Autore Corrado Augias
Titolo Il lato oscuro del cuore
EdizioneEinaudi, Torino, 2014, Supercoralli , pag. 280, cop.ril.sov., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-06-22281-9
LettoreAngela Razzini, 2015
Classe narrativa italiana












 

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Pagina 3

1.


Se ne stava sulla porta, appoggiato con indolenza allo stipite, come se fosse venuto per fare uno scherzo.

«Ha detto Franco che devi stare attenta», si strinse le labbra tra le dita, a mo' di lucchetto, ridacchiando.

Non disse altro, restava lí senza andare né avanti né indietro, con l'insolenza di chi si trova dalla parte del piú forte, sa di avere tempo e di non dover temere nulla. Wanda fece per chiudere la porta ma l'uomo la fermò poggiando con decisione la mano sul battente.

«Sta' ferma, che fai? Ha detto che vuole la risposta».

Lo fissò, incerta. Che voleva dire «risposta» in quelle condizioni? Era lei a essere indagata dalla procura, degli altri nessuno sapeva niente, nemmeno di ciò che era veramente successo quella notte davanti al poligono.

L'uomo doveva essere sui trent'anni, uno di quei bellocci con le guance già un po' pesanti, scure di barba, un alone di brillantina, di lavanda dozzinale, lo stomaco sporgente, il segno del benessere. La guardava irridente, fissando la scollatura della vestaglia che nel movimento brusco s'era leggermente aperta scoprendo l'inizio del seno. Con un gesto istintivo Wanda riaccostò i lembi. Lui diventò aggressivo, le afferrò il polso e la costrinse a riaprire.

«Lascia perdere, — disse. — Che ti metti a fare, la vergine?»

Intanto aveva infilato la mano sotto la vestaglia afferrandole un capezzolo. Lo stringeva forte, lei senti la fitta di dolore risalire fino alla base del cranio, insieme a un moto di ribellione, il sangue che arrivava al viso. Non poteva fare niente, né rientrare in casa dove l'uomo l'avrebbe seguita — ed era peggio —, né gridare, perché non voleva che i vicini sentissero. Era bloccata sulla porta con quello che le torceva il capezzolo e la voglia di piangere.

«Ma che vuoi, te ne vuoi andare figlio di puttana?»

«La risposta, — fece l'altro di rimando, senza raccogliere. — Devo portare la risposta, lo sai com'è fatto Franco».

Wanda non capiva: non c'era stata nessuna domanda. Lasciò perdere la vestaglia, rinunciò ad accostare la porta, voleva solo che lui sparisse. Udí dei passi sul pianerottolo del piano di sopra. Ignazio era morto da poche settimane, ufficialmente lei era una vedova, tutto il resto non contava niente, né per i vicini né per i giornali. Sapeva una sola cosa: se voleva che quello se ne andasse doveva umiliarsi a chiedere.

«Quale risposta?» domandò sottovoce.

Il tipo sorrise soddisfatto, aveva colto il cedimento.

«Che devi stare attenta a quello che fai e non una parola. Devi sparire. Ripeti».

«Sparire come? Dove vado?»

«Dove cazzo ti pare, sparisci».

«Ma non posso muovermi, il giudice ha detto...»

«De-vo spa-ri-re, fammelo sentire bello chiaro».

«Va bene, vado via... devo sparire».

Il tipo ritirò la mano e le dette una specie di carezza sul viso; poi estrasse dal taschino un piccolo registratore e riavvolse il nastro. Riudí la voce di lei, netta su un leggero fruscio di fondo, che ripeteva: Va bene, vado via... devo sparire.

«Brava, adesso ricordatelo», sussurrò agitando il registratore. Fece ciao ciao con la mano e s'avviò.

