Copertina
Autore Paul Auster
Titolo Trilogia di New York
SottotitoloCittà di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa
EdizioneEinaudi, Torino, 1998 [1996], Tascabili Letteratura 510
OriginaleThe New York Trilogy: City of Glass, Ghosts, The Locked Room [1985]
TraduttoreMassimo Bocchiola
LettoreRenato di Stefano, 1998
Classe narrativa statunitense , citta': New York
PrimaPagina


al sito dell'editore








 

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Pagina 5

Città di vetro
Cominciò con un numero sbagliato, tre squilli di telefono nel cuore della notte e la voce all'apparecchio che chiedeva di qualcuno che non era lui. Molto tempo dopo, quando fu in grado di pensare a ciò che gli era accaduto, avrebbe concluso che nulla era reale tranne il caso. Ma questo fu molto tempo dopo. All'inizio, non c'erano che il fatto e le sue conseguenze. La questione non è se si sarebbero potuti sviluppare altrimenti o se invece tutto fosse già stabilito a partire dalla prima parola detta dallo sconosciuto. La questione è la storia in sé: che abbia significato o meno, non spetta alla storia spiegarlo.

In quanto a Quinn, non serve dilungarsi su di lui. Chi fosse, da dove venisse e cosa facesse non ha molta importanza. Sappiamo, per esempio, che aveva trentacinque anni. Sappiamo che un tempo era stato sposato, che era stato padre, e che ora la moglie e il figlio erano morti. Sappiamo anche che scriveva dei libri. Per essere esatti, scriveva romanzi gialli. Questi romanzi li firmava con il nome di William Wilson e li produceva al ritmo di circa uno all'anno; il che gli garantiva abbastanza denaro per vivere modestamente in un piccolo appartamento di New York. Dato che a un romanzo non dedicava mai piú di cinque o sei mesi, per il resto dell'anno era libero di fare quello che voleva. Leggeva molti libri, visitava le gallerie d'arte e i musei, andava al cinema. In estate guardava il baseball alla televisione; d'inverno andava all'opera: ma la cosa che in assoluto preferiva era camminare. Quasi ogni giorno, che facesse bello o brutto, caldo o freddo, lasciava l'appartamento e girava per la città - mai con un'autentica meta, andando semplicemente dove lo portavano le gambe.

New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé. Ogni volta che camminava sentiva di lasciarsi alle spalle se stesso, e nel consegnarsi al movimento delle strade, riducendosi a un occhio che vede, eludeva l'obbligo di pensare; e questo, piú di qualsiasi altra cosa, gli donava una scheggia di pace, un salutare vuoto interiore. Il mondo era fuori di lui, gli stava intorno e davanti, e la velocità del suo continuo cambiamento gli rendeva impossibile soffermarsi troppo su qualunque cosa. Il movimento era intrinseco all'atto di porre un piede davanti all'altro concedendosi di seguire la deriva del proprio corpo. Vagando senza meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non contava plu dove ci si trovava. Nelle camminate piú riuscite giungeva a non sentirsi in nessun luogo. E alla fine era solo questo che chiedeva alle cose: di non essere in nessun luogo. New York era il nessun luogo che si era costruito attorno, ed era sicuro di non volerlo lasciare mai piú.

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Pagina 66

Questa visione della situazione rincuorava Quinn, che decise di adottarla anche se non aveva motivi per crederci. O Stillman sapeva cosa stava facendo, o non lo sapeva. E se non lo sapeva, allora Quinn non compiva alcun progresso, stava sprecando tempo. Molto meglio confidare che ogni suo passo fosse effettivamente diretto a una meta. Se questa interpretazione postulava da parte di Stillman una consapevofezza, allora Quinn avrebbe assunto quella consapevolezza come un atto di fede, almeno momentaneamente.

Restava il problema di come occupare la mente mentre pedinava il vecchio. Quinn era abituato agli andirivieni. Le sue escursioni metropolitane gli avevano insegnato a comprendere il collegamento fra interno ed esterno. Usando il movimento senza meta come tecnica di ribaltamento, nei suoi giorni migliori riusciva a spingere dentro il fuori spodestando cosí i domini dell'interiorità. Inondandosi di esterno, sprofondando il sé fuori da se stesso, era stato capace di esercitare una parvenza di controllo sulle sue crisi di disperazione. Insomma, il vagabondaggio era una forma di oblio. Ma seguire Stillman non era un vagabondaggio. Stillman poteva vagabondare, barcollare da un punto all'altro come un cieco, ma questo privilegio a Quinn era negato. Perché adesso era costretto a concentrarsi su quello che faceva, sebbene ciò fosse prossimo al nulla. Piú volte i suoi pensieri cominciarono ad andare alla deriva, subito seguiti dai passi. C'era il pericolo continuo di accelerare l'andatura, andando a scontrarsi con la schiena di Stillman. Per cautelarsi contro questo rischio approntò diverse tecniche di rallentamento. La prima consisteva nel dirsi che non era piú Daniel Quinn. Adesso era Paul Auster, e a ogni passo cercava di adattarsi meglio ai vincoli di quella trasformazione. Auster per lui era soltanto un nome, un involucro privo di contenuto. Essere Auster voleva dire essere un uomo senza interno, un uomo senza pensieri. E se non aveva pensieri a disposizione, se la sua vita interiore era inaccessibile, allora non c'erano luoghi dove avrebbe potuto ritirarsi. Impersonando Auster, non poteva evocare ricordi né paure, né sogni di felicità, poiché queste cose a lui erano ignote. Doveva rimanere soltanto alla superficie di se stesso, guardando fuori per trovare un sostegno. Tenere gli occhi fissi su Stillman, quindi, non era semplicemente una distrazione dal corso dei propri pensieri: era l'unico pensiero che potesse concedersi.

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Pagina 82

[...] Il mio colpo di genio è stato confinarmi alle cose fisiche, a ciò che è immediato e tangibile. Le mie ragioni sono elevate, ma attualmente il mio lavoro si svolge nell'ambito della quotidianità. Ecco perché vengo cosí sovente frainteso. Ma tant'è. Ho imparato a non curarmene. - Ammirevole risposta.

- L'unica. L'unica risposta degna di un uomo della mia statura. Veda, io mi sto prodigando a inventare una nuova lingua. Con un lavoro come questo di fronte, non posso lasciarmi sommuovere dalla stupidità altrui. E in ogni caso, tutto fa parte della malattia che sto cercando di curare.

