Autore Margaret Atwood
Titolo Il racconto dell'ancella
EdizionePonte alle Grazie, Milano, 2017 [1988], Scrittori 59 , pag. 400, cop.fle., dim. 13,8x20,5x3 cm , Isbn 978-88-6833-742-1
OriginaleThe Handmaid's Tale [1985]
TraduttoreCamillo Pennati
LettoreAngela Razzini, 2017
Classe narrativa canadese , fantascienza












 

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Indice


    I   Notte                                9

   II   La spesa                            15

  III   Notte                               53

   IV   Sala d'attesa                       61

    V   Il sonnellino                       93

   VI   La famiglia                        105

  VII   Notte                              135

 VIII   Nascita                            143

   IX   Notte                              187

    X   Le Pergamene dell'Anima            195

   XI   Notte                              249

  XII   Gezebele                           259

 XIII   Notte                              335

  XIV   La Rigenerazione                   343

   XV   Notte                              371


Note storiche su Il racconto dell'Ancella  379


 

 

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Pagina 11

1



Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L'impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. Una balconata per gli spettatori correva tutt'attorno allo stanzone, e mi pareva di sentire, vago come l'aleggiare di un'immagine, l'odore acre di sudore misto alla traccia dolciastra della gomma da masticare e del profumo che veniva dalle ragazze che stavano a guardare, con le gonne di panno che avevo visto nelle fotografie, poi in minigonna, poi in pantaloni, con un orecchino solo e i capelli a ciocche rigide, puntute e striate di verde. C'erano state delle feste da ballo; la musica indugiava, in un sovrapporsi di suoni inauditi, stile su stile, un sottofondo di tamburi, un lamento sconsolato, ghirlande di fiori di carta velina, diavoli di cartone e un ballo ruotante di specchi, a spolverare i ballerini di una neve lucente.

Sesso, solitudine, attesa di qualcosa senza forma né nome. Ricordo quello struggimento per qualcosa che stava sempre per succedere e non era mai la stessa cosa, come le mani che c'erano addosso lì per lì, nel piccolo spazio dietro la casa, o più in là nel parcheggio, o nella sala della televisione col sonoro abbassato e soltanto le immagini, guizzanti sulla carne tesa. Ci struggevamo al pensiero del futuro. Come l'avevamo appresa, quella disposizione all'insaziabilità? Era nell'aria; e restava ancora nell'aria, un pensiero persistente, mentre si cercava di dormire, nelle brande militari che erano state disposte in corsie, con molto spazio tra l'una e l'altra, così che non si potesse parlare.

Avevamo lenzuola di flanella leggera, come i bambini, e vecchie coperte di quelle in dotazione all'esercito, ancora con la scritta U.S. Ripiegavamo i nostri abiti per bene e li riponevamo sugli sgabelli ai piedi del letto. Le luci venivano abbassate ma non spente. Zia Sara e Zia Elisabetta vigilavano, camminando avanti e indietro; avevano dei pungoli elettrici di quelli che si usano per il bestiame agganciati a delle cinghie che pendevano dalle loro cinture di cuoio.

Niente pistole, però, neanche a loro venivano affidate le pistole. Le pistole erano per le guardie, scelte a questo scopo tra gli Angeli. Alle guardie non era permesso entrare nella casa se non vi erano chiamate, e a noi non era permesso uscirne, tranne che per le nostre passeggiate, due volte al giorno, due per due, attorno al campo di calcio che adesso era cintato da una rete metallica bordata di filo spinato. Gli Angeli stavano dall'altra parte, voltati di schiena verso di noi. Erano oggetto di paura per noi, ma anche di qualcos'altro. Se solo ci avessero guardato. Se solo avessimo potuto parlare con loro. Si sarebbe potuto stabilire uno scambio, pensavamo, un accordo, un baratto. Avevamo ancora il nostro corpo. Erano queste le nostre fantasie.