Wanda avrebbe voluto sbattere la porta ma si trattenne: il gesto di rabbia, il tonfo, avrebbero solo confermato la sua impotenza. Accostò piano, si diresse verso il salotto, aveva una forte nausea ma accese lo stesso una sigaretta. Un gesto meccanico, il gusto del fumo però accresceva il fastidio. La schiacciò subito in una tazzina. Adesso erano le lacrime che salivano a pungerle le palpebre. Le lasciò scorrere. Prima che quello arrivasse sapeva solo di essersi cacciata in un orribile guaio. Ignazio, ucciso in quel modo, e soprattutto tutto ciò che le era caduto addosso dopo, erano state cose da cancellare ogni dolore, se mai lo avesse provato. Adesso che il tipo era venuto a minacciarla aveva davvero paura, forse per la prima volta sentiva che ormai non era possibile tornare indietro, rimettere le cose com'erano prima che tutto cominciasse. Non sapeva nemmeno lei come fosse arrivata fino a quel punto. Accese un'altra sigaretta aspirando con rabbia: quella di prima, dentro la tazzina, continuava a esalare un acre filo di fumo che la fece tossire. Seguitavano a correre, involontarie, le sue inutili lacrime per la vita che avrebbe potuto avere, per la tranquillità perduta, per l'equivoco con il quale il matrimonio era cominciato, per gli errori che aveva commesso, per le pene che l'aspettavano, per le minacce, per il seno che le doleva. Ogni mattina, col primo caffè, si ripeteva che era stato solo un brutto sogno... Quando si dissipava lo stordimento del sonnifero si rendeva conto che era tutto vero.

Piangeva in silenzio sul divano, mezza nuda, i capelli che le scendevano sul viso, dimentica di sé, con la sigaretta che macchiava le dita, chiedendosi se avrebbe avuto il coraggio di ricostruire la catena degli avvenimenti. Sparire come? In procura l'avevano diffidata dal lasciare la città. In ogni caso non sapeva dove andare, l'appartamento era tutto ciò che aveva, i soldi per nascondersi da qualche altra parte non c'erano. Non un'amica, la sola persona con cui poteva parlarne era quell'avvocato che aveva conosciuto. Si occupava della morte di Ignazio, forse poteva aiutarla, sembrava una persona per bene. Però avrebbe dovuto scoprire molte carte, e Franco non scherzava. L'avvocato le aveva ispirato fiducia: di mezz'età, gentile, uno dei pochi che non l'avesse trattata da puttana. Talmente per bene che era incerta se avrebbe davvero capito in quale pasticcio s'era cacciata.

Gli altri, li conosceva, non le avrebbero risparmiato nulla.

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9.


«Numerose forme di psicoterapia sono state sviluppate prima di Freud; si pensi ad esempio alla terapia ipnotica messa a punto da Franz Anton Mesmer nella seconda metà del Settecento, o alle indagini sui rapporti fra psicologia e religione di William James un secolo dopo. Inoltre, nei primi anni del Novecento Georges I. Gurdjieff, maestro di spiritualità di origine armena, ha cominciato a studiare gli influssi orientali in ambito psicologico sia in Europa sia negli Stati Uniti. Una visione psicologica molto vicina a quella proposta da Evagrio Pontico è stata sviluppata ai primi del Novecento da Karen Horney, psicoanalista statunitense di origine tedesca. Secondo questa studiosa ogni essere umano è dotato di una forza centrale che cerca durante la vita di realizzarsi in maniera autentica. La sua ipotesi è che la struttura della personalità sia una sorta di nevrosi che ostacola l'espressione del vero sé, per cui la possibilità di guarigione coincide con la presa di coscienza della grave condizione di alienazione iniziale e con la contemporanea pratica dell'analisi intesa come percorso a ritroso verso il proprio centro, che comporta l'osservazione e il superamento dei vari strati nevrotici.

Il centro culturale che nel XX secolo ha maggiormente influenzato l'incontro fra la psicoterapia e le tradizioni spirituali è stato l'istituto di Esalen in California, dove si sono incontrati e hanno insegnato grandi maestri della psicoterapia, dell'antropologia e delle tradizioni spirituali, tra cui Fritz Perls, Claudio Naranjo, Carlos Castaneda, Paul Tillich. Forse la forma di psicoterapia piú vicina alla dimensione spirituale praticata a Esalen è stata la terapia della Gestalt, sviluppata dallo psicoanalista tedesco Fritz Perls (1893-1970). La psicoterapia gestaltica è infatti in stretta relazione con le tradizioni spirituali dell'antica Grecia e dell'Estremo Oriente. Il terapeuta gestaltico deve dedicare una costante "attenzione al vissuto", deve sviluppare una dedizione particolare al "qui e ora". Viene anche definita come "via della lucidità", perché permette di superare una sorta di "cecità esistenziale" che impedisce di guardare il lato grottesco delle persone».