- Una nuova lingua?

- Sí. Una lingua che finalmente dica quello che dobbiamo dire. Perché le nostre parole non corrispondono piú al mondo. Quando le cose erano intere, credevamo che le nostre parole le sapessero esprimere. Poi a mano a mano quelle cose si sono spezzate, sono andate in schegge franando nel caos. Ma le nostre parole sono rimaste le medesime. Non si sono adattate alla nuova realtà. Pertanto, ogni volta che tentiamo di parlare di ciò che vediamo, parliamo falsamente, distorcendo l'oggetto che vorremmo rappresentare. Tutto si fa disordine. Ma le parole, come anche lei comprende, hanno la capacità di cambiare. Il problema è come dimostrarlo. Ecco perché io ora lavoro con i piú semplici mezzi possibili... talmente semplici che anche un bambino può capire quel che dico. Consideri una parola che corrisponde a una cosa: «ombrello », per esempio. Quando pronuncio la parola «ombrello», lei nella sua mente vede l'oggetto. Vede una sorta di bastone con alla sommità dei raggi pieghevoli di metallo facenti da telaio a un tessuto impermeabile che, una volta aperto, proteggerà la sua persona dalla pioggia. Quest'ultimo dettaglio è importante: un ombrello non è solo una cosa, ma è una cosa che svolge una funzione... in altri termini, esprime la volontà dell'uomo. Se ci riflette un poco, ogni oggetto è analogo all'ombrello in quanto svolge una funzione. Una matita serve per scrivere, una scarpa per essere calzata, un'auto per esser guidata. Ora, la mia domanda è questa. Cosa succede quando una cosa non svolge piú la propria funzione? E' sempre quella cosa, oppure diventa qualcos'altro? Se lei lacera la tela dell'ombrello, quest'ultimo è ancora un ombrello? Spiega i raggi, se li pone sopra la testa, esce sotto la pioggia e si bagna. E possibile persistere a chiamare questo oggetto ombrello? Generalmente, la gente fa cosí. Tutt'al piú, arriveranno a dire che è un ombrello rotto. Per me, questo è un grave errore, fonte di tutti i nostri disagi. Giacché non può piú svolgere la propria funzione, l'ombrello ha smesso di essere ombrello. Può assomigliargli, può pure essere un ex ombrello, ma ora si è trasformato in un'altra cosa. Tuttavia la parola è rimasta la stessa: perciò non rappresenta piú la cosa. E' imprecisa; è falsa; cela l'oggetto che dovrebbe svelare. E se noi non possiamo neppure nominare un oggetto comune, quotidiano, che teniamo nelle mani, come potremo sperare di discorrere delle cose che veramente ci riguardano? A meno che non cominciamo ad assimilare il concetto di cambiamento nelle parole d'uso, continueremo a essere perduti.

- E il suo lavoro?

- Il mio lavoro è molto semplice. Sono venuto a New York perché è il piú miserabile, il piú abietto di tutti i luoghi. Lo sfacelo è dovunque, la disarmonia è universale. Le basta aprire gli occhi per accorgersene. Persone infrante, cose infrante, pensieri infranti. La città intera è un ammasso di rifiuti. Il che si adatta mirabilmente al mio proposito. Trovo che le strade siano una fonte infinita di materiale, un inesauribile emporio di cose frantumate. Ogni giorno esco con la mia sacca e raccolgo oggetti che sembrano degni d'attenzione. I miei campioni ammontano ormai a centinaia... oggetti scheggiati o fracassati, ammaccati o sfasciati, polverizzati o putridi.

- E che ci fa con queste cose?

- Assegno loro dei nomi.

- Dei nomi?

- Invento nuove parole che corrispondano alle cose.

- Ah. Ora ho capito. Ma come fa a decidere? Come sa di aver scelto la parola giusta?

- Non sbaglio mai. E una modalità del mio genio.

- Non può farmi un esempio?

- Di una delle mie parole?

- Sí.

- Spiacente, ma non è possibile. Capisce, è il mio segreto.

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Pagina 102

[...] mangiare, avere una scusa per restare ancora un po'. - Dovrei proprio andare, - rispose. - Ma sí, grazie. Un po' di cibo non mi farà male. - Che gliene pare di una omelette al prosciutto?

- Benissimo.

Auster si ritirò in cucina a preparare. Quinn avrebbe voluto offrirsi di aiutarlo, ma non riuscí a muoversi. Il suo corpo era come di pietra. In mancanza di altre idee, chiuse gli occhi. In passato, a volte aveva trovato conforto nel fare sparire il mondo. Ora invece Quinn non trovò all'interno del proprio cervello niente di interessante. Sembrava che lí dentro le cose si fossero bloccate sbriciolandosi. Poi, dall'oscurità, cominciò a sentire una voce, una voce cantilenante, da idiota, che salmodiava all'infinito la stessa frase: «Non si può fare la frittata senza rompere le uova». Aprí gli occhi per fare smettere quelle parole.

C'erano pane e burro, altra birra, forchette e coltelli, sale e pepe, tovaglioli e le omelettes, due per la precisione, che stillavano condimento sui piatti bianchi. Quinn mangiò con rude voracità, spazzando il piatto in quella che parve una questione di secondi. Poi compí un grande sforzo per restare calmo. Dietro i suoi occhi si assembrarono misteriosamente le lacrime, e quando parlava la sua voce sembrava tremare; ma in qualche modo gli riuscí di dominarsi. Per non mostrarsi un egomaniaco ingrato, cominciò a interrogare Auster sulla sua attività letteraria. Auster fu abbastanza reticente, ma alla fine ammise che stava scrivendo un libro di saggi. Attualmente era impegnato sul Don Chisciotte.

- Uno dei miei libri preferiti, - disse Quinn.

- Sí, anche dei miei. E ineguagliabile.

Quinn gli chiese del saggio.

- Immagino si possa definire speculativo, dato che non mi prefiggo di dimostrare nulla. In realtà, tutto è scritto sul filo dell'ironia. Credo che rappresenti una lettura fantasiosa.

- E il nocciolo qual è?

- Essenzialmente la paternità del libro. Chi lo ha scritto, e come è stato scritto. Perché, c'è una disputa?

- Naturalmente no. Mi riferisco al libro nel libro che scrisse Cervantes, a quello che immaginò di scrivere.

- Ah.

