Copertina
Autore Paul Auster
Titolo La notte dell'oracolo
EdizioneEinaudi, Torino, 2004, Supercoralli , pag. 208, cop.ril.sov., dim. 140x222x17 mm , Isbn 978-88-06-16919-0
OriginaleOracle Night [2003]
TraduttoreMassimo Bocchiola
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe narrativa statunitense
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Pagina 3

Ero stato malato per molto tempo. Il giorno in cui lasciai l'ospedale camminavo a fatica e quasi non ricordavo piú chi avrei dovuto essere. Usi la volontà, mi disse il medico, e in tre o quattro mesi tornerà come prima. Non gli credetti, ma seguii lo stesso il suo consiglio. Mi avevano dato per morto, e ora che avevo smentito i pronostici evitando misteriosamente di morire, che scelta mi restava se non vivere come se mi aspettasse una vita futura?

Incominciai con escursioni brevi: non piú di un paio di isolati dal mio appartamento e poi rincasavo. Avevo trentaquattro anni, ma a ogni effetto pratico la malattia mi aveva trasformato in un anziano - uno di quei vecchi anchilosati che procedono strascicando, non riuscendo a muovere un passo dopo l'altro senza prima avere guardato quale piede sta avanti e quale indietro. E anche all'andatura lenta che allora mi riusciva di imbastire, camminare mi dava un capogiro strano, aereo; un disordine di segnali eterogenei e di fili mentali incrociati. Il mondo sobbalzava e fluttuava davanti ai miei occhi oscillando come i riflessi di uno specchio ondulato: e ogni volta che cercavo di guardare una cosa singola, di isolare un oggetto dal turbinio aggressivo dei colori - per esempio un foulard azzurro attorno al capo di una donna, o i rossi fanalini di coda di un furgone di passaggio - questo cominciava subito a scindersi e a dileguarsi, svanendo come una goccia di tintura in un bicchier d'acqua. Tutto vibrava e tremolava, tutto si allontanava svelto in varie direzioni, e nelle prime settimane distinguevo a stento dove finisse il mio corpo e cominciasse il resto del mondo. Andavo a sbattere contro i muri e i bidoni dei rifiuti, restavo impigliato in guinzagli di cani e cartacce svolazzanti, incespicavo sui marciapiedi piu lisci. Pur vivendo da sempre a New York non capivo piu né le vie né la folla, e ogni volta che partivo per una delle mie piccole sortite mi sembrava di aver perso la strada in una città ignota.

Quell'anno l'estate arrivò presto. Già alla fine della prima settimana di giugno il clima si era fatto greve, stagnante, pestilenziale: un giorno dopo l'altro cieli torpidi e verdastri; l'aria soffocata dalle esalazioni dei rifiuti e degli scarichi; la calura si alzava da ogni mattone, da ogni lastra di cemento. Tuttavia non cedetti, imponendomi di scendere la scala ogni mattina e camminare per le strade; e mentre quel groviglio che avevo nella testa cominciava a dipanarsi e riacquistavo lentamente le forze, riuscii ad allungare le passeggiate fino alle propaggini del quartiere. I dieci minuti diventarono venti; passai da un'ora a due; e da due ore a tre. Con i polmoni in debito di ossigeno, la pelle costantemente sudata, vagolavo come uno spettatore dentro il sogno di un altro, guardando il mondo che avanzava arrancando, nello stupore di aver potuto un tempo essere uguale alla gente attorno a me: sempre di fretta, sempre diretto da un posto in un altro, sempre in ritardo, sempre in lotta per farci stare altre dieci cose prima del tramonto. Non ero piu attrezzato per quel gioco. Adesso ero merce avariata, un coacervo di parti difettose ed enigmi neurologici: e la smania generale di arraffare e spendere mi lasciava freddo. A mo' di irrisorio sollievo ripresi a fumare e ammazzavo i pomeriggi nei caffè con l'aria condizionata, ordinando bibite gassate e panini caldi al formaggio mentre orecchiavo i discorsi e fino all'ultima riga leggevo tutti gli articoli di tre gionali diversi. Il tempo passava.