Clara fece scivolare il libro sotto il piano della cassa, nelle prime ore del mattino quando erano presenti rari e frettolosi clienti riusciva a leggere qualche pagina ma con il procedere delle ore diventava sempre piú faticoso, per di piú inutile. Del resto il lato grottesco del comportamento avrebbe potuto cominciare a studiarlo su se stessa. Una delle piú brillanti laureate del corso che batteva scontrini. Eppure anche in quel lavoro cosí noioso e ripetitivo, era riuscita a trovare un aspetto che la divertiva. Tentare di ricostruire dai pochi indizi che ogni cliente offriva allo sguardo una possibile personalità: condizione sociale, umore, temperamento, educazione... Un buon esercizio che comunque le permetteva di evadere dall'azione meccanica — pavloviana, s'era detta — di battere l'importo, rispondere ai «buongiorno», sorridere.

Il trattamento era uguale per tutti, meno che per la signora Lina, meritevole di attenzione particolare per il modo stesso in cui entrava nel locale. Si muoveva con delicatezza: nonostante il peso della pelliccia faceva attenzione a non urtare i tavolini, con le sottili zampe di metallo che stridevano sgradevolmente sul pavimento. Al suo terzo giorno di lavoro la signora Lina le aveva sorriso.

«Come va? L'aria comincia a scaldare finalmente».

«Per la verità preferisco il clima autunnale».

«Non mi stupisce, segno di giovinezza. I vecchi invece hanno bisogno di caldo, Clara».

Sapeva che era psicologa, conosceva anche il suo nome. Clara invece di lei non sapeva nulla, a parte quel «signora Lina» con il quale tutti la chiamavano, e i pettegolezzi sul suo passato di attrice.

Al suo ingresso, aveva sorpreso Clara intenta a leggere e aveva cercato di sbirciare il titolo del libro. Clara glielo aveva messo sotto gli occhi: Neuropsicologia dell'esperienza religiosa, di Franco Fabbro.

La signora Lina aveva accennato un gesto di ammirazione.

Sorseggiò il cappuccino, lentamente come al solito, piluccando la brioche mentre sfogliava il giornale. Di tanto in tanto sollevava lo sguardo per sorriderle.

In un momento di pausa, mentre Luigi e Roberto confabulavano nell'angolo destinato a ospitare il forno per la pizza, la signora Lina fece cenno a Clara di avvicinarsi.

«Stavo leggendo di un caso incredibile. Ha visto qui?»

Le mostrò il giornale aperto alla pagina della cronaca cittadina. Una donna di trent'anni aveva ucciso la madre di cinquantasette con l'aiuto dell'amante.

«Voleva prostituirsi in casa e la madre glielo impediva, — prese a spiegare la signora Lina. — Pare che sia stato Giorgio, il suo giovane amante, a progettare il delitto. Lei gli ha fatto un'unica raccomandazione: non doveva usare il coltello perché non sopportava la vista del sangue. Ha detto proprio cosí: ci sarebbe stato molto sangue e avrebbe sporcato dappertutto. Allora hanno deciso di metterle un sonnifero nel caffè, poi l'hanno strangolata col filo del telefono... Si rende conto?»

Clara aveva cominciato a leggere qua e là il servizio di cronaca.

«Adesso però negano tutto, ognuno dei due dice che sarebbe stato l'altro a uccidere. È una vecchia tecnica, darsi reciprocamente la colpa. Sa quand'è stata inaugurata?»

Clara dovette interrompere la conversazione per andare a occuparsi di alcuni clienti.