- E' molto semplice. Non so se ricorda che Cervantes si dà un gran daffare per convincere il lettore che l'autore non è lui. Il libro, afferma, era stato scritto in arabo da Cid Hamete Benengeli. Cervantes descrive la propria fortuita scoperta del manoscritto, un giorno nel mercato di Toledo. Dice di avere assunto chi glielo traducesse in spagnolo, e pertanto si presenta come nulla piú che il revisore della traduzione. In effetti, non garantisce nemmeno sull'accuratezza della traduzione stessa.

- Tuttavia - disse Quinn, - prosegue dichiarando che quella di Cid Hamete Benengeli è l'unica versione autentica della storia di Don Chisciotte. Tutte le altre sono fasulle, scritte da impostori. Tiene moltissimo a sottolineare che tutto quanto compare nel libro è realmente accaduto.

- Esatto. Poiché il libro, dopo tutto, è un attacco contro i pericoli della finzione. Avendo questo scopo non poteva presentare un'opera di fantasia, giusto? Doveva asserire che fosse reale.

- Eppure io ho sempre sospettato che Cervantes fosse un divoratore di quei vecchi romanzi cavallereschi. Non puoi odiare cosí violentemente qualcosa se una parte di te non la ama. In un certo senso Don Chisciotte era solo un suo alias.

- Sono d'accordo con lei. Quale miglior ritratto di scrittore che rappresentare un individuo stregato dai libri?

- Precisamente.

- In ogni caso, se il libro si presenta come non fantastico ne consegue che la storia deve essere stata scritta da un testimone oculare degli eventi che vi si svolgono. Ma Cid Hamete, l'autore riconosciuto, non vi compare mai. Neanche una volta sostiene di essere presente a quanto accade. Perciò la mia domanda è la seguente: chi è Cid Hamete Benengeli?

- Sí, capisco dove sta arrivando.

- La teoria che propongo nel saggio è che in effetti sia una combinazione di tre figure differenti. Il testimone, ovviamente, è Sancho Panza. Non ci sono altri candidati...

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Pagina 114

Un clarinettista di età indefinibile, con in testa un cappello che gli nascondeva il volto, seduto a gambe incrociate sul marciapiede come un incantatore di serpenti. Davanti a lui c'erano due scimmiette meccaniche, una con un tamburello e l'altra con un tamburo. Mentre la prima scuoteva e la seconda batteva, scandendo un bizzarro e infallibile ritmo sincopato, l'uomo improvvisava minime, infinite variazioni sullo strumento, con il corpo rigido che oscillava avanti e indietro mimando energicamente il ritmo delle scimmiette. Eseguiva con naturalezza e allegria dei motivi in minore animati e sinuosi, come per la gioia di essere insieme alle sue amiche caricate a molla, chiuso nell'universo che si era creato, senza mai alzare gli occhi. Continuava ininterrottamente, e alla fine la musica era sempre la stessa, ma piú rimanevo ad ascoltarlo e piú trovavo difficile andar via.

Trovarsi dentro quella musica, essere attirato all'interno del cerchio delle sue ripetizioni: forse un luogo in cui finalmente è possibile sparire.

Ma accattoni e artisti di strada non rappresentano che una piccola parte della popolazione girovaga. Sono l'aristocrazia, l'élite dei falliti. Molto piú numerosi sono quelli senza niente da fare né un posto dove andare. Molti sono ubriaconi... ma questo termine non rende giustizia alla devastazione da loro incarnata. Carcasse di disperazione avvolte di stracci, le facce contuse e sanguinanti, arrancano per via come in catene. Assopiti nei portoni, follemente barcollanti nel traffico, stramazzanti sui marciapiedi, nel momento in cui li cerchi sembrano essere dappertutto. Alcuni moriranno di fame, altri di caldo o freddo, altri ancora verranno picchiati o bruciati o torturati.

Per ogni anima persa in questo particolare inferno, ce ne sono altre prigioniere della pazzia, incapaci di uscire nel mondo che si allarga sul limitare del corpo. Benché sembrino esserci, non puoi calcolarli come presenti. Per esempio, l'uomo che va in giro con una serie di bacchette da batterista, percuotendo il selciato in un ritmo indifferente e senza senso, camminando e battendo battendo sul cemento. Forse pensa di compiere un lavoro importante. Forse, se non facesse quello che fa, la città crollerebbe. Forse la luna uscirebbe ruotando dall'orbita e verrebbe a schiantarsi sulla terra. Ci sono quelli che parlano da soli, che mormorano, gridano, imprecano, gemono, che si raccontano storie come parlassero ad altri. L'uomo che ho visto oggi, seduto come un mucchio di rifiuti davanti alla Grand Central Station mentre la folla lo lambiva di corsa, e lui ripeteva forte, con la voce rotta dal panico: «Terzo Marines... Mangiare api... Le api mi strisciavano fuori dalla bocca». Oppure la donna che urla a un compagno invisibile: «E se non voglio, eh... ? E se proprio non voglio e vaffanculo?»

Ci sono le donne con i sacchetti della spesa e gli uomini con le scatole di cartone, che trascinano i loro averi da un posto all'altro, sempre in movimento come se il punto in cui si trovano avesse importanza. C'è l'uomo fasciato nella bandiera americana. C'è la donna con una maschera di Halloween sul viso. C'è l'uomo infagottato in un cappotto cencioso, con le scarpe avvolte negli stracci, che porta una camicia bianca stirata a puntino su un appendiabiti ancora confezionato nel cellophane della lavanderia a secco. C'è la donna con i vestiti coperti da capo a piedi di distintivi della campagna presidenziale. C'è l'uomo che cammina con la faccia tra le mani, piangendo, istericamente e ripetendo all'infinito: - No, no, no. E morto. Non è morto. No, no, no. E' morto. Non è morto.