Il mattino in questione - il 18 settembre del 1982 uscii di casa tra le nove e mezza e le dieci. Abitavo con mia moglie nella zona di Brooklyn detta Cobble Hill, a metà strada fra Brooklyn Heights e Carroll Gardens. Generalmente nelle mie passeggiate andavo verso nord, ma quel mattino mi diressi a sud svoltando a destra quando fui in Court Street e proseguendo per sei o sette isolati. Il cielo era colore del cemento: nuvole grigie, aria grigia, una grigia pioviggine trasportata da grigie folate di vento. Ho sempre avuto un debole per quel tipo di clima e nella mia tristezza fui contento, per niente dispiaciuto che ci fossimo lasciati la canicola alle spalle. Una decina di minuti dopo essere partito, a metà dell'isolato tra Carroll e President, notai sull'altro lato della strada una cartoleria. Stava fra un calzolaio e una rivendita di alcolici aperta 24 ore, e la facciata dell'edificio era l'unica vivace in una fila di caseggiati cadenti e tutti uguali. Dovevano averla aperta da poco: ma benché il Paper Palace fosse nuovo, e malgrado l'abile composizione della vetrina (torri di penne a sfera, matite e righelli disposti a suggerire il profilo di New Y ork), sembrava un esercizio troppo piccolo per contenere granché di interessante. Credo che se decisi di attraversare la strada ed entrare fu perché in cuor mio volevo rimettermi al lavoro - pur non sapendolo, non avendo coscienza dell'impulso che era andato sedimentando dentro di me. Da maggio, quando ero stato dimesso, non avevo scritto niente - non una frase, non una parola - e non avevo sentito il minimo stimolo. Adesso, dopo quattro mesi di apatia e silenzio, a un tratto mi venne voglia di fare provvista di nuovi strumenti: penne e matite nuove, un nuovo taccuino per gli appunti, nuove gomme e cartucce di inchiostro, risme di fogli e cartellette: tutto nuovo.

Un cinese era seduto alla cassa di fronte all'ingresso. A occhio era un po' piu giovane di me e quando, nell'entrare, sbirciai dalla vetrina, lo vidi chino su un blocco di fogli a trascrivere colonne di numeri con una matita automatica nera. Malgrado la giornata fresca indossava una camiciola a maniche corte - uno di quei capi estivi leggerissimi e ampi, con il colletto aperto - che metteva in risalto la magrezza delle braccia color rame. La porta tintinnò quando la spinsi, e per un attimo lui alzò la testa facendomi un educato cenno di saluto. Lo ricambiai, ma prima che potessi aprire bocca si chinò nuovamente per tornare ai suoi calcoli.

Proprio allora in Court Street ci dovette essere una pausa nel traffico, o forse il cristallo della vetrina era particolarmente spesso: fatto sta che quando mi avventurai tra le scansie del primo corridoio per prendere visione della merce, all'improvviso mi accorsi della quiete che regnava. Ero il primo cliente della giornata e il silenzio era cosi marcato che sentivo scricchiolare la matita dell'uomo alle mie spalle. Ogni volta che ripenso a quel mattino la prima cosa che sento è quel rumore di matita. Per il senso che può avere la storia che mi accingo a raccontare, credo sia stato li che cominciò - nello spazio di quei pochi secondi, quando il suono della matita era l'unico suono che restava nel mondo.

Percorsi il corridoio fermandomi ogni due o tre passi a esaminare i prodotti sugli scaffali. In gran parte si trattava di comuni articoli per l'ufficio o la scuola, ma il campionario era davvero ampio per uno spazio cosi angusto, e mi colpi la cura posta nell'ammassare e disporre in bell'ordine cosi tanti articoli, che sembravano comprendere tutto: dai fermagli di ottone di sei lunghezze diverse, a dodici modelli di graffette da carta. Quando girai l'angolo, passando nell'altro corridoio che riportava alla cassa, vidi che uno scaffale era riservato a numerosi prodotti esteri di classe: blocchi in pelle importati dall'Italia; rubriche francesi, fini cartellette giapponesi in carta di riso. C'erano anche taccuini per gli appunti: una pila di fabbricazione tedesca e una portoghese. Trovai particolarmente accattivanti quelli fabbricati in Portogallo, con le copertine rigide, i quadretti e le segnature cucite, e la robusta carta a prova di macchia. Nell'istante in cui ne presi uno e lo tenni in mano fui sicuro di comprarlo. Non c'era frivolezza in quei taccuini, nessuna ostentazione. Erano pratici ferri del mestiere - banali, ordinari, robusti, ben diversi dai blocchi di moduli in bianco che può venirti in mente di regalare. Però apprezzai la legatura in tela, e anche la forma: ventitre centimetri e mezzo per diciotto e mezzo, cioè appena un po' piu bassi e larghi della media dei taccuini. Non so dire perché, ma quelle dimensioni mi diedero un sensazione di profondo appagamento, e tenendo per la prima volta il taccuino fra le mani provai un che di simile al piacere fisico, un'espansione di benessere istantaneo e inspiegabile. Solo quattro taccuini restavano nella pila, ciascuno di un colore diverso: nero, rosso, marrone e blu. Scelsi quello blu, che casualmente era anche il primo in alto.