«Erano gli anni Sessanta, — continuò imperterrita la signora Lina, — un giorno viene trovato a terra nel suo studio il cadavere di un giovane egiziano ricchissimo. È sospettata del delitto una signora che tempo prima era stata la sua amante. L'arrestano insieme a suo marito, sono libanesi ma vivono in Europa, tra Parigi e Londra, qualcuno dice che sono arrivati a Roma proprio per uccidere. Al processo i due si accusano a vicenda. Lei, Claire, è molto bella, aggressiva, gioca la parte della donna padrona di sé e della sua vita, accusa il marito di aver ucciso l'egiziano per gelosia anche se la relazione era finita da tempo. Lui, Youssef, interpreta il ruolo dell'uomo riflessivo e bene educato che non ha mai fatto ricorso alla violenza, parla con calma e davanti alle accuse di sua moglie sorride mestamente, ribatte che a uccidere è stata lei perché l'uomo voleva lasciarla. Processo memorabile: colpi di scena, lacrime, svenimenti, feroci litigi, accuse e controaccuse».

«E alla fine?» domandò Clara dando il resto a un avventore.

«Alla fine i giudici li hanno assolti. Nell'impossibilità di stabilire chi dei due era stato, li hanno lasciati liberi».

«Assurdo!»

«Fino a un certo punto. Anche i latini dicevano "In dubio pro reo". La sentenza venne comunque corretta in appello; i giudici gli dettero vent'anni ciascuno ma ormai quelli erano spariti dalla circolazione. Ho l'impressione che questi due disgraziati vorrebbero fare lo stesso gioco... Ma non credo siano in grado. Vede Clara, ci vuole una grande sapienza teatrale per recitare un dramma del genere, bisogna saper misurare le mosse e i rilanci, non è facile».

«Ma lei come mai si interessa tanto ai fatti di sangue?»

Lina rimase per qualche istante sovrappensiero.

«Non lo so. Forse per il senso del teatro. I delitti di sangue, se si mette da parte la pietà, sono potenti rappresentazioni drammatiche. Non parliamo poi d'un processo in assise, teatro nel senso piú puro; accusa e difesa, punti di vista opposti che si scontrano davanti a un pubblico che infatti parteggia, rumoreggia o applaude quando viene letta la sentenza... Se fossi piú giovane mi piacerebbe assistere, ormai preferisco leggerli sul giornale».

Clara si avvicinò al tavolino della signora Lina. «Anche un caso clinico può essere visto come la rappresentazione di un dramma, sa? A volte il dramma si svolge tra terapeuta e paziente, a volte nel paziente con se stesso, nel qual caso si parla di "Io diviso". Per uno psicologo i drammi personali sono pane quotidiano, il nostro è un campo dove ci si addestra ad affrontare la sofferenza dell'esistere».

«Già, lei è psicologa».

«Sono laureata, sto preparando la tesi di dottorato».

«Mi sembra molto interessante. Se un giorno me ne vuole parlare... Tra uno scontrino e l'altro». Lina cercò di abbozzare un sorriso d'intesa.

«Non è facile, le assicuro. Un conto è la tesi, o il dottorato: lí basta leggere molto, studiare. Invece è difficile mettere in pratica quello che s'è studiato, quando si tratta di applicarlo nella vita reale».

«Ma i casi clinici sono già resoconti di vita, è già esperienza pratica... Stanno scritti nei libri».

«Sí, ma nei libri ci sono anche i maestri che fanno da guida. Quando ci si trova a tu per tu con un paziente bisogna scegliere una strada o l'altra, decidere da soli una terapia, essere certi d'aver bene interpretato, e tutto diventa molto complicato. No, piú che complicato dovrei dire che diventa molto opinabile».

«Le è successo spesso?»

«Solo alcune volte, e sotto il controllo del mio supervisore. Adesso dovrei cominciare a fare da sola, se ne avrò la forza».