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Pagina 138

Ci inoltrammo cautamente all'interno e scoprimmo una serie di stanze vuote e spoglie. Sul pavimento di una stanzetta sul retro, linda e asettica come tutte le altre, c'era il taccuino rosso. Auster lo prese, lo sfogliò rapidamente e dichiarò che era quello di Quinn. Poi me lo diede dicendo che dovevo tenerlo io. Quella storia lo aveva inquietato a tal punto che aveva paura di portarlo a casa. Dissi che lo avrei conservato finché sarebbe stato pronto a leggerlo, ma scosse la testa e mi rispose che non voleva vederlo mai piú. Poi uscimmo, incamminandoci sotto la nevicata. Adesso la città era tutta bianca e la neve non cessava di cadere, sembrava che dovesse continuare per sempre. In quanto a Quinn, mi è impossibile dire dove si trovi adesso. Ho seguito il taccuino rosso con la massima cura possibile, e mi assumo la responsabilità di eventuali imprecisioni. In alcuni punti il testo è stato difficile da decifrare, ma ho fatto del mio meglio astenendomi da qualunque interpretazione personale. Naturalmente il taccuino rosso rappresenta solo metà della storia, come il lettore accorto avrà capito. Sono convinto che Auster si sia comportato male da cima a fondo. Se la nostra amicizia è finita, deve solo incolpare se stesso. Il mio pensiero rimane con Quinn. Sarà per sempre insieme a me. E dovunque sia andato a scomparire, gli auguro buona fortuna.

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Pagina 141

Fantasmi
In principio c'è Blue. Piú tardi c'è White, e dopo ancora Black, e prima del principio c'è Brown. E Brown che l'ha svezzato, Brown che gli ha insegnato il mestiere, e quando Brown è invecchiato Blue ne ha preso il posto. E cosí che comincia: il luogo è New York, il tempo è il presente, e né l'uno né l'altro cambieranno mai. Ogni giorno Blue va in ufficio e siede alla scrivania aspettando che accada qualcosa. Non capita niente per un pezzo, finché un uomo di nome White varca la soglia, ed è cosí che comincia.

Il caso sembra piuttosto semplice. White vuole che Blue segua un uomo di nome Black e lo tenga d'occhio finché sarà necessario. Ai tempi in cui lavorava per Brown, Blue ha condotto molti pedinamenti e questo non pare diverso dagli altri, forse è anche piú facile della media.

Blue ha bisogno di lavorare, perciò ascolta White senza fargli troppe domande. Deduce che si tratta di una crisi coniugale, e White è un marito geloso. White non fornisce dettagli. Dice di volere un rapporto settimanale, spedito alla cassetta postale icsipsilon, dattiloscritto in duplice copia di formato cosí e cosí. Sempre settimanalmente, a Blue sarà recapitato per posta un assegno. Poi White spiega a Blue dove abita Black, il suo aspetto fisico eccetera. Quando Blue gli domanda quanto durerà il caso presumibilmente, White risponde che non lo sa. Lei continui a spedirmi i rapporti, dice, fino a nuovo ordine.

A onor del vero, Blue trova il tutto un po' strano; ma per il momento sarebbe eccessivo definirlo preoccupato. Tuttavia, non può fare a meno di notare alcuni particolari di White. La barba nera, ad esempio, e le sopracciglia troppo folte.

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Pagina 166

Nei giorni seguenti, Blue mentalmente si ripete la storia un sacco di volte. Decide che è una bella trovata, far finire il film col ragazzo sordomuto. Il segreto è sepolto, e Mitchum resterà uno sradicato anche da morto. La sua ambizione era semplice: diventare un abitante normale di una normale cittadina americana, sposare la ragazza della porta accanto, fare una vita tranquilla. Strano, pensa Blue, che il nuovo nome che si è scelto Mitchum sia Jeff Bailey. Assomiglia tanto al nome di un altro personaggio di un film che ha visto l'anno scorso con la futura signora Blue: George Bailey, interpretato da James Stewart in La vita è meravigliosa. Anche quella era una storia della provincia americana, ma vista dalla prospettiva opposta: le frustrazioni di un uomo che per tutta la vita tenta di evaderne. Ma solo per comprendere alla fine che la sua è stata una buona vita, che si è sempre comportato nella maniera giusta. Sicuramente al Bailey di Mitchum piacerebbe essere come il Bailey di Stewart: ma nel suo caso quel nome è fittizio, non è nient'altro che una pia illusione. Il suo vero nome è Markham, che alle orecchie di Blue suona come marchio: e il punto è proprio questo. Il passato lo ha marchiato, e in questi casi non si può fare nulla. A volte succede, pensa Blue, e allora durerà per sempre. Non si potrà mai né sovvertire né modificare. Blue comincia a sentirsi oppresso dall'idea perché essa gli appare come un ammonimento, come un messaggio pervenutogli dall'intimo, e malgrado i suoi sforzi la cappa di angoscia non si solleva.

Perciò una sera Blue decide finalmente di aprire la sua copia di Walden. Il momento è arrivato, dice fra sé, sapendo che se non prova adesso non ce la farà mai. Ma il libro non è un gioco da ragazzi. Quando comincia a leggere, Blue ha l'impressione di entrare in un mondo alieno. Arrancando fra paludi e rovi, issandosi per cupi ghiaioni e rocce insidiose, si sente come un prigioniero costretto a una marcia forzata e col pensiero fisso sulla fuga. Il linguaggio di Thoreau lo annoia e trova difficile concentrarsi. Scorrono interi capitoli, e quando arriva alla fine capisce di non averne ricavato nulla. Perché mai un uomo dovrebbe andarsene a vivere solo fra i boschi? E che senso hanno quei pistolotti sul piantare fagioli e non bere caffè né mangiar carne? E tutte le interminabili descrizioni di uccelli? Blue pensava di trovare una storia, o almeno qualche cosa di simile, mentre questo non è che uno sproloquio, un'esasperante tirata sul niente.

Ma biasimarlo sarebbe ingeneroso. Blue non ha mai letto granché, a parte i giornali e le riviste, e un singolo romanzo d'avventure quando era ragazzo. Si sa che Walden ha messo a dura prova anche lettori esperti e raffinati, e un monumento come Emerson scrisse una volta nel suo diario che Thoreau lo rendeva nervoso e malinconico. A onore di Blue, va detto che non demorde. Il giorno dopo ricomincia e il secondo approccio si rivela meno ostico del primo. Nel terzo capitolo incontra finalmente una frase che gli dice qualcosa (I libri vanno letti con la stessa cura e la stessa riservatezza con cui sono stati scritti) e di colpo capisce che il trucco è procedere lentamente, più piano di quanto gli sia mai accaduto con una lettura.

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Pagina 172

Nelle settimane seguenti Blue torna spesso all'ufficio postale sperando di rivedere White. Ma senza risultato. Qualche volta il rapporto è già stato ritirato, qualche volta rimane nella cassetta. Il fatto che questo reparto dell'ufficio resti aperto ventiquattr ore su ventiquattro gli lascia poca scelta. Ora White è sull'avviso e non ripeterà piú lo stesso errore. Prima di ritirare il rapporto gli basterà aspettare che Blue sia uscito, e a meno che lui trascorra tutta la vita all'ufficio postale non c'è ragione di credere che lo sorprenderà ancora.