Impiegai ancora circa cinque minuti a trovare le altre cose per cui ero venuto e poi portai il tutto alla cassa e lo deposi sul bancone. L'uomo mi rivolse un altro dei suoi compiti sorrisi e cominciò a battere sui tasti del registratore che trillava indicando la somma parziale dei prezzi dei vari articoli. Ma giunto al taccuino blu si fermò per un attimo, lo sollevò e passò delicatamente le dita sulla copertina. Fu un gesto di approvazione, quasi una carezza.

- Bel taccuino, - commentò, in un inglese con un forte accento. - Ma niente piú. Non piu Portogallo. Storia molto triste.

Non riuscivo a seguirlo, ma prima di metterlo a disagio chiedendogli di ripetere bofonchiai qualcosa sulla piacevole semplicità del taccuino e cambiai discorso. - È tanto tempo che fa questo lavoro? - chiesi. - Qui dentro sembra tutto nuovo, fiammante.

- Un mese, - mi rispose. - Grande apertura il dieci di agosto.

Mentre faceva questo annuncio sembrò ergersi un pochino, spingendo il petto in fuori con orgoglio infantile, soldatesco: ma quando gli chiesi come andavano gli affari, posò con leggerezza sul bancone il taccuino blu e scosse la testa. - Molto lenti. Molta delusione -. Guardandolo negli occhi compresi che era ben meno giovane di quello che avevo pensato - poteva avere almeno trentacinque anni, se non quaranta. Lo esortai debolmente a resistere dov'era, di dar tempo all'impresa di prendere piede, ma lui si limitò a scuotere la testa sorridendo. - Sempre mio sogno avere un negozio, - disse. - Negozio come questo, con penne e carta, mio grande sogno americano. Una iniziativa per tutti, vero?

- Eh, già, - risposi, ancora senza capire.

- Tutti fanno parole, - continuò. - Tutti scrivono cose. Bambini di scuola copiano le lezioni su miei quaderni. Maestri mettono voti su miei quaderni. Lettere d'amore mandate dentro a buste che io vendo. Registri contabili, taccuini per liste della spesa, agende per cose della settimana. Qui dentro tutto è importante per la vita, e questo rende me felice, e mia vita onorata.

L'uomo snocciolò il piccolo discorso in modo casi solenne, con un senso cosí serio di progettualità e impegno che, lo ammetto, mi commosse. Che razza di cartolaio era questo, pensai, che erudiva i clienti sulla metafisica della carta, che vedeva se stesso nell'adempimento di un ruolo essenziale tra la miriade delle faccende umane? Temo che ci fosse del comico in tutto ciò, ma mentre lo ascoltavo non mi venne voglia di ridere neanche una volta.

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Quando rientrai in soggiorno non pensavo di parlarne. Insomma, era una cosa troppo stramba, troppo eccentrica e personale; e non volevo dare l'impressione a John di avere l'abitudine di curiosare fra le sue cose. Ma quando fui li e lo vidi sdraiato sul divano con la gamba alzata, gli occhi fissi al soffitto con uno sguardo cupo e avvilito, cambiai di colpo idea. Grace era giú in cucina a lavare i piatti e a buttar via gli avanzi, quindi mi misi a sedere sulla sedia prima occupata da lei, che tra l'altro si trovava appena a destra del divano, a circa mezzo metro dalla testa di John. Mi domandò se stavo meglio. Si, risposi, molto meglio; poi mi accostai e gli dissi: - Oggi mi è successa una cosa stranissima. Durante la mia passeggiata mattutina sono entrato in un negozio e ho comprato un taccuino. Era cosi ben fatto, un oggettino proprio bello, simpatico, che mi ha fatto venir voglia di rimettermi a scrivere. Cosí, appena rincasato mi sono seduto alla scrivania e ci ho scritto dentro per due ore senza interruzione.