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DAL CORPO ALLA MENTE - OVVERO: L'ETÀ DELL'INCONSCIO

Anche se alla fine del XIX secolo quasi nessuno crede piú alla possessione diabolica, le cause degli attacchi di tipo isterico continuano a essere sostanzialmente sconosciute. Gli studi sull'isteria, destinati a diventare celebri, cominciano quasi per caso. A Parigi nel grande e antico ospedale della Salpêtrière, l'inagibilità di alcune sezioni costringe a riunire i pazienti epilettici non-psicotici e gli isterici in un unico reparto chiamato «Quartier des épileptiques simples». Sulla base delle conoscenze del tempo sembrava una sistemazione logica. Invece si assistette a un fenomeno inaspettato: in capo a pochi giorni si constatò un aumento considerevole di episodi epilettici fra i pazienti isterici, una specie di contagio che non dipendeva però da alcuna visibile lesione organica. Jean-Martin Charcot (1825-93), anatomo-patologo e neurologo che si era particolarmente dedicato a questi studi, definí tale sindrome «isteria-epilettiforme». Quando moriva un paziente che aveva seguito in vita, Charcot praticava l'autopsia senza riuscire mai a trovare negli organi esaminati, in particolare il cervello, nulla che spiegasse le cause del male. La deduzione fu che l'isteria derivasse non da un organo bensí dalla mente, ovvero dalla sfera affettiva dell'individuo. Siamo alle soglie di quella che sarà, di li a pochi anni, la scoperta dell'inconscio. Quella soglia però Charcot non riuscí a varcarla nonostante avesse promosso alla Salpêtrière un intenso programma di collaborazione tra medici e psicologi. Com'è stato scritto, nei suoi esperimenti «l'inconscio resta inconscio», anche se c'è, e agisce, non si riesce a «vederlo» né, per conseguenza, a trattarlo.

Lo scrittore Alphonse Daudet nel suo À la Salpêtrière descrive l'impressionante spettacolo di un attacco la cui protagonista è probabilmente una delle «isteriche» piú famose, Blanche Wittman, spesso esibita da Charcot nelle sue lezioni-spettacolo.

La povera figlia, rovesciata su delle fredde lastre, schiuma, si torce, le braccia in croce, le reni sollevate ad arco, tesa, contratta, quasi sollevata. «Presto i sorveglianti! Prendetela, mettetela a letto...» Arrivano quattro ragazzone forti, sane, pulite nei loro grandi grembiuli bianchi, una di loro con un ingenuo accento campagnolo dice: «Io so come comprimerla, dottore». La comprimono, la spingono, trasportano attraverso i cortili questo pacco di nervi in subbuglio, che urla, si rotola, la testa arrovesciata come una posseduta all'esorcismo...


Era il trattamento abituale quando non si aveva ancora la minima nozione di come si potesse affrontare un attacco di quel tipo.

Il 16 agosto 1893,, a sessantotto anni, Charcot muore per un infarto. È lo stesso anno in cui Pierre Janet, che di anni ne aveva esattamente la metà, si laurea in medicina. Ma è anche il periodo in cui a Vienna viene pubblicato un articolo dal titolo Meccanismo psichico dei fenomeni isterici: comunicazione preliminare firmato da Sigmund Freud e da Joseph Breuer. Freud aveva frequentato i corsi di Charcot quando aveva meno di trent'anni, rimanendone molto colpito. Nel suo Charcot (1893) scrive:

Come insegnante, Charcot era addirittura avvincente; ogni sua lezione era un piccolo capolavoro di costruzione e composizione, di una tale efficacia e perfezione formale che per il resto della giornata era impossibile togliersi dalle orecchie le parole che si erano udite, né levarsi dagli occhi quel che si era visto...


Il medico viennese parte dal punto in cui Charcot era arrivato, sale per cosí dire sulle sue spalle per spingere lo sguardo piú lontano. Gli esperimenti sull'isteria cui ha assistito a Parigi gli hanno permesso di concepire quasi dal vivo un embrione d'ipotesi psicoanalitica di cui anche il suo maestro Joseph Breuer aveva avuto l'intuizione. Su quelle prime ipotesi elabora un intero sistema, riconoscendo il suo debito anche nei confronti del maestro francese. Nella conclusione della «comunicazione preliminare», scrive insieme a Breuer:

Abbiamo compiuto un passo avanti sulla strada già iniziata da Charcot con tanto successo.