Il quadro è molto piú complesso di quanto Blue abbia mai immaginato. In quasi un anno trascorso fin qui, si è reputato sostanzialmente libero. Bene o male faceva il suo lavoro, scrutando nella casa dirimpetto e studiando Black nell'attesa di una possibile rivelazione, senza demordere; ma in tutto ciò non ha mai riflettuto su quanto poteva accadere a sua insaputa. Adesso, dopo l'incidente con l'uomo mascherato e le ulteriori complicazioni, Blue non sa piú cosa pensare. Ritiene plausibile l'ipotesi di essere sorvegliato a sua volta, osservato da un altro come lui faceva con Black. In tal caso, non sarebbe mai stato libero. Fin dal principio è stato l'uomo nel mezzo, ostacolato di fronte e bloccato alle spalle. Curiosamente l'idea gli ricorda alcune frasi di Walden, e sfoglia il taccuino in cerca delle esatte citazioni, quasi certo di averle trascritte. Noi non siamo dove siamo, trova, ma in una posizione falsa. A causa di una debolezza della nostra natura immaginiamo una situazione e ci collochiamo in essa, sicché ci troviamo a un tempo in due situazioni e uscirne è doppiainente difficile. Blue ora capisce, e per quanto cominci ad aver paura pensa che forse non è troppo tardi per trovare una soluzione.

Il vero problema si riassume nell'identificare la natura del problema stesso. Prima di tutto: chi lo minaccia piú seriamente, White o Black? White ha tenuto fede al suo impegno, spedendo gli assegni puntualmente ogni settimana, e Blue sa che rivoltarglisi contro adesso sarebbe come mordere la mano che lo ha nutrito. D'altronde, White è colui che ha dato inizio al caso, spingendo praticamente Blue in una stanza vuota per poi spegnere la luce e chiuderlo dentro. Da allora Blue non ha fatto che brancolare nel buio annaspando alla ricerca di un interruttore, prigioniero del caso medesimo. Niente di grave, intendiamoci... ma qual è lo scopo di White? Quando Blue si scontra con questa domanda non riesce piú a riflettere. Il suo cervello smette di funzionare, tutto si interrompe.

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Pagina 176

Non è che le avanza moneta, signore?

Black si ferma, squadra la creatura scarmigliata che ha appena parlato e gradualmente, vedendo che non c'è pericolo, si rilassa e sorride. Poi si fruga in tasca, estrae una moneta e la porge a Blue.

Ecco qui, aggiunge.

Dio la benedica, gli augura Blue.

Grazie, fa Black intenerito da tanta affabilità.

Niente paura, replica Blue. Dio benedice tutti.

E con questa parola di conforto, Black saluta Blue toccandosi il cappello e continua per la sua strada.

Il pomeriggio seguente, sempre travestito da barbone Blue aspetta Black nello stesso punto. Deciso stavolta a prolungare il colloquio, visto che ormai ha rotto il ghiaccio con Black, Blue scopre che il problema non si pone: è l'altro che ha voglia di trattenersi. Il giorno volge al termine: non è ancora l'imbrunire ma il tramonto è passato; è l'ora crepuscolare dei mutamenti progressivi, dei barbagli sui mattoni, delle ombre. Dopo aver salutato cordialmente il barbone e avergli dato un'altra moneta, Black indugia un istante, come indeciso se cogliere o no l'occasione, poi dice:

Le hanno mai detto che sembra il ritratto di Walt Whitman?

Walt chi? risponde Blue, senza uscire dalla parte.

Walt Whitman. Un famoso poeta.

No, dice Blue. Non credo di conoscerlo.

Non lo può conoscere, osserva Black. E' morto. Ma la rassomiglianza è notevole.

Be', lei lo sa cosa dicono, fa Blue. Ogni uomo ha il suo sosia da qualche parte. Non vedo perché il mio non potrebbe essere un morto.

Lo strano, prosegue Black, è che Walt Whitman lavorava proprio in questa via. Ha pubblicato il suo primo libro proprio qui, non lontano da dove siamo adesso.

Ma tu guarda, dice Blue scuotendo la testa pensieroso. Una bella combinazione, non le sembra?

Si raccontano storie curiose su Whitman, dice Black, invitando Blue con un cenno a sedersi sui gradini della scala alle loro spalle, e imitandolo subito; per cui all'improvviso si ritrovano soli, lí fuori nella luce estiva, a chiacchierare del piú e del meno come vecchi amici.

Sí, dice Black adagiandosi nel languore del momento, un sacco di storie strane. Per esempio, quella sul cervello di Whitman. Whitman ha creduto tutta la vita nella scienza della frenologia... sa, lo studio delle bozze del cranio. Era molto popolare all'epoca.

Mai sentita nominare, ribatte Blue.

Be', non importa, dice Black. La cosa importante è che a Whitman interessavano cervelli e crani... pensava che spiegassero tutto del carattere di un uomo. Comunque, quando Whitman era moribondo giú nel New Jersey, cinquanta o sessant'anni fa, acconsenti dopo morto a essere sottoposto ad autopsia.

Come ha fatto ad acconsentire dopo morto?

Ah, giusto rilievo. Mi sono espresso male. Quando acconsentí era ancora vivo. Dichiarò semplicemente che non aveva nulla in contrario se in seguito lo avessero aperto. Potremmo definirlo il suo ultimo desiderio.

Le ultime parole famose.

Perfetto. Sa, tanta gente lo reputava un genio, e volevano dare un'occhiata al suo cervello per vedere se aveva qualcosa di speciale. Cosí il giorno dopo la sua morte, un dottore asportò il cervello di Whitman - glielo rimosse di netto dalla testa - e lo spedí alla Società Antropometrica Americana per farlo misurare e pesare.

Come un cavolfiore gigante, interloquisce Blue.

Esattamente. Come un grosso ortaggio grigio. Ma è a questo punto che la storia diventa interessante. Il cervello arriva al laboratorio, e proprio mentre si apprestano a esaminarlo, uno degli assistenti lo fa cadere per terra.

E si è rotto ?