- Questa è una grande notizia, Sidney, - disse John. - Stai tornando al lavoro.

- L'episodio di Flitcraft.

- Ah, meglio ancora.

- Beh, vedremo. Per ora sono solo appunti scuciti, niente di cui esaltarsi. Ma è come se il taccuino mi avesse dato la spinta, e non vedo l'ora di rimettermi a scrivere lí sopra. È blu, scuro, di una tonalità molto gradevole, con una striscia di tela lungo la costa e la copertina cartonata. Fabbricato, tu pensa, in Portogallo.

- In Portogallo?

- Non so in quale città. Sulla terza di copertina c'è una piccola etichetta con scritto MADE IN PORTUGAL.

- E come cavolo hai fatto a trovare uno di quei cosi da noi?

- Nel mio quartiere c'è un nuovo negozio. Paper Palace, si chiama... il proprietario è un certo Chang. Ne aveva in casa quattro.

- Io quei taccuini li compravo durante le mie discese a Lisbona. Vanno benissimo, sono molto robusti. Quando inizi a usarli, non ti va piu di scrivere su nessun altro quaderno.

- Oggi ho avuto la stessa sensazione. Spero che questo non voglia dire che sto per trasformarmi in un drogato

- Drogato è una parola troppo forte, ma... senza dubbio sono seducenti. Fai attenzione, Sid. Io sono anni che ci scrivo dentro, e so cosa vuol dire.

- Da come parli, si direbbero oggetti pericolosi.

- Dipende da che cosa ci scrivi. Quei taccuini sono molto accoglienti, ma sanno anche essere crudeli, e devi stare in guardia se non ti ci vuoi perdere dentro.

- Tu non mi sembri perduto... eppure ne ho appena visto uno sulla tua scrivania, mentre uscivo dal bagno.

- Ne avevo fatta una bella scorta prima di ritornare a New York. Purtroppo quello che hai visto è l'ultimo che mi resta, e l'ho quasi finito. Non sapevo che fosse possibile procurarseli in America. Stavo pensando di ordinarli scrivendo alla fabbrica.

- Il cartolaio mi ha detto che la fabbrica ha chiuso.

- La mia solita rogna. Però non mi sorprende. Evidentemente non erano molto richiesti.

- Se vuoi, posso comprartene uno domani.

- Ce n'è ancora di blu?

- C'è nero, rosso e marrone. L'ultimo blu l'ho comprato io.

- Peccato. Blu è l'unico colore che mi piace. Adesso che hanno chiuso, dovrò cambiare le mie abitudini.

- È strano, ma stamane... quando ho visto i taccuini, ho scelto anch'io immediatamente il blu. Mi sono sentito attratto da quello, come se non potessi resistere. Credi che voglia dire qualcosa?

- Non vuol dire niente, Sid. A parte il fatto che sei un po' svitato. E io come te. In fin dei conti, non siamo due scrittori? Che altro puoi aspettarti da gente come noi?

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- Stanotte, - dissi, - ho fatto una scoperta affascinante.

- Una bella scoperta, spero.

- Ho scoperto di avere una passione in comune con John.

- Sul serio?

- Sembra proprio che tutti e due amiamo il colore blu. In particolare, un modello estinto di taccuini blu che facevano in Portogallo.

- Beh, il blu è un bel colore. Molto tranquillo, molto sereno. Si situa bene nella mente. A me piace a tal punto che quando lavoro devo fare uno sforzo cosciente per non infilarlo in tutte le copertine.

- Ma è vero che i colori trasmettono emozioni?

- Certamente

- E qualità morali?

- In che senso?

- Il giallo la vigliaccheria. Il bianco la purezza. Il nero il male. Il verde l'innocenza.

- Verde è l'invidia.

