Copertina
Autore Paul Auster
Titolo Nel paese delle ultime cose
EdizioneEinaudi, Torino, 2003, Tascabili Letteratura 1118 , pag. 168, cop.fle., dim. 120x195x11 mm , Isbn 978-88-06-16545-1
OriginaleIn the Country of Last Things [1987]
TraduttoreMonica Sperandini
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe narrativa statunitense
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Pagina 3 [ inizio libro ]

Queste sono le ultime cose, scriveva. A una a una scompaiono e non ritornano piú. Posso raccontarti di quelle che ho visto, di quelle che non esistono piú, ma temo di non averne il tempo. Tutto sta accadendo cosí velocemente ora, che non riesco a tenervi dietro.

Non mi aspetto che tu capisca. Non hai mai visto niente di tutto questo, e anche se ci provassi non potresti neppure immaginarlo. Queste sono le ultime cose. Una casa un giorno è li e il giorno dopo è sparita. Una strada lungo la quale solo ieri camminavi, oggi non esiste piú. Persino il tempo è in un flusso costante. Un giorno di sole seguito da un giorno di pioggia, un giorno di neve seguito da un giorno di nebbia, il caldo e poi il freddo, il vento e poi la calma, un periodo di freddo pungente e poi oggi, nel mezzo dell'inverno, un pomeriggio di luce fragrante, caldo al punto da far sudare. Quando vivi in città impari a non dare nulla per scontato. Chiudi gli occhi per un attimo, ti giri a guardare qualcos'altro e la cosa che era dinnanzi a te è sparita all'improvviso. Niente dura, vedi, neppure i pensieri dentro di te. E non devi sprecare tempo a cercarli. Quando una cosa sparisce, finisce.

Ecco come vivo, continuava la sua lettera. Mangio poco. Quel tanto che basta per tirare avanti passo dopo passo, e niente piú. Talvolta mi assale la debolezza, e sento che non riuscirò a muovere il prossimo passo. Ma me la cavo. Nonostante gli sbandamenti riesco a tirare avanti. Dovresti vedere come me la cavo bene.

Le strade della città sono dappertutto, e non ce ne sono due uguali. Metto un piede davanti all'altro, e poi l'altro di fronte al primo, e poi spero di farlo ancora. Niente di piú. Devi capire come vanno le cose per me. Mi muovo. Respiro l'aria che mi è data. Mangio il meno possibile. Non importa quello che ti dicono, l'unica cosa che conta è stare in piedi.

Ricordi quello che mi dicesti prima che partissi? William è scomparso, dicesti, e anche se l'avessi cercato ovunque non l'avrei mai trovato. Quelle furono le tue parole. E allora ti risposi che non m'importava di ciò che dicevi, che avrei trovato mio fratello. E poi salii su quell'orribile nave e ti lasciai. Quanto tempo è passato da allora? Non ricordo piú. Anni e anni, credo. Ma è solo una supposizione. Non ci penso. Ho perso il conto e niente mi riporterà mai a quello esatto.

Questo è certo. Se non fosse per la fame non potrei andare avanti. Devi abituarti a campare con il meno possibile. Quando vuoi meno, finisci per essere contento del meno, e meno ti serve meglio stai. Ecco cosa fa la città. Ti capovolge i pensieri. Ti fa venir voglia di vivere e intanto cerca di strapparti via la vita. E non c'è via d'uscita. Che tu ci riesca o no. E se ci riesci una volta non puoi essere certo di farcela anche quella successiva. Ma se non ci riesci subito, non ce la farai mai piú.

Non so perché ti sto scrivendo. A essere sincera non ti ho quasi mai pensato da quando sono arrivata qui. Ma all'improvviso, dopo tutto questo tempo, sento che c'è qualcosa da dire e che se non lo scrivo subito mi scoppierà la testa. Non importa che tu legga. Non importa neppure che io spedisca - ammesso che lo possa fare. Forse tutto si riduce a questo. Ti sto scrivendo perché tu non sai nulla. Perché sei tanto lontano da me e non sai nulla.