Ciò che Charcot, Janet e Breuer avevano tentato di raggiungere attraverso l'ipnosi, Freud lo cerca nei sogni: la coscienza, in uno stato di ridotta vigilanza, lascia emergere con piú facilità e senza una logica apparente strati profondi della memoria che si credevano dimenticati. È la tecnica che il medico viennese comincia ad applicare con i suoi pazienti. I risultati piú interessanti li racconterà nel libro L'interpretazione dei sogni (1900) da lui considerato il suo scritto piú importante. Scrive:

L'interpretazione dei sogni è la via principale per la conoscenza dell'inconscio, il piú sicuro fondamento della psicoanalisi.


Un altro strumento conoscitivo è quello delle associazioni libere. Il paziente senza riflettere e senza censurarsi deve dire tutto ciò che affiora alla sua mente. L'aspetto curioso è che si tratta di una tecnica simile a una forma di meditazione insegnata dal Buddha chiamata Vipassanā; chi medita deve prima di tutto osservare ciò che sorge spontaneamente nella mente per poi chiedersi le ragioni per le quali quel pensiero, quella fantasia, siano arrivati a livello della coscienza.

Attraverso questi passaggi venne scoperta, secondo un'altra celebre definizione, «la magia assoluta di dare capacità terapeutica alla parola e al racconto».

Curarsi attraverso la parola non era una novità in senso assoluto. Anche il greco Aristide - II secolo d.C. - nei suoi Discorsi sacri, aveva tenuto un diario nel quale raccontava sogni durante i quali incontrava Esculapio; i dialoghi avuti con il dio della medicina avevano lenito molto i suoi disturbi.

Questa è la ragione per la quale la psicoanalisi è stata ripetutamente definita una terapia «narrativa». Lo stesso Joseph Breuer ne parlava come di una «terapia della parola» o «del racconto». Parlare e parlare trascinando nel flusso delle parole grumi di vita, traumi sepolti in un qualche angolo nascosto, nel sottosuolo della mente. Come spesso accade per le scoperte geniali, tutto sembra semplice - dopo.

Il presente lavoro si concentra invece sul «durante», intende indagare quali spinte, quali intuizioni abbiano consentito di far spiccare quel «salto misterioso». Quali percorsi, esplorati combinando studio, esperienza, intuizione e caso, abbiano portato a scoprire che nell'animo umano esiste una dimensione di cui lo stesso individuo interessato è inconsapevole.

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20.


Assuntina se ne andò com'era vissuta, in silenzio. Una mattina che alle sette e mezzo non era ancora in cucina a preparare la colazione, Luciano andò a bussare alla sua stanza e la trovò morta, minuscola, il volto ingiallito come di vecchia cera, un rosario intrecciato alle dita. La fine l'aveva colta durante una delle tante preghiere che rivolgeva al Signore; cosí rigida, gracile, quasi senza rilievo sotto le coperte, sembrava essersi composta da sola per la bara.

Durante il funerale, Clara osservava la piccola folla che aveva voluto partecipare: gruppetti isolati che non legavano tra loro, volti straniti dall'ora, dalla distanza, dagli impegni che li attendevano. Sembrava non esserci molto spazio per il raccoglimento, gli sguardi vagavano per la nuda volta della cappella cercando invano un ornamento sul quale potersi soffermare. Luciano era l'eccezione, il solo che apparisse sconvolto. Rivelava un turbamento cosí profondo che le stesse lacrime, se fosse riuscito a piangere, sarebbero state un sollievo.