- Si, anche quella. Ma il blu, cosa rappresenta?

- Non so. La speranza, forse.

- E la tristezza. Come quando si dice I'm feeling blue. Oppure avere i blues.

- Non dimenticare true blue. L'assoluta lealtà.

- Sí, hai ragione.

- Ma rosso vuol dire passione. Su questo, siamo d'accordo tutti.

- La Big Red Machine: la mitica squadra di baseball. La bandiera rossa del socialismo.

- La bandiera bianca della resa.

- La bandiera nera degli anarchici. I Verdi ambientalisti.

- Ma il rosso è amore e odio. Il rosso è guerra.

- Quando si va in battaglia si portano i colori. Non si dice cosi?

- Mi pare, si.

- Hai mai sentito l'espressione guerra dei colori?

- No, non mi dice niente.

- Risale alla mia infanzia. Tu passavi le estati a montare cavalli in Virginia, ma mia madre mi spediva a un campo estivo all'interno dello Stato di New York. Si chiamava Camp Pontiac, come il capo indiano. Alla fine dell'estate ci dividevano in due squadre, e poi per quattro o cinque giorni vari gruppi selezionati dalle due squadre facevano gare fra loro.

- Gare di cosa?

- Baseball, pallacanestro, tennis, nuoto, tiro alla fune: perfino corse col cucchiaio e l'uovo, o prove di canto. Dato che i colori del campo erano rosso e bianco, una squadra si chiamava I Rossi, e 1'altra si chiamava I Bianchi.

- Da lí la guerra dei colori.

- Per un fanatico degli sport come me era un divertimento inenarrabile. Certi anni finivo nei Bianchi, altri nei Rossi. Però un bel giorno si formò una terza squadra, una specie di società segreta: una confraternita di anime affini. Adesso erano anni che non mi tornava in mente, ma allora fu molto importante per me. I Blu.

- Una società segreta. Mi suona come una delle solite scemenze dei maschietti.

- Lo era. No... Non è vero. Ripensandoci adesso, non mi sembra affatto una scemenza.

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Le circostanze sono cosi bizzarre, cosi diverse da qualunque cosa Nick si aspettasse, che non può neanche mettersi a fantasticare su quello che lo aspetta. Si incammina nel primo corridoio e scopre che gli scaffali sono stipati di guide telefoniche. Centinaia, migliaia di elenchi disposti in ordine alfabetico per città, e anche in ordine cronologico. Lui è capitato nella fila riservata a Baltimora e Boston. Controllando le date sui dorsi dei volumi vede che la prima guida di Baltimora risale al 1927. Poi ci sono parecchie lacune, ma a partire dal 1946 la raccolta è completa fino al corrente anno 1982. La prima guida di Boston è ancora piu vecchia - è datata 1919 - ma anche in questo caso mancano varie annate fino al 1946, quando cominciano a esserci tutti gli anni. Da questa succinta evidenza Nick deduce che Ed abbia iniziato la raccolta nel 1946, l'anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale, che tra l'altro è anche l'anno di nascita di lui, Bowen. Trentasei anni dedicati a un'impresa grande e apparentemente senza senso che corrisponde esattamente al corso della sua vita.

Atlanta, Buffalo, Cincinnati, Chicago, Detroit, Houston, Kansas City, Los Angeles, Miami, Minneapolis, i quattro distretti amministrativi di New York, Philadelphia, St. Louis, San Francisco, Seattle - ogni metropoli americana è li a disposizione unitamente a decine di altre città, contee rurali dell'Alabama, suburbi del Connecticut e dipartimenti non autonomi del Maine. Ma l'America non è tutto. Delle ventiquattro doppie file di torreggianti scaffalature metalliche, quattro sono riservate a città e cittadine di paesi stranieri. Questi archivi non sono completi ed esaurienti come i corrispettivi nazionali, ma includono oltre al Canada e al Messico la maggioranza del paesi d'Europa dell'Ovest e dell'Est: Londra, Madrid, Stoccolma, Parigi, Monaco, Praga, Budapest. Nick vede con sorpresa che Ed è riuscito addirittura a procurarsi la guida telefonica di Varsavia del 1937-38: Spis Abonentów Warszawskiej Sieci TELEFONÓW. Mentre lotta con la tentazione di prenderla dallo scaffale gli viene in mente che quasi tutti gli ebrei registrati in quell'elenco sono morti da tanto tempo - uccisi ancora prima che Ed cominciasse la collezione.