Avevamo imparato a sussurrare quasi impercettibilmente. Nella semioscurità potevamo allungare le braccia, quando le Zie non guardavano, e toccarci le mani attraverso lo spazio tra un letto e l'altro. Leggevamo il movimento delle labbra, con le teste posate sul cuscino, girate di lato, osservando l'una la bocca dell'altra. In questo modo ci eravamo scambiate i nostri nomi, di letto in letto:

Alma. Janine. Dolores. Moira. June.

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La chiesa è piccola, una delle prime che hanno costruito qui, centinaia di anni fa. Adesso è un museo. All'interno si possono vedere quadri di donne in lunghe vesti scure, con i capelli coperti da cuffie bianche, e di uomini dal portamento eretto, senza sorriso, anch'essi vestiti di scuro. I nostri antenati. L'ingresso è gratuito.

Noi non entriamo, però, ci fermiamo sul viale, a guardare il cimitero. Ci sono ancora le vecchie pietre tombali consunte dal tempo, erose, coi teschi e le ossa incrociate (memento mori), i loro angeli dalle facce paffute, le loro alate clessidre a ricordarci del trascorrere del tempo mortale e poi, appartenenti a un secolo più tardo, le urne e i salici del compianto per i defunti.

Non hanno manomesso le pietre tombali, e nemmeno la chiesa. È solo la storia più recente che li offende.

Il capo di Diglen è reclinato, come se stesse pregando. Fa così ogni volta. Forse c'è qualcuno, qualcuno di particolare, che è morto e che le era caro, un uomo, un bambino. Ma non ci posso credere del tutto. Penso che tutto quello che fa sia una esibizione, una recita, vuole fare bella figura e sfrutta al massimo ogni sua azione, ogni suo atteggiamento. Ma probabilmente lei pensa lo stesso di me. Come potrebbe essere altrimenti?

Adesso voltiamo le spalle alla chiesa ed ecco che cosa in verità siamo venute a vedere: il Muro.

Anche il Muro è vecchio centinaia d'anni; o più di cent'anni almeno. Come i marciapiedi, è di mattoni rossi e un tempo deve essere stato semplice ma bello. Ora ogni portale è custodito da sentinelle e sovrastato da colonne di metallo con in cima dei brutti proiettori moderni. Il filo spinato corre lungo la base e lungo la sommità vi sono dei cocci di vetro infissi nel cemento. Nessuno oltrepassa volentieri quei portali. Le precauzioni riguardano chi tenti di uscirne, sebbene anche solo raggiungere il Muro, dall'interno, superando il sistema di allarme elettronico, sia pressoché impossibile.

Accanto al passaggio principale ci sono altri sei corpi appesi per il collo, le mani legate sul davanti, le teste, chiuse in sacchi bianchi, ripiegate di lato, sulla spalla. Ci deve essere stata una Rigenerazione Maschile stamattina presto. Non ho sentito le campane. Forse mi ci sono abituata.

Ci fermiamo, insieme, come a un segnale, e stiamo lì a guardare i corpi. Non ha importanza se guardiamo. Ci è permesso guardare ed è per questo che i cadaveri sono appesi al Muro. Talvolta restano lì interi giorni, finché non ce ne sia una nuova infornata, perché possano vederli in molti.

Sono appesi a dei ganci. I ganci sono stati infissi nel Muro a questo scopo. Non tutti sono occupati. Sembrano uncini per gente senza braccia. O punti interrogativi d'acciaio, capovolti e sghembi.

Sono i sacchi sui capi la cosa peggiore, peggio di quanto sarebbero le stesse facce, fanno sì che gli uomini sembrino bambole su cui non sono ancora stati dipinti gli occhi, il naso, la bocca, simili a spaventapasseri, e in un certo senso lo sono, poiché la loro funzione dev'essere, appunto, quella di spaventare. Oppure sembra che le teste siano dei sacchi imbottiti di una materia qualunque, farina o segatura. È evidente la pesantezza delle teste, la loro inerzia, per cui la forza di gravità le tira in giù e manca la vita a riportarle su. Le teste sono degli zeri. Però se si guarda attentamente, come stiamo facendo, si scorgono i contorni dei volti sotto il tessuto bianco, come ombre grigie. Sono teste di pupazzi di neve, gli occhi sono fatti col carbone e il naso è un buco dove c'era una carota che è caduta. Ora si stanno sciogliendo.