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Pagina 16

Tutto ciò comporta enormi difficoltà di ordine pratico. Il problema dei cadaveri, per esempio. Qui la gente non muore piú come succedeva ai vecchi tempi, esalanda in pace l'ultimo respiro nel proprio letto o nel rifugio pulito di una corsia d'ospedale, ma muore dove capita, e ciò significa principalmente per strada. Non mi sto riferendo solo ai Maratoneti, ai Saltatori e ai membri del Club dell'Assassinio (poiché questi sono solo una piccola parte), ma a vasti segmenti della popolazione. Almeno la metà della gente è senza casa e non sa assolutamente dove andare. Pertanto ogni volta che giri l'angolo trovi cadaveri, sul marciapiede, sotto i portoni, sulla strada stessa. Non chiedermi di entrare nei dettagli. E già troppo per me raccontartelo, veramente troppo. Non importa quello che tu pensi, il vero problema non è mai la mancanza di pietà. Qui non c'è nulla che si spezzi tanto in fretta quanto il cuore.

I cadaveri il piú delle volte sono nudi. Gli spazzini perlustrano le strade senza interruzione, e non passa tanto tempo prima che un morto sia spogliato dei propri averi. Le prime a sparire sono le scarpe, molto richieste e molto difficili da trovare. Subito dopo vengono le borse e poi di solito ogni altra cosa, gli abiti e tutto quello che contengono. Gli ultimi ad arrivare sono gli uomini con pinze e scalpelli, che strappano i denti d'oro e d'argento dalla bocca. Poiché non c'è scampo, molte famiglie si prendono cura da sole della spoliazione affinché non siano degli estranei a farlo. In alcuni casi questo deriva da un desiderio di preservare la dignità del caro estinto; in altri è semplicemente una questione di egoismo. Ma forse sto toccando un argomento troppo delicato. Se l'oro del dente di tuo marito può darti da mangiare per un mese, chi dirà che hai sbagliato a toglierglielo? Questo comportamento va contro natura, lo so, ma se vuoi sopravvivere qui, devi saper lasciare perdere le questioni di principio.

Ogni mattina passano i camion per la raccolta dei cadaveri. Questa è la funzione principale del governo, che investe in quest'operazione piú che in qualsiasi altra cosa. Tutt'intorno alla città ci sono i forni crematori - i cosiddetti Centri di Trasformazione - e giorno e notte si vede il fumo che sale in cielo. Ma dato che le strade sono in casi cattivo stato e molte si trovano ridotte in macerie, il compito diventa sempre piú difficile. Gli uomini sono costretti a fermare i camion e andare a piedi a raccogliere i corpi, e questo rallenta considerevolmente il lavoro. Come se non bastasse, ci sono frequenti danni meccanici ai veicoli, seguiti dagli occasionali scoppi di risate di chi sta a guardare. Lanciare pietre agli uomini dei camion della morte è una comune occupazione tra i senzatetto. Anche se questi uomini sono armati e sono noti per aver puntato le loro mitragliatrici sulla folla, alcuni di questi lanciatori di sassi sono molto abili nel nascondersi, e le loro tattiche di «toccata e fuga» ottengono talvolta il risultato di paralizzare completamente la raccolta. Non c'è un motivo coerente dietro questi attacchi. Maturano nella rabbia, nel risentimento e nella noia, e poiché i raccoglitori di cadaveri sono gli unici dipendenti municipali a farsi vedere nei quartieri, diventano facili obiettivi. Si potrebbe dire che i sassi rappresentano il disgusto della gente nei confronti di un governo che non fa nulla per loro finché non sono morti. Ma questo discorso ci porterebbe troppo in là. I sassi sono un'espressione d'infelicità e basta. In città infatti non c'è posto per la politica, di nessun tipo. Le persone hanno troppa fame, sono troppo sconvolte, troppo in lotta le une contro le altre.

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Pagina 130

Il fornitore di Casa Woburn si chiamava Boris Stepanovich. Era quello che ci portava il cibo di cui avevamo bisogno, le saponette, gli asciugamani, i pezzi di ricambio delle attrezzature. Si presentava quattro o cinque volte la settimana, consegnava quanto richiestogli e si portava via con sé un altro pezzo del tesoro del patrimonio Woburn: una teiera cinese, una serie completa di coprischienali, un violino o la cornice di un quadro - tutti gli oggetti che erano stati ammassati nelle stanze del quarto piano e che continuavano a fornire il contante utile a mantenere in funzione Casa Woburn. Boris Stepanovich era sulla scena da lungo tempo, mi disse Victoria, sin dal periodo dei primi rifugi del dottor Woburn. A quanto pare, i due uomini si conoscevano da molti anni, e da quanto sapevo sul dottore, mi sorprese che avesse amicizie con personaggi cosí dubbi come Boris Stepanovich. Credo che dipendesse dal fatto che una volta il dottore aveva salvato la vita di Boris, ma poteva anche essere il contrario. Avevo sentito diverse versioni di quell'episodio, e non potevo sapere con certezza quale fosse quella vera.