Il giro dura dieci o quindici minuti: e ovunque vada Nick, Ed lo tallona con un sorrisetto sulla faccia assaporando lo sbigottimento del suo visitatore. Quando arrivano all'ultima fila di scaffali al capo sud della stanza, Ed osserva: L'uomo è perplesso. Si sta chiedendo: che diavolo succede?

Si, la possiamo mettere cosi, risponde Nick.

Qualche idea... oppure solo confusione totale?

Non sono sicuro, ma ho l'impressione che per te non sia solo un gioco. Fino a qui, credo di esserci arrivato. Tu non sei un collezionista puro. C'è chi raccoglie tappi di bottiglie, pacchetti di sigarette, portacenere di alberghi, statuine di vetro di elefanti. La gente passa il tempo alla ricerca di ogni tipo di cianfrusaglia. Ma queste guide non sono cianfrusaglie. Per te hanno un significato.

Questa stanza contiene il mondo, risponde Ed. O quanto meno, una parte del mondo. I nomi dei vivi e dei morti. L'Ufficio per la Conservazione Storica è una dimora della memoria, ma è anche un santuario del presente. Riunendo queste due cose in un solo luogo, dimostro a me stesso che l'umanità non è finita.

Non credo di capire.

Io, Uomo del Fulmine, ho visto la fine di tutto. Sono sceso nelle viscere dell'inferno e ho visto la fine. Se ritorni da un viaggio come il mio, per quanto ancora a lungo possa vivere, una parte di te resterà morta. Sempre.

Quando è successo?

Nell'aprile del 1945. Ero in Germania con il mio reparto, fummo noi quelli che liberarono Dachau. Trentamila scheletri che respiravano. Avrai visto le foto, ma le foto non dicono cos'era. Devi andare laggiu e sentire l'odore di persona, devi trovarti là e toccare con le tue mani. Esseri umani hanno fatto questo ad altri esseri umani, e lo hanno fatto consapevolmente. Quella era la fine dell'umanità, signor Belle Scarpe. Dio aveva distolto lo sguardo da noi e aveva abbandonato il mondo per sempre. E io ero li, ne ero testimone.

Per quanto tempo sei rimasto nel campo?

Due mesi. Ero cuoco, quindi dovevo occuparmi della cucina. Il mio mestiere era dar da mangiare ai sopravvissuti. Sono sicuro che avrai letto le storie di alcuni di loro, che non riuscivano a smettere di mangiare. I piú denutriti. Avevano pensato al cibo cosi a lungo che non riuscivano a farne a meno. Mangiavano fino a farsi scoppiare lo stomaco... e morivano. A centinaia. Il secondo giorno venne da me una donna con un bambino in braccio. Era diventata matta, quella donna, lo vedevo, lo vedevo da come i suoi occhi continuavano a danzare nelle orbite a destra e sinistra, ed era cosi magra, cosi denutrita, che non capivo come si reggesse in piedi. Non chiese cibo, ma voleva che dessi del latte al suo bambino. Fui felice di accontentarla, ma quando mi avvicinò il bambino vidi che era morto, era morto da giorni. Aveva il volto rinsecchito e nero, piú nero del mio, un esserino che non pesava quasi niente, solo pelle prosciugata e pus secco - e ossa senza peso. La donna continuava a implorare latte, e cosi ne versai un po' sulle labbra del bambino. Non sapevo cos'altro fare. Versai il latte sulle labbra del piccolo morto, poi la donna riprese il suo bambino - felice, cosi felice che si mise a canticchiare, a cantare quasi, veramente, a cantare in quel modo amorevole, gioioso. Non so se ho mai visto una persona piú felice di lei in quel momento, mentre si allontanava con il bambino morto fra le braccia, e cantava, perché finalmente era riuscita a dargli un po' di latte. Restai a guardarla mentre andava via. Fece qualche metro barcollando e poi... poi piegò le ginocchia, e prima che potessi correre a sostenerla cadde nel fango, morta. E da qui che è iniziato, dentro me. Quando vidi morire quella donna, seppi che dovevo fare qualcosa. Non potevo tornarmene a casa a guerra finita e dimenticare. Dovevo conservare quel posto nella mente e pensarci per il resto della mia vita.