Ma su un sacco c'è del sangue, che ha imbevuto il tessuto bianco dove doveva esserci la bocca, e forma un'altra bocca, piccola e rossa, come le bocche dipinte coi pennarelli dai bambini dell'asilo. L'idea infantile di un sorriso. Questo sorriso di sangue è ciò che ferma l'attenzione. Non sono pupazzi di neve. Gli uomini appesi portano camici bianchi, come quelli dei medici o degli scienziati. Medici e scienziati non sono gli unici a portare camici bianchi, ma oggi è tra questi che devono aver colpito. Ognuno ha un cartello appeso al collo che indica la causa della condanna alla pena capitale: il disegno di un feto umano.

Erano medici, quindi, nel tempo addietro, quando l'aborto era legale. Non li chiamavano «fabbricanti di angeli»? Sono stati scoperti dalle indagini sui registri degli ospedali o, più probabilmente, dato che quasi tutti gli ospedali sono stati distrutti quando è risultato chiaro quello che stava per succedere, hanno trovato degli informatori: una ex infermiera (anzi due, poiché non è più ammessa la testimonianza di una sola donna), un altro medico che sperava di salvarsi la pelle, qualcuno che si è vendicato di un nemico, a caso, o qualcuno che tentava disperatamente di mettersi in salvo. Non sempre, tuttavia, agli informatori viene concesso il perdono.

Ci hanno detto che questi uomini sono come dei criminali di guerra. Non è una scusante che le loro azioni fossero legali a quel tempo: i loro crimini sono retroattivi. Hanno commesso delle atrocità, e devono essere puniti in maniera esemplare per gli altri, anche se non sarebbe necessario, perché nessuna donna, sana di mente, in questi giorni cercherebbe di impedire la nascita del proprio figlio, se fosse così fortunata da riuscire a concepirlo.

Si vuole suscitare in noi, verso questi morti, odio e disprezzo. Non è quel che provo io. Questi corpi penzolanti dal Muro sono di viaggiatori giunti qui dal passato. Anacronismi. Quel che sento verso di loro è un senso di vuoto. Sento che non devo sentire niente. Ma in parte sono sollevata perché nessuno di questi uomini è Luke. Luke non era medico. Non lo è.

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14



Quando la campana ha smesso di suonare scendo le scale, sono un relitto umano nell'occhio di vetro appeso al muro a pianterreno. L'orologio fa udire il suo ticchettio, il pendolo segna il tempo; i piedi nelle loro linde scarpe rosse contano i gradini. La porta del soggiorno è spalancata. Entro: non c'è ancora nessuno. Non mi siedo, ma prendo il mio posto, inginocchiandomi, accanto alla poltrona con lo sgabello dove Serena Joy tra poco si insedierà come su un trono, appoggiandosi al bastone mentre sí lascia cadere sul sedile. Probabilmente mi metterà una mano sulla spalla, per sostenersi, come fossi un mobile. L'ha già fatto.

Il soggiorno un tempo si sarebbe chiamato salotto, forse; poi soggiorno.

O forse è sempre stato un salotto, di quelli con le ragnatele e le mosche. Ma adesso è ufficialmente un soggiorno, perché questa è la sua funzione, per qualcuna. Per altre è solo uno spazio dove stare in piedi. La posizione del corpo è importante, qui, in questo momento: le piccole scomodità sono istruttive.

Il soggiorno è sobrio, simmetrico; uno degli aspetti assunti dal denaro quando si stabilizza a un certo livello. Il denaro è passato attraverso questa stanza per anni e anni, come attraverso una caverna sotterranea, incrostandosi e indurendosi in queste forme come in stalattiti. Le varie superfici si presentano in sordina: il velluto rosa scolorito dei drappeggi chiusi, la patina delle poltrone Settecento, dello stesso colore, il silenzioso, folto, tappeto cinese, con le sue peonie rosa pesca, fissato a terra lungo un lato, il cuoio gradevole, morbido della poltrona del Comandante, il luccichio dell'ottone di una scatola su un tavolino, lì accanto.