Per forza che si è rotto. Sa, il cervello umano non è molto resistente. Si spiaccicò dappertutto e tanti saluti. Il cervello del piú grande poeta americano finí raccolto con una scopa e gettato nei rifiuti.

Blue, ricordandosi di non tradire il suo personaggio, emette una serie di risatine ansimanti... una buona imitazione del riso di un vecchio picchiatello. Ride anche Black, e ormai l'atmosfera si è fatta cosí cordiale che sembrano proprio vecchi compagnoni.

Però è triste pensare al povero Walt che giace sottoterra, dice Black. Solo solo e con la testa vuota.

Come uno spaventapasseri, infierisce Blue.

Proprio, fa Black. Come lo spaventapasseri del Mago di Oz.

Dopo un'altra bella risata, Black ricomincia: Poi c'è la storia di quando Thoreau è venuto a trovare Whitman. Anche quella non è male.

Era un poeta pure lui?

Non esattamente. Ma comunque era un grande scrittore. Quello che viveva da solo nei boschi. Ah, sí, annuisce Blue, non volendo esagerare nella sua ostentazione di ignoranza. Ne ho sentito parlare. Aveva il bernoccolo della natura. E' quello che dice lei?

Precisamente, risponde Black. Henry David Thoreau. Una volta è sceso dal Massachusetts per qualche giorno ed è venuto a trovare Whitman a Brooklyn. Ma il giorno prima è stato proprio qui, in Orange Street.

Per andare dove?

Plymouth Church. Voleva ascoltare il sermone di Henry Ward Beecher.

E' un bel posto, commenta Blue pensando alle piacevoli ore trascorse sull'erba del camposanto. Ci vado volentieri anch'io.

Vi sono passati molti grandi uomini, osserva Black. Abramo Lincoln, Charles Dickens... tutti hanno percorso questa via e sono entrati in chiesa.

Fantasmi.

Si, i fantasmi sono dappertutto.

E la storia?

Oh, è molto semplice. Thoreau e un suo amico, Bronson Alcott, arrivarono a casa di Whitman in Myrtle Avenue, e la madre di Walt li fece salire nella mansarda-camera da letto che divideva con suo fratello Eddy, un ritardato mentale. Tutto andò bene. Si strinsero le mani, si salutarono calorosamente eccetera eccetera. Ma poi, quando si sedettero per affrontare argomenti piú impegnativi, Thoreau e Alcott notarono che al centro della stanza c'era un vaso da notte. Whitman, che era estroverso per natura, non ci fece caso, ma i due del New England non riuscivano a conversare con un pitale pieno di escrementi sotto gli occhi; perciò alla fine decisero di proseguire il colloquio in salotto. E' un dettaglio secondario, lo so: tuttavia, quando si incontrano due grandi scrittori è un momento storico, e bisognerebbe che tutto filasse liscio. Sa? Quel vaso da notte mi ricorda un po' il cervello sul pavimento... e a pensarci bene, ci sono delle analogie anche nella forma. Alludo alle protuberanze e alle circonvoluzioni. C'è un collegamento incontestabile. Cervello e budella, l'interno di un uomo. Diciamo sempre che bisogna penetrare in uno scrittore per meglio capirne l'opera. Ma se ci si spinge veramente a fondo, non c'è molto da scoprire... perlomeno, c'è poco di diverso da ciò che troveremmo in chiunque altro.

Vedo che la sa lunga su queste cose, dice Blue, che comincia a perdere il filo.

E' il mio hobby, spiega Black. Sapere tutto delle vite degli scrittori, soprattutto quelli americani. Mi aiuta a capire.

Ho afferrato, fa Blue che non ha afferrato niente, anzi: ogni parola pronunciata da Black gli sembra piú oscura.

Prenda Hawthorne, dice Black. Un buon amico di Thoreau, e forse il primo autentico scrittore che l'America abbia avuto. Dopo la laurea ritornò a Salem, nella casa materna; si chiuse nella sua stanza e ci rimase dodici anni.

E cosa ci faceva là dentro?

Scriveva storie.

Tutto qua? Scriveva e basta?

Scrivere è un mestiere per solitari. Ti prosciuga. In un certo senso, lo scrittore non ha una vita propria. Anche quando lo hai di fronte non c'è veramente.

Un altro fantasma.

Proprio cosí.

A me sembra un mistero.

Lo è. Ma, vede, Hawthorne scrisse storie stupende, che leggiamo ancora oggi piú di un secolo dopo. In una di esse, un uomo di nome Wakefield decide di combinare uno scherzo alla moglie.

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Pagina 186

Ciò nonostante ha aperto una breccia, e per la prima volta dall'inizio del caso non si trova piú nella posizione di partenza. Normalmente Blue festeggerebbe questo piccolo trionfo, ma stasera si accorge di non essere dell'umore adatto. Piú che altro si sente triste, senza piú entusiasmo, deluso del mondo. Alla fine la realtà lo ha sconfitto, e non riesce a non prenderla come una sconfitta personale, perché sa benissimo che da qualunque lato consideri il caso, anche lui ne è parte. Poi va alla finestra, guarda la casa dirimpetto e vede che ora nella stanza di Black la luce è accesa.

Si sdraia sul letto e pensa: addio, Mr White. Non sei mai esistito, eh? Non c'è mai stato nessun White. E ancora: povero Black. Povero diavolo. Povero avanzo di nessuno. Poi, mentre le palpebre si appesantiscono e il sonno comincia a sopraffarlo, pensa che strano che ogni cosa abbia il suo colore. Tutto ciò che vediamo, ciò che tocchiamo... a questo mondo tutto ha il suo colore. Sforzandosi di rimanere sveglio ancora un po', incomincia a fare un elenco. Prendi il blu, per esempio, dice. Ci sono i pettirossi blu, e le ghiandaie blu e gli aironi blu. I fiordalisi e le pervinche. E il mezzogiorno sopra New York. Ci sono diverse specie di mirtilli e l'Oceano Pacifico. Ci sono i diavoli blu, i nastrini blu e chi ha il sangue blu. C'è la divisa da poliziotto di mio padre. Ci sono le blue laws, le leggi puritane, e i blue movies. C'è una voce che canta il blues. E i miei occhi, e il mio nome. Indugia, improvvisamente a corto di cose blu, e poi passa al bianco. Ci sono i gabbiani, dice, le rondini di mare, le cicogne e i cacatua. Le pareti di questa stanza e le lenzuola sul mio letto. Mughetti, garofani, petali di margherite. C'è la bandiera della pace e la morte cinese. C'è il latte materno e c'è il seme. I miei denti. C'è il bianco dei miei occhi. I pesci bianchi, i pini bianchi e le formiche bianche. C'è la casa del Presidente e la corruzione bianca. Le bugie bianche d'innocenza e il calor bianco. A questo punto passa senza esitazione al nero, iniziando coi libri neri, il mercato nero e la Mano Nera. E' notte sopra New York, aggiunge. Ci sono i Chicago Black Sox del baseball. Le more e i corvi, i blackout e i punti neri, il Martedí Nero e la Morte Nera. Le anime nere. I miei capelli, e l'inchiostro che sgorga dalla penna. C'è il mondo visto da un cieco. Infine, stanco del gioco, comincia a divagare, dicendo fra sé che potrebbe continuare all'infinito. Si assopisce, sogna cose accadute tanto tempo fa e poi, nel cuore della notte, d'improvviso si sveglia e ricomincia a misurare la stanza meditando la prossima mossa.