Boris Stepanovich era un tipo paffutello di mezza età che sembrava quasi grasso per gli standard della città. Amava gli abiti sgargianti (cappelli di pelo, bastoni da passeggio, boutonnière), e sul suo viso rotondo e coriaceo c'era qualcosa che mi ricordava un capo indiano o un sovrano orientale. Qualunque cosa facesse, recava un tocco di stile, persino il modo in cui fumava le sigarette - tenendole ben strette tra l'indice e il pollice, inalando il fumo con raffinata noncuranza e poi espirandolo dalle narici massicce come vapore da un bollitore. Era spesso difficile seguirlo nelle conversazioni, e quando lo conobbi meglio, imparai ad aspettarmi una bella confusione ogni volta che Boris Stepanovich apriva bocca. Era appassionato di dichiarazioni oscure e allusioni ellittiche, e agghindava le frasi semplici con tali e tante fantasie ornamentali che presto ci si perdeva nel tentativo di capirlo. Boris odiava essere messo alle strette, e usava il linguaggio come strumento di locomozione - costantemente in moto, lanciandosi in avanti per fingere un attacco, girando in tondo, scomparendo e all'improvviso riapparendo in un altro punto. Mi aveva raccontato talmente tante storie su di sé e presentato cosí tanti resoconti contraddittori della sua vita, che a un certo punto smisi di credergli. Un giorno mi assicurava di essere nato in città e di avervi vissuto tutta la vita. Il giorno dopo, come se avesse dimenticato la storia precedente, mi raccontava che era nato a Parigi ed era il figlio maggiore di emigrati russi. Poi, cambiando di nuovo versione, mi confessava che Boris Stepanovich non era il suo vero nome. A causa di qualche spiacevole incidente con la polizia turca, in gioventú aveva assunto un'altra identità. Da allora, aveva cambiato nome cosí tante volte che non ricordava piú quale fosse quello vero. Non importa, diceva, un uomo deve vivere alla giornata e a chi importa quel che eri il mese scorso se sai chi sei oggi? Originariamente, diceva, era stato un indiano algonquin, ma poi il padre era morto e la madre aveva sposato un conte russo. Lui invece non si era mai sposato, oppure si era sposato tre volte - secondo la versione che in quel momento gli serviva. Quando Boris Stepanovich si lanciava in una delle sue storie personali, era sempre per spuntarla su qualcosa - come se ricorrendo alla propria esperienza potesse affermare un'autorità definitiva su qualsiasi argomento. Per questa ragione aveva anche fatto ogni lavoro immaginabile, dalla piú umile attività manuale alla piú alta posizione esecutiva. Aveva fatto il lavapiatti, il giocoliere, il venditore d'auto, il professore di letteratura, il borseggiatore, l'agente immobiliare, il redattore di un quotidiano e il direttore di un grande magazzino specializzato in moda femminile. Senz'altro ne sto dimenticando altri, ma cosí cominci a farti un'idea. Boris Stepanovich non si aspettava mai davvero che credessi alle sue parole, ma nello stesso tempo non considerava le sue invenzioni delle bugie. Erano parte di un piano quasi cosciente di creazione di un mondo piú piacevole per sé - un mondo che poteva trasformarsi secondo il suo volere, non soggetto alle stesse leggi e alle squallide necessità che trascinavano verso il basso il resto di noi. Se questo non lo rendeva un realista nel senso stretto del termine, non si può neanche dire che fosse un uomo che si illudeva. Boris Stepanovich non era affatto il millantatore connivente che sembrava, e sotto la sua vanteria e vitalità c'era sempre un pizzico di qualcos'altro - un acume, forse, una sorta di intelligenza vivace. Non mi spingerei cosí lontano da affermare che fosse una brava persona (non nel senso in cui lo erano Isabel e Victoria), ma Boris aveva un suo sistema di regole che rispettava. A differenza di ogni altra persona incontrata qui, egli riusciva a galleggiare al di sopra delle circostanze. Fame, uccisioni, le peggiori forme di crudeltà - vi passava accanto, addirittura le attraversava, eppure ne usciva sempre illeso. Era come se avesse immaginato in anticipo ogni possibilità, e pertanto non rimaneva mai sorpreso da quanto capitava. Dietro a quest'atteggiamento c'era un pessimismo cosí profondo, cosí devastante, cosí in armonia con la realtà che di fatto lo rendeva allegro.

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