Il tappeto è autentico. Certe cose in questa stanza sono autentiche, altre no. Due quadri, per esempio, entrambi di donne, ai lati del camino. Indossano abiti scuri, come quelle che si vedevano nelle vecchie chiese, sebbene d'epoca più tarda. I quadri sono probabilmente autentici. Sospetto che quando Serena Joy li ha acquistati, dopo aver capito che avrebbe dovuto riorientare le sue energie verso qualcosa di palesemente domestico, abbia avuto l'intenzione di farli passare per ritratti di antenati. O forse si trovavano già nella casa quando è diventata di proprietà del Comandante. Non c'è modo di sapere queste cose. Comunque, eccole lì, spalle e bocca rigide, il petto compresso, il volto sofferto, la cuffia inamidata, la pelle bianco-grigia, vigilano sulla stanza con occhi raggrinziti.

Tra i due quadri, sulla mensola del camino, c'è uno specchio ovale, affiancato da due paia di candelabri d'argento, e, al centro, un cupido di porcellana bianca che, con un braccio, circonda il collo di un agnello. I gusti di Serena Joy sono uno strano miscuglio di forte cupidigia per l'oggetto di valore e languide brame sentimentali. C'è una decorazione di fiori secchi su entrambi i lati della mensola, e un vaso di narcisi freschi sul levigato intarsio del tavolino accanto al divano.

La stanza odora di essenza di limone, di stoffe pesanti, di narcisi, degli odori lasciati dai cibi giunti sin qui dalla cucina, e del profumo di Serena Joy: mughetto. Il profumo è un lusso, Serena deve avere qualche cespite privato. Lo aspiro, pensando che dovrebbe piacermi. È l'aroma di ragazze prepuberi, dei doni fatti dai bambini nel giorno della festa della Mamma, l'odore di calze bianche di cotone e sottovesti bianche di cotone, di polvere medicinale, dell'innocenza della carne femminile non ancora consegnata alla maturità e al sangue. Mi fa star leggermente male, come fossi in un'automobile chiusa, in un giorno afoso e umido con una donna più anziana stracarica di cipria. Ecco com'è il soggiorno, nonostante la sua eleganza. Mi piacerebbe rubare qualcosa da questa stanza, un piccolo oggetto qualsiasi: il posacenere a conchiglia, la scatolina portapillole d'argento che è sulla mensola del camino, un fiore secco; nascondermelo nelle pieghe dell'abito o nella tasca della manica con la cerniera, tenerlo lì per tutta la serata, portarlo di nascosto in camera mia, sotto il letto, o in una scarpa, in una spaccatura nel cuscino con la parola FEDE ricamata a piccolo punto. Lo tirerei fuori per guardarlo. Mi darebbe una sensazione di potere. Ma sarebbe un'illusione troppo rischiosa. Le mani mi restano dove sono, raccolte in grembo. Le ginocchia unite, i talloni raccolti sotto di me schiacciati dal peso del mio corpo. Il capo chino. In bocca ho un sapore di dentifricio: menta artificiale e gesso.

Aspetto che la famiglia si riunisca. La famiglia: ciò che appunto siamo. Il Comandante è il capo della famiglia.

Cora giunge per prima, poi Rita che si asciuga le mani col grembiule. Anche loro sono state convocate dalla campana e se ne sono risentite, perché avevano altre cose da fare, lavare i piatti per esempio. Ma bisogna che siano qui, bisogna che tutte siamo qui, la Cerimonia lo esige. Siamo tutte obbligate a restare sedute fino alla fine, in un modo o nell'altro.

Rita mi guarda, torva, prima di infilarsi dietro di me. È colpa mia questo spreco del suo tempo. Non colpa mia, ma del mio corpo, se c'è una differenza. Persino il Comandante si assoggetta ai capricci del mio corpo.