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Pagina 198

[..] Se è vivo, pensa Blue, non lo resterà a lungo. E se è morto, pace all'anima sua. Blue si rialza col vestito lacero e incomincia a raccogliere dal tavolo le pagine del manoscritto di Black. Ci vogliono vari minuti. Quando le ha prese tutte, spegne la luce nell'angolo ed esce dalla stanza senza rivolgere a Black neanche un ultimo sguardo.

E' mezzanotte passata quando Blue torna nella sua stanza. Posa il manoscritto sul tavolo, va in bagno e si lava le mani insanguinate. Poi si cambia, si versa un bicchiere di scotch e siede al tavolo col libro di Black. Ha poco tempo. Arriveranno prima che se lo aspetti, e il prezzo da pagare sarà atroce: ma questo non deve interferire con il lavoro di adesso.

Legge la storia tutta d'un fiato, parola per parola dal principio alla fine. Quando ha finito albeggia e la stanza comincia a rischiararsi. Sente il canto di un uccello e dei passi per strada; sente una macchina che attraversa il ponte di Brooklyn. Black aveva ragione, dice fra sé. Lo conoscevo tutto a memoria.

Ma la storia non è ancora finita. Rimane il momento conclusivo, che non verrà finché Blue non abbandona la stanza. Cosí va il mondo: non un attimo prima, non un attimo dopo. Quando Blue si alzerà dalla sedia e si metterà il cappello e uscirà dalla porta, quella sarà la fine.

Dove andrà poi, non conta: perché dobbiamo ricordare che tutto questo è accaduto piú di trent'anni fa, nei giorni della nostra prima infanzia. Dunque, tutto è possibile. Personalmente preferisco credere che sia andato lontano, prendendo il treno quella mattina stessa alla volta dell'Ovest per rifarsi una vita. Può anche darsi che il viaggio non termini in America; nei miei sogni segreti mi piace pensare che Blue prenoti un posto su una nave e salpi per la Cina. Vada per la Cina, allora, e fermiamoci qui. Perché questo è il momento in cui Blue si alza in piedi, si mette il cappello ed esce dalla porta; e da questo momento non sappiamo piú nulla.

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Pagina 201

La stanza chiusa
Adesso mi sembra che Fanshawe ci sia sempre stato. E' lui il luogo dove per me tutto comincia, senza di lui non credo che saprei chi sono. Quando ci siamo incontrati non sapevamo ancora parlare, eravamo lattanti che arrancavano carponi fra l'erba, e a sette anni ci eravamo già punti le dita con uno spillo proclamandoci fratelli di sangue per la vita. Ogni volta che ripenso alla mia infanzia, vedo Fanshawe. Era lui che mi stava vicino, la persona con cui condividevo i miei pensieri e che vedevo appena alzavo gli occhi da me stesso.

Ma questo fu molto tempo fa. Siamo cresciuti, abbiamo preso direzioni diverse, ci siamo allontanati. Credo che in questo non ci sia niente di strano. Le nostre vite ci guidano secondo schemi che non possiamo controllare, e con noi non rimane quasi nulla. Le cose muoiono quando noi moriamo, e in verità moriamo tutti i giorni.

A novembre saranno sette anni che ricevetti una lettera da una donna di nome Sophie Fanshawe. «Lei non mi conosce,» cominciava, «e la prego di scusarmi se le scrivo cosí, di punto in bianco. Ma la situazione è precipitata, e date le circostanze non mi resta molta scelta». Si trattava della moglie di Fanshawe. Sapeva che suo marito e io eravamo cresciuti insieme, e sapeva anche che abitavo a New York, avendo letto molti articoli che avevo pubblicato su varie riviste.

La spiegazione arrivò nel secondo paragrafo, cruda e senza preamboli. Scriveva che Fanshawe era scomparso, e lei non lo vedeva da piú di sei mesi. In tutto quel tempo, non una parola, né il piú pallido indizio su dove potesse nascondersi. La polizia non ne aveva trovato traccia, e l'investigatore privato che aveva assunto era tornato a mani vuote.

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Pagina 219

Come molte persone dotate, a un certo momento anche Fanshawe smise di provare soddisfazione nel fare le cose che gli riuscivano facilmente. Avendo fin da piccolo soddisfatto ogni richiesta, probabilmente era naturale che andasse in cerca di nuove sfide altrove. E dati i limiti impostigli dalla sua vita di liceale di provincia, il fatto che quell'altrove lo abbia trovato dentro di sé non è né sorprendente né insolito. Ma credo che ci fossero altre ragioni. In quel periodo la famiglia di Fanshawe fu colpita da alcuni avvenimenti profondamente significativi, che sarebbe scorretto tralasciare. Se poi essi abbiano avuto un peso decisivo, è un'altra questione, ma in linea di massima credo che tutto sia importante. A conti fatti, la vita si riduce a una somma di incontri fortuiti, di coincidenze, di fatti casuali che non rivelano altro che la loro mancanza di scopo.