Nick non capisce ancora. D'accordo, può afferrare l'enormità dell'esperienza vissuta da Ed, simpatizzare con l'angoscia e l'orrore che continuano ad attanagliarlo: ma come quei sentimenti abbiano trovato modo di esprimersi nella folle iniziativa di collezionare elenchi telefonici, proprio non lo comprende. Riesce a immaginare cento altre maniere per tradurre l'esperienza di un campo di sterminio in un'azione permanente, che duri una vita, ma non questo bizzarro archivio sotterraneo pieno di nomi di persone di tutto il mondo.

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Pagina 188

Nei primi tempi della nostra amicizia Trause mi raccontò la storia di uno scrittore francese conosciuto da lui nei primi anni Cinquanta. Non ricordava il nome, ma mi disse che aveva pubblicato due romanzi e una raccolta di racconti, ed era considerato tra gli astri della nuova generazione. Scriveva anche poesie, e poco prima del ritorno di John in America nel 1958 (era vissuto sei anni a Parigi) pubblicò un poema narrativo di un intero volume, che aveva al centro l'annegamento di una bambina. Due mesi dopo la pubblicazione del poema lo scrittore andò al mare in Normandia con la famiglia, e l'ultimo giorno della vacanza sua figlia di cinque anni si allontanò dalla riva e annegò nelle acque mosse della Manica. John mi spiegò che lo scrittore era un individuo razionale, noto per lucidità e acume; ma diede la colpa della morte di sua figlia al poema. Perso nei gorghi del dolore si convinse che le parole scritte da lui riguardo a un annegamento immaginario avessero causato un annegamento reale; che una tragedia fittizia ne avesse provocata una vera, nella realtà. Perciò quello scrittore di enorme talento quell'uomo nato per scrivere libri, giurò che non avrebbe scritto mai piú. Aveva scoperto che le parole possono uccidere. Le parole potevano alterare la realtà, dunque erano troppo pericolose per essere date a un uomo che le amava piu di ogni cosa. Quando John mi raccontò la storia, la bambina era morta da ventuno anni e lo scrittore non era ancora venuto meno al giuramento. Negli ambienti letterari francesi quel silenzio ne aveva fatto una figura leggendaria. Era ammirato per la dignità che mostrava nel dolore, compianto da tutti quelli che lo conoscevano e guardato con rispetto e deferenza.

John e io parlammo a lungo di questa storia, e ricordo la fermezza con cui, in definitiva, stigmatizzai la decisione dello scrittore come uno sbaglio, una concezione malaccorta del mondo. Non c'era alcun nesso tra immaginazione e realtà, sostenevo, non c'era rapporto di causa ed effetto tra le parole di una poesia e i fatti delle nostre vite. Forse allo scrittore poteva essere sembrato cosi, ma dalla sua vicenda emergeva solo un'orribile coincidenza, un apparire della malasorte nella sua forma piu crudele e perversa. Non che lo condannassi per i suoi sentimenti, ma con tutta la solidarietà che provavo per l'uomo colpito da un'atroce perdita, il suo silenzio mi sembrava un rifiuto di accettare il potere delle forze accidentali, totalmente fortuite, che determinano i nostri destini; e dissi a Trause che secondo me stava punendo se stesso senza motivo.

Era un'argomentazione di scontato buonsenso, una difesa del pragmatismo e della scienza contro l'oscurità del pensiero primitivo, magico. Con mia sorpresa, John controbatté. Non capii bene se mi stava prendendo in giro o voleva soltanto fare l'avvocato del diavolo, ma rispose che per lui la decisione dello scrittore era ineccepibile e ammirava il suo amico per aver mantenuto la promessa. - I pensieri sono reali, - aggiunse. - Le parole sono reali. Tutto quello che è umano è reale, e a volte conosciamo le cose prima che succedano anche se non ne siamo consapevoli. Viviamo nel presente, ma il futuro è dentro di noi in ogni momento. Forse scrivere è proprio questo, Sid. Non registrare i fatti del passato, ma far succedere le cose nel futuro.

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