Nick entra, saluta col capo tutte e tre noi, si guarda attorno per la stanza. Anche lui prende posto dietro di me, in piedi. È così vicino che la punta del suo stivale mi tocca il piede. Lo fa di proposito? In ogni caso, ci stiamo toccando, attraverso due forme di cuoio. Sento la scarpa ammorbidirsi, il sangue vi scorre, la scarpa si fa calda, diviene una pelle. Muovo leggermente il piede, spostandolo.

«Se quello almeno si affrettasse» dice Cora.

«Chi si affretta aspetta» dice Nick. Ride, muove il piede in modo da toccare di nuovo il mio. Nessuno lo può vedere, sotto le pieghe della mia gonna. Mi sposto leggermente, fa troppo caldo qui dentro, l'odore di profumo stantio mi fa stare male. Allontano il piede.

Sentiamo Serena che arriva, giù per le scale, lungo il corridoio, il sordo picchiettio del suo bastone sul tappeto, il tonfo del piede sano. Entra zoppicando, si guarda intorno senza vedere. Annuisce col capo, rivolta a Nick, ma non dice nulla. Ha uno dei suoi abiti migliori, azzurro cielo con ricami bianchi lungo i bordi del velo: fiori e greche. Nonostante la sua età sente ancora il desiderio di adornarsi di fiori. A che serve, penso guardandola, ma con la faccia immobile, tu ormai sei appassita. I fiori sono gli organi genitali delle piante. L'ho letto da qualche parte, una volta. Va verso la sua poltrona con lo sgabello, si gira, si abbassa, si siede sgraziatamente. Solleva il piede sinistro e lo allunga sullo sgabello, armeggia nella tasca della manica. Sento il fruscio, lo scatto dell'accendino, l'odore del fumo, lo aspiro.

«In ritardo come al solito» dice. Noi non rispondiamo. C'è un rumore confuso mentre cerca qualcosa a tastoni sul tavolino portalampada, poi uno scatto, e il televisore si accende. Un coro di uomini dalla pelle giallo-verdognola (il colore va messo a posto) sta cantando «Venite alla Chiesa nel bosco selvaggio». Venite, venite, venite, venite, cantano i bassi. Serena aziona il telecomando. Ondulazioni, zigzag colorati, un miscuglio di suoni: è la stazione satellite di Montreal, che si è bloccata. Un predicatore, zelante, con lucidi occhi neri, si protende verso di noi da una scrivania. Adesso hanno un'aria assai simile a uomini d'affari. Serena gli concede qualche secondo, poi passa oltre.

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Prima vengono il titolo e qualche nome, cancellato sulla pellicola a matita così che non possiamo leggerli, e poi vedo mia madre. La mia giovane madre, più giovane di quanto la ricordi, giovane quanto dev'essere stata un tempo, prima che nascessi. Indossa quel tipo di abbigliamento che Zia Lydia ci ha indicato come caratteristico delle Nondonne in quei tempi: tuta di jeans con camicetta a scacchi verdi e malva e scarpe da tennis. Anche Moira si vestiva così. Anch'io. Ha i capelli raccolti in un fazzoletto color malva annodato dietro il capo. Il viso è giovanissimo, molto serio e anche grazioso. Non mi ricordavo che mia madre fosse, un tempo, così graziosa e seria. È in un gruppo di altre donne, vestite alla stessa maniera; ha in mano un bastone, il bastone di sostegno di uno striscione. In una carrellata dall'alto vediamo la scritta, dipinta con la vernice su un lenzuolo: RIPRENDIAMOCI LA NOTTE. Non l'hanno cancellata, anche se noi non dovremmo leggerla. Le donne intorno a me trattengono il respiro, la sala è percorsa da un brivido, come una ventata sull'erba. È una svista della quale abbiamo approfittato senza volere, o l'hanno fatto apposta, per ricordarci l'insicurezza dei tempi passati?