Quando Fanshawe aveva sedici anni, scoprirono che suo padre era malato di cancro. Per un anno e mezzo guardò il padre morire, e in quel periodo la sua famiglia cominciò lentamente a sgretolarsi. La piú colpita fu forse la madre di Fanshawe. Mantenendo stoicamente le apparenze, facendosi carico dei consulti medici e delle questioni finanziarie e cercando di governare la casa, oscillava fra il piú totale ottimismo sulle speranze di guarigione e uno stato di disperazione paralizzante. Secondo Fanshawe non fu mai capace di accettare l'unica inesorabile realtà che le stava costantemente davanti. Sapeva cosa sarebbe successo, ma non aveva la forza di ammetterlo, e piano piano cominciò a vivere come trattenendo il fiato. Si comportava in modo sempre piú bizzarro: orge notturne di maniacali pulizie domestiche, il terrore di rimanere in casa da sola (combinato con assenze improvvise e ingiustificate) e un assortimento completo di malanni immaginari (allergie, ipertensione, capogiri). Verso la fine, cominciò a interessarsi a diverse teorie astruse - astrologia, fenomeni psichici, vaghi precetti spiritualisti sull'anima - fino a quando divenne impossibile parlarle senza essere zittiti da qualche filippica sulla corruzione del corpo umano.

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Pagina 250

Questo era un aspetto. Alla base, però, la spiegazione era che mi divertivo. Mi piaceva far scaturire i nomi dal nulla, inventare delle vite che non erano mai esistite e non sarebbero esistite mai. Non era proprio come creare i personaggi di un racconto, ma un atto piú grandioso, e di gran lunga piú apocalittico. Tutti sanno che i racconti sono immaginari. Per quanto ci colpiscano, sappiamo che non sono veri, anche quando ci svelano verità piú importanti di quelle che troviamo altrove. Al contrario del narratore, io porgevo le mie creazioni direttamente al mondo reale, e perciò mi sembrava possibile che influissero realmente su quella realtà, giungendo infine a farne parte. Nessuno scrittore avrebbe potuto chiedere di piú.

Ripensai a tutto questo mentre sedevo a scrivere su Fanshawe. Un tempo avevo dato vita a mille anime immaginarie. Ora, otto anni dopo, mi accingevo a prendere un uomo vivo e a calarlo nella tomba. Ero il primo dolente e il sacerdote che celebrava quel falso funerale, con l'incarico di pronunciare le parole giuste, quelle che tutti volevano sentire. I due atti erano uguali e contrari come immagini simmetriche. Ma questo non valeva a consolarmi. La vecchia truffa era uno scherzo, niente piú che un'avventura giovanile, ma la nuova era seria, era un'azione torbida e agghiacciante. In fondo stavo scavando una fossa, e qualche volta cominciavo a dubitare che non fosse la mia.

Pensai che le vite degli uomini non hanno senso. Una persona nasce e muore, e quello che succede in mezzo non ha senso. Pensai alla storia di La Chère, un soldato che prese parte a una delle prime spedizioni francesi in America. Nel 1562, Jean Ribaut lasciò una guarnigione a Port Royal (nei pressi di Hilton Head, nella Carolina del Sud) al comando di Albert de Pierra, un folle che comandava attraverso il terrore e la violenza. «Impiccò con le proprie mani un tamburino cadutogli in disgrazia, - scrisse Francis Parkman, - e bandí un militare di nome La Chère su un'isola deserta a tre leghe dal forte, ivi lasciandolo a morire di fame». Alla fine Albert fu ucciso in un ammutinamento dei suoi uomini e La Chère fu riportato dall'isola mezzo morto. A questo punto si dovrebbe credere che La Chère fosse salvo, che essendo sopravvissuto a un castigo cosí atroce non gli spettassero piú altre sciagure. Ma la vita non è cosí semplice. Non vale il calcolo delle probabilità, nessuna legislazione pone limiti alla malasorte, e a ogni momento ricominciamo da capo, siamo esposti alla disgrazia come un momento prima. La situazione nella colonia precipitò. Quegli individui non erano in grado di affrontare la vita selvaggia, e furono vinti dalla fame e dalla nostalgia. Servendosi di attrezzi improvvisati, si ruppero la schiena per costruire una barca «degna di Robinson Crusoe» e tornare in Francia. Nell'Atlantico, nuova catastrofe: incontrarono una bonaccia, che durò finché non esaurirono acqua e cibo. Allora cominciarono a mangiare scarpe e farsetti di cuoio, alcuni disperati bevettero acqua di mare, molti morirono. Poi inesorabilmente caddero nell'abominio del cannibalismo. «Estrassero a sorte,- narra Parkman, - e toccò a La Chère, lo stesso sventurato che Albert aveva condannato a morire di fame su di un'isola deserta. Lo uccisero, e con belluina voracità se ne spartirono le carni. Il fiero pasto li sostentò fin quando scorsero terra, allorché, si racconta, folli di gioia persero il governo dell'imbarcazione, e la lasciarono in balia delle maree. Un brigantino inglese puntò su di loro, li prese tutti a bordo e, sbarcati i piú deboli, recò i restanti come prigionieri alla regina Elisabetta».

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Pagina 287

Parigi le cose mi sembravano stranamente piú grandi. La presenza del cielo era piú evidente che a New YorK, i suoi umori piú fragili. Mi attraeva irresistibilmente, e all'inizio, per un giorno o due non smisi di guardarlo: restai seduto nella mia stanza d'albergo a studiare le nubi nell'attesa che succedesse qualcosa. Erano nubi settentrionali, nubi di sogno, sempre mutevoli, che si ammassano in smisurate montagne grigie, scaricano rapide piogge, si dissolvono, si raccolgono di nuovo e scorrono davanti al sole rifrangendo la luce in maniere che sembrano ogni volta diverse. Il cielo di Parigi ha le sue leggi, che agiscono indipendentemente dalla città sottostante. Mentre le case sembrano salde, ancorate a terra, indistruttibili, il cielo è vasto e amorfo, e soggetto a un perenne tumulto. Per la prima settimana mi sentii sottosopra. E una metropoli del Vecchio Mondo, non ha niente in comune con New York, con i suoi cieli lenti e le strade caotiche, le nuvole scialbe e l'aggressività degli edifici. Ero spaesato, e perciò improvvisamente incerto. Stavo perdendo il contatto con la realtà, e almeno una volta all'ora dovevo ripetermi la ragione per cui ero venuto.

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Pagina 313 [ fine libro ]

Mi recai sul binario con qualche minuto di anticipo. Aveva ricominciato a piovere, e nell'aria davanti a me vedevo il mio respiro uscirmi dalla bocca in piccoli sbuffi di nebbia. Strappai le pagine del taccuino una a una, le accartocciai e le gettai in un cestino dei rifiuti. Giunsi all'ultima pagina proprio mentre il treno si metteva in movimento.

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