tra organico e inorganico. Nel merging si scorge il superamento del dualismo del genere attraverso la categoria del molteplice profetizzata da Donna Haraway, e si scongiura la "fascistized mermaid" (Klφck 1999), sirena fascista metà donna e metà aeroplano, raffigurata da Bruno Munari e dalle performance di aerodanza della ballerina e coreografa futurista Giannina Censi. Spatz (2001) indica in questa rappresentazione la fusione forzata tra corpo e macchina e il pericolo della penetrazione tecnologica violenta nel corpo soffice. Una tale fusione tra due solidi – macchina e corpo – porta a un perenne rigetto dell'inorganico da parte dell'organico e non permette mai il compimento del cyborg, poiché esso, al contrario, deve trarre godimento dalla con/fusione dei due elementi. Fra essi non s'instaura una gerarchia bensì un mongrel, dove due sistemi risultano integrati e uno dei due è penetrato sofficemente nell'altro, senza forzarlo (p. 64), come due liquidi miscelati che conservano la loro essenza pur essendo dissolti l'uno nell'altro.

"The body is obsolete", secondo la celebre affermazione di Stelarc: la sirena-cyborg, e non la sirena-fascista, il corpo grottesco bachtiniano, il cyborg chimico e farmacologico, quello connesso agli strumenti di comunicazione di cui ci si avvale nel quotidiano, configurano la corporeità secondo piani d'intensità che stiamo già esperendo.

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Drexciya, l'ultima utopia techno-futurista


                                Ascoltando The Quest, Drexciya, 1999


Eshun scrive che Sun Ra è disgustato dall'umano e desidera essere un alieno; dj Spooky (aka The Subliminal Kid) afferma che la zona afrofuturista è un luogo dove i temi che sono giunti a definire gli aspetti cruciali dell'etnia afroamericana scompaiono, per essere rimpiazzati da uno spazio di interazioni elettromagnetiche; Benedetti, in riferimento a George Clinton, sostiene che i neri hanno sempre vissuto la condizione di bilico fra fuga dalla realtà urbana e sperimentazione musicale, incarnando così il prototipo degli extraterrestri in questo mondo; James Stinton di Drexciya ha immaginato una "sconosciuta zona acquatica", dove vivono creature anfibie discendenti dagli schiavi neri gettatisi in mare lungo la abduzione aliena dall'Africa all'America.

L'elenco potrebbe continuare e dimostrerebbe che non è più interessante immaginare luoghi inospitali dove far vivere le creature dei racconti di fantascienza, così come è stato dal principio di questo genere letterario fino agli anni Settanta: raccontare, cioè, le distopie. Si tratta di prendere atto, come sostiene Baudrillard, del fatto che:

oggi è il reale che è diventato l'alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione. Ed è paradossalmente il reale che è diventato oggi la nostra vera utopia – ma è un'utopia che non appartiene più all'ordine del possibile, perché non si può che sognarne come di un oggetto perduto (Baudrillard 2000, p. 28).

Dunque, dove deve insistere il cambiamento? Poiché non si tratta semplicemente né di trame né di ambientazioni, bensì della posizione stessa dell'autore/artista/fruitore, tutti chiamati dal movimento di exotopia a deterritorializzarsi: decentrare il vissuto, renderlo "reale come una finzione" (p. 29).

Alcuni esempi di questo détournement prospettico possono essere tratti dalla produzione di Dick e di Ballard, dalle creature cinematografiche di Cronenberg e dagli sviluppi della techno, le cui proiezioni visuali sono i videoclip e i vjset. Questi ultimi, avvalendosi della categoria della velocità così come è stata intesa da Lévy e Virilio – strategia per scomparire –, e della deterritorializzazione secondo l'estetica del loop e della ripetizione, raccontano il merging tecnologico restituendo quanto vi è in esso di catartico e di rischioso per il sé: il livello sensuale e quello intellettuale; l'uno simboleggiato dalla danza, l'altro descritto dalla smaterializzazione e scomparsa del corpo nel lavoro linguistico delle macchine.

La techno, a differenza di altri generi elettronici, è consustanziata da una tensione futuristica che guarda lontano, oltre l'architettonica della singola traccia, e svincolata dall'adesione a un'identità musicale, culturale, di gender. Non è organica nel senso politico gramsciano, né nel senso biofilosofico deleuziano.

I nomi che i membri delle sue neotribù adottano musicalmente hanno valenza ironica e fuorviante, spesso derivano da prodotti televisivi di ampio consumo, quali, ad esempio, l'epopea interstellare di Star Trek, che qui assume una valenza legata alla consapevolezza dell'ubiquità dei mass media, che rinviano a un altrove non privo di un certo ironico distacco. Si pensi all'album di debutto di Juan Atkins: Deep Space, omaggio alla serie omonima di Star Trek; mentre è nota la definizione di Derrick May – "La techno deve andare dove nessuno è andato prima" – che, parafrasando il capitano Kirk, intende indicare l'affiato dialogico, il movimento verso l'altro, non elitario né intellettualistico, di un linguaggio paragonabile alle formule chimiche, cioè "comprensibile anche da alieni provenienti dallo spazio" (Banks 1993).

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