Dietro questa scritta ce ne sono altre, e la macchina da presa le coglie brevemente. LIBERTÀ DI SCELTA. OGNI FIGLIO UN FIGLIO DESIDERATO. RIPRENDIAMOCI I NOSTRI CORPI. IL POSTO DELLA DONNA NON È SUL TAVOLO DI CUCINA. Sotto quest'ultima scritta c'è la fotocopia di un disegno con un corpo di donna, disteso su un tavolo, e il sangue che cola di sotto.

Adesso mia madre cammina, sorride, ride, tutti vengono in avanti, col pugno alzato. La macchina da presa si sposta verso il cielo, dove si levano centinaia di palloncini, trascinando dietro le loro cordicelle: palloncini rossi, dov'è dipinto un cerchio con un tratto verticale attraversato da un altro in senso orizzontale, come una mela appesa al ramo per il picciolo. I due segni formano una croce. Mia madre adesso è confusa tra la folla, e non riesco più a distinguerla.


Ti ho avuta quando avevo trentasette anni, diceva mia madre. È stato un rischio, avresti potuto essere deforme. Sei stata una figlia desiderata, verissimo, e me ne hanno tirata di merda addosso. La mia più vecchia amica, Tricia Foreman, mi ha accusato di essere «natalista». Era gelosa. Altre sono state gentili, invece, ma quand'ero incinta di sei mesi ho cominciato a ricevere articoli che spiegavano come le probabilità di malformazioni salissero vertiginosamente nei bambini nati da donne che avessero superato í trentacinque anni.

Altri articoli parlavano delle difficoltà di allevare un bambino da sole. Stronzate, mi dicevo, ho cominciato e vado avanti.

All'ospedale hanno annotato «Primipara attempata» sulla cartella clinica, li ho colti sul fatto. E così che ti definiscono quando hai il tuo primo figlio dopo i trent'anni, dopo i trent'anni, sant'Iddio. Imbecilli, gli ho gridato, biologicamente ho ventidue anni, potrei avere tre gemelli e uscire di qui mentre state ancora tentando di rimettervi dall'emozione.

Nel dir questo spingeva il mento in fuori. La ricordo così, il mento proteso in fuori con un bicchiere davanti, sul tavolo di cucina; non più giovane, seria e graziosa, com'era nel film, ma tenace, coraggiosa, quel tipo di donna matura che non si fa rubare il posto in una coda al supermercato. Le piaceva venire a casa mia a bere qualcosa mentre io e Luke preparavamo il pranzo e raccontarci che cosa non andava nella sua vita, che era poi quel che non andava nella nostra. A quel tempo aveva i capelli grigi. Non se li tingeva. Perché fingere, diceva, che bisogno ne ho? Non voglio un uomo. A che servono tranne che per quei dieci secondi che corrispondono a mezzo figlio? Un uomo è semplicemente la strategia di una donna per fare altre donne. Non che tuo padre non fosse una brava persona, ma non era all'altezza della paternità. Del resto me lo aspettavo. Fai il tuo dovere e poi va' dove vuoi, gli dicevo, ho un salario decente, posso permettermi di pagare l'asilo. Così lui è partito per l'Est. A Natale ci mandava gli auguri. Aveva dei begli occhi azzurri. Ma c'è qualcosa che manca, in loro, anche in quelli simpatici. È come se fossero sempre distratti, come se non riuscissero a ricordarsi del tutto chi sono. Guardano troppo verso il cielo e non sanno dove mettono i piedi. Non valgono più delle donne, tranne che per aggiustare l'automobile e giocare al pallone, proprio quello di cui abbiamo bisogno per il miglioramento della razza umana, giusto?

Era così che parlava, anche davanti a Luke. A lui non importava, la prendeva in giro, fingeva di essere un maschilista, le diceva che le donne erano incapaci di astrazioni e lei beveva un altro bicchiere con un sorriso ironico. Porco sciovinista diceva. Non è stramba tua madre? diceva Luke, e lei assumeva un'aria sorniona, furtiva. Ne ho il diritto, diceva, sono abbastanza vecchia. Ho pagato il mio scotto, posso permettermi di essere stramba. Tu hai ancora il muso sporco di latte. Quanto a te, aggiungeva rivolta a me, sei troppo superficiale, un fuoco di paglia. La storia mi darà ragione.