Luigi aveva salutato la sorella da lontano mandandole un bacio con le dita. Se ne stava sul fondo, in piedi all'estremità di un banco ed era evidente, o almeno Clara lo capiva, che aveva fretta e non vedeva l'ora di correre chissà dove. Per l'ennesima volta si ripeté che avrebbe dovuto parlare con suo fratello, cercare di scoprire che cosa gli stava succedendo. Si aspettava che il successo della pizzeria lo calmasse. S'era addirittura parlato di passare stabilmente Deborah alla cassa e di assumere un'altra cameriera per i tavoli. Invece non s'era calmato affatto, anche quando gli avevano detto che Assuntina era morta, aveva fatto una breve visita, s'era segnato un paio di volte ed era scappato via.

Quando Luciano aveva scoperto la madre morta, aveva chiamato Clara. Piú che chiamarla aveva emesso un grido al quale lei era accorsa con il cuore in gola senza nemmeno togliersi lo spazzolino di bocca. Aveva tenuto stretto suo padre che tremava incapace di articolare parola, poi però s'era sorpresa a osservare la spoglia della nonna con freddezza: nemmeno lei era riuscita a trovare davvero un posto per il dolore, sentiva solo che la sua assenza per un po' le avrebbe pesato. Le sarebbe mancato quel ciabattare, quando si aggirava per casa rimuginando a mezza voce i suoi logori pensieri.

Se mai le parole «riposo» e «pace» avevano avuto un senso per alludere alla tragedia della morte, questo era il caso di Maria Assunta. Assuntina, come tutti l'avevano chiamata fin da bambina. Ogni volta che l'aveva sentita rimproverare Luciano raccontando per l'ennesima volta la penuria che aveva accompagnato l'intera sua vita, aveva pensato che su quella scena si sarebbe potuto organizzare un seminario in facoltà, un classico della sindrome nota come «invidia dei figli». Una madre cresciuta nelle ristrettezze può invidiare i privilegi di suo figlio anche se si tratta di vantaggi modestissimi, quali sicuramente erano quelli di Luciano. Nei casi estremi l'invidia verso un figlio è una sciagura; Assuntina s'era limitata a quegli ingenui rimbrotti, resi via via piú deboli dalla loro stessa ripetitività. Aveva sempre accettato ciò che la sorte le aveva riservato: chiusa nella sua minuscola stanza, nei suoi riti, in una fede sulla quale non s'era mai chiesta nulla e dalla quale nulla aveva mai preteso. Forse quella fede l'aveva protetta, in essa aveva trovato un rifugio sufficiente a ripararla dai flebili tumulti di una vita familiare sempre uguale, quando c'era stata la guerra, quando era arrivata la pace, quando aveva cominciato a vedere un po' di benessere, fino alle piccole preoccupazioni per i nipoti, quasi sempre inutili. In ogni caso, anche quelle modeste occasioni d'inquietudine erano finite, era arrivato il riposo. Eterno.

Il prete concluse dicendosi certo che mentre parenti e amici erano riuniti nella Casa del Signore a rendere l'estremo saluto alla sua spoglia, Assuntina dall'alto dei Cieli li benediceva. Perché in quel giorno non era morta, ma era nata alla vera vita che è quella della comunione con Dio e con tutti i suoi santi a cominciare dalla sua santissima Madre. Amen.

Assuntina aveva chiesto di essere seppellita nel paese dal quale era arrivata tanti anni prima, portata dai suoi genitori. Ricordava che da bambina le piaceva salire con le compagne di giochi a sbirciare le tombe col viso appoggiato alle sbarre di un cancello cigolante, però restando fuori perché a entrare avevano paura e s'accontentavano di quel breve brivido prima di fuggire via ridendo. Il cimitero era antico, stava in alto, su una collina che aveva le rive coperte di olivi; quando tirava vento di maestrale sembravano d'argento, digradavano a sbalzi verso il lontano violetto del mare.

Luciano l'avrebbe accompagnata perché non aveva niente da fare, perché voleva dare a sua madre un ultimo omaggio e in definitiva perché gli faceva piacere rivedere il paese d'origine. Sul sagrato era già pronta l'auto dei necrofori; sistemarono un paio di corone sulla bara, sembravano impazienti anche loro, c'erano quasi seicento chilometri da percorrere. Nel piccolo gruppo dei dolenti s'intrecciò qualche frettoloso saluto e Assuntina spari per sempre.

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