Ma queste cose le diceva dopo il terzo bicchiere.

Voi giovani non apprezzate quello che avete, diceva. Non sapete quante ne abbiamo passate, solo per portarvi a dove siete. Guarda tuo marito che affetta le carote. Non sai quante vite di donne, quanti corpi di donne, ci sono voluti per arrivare sin qui?

Cucinare è il mio hobby, diceva Luke, mi piace.

Non parlare di hobby, diceva mia madre. Non devi scusarti con me. Una volta se ti avessero visto in cucina, ti avrebbero ritenuto un finocchio.

Via mamma, dicevo, non litighiamo per un'inezia. Un'inezia, ripeteva amara, un'inezia la definisci. Tu non capisci, vero, non capisci di che sto parlando.

Talvolta piangeva. Ero così sola, diceva, non puoi immaginare com'ero sola. Avevo delle amiche, ero fortunata, ma ero sola lo stesso.

Ammiravo mia madre, sebbene i nostri rapporti non fossero mai stati facili. Lei si aspettava troppo da me. Si aspettava che io rappresentassi la conferma delle scelte che aveva compiuto, ma io non volevo vivere la mia vita secondo i suoi principi. Non volevo essere la figlia modello, l'incarnazione delle sue idee. Litigavamo su questo argomento. Non sono la giustificazione del tuo modo di esistere, le avevo detto una volta.

Vorrei riaverla qui. Vorrei riavere tutto com'era. Ma non serve volere.

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Ricordo un documentario televisivo che ho visto una volta, mandato in onda molto dopo che era stato filmato. Avrò avuto sette o otto anni, ero troppo piccola per capirlo. Era la sorta di cose che a mia madre piaceva guardare alla televisione: storiche, istruttive. Dopo aveva cercato di spiegarmi che quello che si vedeva era realmente accaduto, ma per me era solo una storia inventata.

Tutti i bambini pensano così, di qualsiasi storia prima della loro. Se è inventata, fa meno paura.

Il programma era un documentario, su una di quelle guerre.

Intervistavano la gente e mostravano spezzoni di film dell'epoca, in bianco e nero, e fotogrammi. Non ricordo molto, ma ho ben presente la particolarità delle immagini, che sembravano rivestite di un miscuglio di sole e polvere, e come fossero scure le ombre sotto le sopracciglia della gente e lungo gli zigomi. Le interviste con i superstiti erano a colori. Quella che ricordo di più era con una donna che era stata l'amante di un uomo che aveva diretto uno dei campi dove mettevano gli ebrei, prima di ucciderli. Nei forni, diceva mia madre; ma non c'erano fotografie dei forni, così m'ero fatta un'idea confusa che queste morti avessero avuto luogo nelle cucine. C'è qualcosa di particolarmente terrificante per un bambino in un pensiero come questo. I forni significano cucinare, e il cucinare viene prima del mangiare. Pensavo che questa gente fosse stata mangiata. E in un certo senso, dopo tutto, forse è la verità.

Da ciò che risultava dalle interviste, l'uomo era stato crudele e brutale. La sua amante (mia madre mi aveva spiegato che cos'era un'amante, non credeva alle mistificazioni, avevo un libro con delle illustrazioni degli organi sessuali già all'età di quattro anni), la sua amante un tempo era stata molto bella. C'era una fotografia in bianco e nero di lei e di un'altra donna, col costume da bagno a due pezzi, le scarpette di gomma e il cappello a tesa larga come si usava allora; erano sedute ai bordi di una piscina e portavano degli occhiali da sole con una montatura a forma di occhi di gatto. La piscina era vicina alla loro casa, la quale, a sua volta, era vicina al campo coi forni. La donna aveva detto di non avere notato mai niente di insolito. Aveva negato di conoscere l'esistenza dei forni. All'epoca dell'intervista, quaranta o cinquant'anni dopo, lei stava morendo di enfisema. Tossiva molto, ed era molto magra, quasi emaciata, ma andava ancora orgogliosa del suo aspetto. «Guarda lì» diceva mia madre, in parte risentita, in parte ammirata, «si crede ancora bella». Era truccata con gran cura, aveva molto mascara sulle ciglia, e molto rossetto sugli zigomi, dove la pelle era tesa come un guanto di gomma. Portava una collana di perle.

«Non era un mostro» diceva di lui. «La gente non fa che ripetere che era un mostro, ma non è vero».

Che cosa pensava? Non molto, ritengo; non allora, a quei tempi. Pensava a come non pensare. Erano tempi particolari. Andava orgogliosa della propria bellezza. Non credeva che lui fosse un mostro. Non era un mostro, per lei. Probabilmente aveva qualche tratto gradevole, fischiava, stonato, sotto la doccia, aveva una passione per i tartufi, chiamava il suo cane Liebchen e per farlo star ritto sulle zampe gli dava dei pezzettini di filetto crudo. Com'è facile attribuire un'umanità a un essere qualsiasi. Che tentazione a portata di mano. È un bambinone, diceva lei tra sé. Il cuore le si scioglieva, mentre gli scostava i capelli dalla fronte, lo baciava sull'orecchio, e non per ottenere qualcosa da lui, era l'istinto di alleviare le preoccupazioni, di rendere più piacevole la vita. Su, su, gli diceva, mentre lui si svegliava da un incubo, so che hai tante difficoltà da superare. E a tutto ciò lei credeva, perché altrimenti come avrebbe potuto continuare a vivere? Era molto convenzionale, sotto quella bellezza. Credeva alla decenza, era gentile con la donna di servizio ebrea, o abbastanza gentile, o più gentile di quanto occorresse.

Qualche giorno dopo l'intervista, si era uccisa. L'avevano detto, lì, alla televisione.

Nessuno le aveva chiesto se lo avesse amato o no.

Ciò che ricordo adesso è il trucco sul suo viso, soprattutto.


Mi alzo in piedi, al buio, comincio a sbottonarmi il vestito. Poi sento qualcosa dentro il mio corpo. Qualcosa si è rotto, si è spezzato, mi ha lasciato una spaccatura in faccia attraverso la quale sta per prorompere un suono. Senza preavviso: non stavo pensando a niente di particolare. Se lascerò che il suono esca nell'aria si trasformerà in una risata, troppo forte, troppo grande, la sentiranno, ci saranno passi, ordini frettolosi, forse un giudizio: emozione inadeguata alla circostanza. Deliri interni, lí chiamavano. Un ago, una pillola. Potrebbe essermi fatale.

Mi premo la bocca con entrambe le mani, come se stessi per vomitare, cado sulle ginocchia, la risata mi sobbolle in gola come lava. Mi porto strisciando fino a dentro l'armadio, tiro su le ginocchia. Soffocherò. Le costole mi dolgono per lo sforzo di trattenermi, ho scotimenti, sussulti sismici, vulcanici. Scoppierò. Vedo rosso dappertutto, gaiezza da infarto fa rima con parto, oh morire di risate.

Soffoco le risate nelle pieghe del mantello appeso, stringo gli occhi pieni di lacrime. Cerco di ricompormi.

Dopo un po' passa, come un attacco epilettico. Sono ancora qui, nell'armadio. Nolite te bastardes carborundorum. Non posso vederlo al buio, ma faccio scorrere la punta delle dita sopra la piccola frase scalfita, come un cieco che legga la scrittura Braille.

Adesso non mi risuona più nella testa come una preghiera, ma come un ordine. L'ordine di far che? Sono parole comunque inutili per me, un antico geroglifico di cui è andata smarrita la chiave. Perché l'ha scritto? Non ne valeva la pena. Non c'è via d'uscita, qui.

Raggomitolata sul fondo dell'armadio, respiro in fretta, poi più lentamente, poi di nuovo in fretta, come negli esercizi per partorire. Tutto ciò che sento adesso è il battito del mio cuore, che si apre e si chiude, si apre e si chiude, si apre.

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